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Gli amori briciola di Umberta Telfner (2013) – Recensione

 

Recensione del libro:

Gli amori briciola.

Umberta Telfner (2013)

Edizioni Magi, Roma.

 

Gli amori briciola, Umberta Telfner (2013) - LocandinaGli amori briciola – Concedono all’altro poco di loro stessi, ecco perché sono dei briciola, sia emotivamente sia a livello comportamentale; si legano, ma mai fino in fondo. 

Ogni notte Amore andava da Psiche senza mai farsi vedere in volto; voleva nascondersi per  evitare le ire della madre Venere, gelosa di Psiche. Amore aveva detto alla sua amata che era il suo sposo, ma lei non doveva chiedergli chi fosse e non doveva vederlo. Si incontravano al buio, ma Psiche poteva toccare il suo volto scoprendone grossolanamente le fattezze. Un giorno le sorelle di Psiche la istigarono a scoprire il volto del suo amato, e allora Psiche prese una lampada a olio e una spada per paura che fosse un orribile mostro. Psiche raggiunse Amore mentre dormiva e avvicinò la lampada al suo volto e rimase così incantata dalla sua bellezza che se ne innamorò. Stava per baciarlo quando lui si accorse di quello che era successo e lasciò Psiche da sola(Apuleio, 2006).

Amore, figlio di venere, meglio noto come Cupido potrebbe essere definito l’antesignano dei BRICIOLA: persone autoreferenziali che si concedono a piccole dosi, ma affascinano per charme e determinazione. Sono responsabili e adulti, prevedibili, razionali, legalisti, sposati col lavoro, non trasgressivi.

Concedono all’altro poco di loro stessi, ecco perché sono dei briciola, sia emotivamente sia a livello comportamentale; si legano, ma mai fino in fondo. 

Si tratta sia di uomini sia di donne che mostrano una intelligenza astratta, raffinata, arguta, ma fanno fatica a entrare in contatto con la parte più intima di loro stessi, troppo faticoso. Per questo non riescono a mostrarla al proprio partner, temono il coinvolgimento totale e routinario. Sono persone di successo, ma fallimentari emotivamente, passionali ma solo in alcuni momenti. I ritmi relazionali sono scanditi da regole stabilite a priori alle quali bisogna attenersi, esattamente come faceva Amore con Psiche: si vedevano al buio e lei non doveva osare di più.

Sembra che la loro vita sia molto controllata e lo spazio delle relazioni è limitato agli attimi che si concedono di regalare all’altro e di regalarsi, ma non durano mai più di un attimo. Guai ad andare oltre: l’ira funesta del briciola lo induce a terminare senza spiegazioni la relazione, Amore abbandonò Psiche.

Le relazioni sono caratterizzate dalla fugacità dettata da momenti, caratterizzati da estrema intimità che lascerebbero intuire e ambire un seguito che non si paleserà mai. L’intimità emotiva con l’altro li divora fino a farli sprofondare nel buco nero della loro affettività, consumatasi in epoca precoce in un maternage ambiguo e potente, come con Venere, appunto.

Così, oggi si celano dietro ad un lume di mistero che fa di loro degli innarrivabili briciola. Incarnano la perfezione, sia fisica sia emotiva, che nessuno mai riuscirà ad avere se non in piccoli ritagli di tempo. Inguaribili briciola!

E la povera Psiche? Chiaro, si tratta sempre di persone che in qualche modo restano incastrate nei meccanismi dei briciola, che sperano erroneamente di possedere per sempre il loro unico e inarrivabile amore. Vedono tra le briciole la relazione perfetta, ma sono briciole!

Più ci si avvicina ad un briciola più le briciole spariscono e queste persone si rifugiano nel proprio solipsismo imperturbabile. Per questo restano per sempre degli intramontabili briciola!

Tutto questo e altro, lo troverete nel nuovo libro di Uberta Telfner, “Gli amori Briciola“, edizioni Magi. Buona lettura!

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI RAPPORTI INTERPERSONALIRECENSIONI – LETTERATURA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Un nuovo trattamento per ragazze adolescenti con PTSD

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio mostra come ragazze adolescenti che hanno sviluppato un PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) come conseguenza di un abuso sessuale hanno sperimentato maggior vantaggi e benessere grazie ad una terapia di esposizione prolungata, terapia che ha già mostrato effetti positivi sugli adulti, rispetto invece ad una terapia di counseling supportivo.

L’adolescenza è il principale periodo dello sviluppo ad essere maggiormente legato ad un crescente rischio di esposizione ad eventi traumatici che possono portare allo sviluppo di un PTSD”, rivela lo studio.

La terapia di esposizione prolungata è una delle più studiate tra quelle proposte per il trattamento del PTSD negli adulti, ma è stata raramente utilizzata con gli adolescenti a causa della preoccupazione che possa aggravare i sintomi del PTSD e a causa della convinzione che i pazienti debbano padroneggiare abilità di coping prima dell’esposizione.

La terapia di esposizione prolungata è una forma di Terapia Cognitivo-Comportamentale caratterizzata dal far rivivere al paziente l’evento traumatico attraverso il ricordo di esso e coinvolgerlo in quel ricordo, piuttosto che evitarlo.

La dottoressa Edna B. Foa, dell’Università della Pennsylvania, e colleghi hanno ipotizzato che un programma di esposizione prolungata, leggermente modificato per gli adolescenti (definito esposizione prolungata A), fosse più efficace di un counseling di tipo supportivo nel ridurre il grado di severità del PTSD valutato dall’intervistatore, la gravità della diagnosi, il livello di depressione correlato e nel migliorare il funzionamento generale.

Lo studio include un campione di 61 ragazze adolescenti con diagnosi di PTSD divise a random in 2 gruppi: un gruppo che ha ricevuto la terapia di esposizione prolungata e un altro gruppo che ha ricevuto un counseling di tipo supportivo. E’ stato successivamente condotto un follow-up dopo 12 mesi.

Le partecipanti che avevano ricevuto l’esposizione prolungata hanno mostrato miglioramenti nei sintomi e avevano maggior probabilità di perdere la loro diagnosi di PTSD rispetto a quelle sottoposte al counseling supportivo. In più, quelle che avevano ricevuto un’ esposizione prolungata mostrano maggiori miglioramenti nei sintomi depressivi e nel funzionamento generale. La superiorità del trattamento di esposizione prolungata è stato evidente anche al follow up dopo 12 mesi.

Gli autori affermano che un’importante implicazione clinica di questi risultati è la possibilità di diffondere e sviluppare il trattamento di esposizione prolungata A in comunità cliniche di salute mentale per gli adolescenti che sono motivati ​​a partecipare alla cura. Inoltre il trattamento di esposizione prolungata A è stato messo in atto da psicoterapeuti senza alcuna precedente formazione in trattamenti evidence-based e senza particolare supervisione da parte degli esperti. Questo significa che le strutture possono mettere a disposizione un maggior numero di risorse e di personale sufficientemente addestrato e idoneo.

Il dottor Sean Perrin, dell’Università di Lund, commenta dicendo” I risultati ottenuti dovrebbero servire a fugare le precedenti preoccupazioni dei terapisti sugli eventuali effetti nocivi della terapia di esposizione prolungata sugli adolescenti e sulla necessità di un’approfondita preparazione del paziente prima dell’esposizione. L’aumento del livello di arousal nelle giovani pazienti che accompagna l’esposizione ai ricordi traumatici durante una sessione di trattamento solitamente si dissipa nel giro di poche sedute e porta ad una rapida riduzione dei sintomi tra una sessione e l’altra. Perciò, questo aumento di eccitazione che alcuni terapeuti temono e considerano pericolosa, diventa ora parte integrante del processo di recupero”.

Ciò che gli autori auspicano per il futuro è la necessità di maggiori sforzi per aumentare la consapevolezza riguardo la sicurezza, la tollerabilità e l’efficacia di trattamenti come l’esposizione prolungata.

Infine, la ricerca è necessaria anche per determinare il livello minimo di formazione e supervisione dei terapisti in modo da fornire un trattamento efficace da utilizzare sia con pazienti con PTSD ma anche con altri disturbi di tipo ansioso.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La depressione materna – Psicologia

 

La depressione materna. - Immagine: ©-JackF-Fotolia.com_.jpgLa depressione è caratterizzata da sentimenti di autosvalutazione e impotenza, scarsa energia e basso coinvolgimento, rapporti interpersonali disturbati, episodica mancanza di regolazione emotiva e inaccessibilità psicologica. Disturbi di questo tipo possono contribuire a creare un ambiente di accudimento pericoloso per lo sviluppo del bambino.

Alcuni studiosi (Dawn Zinga, Shauna Dae Philips, Leslie Born, 2005) valutarono che il 25%-35% di donne sperimentino sintomi depressivi durante la gravidanza, e il 20% di donne può soddisfare il criterio di depressione.

Una terza parte dei sintomi depressivi è più alta, durante il terzo trimestre di gravidanza, piuttosto che nei sei mesi dopo il parto (Dawn Zinga, Shauna Dae Philips, Leslie Born, 2005). I disturbi psichiatrici durante la gravidanza non vengono considerati con molta attenzione nella pratica clinica. La depressione della donna durante la gravidanza è associata con una cura prenatale diminuita, una scarsa nutrizione, ciclo del sonno irregolare, abuso di alcool e stili di comportamento disfunzionali.

L’eziologia della depressione, sembra essere dovuta ai cambiamenti ormonali. Partendo già da uno stato di vulnerabilità, viene a influire anche un fattore ormonale che produce un ulteriore stato di stress per la madre e il feto.

Per molte donne, specialmente madri che partoriscono per la prima volta, la transizione alla maternità può essere difficile, soprattutto se non supportate da un ambiente facilitante. (Dawn Zinga, Shauna Dae Philips, Leslie Born, 2005).

I bambini di madri affette da depressione sono a rischio di disturbi d’ansia, disturbi di panico, agorafobia e depressione. (Pilowsky D.J., Wickramaratne P.J., Rush A.J., Hughes C.W.,et al., 2004).

I bambini di madri depresse possono presentare una predisposizione genetica allo sviluppo della sintomatologia, nonché una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti (Flykt et al., 2010).

Secondo Gibb et al.. (2012) i bambini di madri con una storia di depressione maggiore sono 3-4 volte più propensi a incontrare i criteri del disturbo depressivo maggiore (DDM) nella prima età adulta rispetto agli individui della popolazione generale. Inoltre, questi bambini tendono maggiormente ad adottare uno stile di risposta ruminativo incrementando i sentimenti negativi e depressivi.

Inoltre, l’influenza della depressione materna incide sui disturbi alimentari; infatti, in scambi conflittuali, la madre forza l’alimentazione del bambino e non regola l’alternanza dei turni, lasciandosi guidare soltanto dai propri sentimenti; il figlio, a sua volta, rifiuta il cibo in risposta al controllo e all’intrusività materna. Questa modalità relazionale è stata osservata da vari autori nel quadro clinico dell’anoressia infantile (Benoit, 1993).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il lato positivo (2012) Recensione. – Cinema & Psicologia

 

 Recensione del film

Il lato positivo

Regia di David O. Russell

(2013)

 

LEGGI ANCHE: Recensione: Il Lato Positivo … di una tragicommedia psichiatrica

Il lato positivoIl lato positivo racconta la storia di Pat (Bradeley Cooper) affetto da disturbo bipolare.

La storia del protagonista comincia quando un giorno, rientrando a casa,  scopre la moglie fedifraga in compagnia del suo amante. Coincidenza vuole che, proprio in quel momento, dallo stereo uscisse la canzone del loro matrimonio.

Pat aggredisce e picchia violentemente l’amante di sua moglie.

Per questo motivo verrà rinchiuso in una clinica psichiatrica dalla quale verrà dimesso dopo qualche anno e tornerà a vivere con i suoi genitori, a patto che sia seguito da uno psichiatra e che prenda le medicine.

Pat continua a riattivarsi in maniera violenta ogni volta che risente la canzone del suo matrimonio. Risulta chiaro che non è associata più ad un evento piacevole ma ad un evento molto negativo.

Il suo psichiatra decide di lavorare su questo, perciò quando gli dà appuntamento per riceverlo presso il suo studio, in sala d’attesa decide di fare un esperimento e di mettere come sottofondo proprio quella canzone.

La reazione di Pat è nuovamente di aggressività profonda, tanto da agirla contro i mobili dello studio.

Lo psichiatra si rende conto di quanto sia ancora forte la reattività di Pat a tale stimolo e lo invita a trovare delle strategie per poter gestire questa rabbia e farla diventare qualcosa di funzionale.

Il protagonista non riesce a darsi pace della fine del suo matrimonio e, cercando di essere positivo, decide di voler riconquistare la sua ex-moglie -vista come la perfezione-e di diventare l’uomo che lei desidera utilizzando tutte le sue risorse. Vuole diventare preciso, affidabile, concreto.

Nel frattempo, tramite degli amici in comune, Pat conosce Tiffany (Jennifer Lawrence), una ragazza problematica e molto sola.

Tiffany ha una sessualità promiscua tale da averla fatta allontanare dal suo ufficio e da meritare anche lei un trattamento farmacologico. Lei, dark e molto misteriosa, utilizza il suo corpo per ammaliare e sedurre chiunque la circondi.

Tiffany decide di aiutare Pat nell’opera di riconquista della ex-moglie perfetta. Per farlo, decide di farsi aiutare da lui nella preparazione di un ballo in coppia. Per stimolarlo, finge di avere dei contatti con la ex-moglie di lui e si offre da tramite per uno scambio epistolare tra i due ex-coniugi.

Ciò che Pat non sa, ma che dopo scoprirà, è che quelle lettere sono scritte da Tiffany e non dalla sua ex-moglie.

Il lato positivo” piace e colpisce per la delicatezza e la sensibilità con cui viene raccontata la malattia mentale.

Malato è chi esplode, reagisce, chi non è perfetto, nonostante si lasci andare a quelle che Pat chiama “vibrazioni”, ovvero le emozioni.

Colpisce perchè solo due sono considerati i matti della vicenda, i due matti che, a differenza degli altri, riconoscono le loro fragilità, la loro sofferenza, si spalleggiano e alla fine, nell’accettazione della malattia, si innamoreranno l’uno dell’altra riscoprendo la felicità, la positività.

Ciò che fa sorridere è il contorno.

Il padre di Pat (Robert De Niro), così tanto centrato su se stesso da non riconoscere di essere pieno di superstizioni. Giocatore compulsivo, scommette su qualsiasi gioco e qualsiasi partita ci sia in tv.

La madre di Pat, dallo sguardo completamente perso e impegnata a fare la brava mamma e moglie.

La coppia di amici di Pat e Tiffany, presi dal commentare e giudicare le loro follie da non guardare da vicino il loro matrimonio, perfetto all’apparenza, ma caratterizzato da un’aggressività tanto latente quanto tagliente.

Il lato positivo è uno schiaffo alla perfezione.

Spinge ad andare oltre ciò che si vede, ma a concentrarsi su ciò che si sente.

E’ tanto lontano dall’apparenza, quanto vicino alla vera sostanza: la felicità.

Una curiosità: il titolo originale, “Silver Linings Playbook”, ovvero “Fodere d’argento”, rappresentano tutte le buone intenzioni che Pat decide di mettere in atto per riconquistare l’ex-moglie. Sceglie, per questo, di registrarle su un suo diario- il Playbook, utile strumento per segnare gli obiettivi prefissati e lavorare sul come raggiungerli.

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Il sonno protegge il nostro cervello – Neuropsicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ opinione comune che il sonno fa bene al nostro fisico e soprattutto che non dormire fa male. Ad ulteriore conferma di quest’idea arriva una nuova ricerca messa a punto dall’Università di Uppsala (Svezia) la quale mostra che la deprivazione di sonno anche solo per una notte comporta l’aumento di concentrazione sanguigna di NSE e S100B al mattino dopo.

Queste sostanze sono due molecole che si trovano nel sangue a seguito di un danno cerebrale. La scoperta che queste molecole aumentino a seguito di una notte insonne indica che l’assenza di riposo può provocare una perdita di tessuto cerebrale, simile a quella presente in altri condizioni come una commozione cerebrale.

Lo studio è stato condotto su 15 uomini normopeso che hanno partecipato a due condizioni sperimentali: nella prima, ai soggetti è stato chiesto di non dormire per una notte intera, mentre nella seconda hanno potuto riposare per circa 8 ore di fila.

A seguito della prima condizione, i partecipanti mostrarono un aumento della concentrazione ematica di NSE e S100B al mattino seguente. Il sonno, infatti, è in grado di purificare il nostro cervello da sostanze tossiche che invece favoriscono l’aumento di NSE e S100B. Questi risultati indicano che la mancanza di riposo può facilitare processi neurodegenerativi e che questi cambiamenti a livello cerebrale risultano evidenti anche solo a seguito di una sola notte insonne.

Il dato incoraggiante, che sottolinea Christian Benedict (Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Uppsala), è rappresentato dal fatto che un buon riposo può essere invece di fondamentale importanza per mantenere la salute del nostro cervello.

 

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I DISTURBI DEL SONNO E LA LORO INFLUENZA SUL DISAGIO PSICO – SOCIALE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Chiudi gli occhi e dimmi: dove senti l’emozione? – Neuroscienze

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Un recente studio svolto in Finlandia dal gruppo di ricerca di Nummenmaa sembra confermare l’ipotesi che le emozioni abbiano un correlato specifico fisico nel nostro corpo a livello di sensazione fisica.

L’ esperimento ha coinvolto  700 volontari a cui veniva richiesto di disegnare su una sagoma dove “sentivano” ognuna delle 14 emozioni prese in esame nello studio, quindi quale aree del corpo erano “attivate” dall’emozione, e quali no.

Dall’esperimento emerge come ci sia una omogeneità nelle risposte dei soggetti dell’esperimento e come effettivamente ci siano delle areee specifiche del nostro corpo che vengono attivate a seconda dell’emozione sentita.

Ad esempio amore e gioia fanno “vibrare tutto il corpo”, mentre al contrario la depressione lo rende “inattivo”, così la rabbia è una delle poche emozioni che coinvolge le braccia e la paura sia identificata con una forte sensazione al petto.

Questo studio trova anche l’approvazione di Antonio Damasio, che da anni suggerisce come non si possa parlare di emozioni ragionando unicamente in terminni di “testa” e cervello ma che sia necessario un coinvoglimento del corpo; Sono molto interessanti anche le possibili ricadute nella pratica psicoterapeutica, per comprendere ed aiutare il paziente a riconoscere quello che sta provando.


 

 

Mapping Emotions On The Body: Love Makes Us Warm All OverConsigliato dalla Redazione

Being happy is indeed a total body experience, according to maps of where people feel emotions. (…)

Tratto da: NPR.org

 

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I giorni dell’abbandono (2005) – Cinema & Psicoterapia nr.16

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #16

I giorni dell’abbandono (2005)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

I giorni dell'abbandono. locandina

In molti pazienti che vivono l’abbandono con un sentimento di terrore è proprio l’accettazione dell’evento, impossibile da scongiurare, che permette di riappropriarsi di nuove risorse personali.

Info:

Film di Roberto Faenza. Interpretato da Luca Zingaretti, Margherita Buy, Goran Bregovic. Italia 2005. Tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante.

Trama: 

Olga, moglie e madre di due figli, viene abbandonata all’improvviso dal marito per una donna più giovane. Per lei inizia un periodo doloroso che la fa sprofondare nella disperazione, che la porta a non mangiare più e nemmeno a dormire, che rischia di farle perdere progressivamente il senso della realtà e del suo rapporto affettivo con i figli. Ma l’incontro con un musicista solitario che vive nel suo stesso palazzo smuove qualcosa. Olga vive un percorso interiore che la porta a capire che sta impazzendo per l’amore perso, scopre cosa significa essere imprigionata nel dolore, essere abbandonata, ma riesce a liberarsi e torna a vivere, guardando con speranza al futuro.

Motivi di interesse: 

Il film mostra le reazioni complesse nei confronti di un evento traumatico improvviso come l’abbandono. Il marito di Olga la lascia. Non c’è una vera e propria crisi tra loro. È preso da un “improvviso vuoto di senso”.

L’incomprensibilità dell’evento lo rende ancor meno accettabile, come spesso accade non è spiegabile, coglie di sorpresa, è senza ragioni. È per questo che l’incredulità e la rabbia cedono il passo al senso di colpa e la tristezza presto arriva ad avvolgere la vita e a scandire un tempo sempre uguale, privo di senso.

Olga lascia un fiore sulla tomba di Otto, il suo cane e rivolgendosi a lui:

Tu vuoi sapere come sto? 

Sto come una pianta senza acqua. Le donne senza amore muoiono da vive. Me lo diceva sempre mia madre quando vedeva passare la Poverella… 

Aveva ragione, sai?”.

Olga non avrebbe mai desiderato diventare come la poverella del suo quartiere d’infanzia che la notte svegliava tutto il paese a forza di piangere per il dolore di essere stata lasciata.

Quel dolore l’aveva disgustata. Eppure prova ora lo stesso dolore fatto di notti insonni, di vuoto nero e oscuro, di un limite che prelude ad un lasciarsi morire, di rabbia per chi la guarda con occhi compassionevoli e nei confronti di se stessa che non riesce a prendersi cura di sé.

Eppure proprio quando la protagonista inizia a prendere consapevolezza che “deve reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché” inizia ad aprire gli occhi, a guardare il mondo circostante, si riappropria della forza e dell’autodeterminazione che le consentono di muoversi verso una felicità possibile, fatta di sussulti di gioia e picchi di dolore, di piacere e di sofferenza, di storie che si concludono e di nuove che nascono. Olga finalmente guarda il musicista che la corteggia con occhi diversi, finalmente lo vede.

In fin dei conti in molti pazienti che vivono l’abbandono con un sentimento di terrore è proprio l’accettazione dell’evento, impossibile da scongiurare, che permette di riappropriarsi di nuove risorse personali.

Indicazioni per l’utilizzo: 

La sequenza di scene che propone “I giorni dell’abbandono” sono utili per incrementare la consapevolezza e motivare al cambiamento.

Le ripercussioni emozionali possono rappresentare un’ottima validazione dei vissuti del paziente e la conclusione può allargare la prospettiva limitata di chi non vede una via d’uscita percorribile. Le fasi dell’elaborazione di una perdita vengono ben rappresentate nella narrazione e possono essere un riferimento per una riflessione condivisa con il paziente.

Trailer:

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

ARTICOLI SU:

CINEMA – TELEVISIONE – TRAUMA – EVENTO TRAUMATICO – RECENSIONI

 

BIBLIOGRAFIA: 

La Dissociazione Traumatica: Comprenderla e Affrontarla – Recensione

La Dissociazione Traumatica- Comprenderla e Affrontarla - Recensione. -Immagine: © Jürgen Fälchle - Fotolia.comPerché leggere La Dissociazione Traumatica di O. Van der Hart, S. Boon e K. Steele? Innanzitutto perché è un manuale pratico che si rivolge sia ai terapeuti che alle persone che stanno affrontando un problema dissociativo di origine post-traumatica.

 Di Maria Paola Boldrini

 

La logica del libro è che dalla collaborazione tra terapeuta e paziente nasce la comprensione del problema, la si condivide e si percorre insieme una strada verso il fronteggiamento. Dagli autori, ma anche dai curatori italiani, questo testo è presentato come un’occasione di stimolo alla riflessione sul percorso clinico e di vita quotidiana dei pazienti che vivono le difficoltà conseguenti ai disturbi dissociativi. Da qui anche la necessità di svilupparlo come guida all’affrontare quotidianamente le traversie di questa condizione.

LEGGI ANCHE:  IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA

 

Van der Hart e colleghe lo considerano la naturale prosecuzione di The Haunted Self (ndr tradotto in italiano con il titolo di Fantasmi nel Sé) e ad un lettore attento a questi temi la connessione non sfuggirà. Ma questo non pregiudica la lettura e la comprensione del nuovo testo.

Che siate pazienti o terapeuti troverete un importante viatico sull’accoglienza non giudicante, necessaria nella relazione terapeutica, non solo rispetto ai disturbi dissociativi, sulle strategie per avvicinarsi e aprire il dialogo alle parti dissociative, su come giungere all’integrazione del materiale dissociativo.

Nel libro viene sistematizzata finalmente una più chiara concettualizzazione dell’approccio terapeutico al materiale post-traumatico, da qui derivano indicazioni cliniche molto pratiche  e utili e vengono proposti gli strumenti per intervenire rispetto alla dissociazione correlata al trauma e ai comportamenti disadattivi connessi. Le indicazioni cliniche accompagneranno paziente e terapeuta verso l’elaborazione-risoluzione del materiale traumatico.

Il testo quindi è suddiviso in otto parti più un’appendice tecnica. La prima parte è incentrata sulla comprensione della dissociazione e dei disturbi legati ai traumi. Qui troviamo gli elementi per cui il concetto di dissociazione appare più preciso, rispetto a come spesso viene utilizzato in confusione tra processo, struttura intrapsichica, difesa e/o deficit.

La seconda parte descrive le abilità di base per fronteggiare la dissociazione, fornendo indicazioni concrete su come svilupparle.

Nella terza parte gli autori propongono un pacchetto di indicazioni tecniche e pratiche affinché il paziente possa migliorare la qualità del proprio quotidiano e di conseguenza anche delle persone con cui è in relazione .

La quarta parte apparentemente è il passaggio più spigoloso di questo percorso, poiché è incentrata sull’affrontare i ricordi traumatici e gli stimoli che ne innescano gli effetti disfunzionali: anche qui gli autori sono riusciti a creare un accompagnamento per terapeuti e pazienti verso una gestione serena e collaborativa di questo momento, fornendo le opportune strategie e tecniche di fronteggiamento.

La quinta parte si occupa di introdurre la comprensione e la gestione delle emozioni e dei pensieri, completando le indicazioni per l’acquisizione delle abilità necessarie a questo scopo nella parte sesta.

Non può non essere dedicato uno spazio a questo punto, al migliorare le relazioni con gli altri, aspetto sempre molto critico per questi pazienti, in questa settima parte, si trovano utili spiegazioni dello stato delle relazioni che comunemente affligge il mondo affettivo di chi soffre di problemi dissociativi, non solo ma si trovano anche le indicazioni su come fronteggiare le difficoltà.

Un valore aggiunto di questa pubblicazione si trova anche in coda, poiché l’ottava parte e le appendici forniscono un prezioso pacchetto di indicazioni per il lavoro in gruppo con questi pazienti. L’iter e le competenze del gruppo sono visti in un’ottica “formativa” e riprendono tutti i passaggi già elencati nelle precedenti parti del libro, armonizzandone gli effetti che la persona e il terapeuta dovrebbero raccogliere, in un’esperienza di gruppo che conferma quanto appreso e aiuta a mantenere gli obiettivi raggiunti e a recuperare in seguito a eventuali “ricadute”.

Che dire in chiusura? Uso le parole dei curatori, assolutamente significative rispetto a questo lavoro: “gli autori ci ripetono senza sosta che questo percorso di salute è impegnativo ma possibile: vale la pena intraprenderlo…la strada è quella di sviluppare una maggiore empatia, comunicazione e collaborazione, sia internamente tra le parti di sé che esternamente tra terapeuta e paziente e tra quest’ultimo e le persone che ha intorno”: senza dubbio La Dissociazione traumatica di Boon, Steele e Van der Hart è una buona guida per questo viaggio!

 

 

Animal Cognition: le abilità di riconoscimento dei volti nei cani – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

In un nuovo studio pubblicato su Animal Cognition i ricercatori hanno studiato il comportamento dei cani nel visualizzare immagini di volti familiari ed estranei studiandone nello specifico i movimenti oculari: in particolare le immagini presentate erano sia di umani che di cani familiari (appartenenti alla stessa famiglia) sia sconosciuti.

Finora il riconoscimento dei volti umani è stata considerata una abilità specie-specifica del genere umano, e al massimo dei primati non umani. D’altro canto il contatto oculare – e dunque il volto- costituiscono elementi essenziali nelle interazioni e nella comunicazione tra uomo e cane.

In un nuovo studio pubblicato su Animal Cognition i ricercatori hanno studiato il comportamento dei cani nel visualizzare immagini di volti familiari ed estranei studiandone nello specifico i movimenti oculari: in particolare le immagini presentate erano sia di umani che di cani familiari (appartenenti alla stessa famiglia) sia sconosciuti.

I risultati indicano che per prima cosa i cani fissano più a lungo le immagini dei loro conspecifici, cioè degli altri cani, indipendentemente dal fatto che siano conosciuti o meno, rispetto a quanto fissano le immagini di uomini, come fosse una sorta di effetto preferenza intraspecifico.

In secondo luogo è emerso che nel caso dei volti umani i cani fissano per una durata di tempo maggiore i volti di esseri umani a loro familiari rispetto agli estranei. 

Inoltre nel momento in cui vengono presentate immagini di volti al contrario, proprio come gli esseri umani, i cani fissano per più tempo l’area degli occhi sebbene presentata al contrario (quindi nella parte bassa dell’immagine), stando a significare che anche la percezione dei cani non si basa soltanto sulle proprietà fisiche dell’immagine ma anche su proprietà semantiche in cui il contatto oculare appare un canale relazionale centrale.

 

 LEGGI ANCHE:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSIONS –

CONTATTO VISIVO – EYE CONTACT

PERSONALITA’. CHE TIPO SEI? CANE O GATTO?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Solo la rete può salvare la perdita dei dati scientifici

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Da un indagine sul recupero dei dati utilizzati ai fini di ricerca scientifica è emerso come la quasi totalità dei dataset delle ricerche scientifiche vada irrimediabilmente perso in tempi relativamente brevi.

Questa indagine pubblicata su Current Biology fa riferimento ai dati di ricerche biologiche, ma se presupponiamo che anche per gli altri campi di ricerca la situazione sia simile, i dati sono allarmanti.

Lo studio parla di  500 ricerche prese in esame di cui solo il 23% dei dati sono stati recuperati. Le ricerche comprendevano uno spazio temporale recente.  Se si considerano ricerche più datate (oltre i 20 anni) i dati recuperabili sono nettamente minori.

Un indirizzo mail non più attivo, il cambio del posto di lavoro, un database non usato… mille sono i motivi per cui i dataset possono perdersi o diventare molto difficilmente recuperabili.

Arriva così la proposta più ovvia, tentare di salvare i dati in rete, on line, così da permettere a tutti di caricarli e di salvarli (in tutti i sensi).


La perdita di dati è uno spreco dei fondi per la ricerca e limita il modo in cui possiamo procedere a livello scientifico. C’è bisogno di un’azione concertata per assicurare che i dati vengano salvaguardati per la futura ricerca.

 

 

L’80 per cento dei dati scientifici va perso entro vent’anniConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Mail in disuso e sistemi di archiviazioni obsoleti, la colpa è della tecnologia. Lo studio di Current Biology (…)

 

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Mutismo Selettivo: apre il primo Punto Informativo in Italia

COMUNICATO   STAMPA

 

L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se.)

INAUGURA

SABATO   18   GENNAIO   2014

alle 18.00

 

presso la sede Palazzina Ex Venchi Unica

Via F. De Sanctis 12,  a Torino

il primo PUNTO INFORMATIVO in Italia

sul Mutismo Selettivo

 

L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se. – www.aimuse.it), con sede a Torino, è l’unica associazione in Italia impegnata nell’intervento del MUTISMO SELETTIVO.

 

Il Mutismo Selettivo è un disturbo psicologico che colpisce prevalentemente i bambini. Coloro che ne sono affetti, pur non presentando alcuna disfunzione organica, non riescono ad emettere una sola parola al di fuori del contesto familiare, in presenza di estranei. In particolare, non riescono a parlare a scuola.

 

L’Associazione A.I.Mu.Se., attiva nell’intervento risolutivo per il Mutismo Selettivo, ha aperto a Torino – con il sostegno della Circoscrizione 3 – un luogo

informativo, il PUNTO INFORMA MUTISMO SELETTIVO, nell’intento di rispondere prontamente alle richieste delle famiglie e delle esigenze legate al miglioramento della qualità della vita per i bambini che ne sono affetti, offrendo informazioni e documentazione su questa patologia.

 

Sabato 18 gennaio interverranno:

 

Loredana Pilati, presidente AIMuSe

Daniele Valle, presidente della Circoscrizione 3 della Città di Torino

Ugo Cavallera, assessore alla Sanità della Regione Piemonte

Federica Trivelli, psicoterapeuta

Danilo Torrito, poeta e scrittore

 

Partecipano all’incontro:

l’Atelier di Arteterapia “Amaranto”

l’Associazione di Pet-Therapy  “Qua la zampa”

 

Seguirà aperitivo

 

 

 

PUNTO INFORMA

MUTISMO SELETTIVO

Palazzina Ex Venchi Unica

Via F. De Sanctis 12,  a Torino

(ultimo piano, saletta 2)

 

ORARIO:

ogni primo venerdì del mese

dalle 18.00 alle 20.00

 

Tel.:    331 308 68 31

Mail:   [email protected]

 

L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo – A.I.Mu.Se. – riceve genitori, insegnanti e persone interessate, fornendo loro informazioni, ascolto e materiali specifici sul Mutismo Selettivo.

 

_____________________________________________

A.I.Mu.Se. Onlus … quando il silenzio non è doro…

Via Osasco 30 – 10141 Torino

 

www.aimuse.it

[email protected]

 

Tel. 331 308 68 31

Gambling: Associazione Primoconsumo apre le porte a giocatori e familiari

COMUNICATO STAMPA
Primoconsumo apre le porte il prossimo 15/01/2014 a giocatori d’azzardo ad ai loro familiari. Nella sede dell’Associazione, in via Caracciolo, n.2, Roma, essi potranno riunirsi all’interno di gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto (AMA) in un contesto riservato e protetto, nel rispetto della privacy.
Il progetto è realizzato dall’Associazione Primoconsumo a seguito dell’esperienza maturata con il centro d’ascolto “Game Over” nell’ambito del gioco d’azzardo patologico.
Nel 2013 i dati sul gioco compulsivo sono allarmanti poiché evidenziano che il fenomeno è in crescita. La percentuale delle persone che si sono rivolte al Centro d’ascolto di età compresa tra i 41 ed i 50 anni e tra i 51 e i 60 è in aumento, rispetto al 2012.
La prima fascia infatti, passa dal 12,7% al 15,4%; la seconda fascia passa dal 6,9% al 8,6%. Molte di queste persone hanno chiamato per problematiche di gioco patologico che riguardavano i figli.
I gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto non prevedono la presenza, né la conduzione di psicologi, poiché non sono gruppi di terapia; ci sarà invece un facilitatore.
I gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto saranno composti seguendo il criterio dell’omogeneità, ovvero differenziando i gruppi dei giocatori da quelli dei familiari. L’ora ed il giorno degli incontri saranno stabiliti dai partecipanti stessi e concordati con l’Associazione. All’interno dei gruppi i giocatori o i familiari potranno confrontarsi con altre persone che vivono la loro stessa esperienza ed intraprendere un percorso comune per affrontare il disagio legato al gioco, condividendo le proprie emozioni, con l’obiettivo di potenziare le proprie capacità e di superare le difficoltà.
La partecipazione ad un gruppo AMA è gratuita e spontanea, ovvero non è richiesta prescrizione medica, né invio da parte di struttura sanitaria.

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Game Over – La dipendenza dal gioco non è un gioco (Associazione PrimoConsumo)

LEGGI ANCHE:

GAMBLING – GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO (GAP)

Per informazioni:
Segreteria Primoconsumo: 06.39.73.82.39

La bella e la bestia: Arte e Neuroscienze – Recensione

 

Recensione

La bella e la bestia: arte e neuroscienze

di L. Lumer e S. Zeki

(2011)

Ed. Laterza

 

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La bella e la bestia: arte e neuroscienzeLudovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.

Quanti di voi hanno pensato “Questi scarabocchi li so fare pure io!” davanti ad un quadro di J. Pollock? Quanti si sono mostrati scettici di fronte ad una tela tagliata di Fontana? Quanti durante una mostra di arte contemporanea hanno trascorso almeno cinque minuti ad osservare perplessi un termosifone?

Una volta le opere d’arte erano qualcosa di definito nello spazio e nel tempo (un quadro nella sua cornice, una scultura a tutto tondo). A partire dall’arte moderna si è invece assistito alla nascita di opere costituite da stimoli sempre più ambigui, fino ad arrivare a forme che oggi comprendono installazioni, video, performance…

Cosa accade nel nostro cervello di fronte a questo tipo di opere? Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.

La Lumer osserva che il nostro cervello, attraverso il processo di astrazione (capacità di formare un concetto generale partendo dal particolare), è in grado di cogliere delle costanti che ci permettono di mantenere coerente la percezione; per esempio, riconosciamo un oggetto per quello che è nonostante questo sia visto sotto condizioni di illuminazione o da prospettive e distanze differenti.

Di fronte, però, a stimoli ambigui a cui possono essere attribuiti differenti significati di pari validità, il nostro cervello si trova costretto ad accettare entrambe le possibili interpretazioni, seppur in momenti diversi e mai contemporaneamente; esempio famoso è il cubo di Necker in cui la nostra percezione oscilla tra un cubo visto da sopra e uno visto da sotto:

 Cubo di Necker

 

L’arte contemporanea, con l’ambiguità dei suoi stimoli, ingaggia il cervello dell’osservatore in questa continua sfida. Si pensi al ready-made di Marcel Duchamp “Fontana”: un orinatoio acquista un nuovo significato sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; l’osservatore oscilla tra la concettualizzazione di un oggetto quotidiano e un nuovo modo di pensare quell’oggetto.

Chi osserva, quindi, contribuisce alla creazione dell’opera che prende vita nell’attimo in cui lo sguardo dell’osservatore si posa su di essa. L’arte diventa così un prodotto del nostro cervello, esperienza nel qui ed ora. 

Ed ecco che di fronte ad un quadro di Pollock noi non vediamo uno scarabocchio, ma percepiamo il mondo emotivo che l’artista ha voluto esprimere non attraverso la forma, bensì attraverso il movimento; e grazie ai neuroni specchio attiviamo tramite simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto, empatizzando così con l’artista.

Se l’arte è attribuzione di significato, allora diventa anche mezzo per acquisire conoscenza del mondo, delle relazioni interpersonali (emblematiche le performance artistiche di automutilazione di Marina Abramovic, in bilico tra vita e morte, che spingono il pubblico ad intervenire per porvi fine) e del proprio corpo (quando è il corpo stesso a diventare oggetto artistico).

E proprio a tal proposito, la Lumer ha tenuto per il secondo anno consecutivo un’interessante lectio magistralis in occasione di DermArt, convegno di dermatologia tra arte e scienza, giunto nel 2013 alla sua 5° edizione. Durante il suo intervento, intitolato “Se pergamena fosse la mia pelle”, la neurobiologa ha illustrato il fil rouge tra cervello visivo, arte e cute che diventa mezzo artistico e di conoscenza attraverso le forme che le malattie dermatologiche disegnano, attraverso i segni di traumi e di danni provocati, ed in quanto superficie pittorica su cui si eseguono camouflage e tatuaggi.

La Lumer con i suoi libri e le sue ricerche s’inserisce così all’interno del vivace dibattito tra scienza e arte, due campi che all’apparenza appaiono distinti ed incompatibili, ma che nella Neuroestetica hanno trovato un punto di contatto: “L’arte – una delle più elevate espressioni della complessità umana e delle più raffinate modalità di rappresentare sensazioni ed emozioni – ci fornisce una testimonianza preziosa sul funzionamento del cervello e in ultima istanza dell’uomo” (Zeki, 2007; 2010).

 

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 LEGGI ANCHE:

ARTE – ARTE – INSTALLAZIONI – PERFORMANCES – NEUROPSICOLOGIANEUROSCIENZE

SCHEMA CORPOREO O IMMAGINE CORPOREA? TRA PSICOLOGIA E NEUROPSICOLOGIA

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Interdipendenza tra fattori terapeutici: metacognizione e alleanza

Sara Citro

 

La creazione di un contesto relazionale di sicurezza, in cui poter riflettere sulla propria esperienza, e il confronto tra stati mentali propri e stati mentali dell’altro in un clima paritetico, permetterebbero un miglioramento della metacognizione del paziente.

Interdipendenza tra fattori terapeutici: metacognizione e alleanza

Introduzione

Uno studio ha provato ad analizzare in che modo la qualità della relazione instauratasi tra paziente e clinico durante la psicoterapia influenzi la capacità del paziente di riflettere sui propri stati mentali (come ad esempio pensieri, emozioni e desideri). 

Il buon funzionamento di questa capacità, definita metacognizione, consente alla persona di affrontare le situazioni problematiche con un’adeguata flessibilità affettiva, cognitiva e comportamentale; al contrario, deficit metacognitivi conducono la persona a sviluppare veri e propri sintomi psicopatologici. La metacognizione è pertanto considerata attualmente un aspetto rilevante su cui lavorare all’interno della psicoterapia con i pazienti.

Attraverso l’analisi di un campione di 96 colloqui, audioregistrati e trascritti parola per parola, relativi a 24 pazienti in psicoterapia, è stato indagato in quali momenti della seduta i pazienti mostravano maggiori capacità metacognitive. 

I risultati statistici hanno messo in luce che i pazienti riuscivano a riflettere con maggior profondità sulle proprie esperienze nei momenti in cui era presente una maggior alleanza terapeutica con il clinico, ovvero nei momenti in cui il paziente si sentiva contenuto all’interno di un clima paritetico e collaborativo.

Inoltre, è stata rilevata un’associazione tra i livelli metacognitivi più alti dei pazienti e la presenza di un maggior numero di interventi supportivi del clinico, ovvero quelli in cui trasmetteva comprensione, validazione e supporto alle esperienze dei pazienti.

Questi risultati empirici sembrano essere in linea con le attuali teorizzazioni cliniche sull’argomento, secondo cui la creazione di un contesto relazionale di sicurezza, in cui poter riflettere sulla propria esperienza, e il confronto tra stati mentali propri e stati mentali dell’altro in un clima paritetico, permetterebbero un miglioramento della metacognizione del paziente.

Inoltre, diversi autori sottolineano che le variabili relative alla metacognizione, all’alleanza terapeutica e agli interventi del clinico siano legate tra loro da un rapporto di influenza bidirezionale: si muovono all’interno dell’interazione paziente-terapeuta secondo una dinamica di tipo circolare, condizionandosi costantemente e vicendevolmente.

In linea con questa prospettiva teorica, pertanto, i risultati dello studio potrebbero nel contempo indicare che l’espressione di maggiori difficoltà metacognitive dei pazienti ostacoli la costruzione di un clima relazionale positivo all’interno della psicoterapia; al contrario, laddove i pazienti risultano più abili nel riflettere metacognitivamente sulla propria esperienza, si creerebbe con maggior facilità un rapporto positivo e collaborativo tra clinico e paziente.

In conclusione, i dati emersi dallo studio sembrano indicare che la metacognizione sia una capacità cognitiva che viene favorita dalla presenza di una relazione positiva e paritetica con il clinico, e che, in un’ottica di interdipendenza reciproca, a sua volta tale abilità sia in grado di influenzare la creazione di una soddisfacente relazione terapeutica tra paziente e clinico.

 

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LEGGI:

METACOGNIZIONEALLEANZA TERAPEUTICA

 

L’AUTORE: 

Sara Citro, Dipartimento di Psicologia, Università degli studi Milano-Bicocca, Italia

 

Quando i bambini costruiscono insieme un gioco immaginario – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio pilota australiano ha indagato il fenomeno tecnicamente definito come gioco immaginario coordinato in funzione della variabile “grado di amicizia”.

Basti pensare alla nostra infanzia, un gioco di potenziometri inventato con una delle amichette del cuore. La stanza diventa una navicella spaziale, i sassolini colorati diventano gettoni magici – per l’appunto i potenziometri- per raggiungere lo spazio, ogni colore ti consente di andare su un pianeta diverso: marrone Marte, bianco Venere, azzurro Mercurio, si parte. Una stanza, sassolini colorati e tanta immaginazione.

Uno studio pilota australiano ha indagato proprio questo fenomeno tecnicamente definito come gioco immaginario coordinato in funzione della variabile “grado di amicizia”, e cioè a dire variano le interazioni conversazionali in tale contesto di gioco se i bambini sono molto amici (“migliori amici”) oppure si sono soltanto compagni di gioco più occasionali.

E’ stato analizzato il gioco di coppie di bambini di 5-6 anni di età, caratterizzate da diversi gradi di amicizia, e a cui veniva loro fornito materiale di gioco generico che lasciasse spazio alla fantasia. I ricercatori hanno identificato nelle interazioni di gioco (della durata di circa 30 minuti) tre temi conversazionali distinti: in primo luogo il tema del “costruire insieme” in cui l’obiettivo è co-costruire una rappresentazione condivisa di oggetti reali e immaginari.

In secondo luogo emergerebbe il tema della “condivisione di informazioni personali”, che sarebbe presente soltanto nel caso in cui la coppia di bambini sia caratterizzata da amicizia stretta e non solo occasionale. Infine il tema chiave dello storytelling e cioè la cocostruzione di uno scenario immaginario, per prima cosa decidendo insieme cosa sarebbe più divertente da immaginare e quindi ponendo le fondamenta dello storytelling condiviso.

Ulteriori sviluppi di ricerca sono chiaramente necessari a questo iniziale studio esplorativo e preliminare, per comprendere le differenze conversazionali e linguistiche prendendo in considerazione gli aspetti affettivi tra pari.

 

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BAMBINIRAPPORTI INTERPERSONALILINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Differenze di genere nelle reazioni allo stress – Psicologia

Differenze di genere nelle reazioni allo stress - Psicologia. -Immagine:© intheskies - Fotolia.com Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia. 

Genere  ed età sono, come noto, due determinanti fondamentali per la salute. Trattare i due sessi come uguali può essere inappropriato sia nel campo della ricerca che nel campo della clinica.

I dati epidemiologici suggeriscono che le donne vivono più a lungo ma in peggiori condizioni di salute. La categoria più a rischio di incorrere in patologie legate allo stress pare essere quella delle donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002; Duprè, 2002; ISTAT, 2005; European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, 2007; Reale et al., 2009)

Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia. Le differenze di genere sono inoltre il frutto di una sottile interazione  tra fattori biologici e ambientali,  il ruolo nella società, la concezione di sé e la propria storia personale.

La letteratura scientifica in molte discipline evidenzia come i maschi siano più studiati rispetto alle femmine: la biologia di base dei testi di medicina rispecchia la biologia maschile, lo sviluppo dei farmaci è basato sulla ricerca al maschile. Una ricerca medico-scientifica basata sul genere è l’obiettivo dell’approccio definito Gender Medicine, nella quale si tiene conto di fattori quali la classe sociale, il livello di istruzione, l’età, le condizioni psicologiche, ma soprattutto il genere. I dati epidemiologici (ISTAT, 2005) evidenziano differenze tra uomini e donne: le donne vivono più a lungo ma in condizioni peggiori di salute.

L’indagine ISTAT del 2005 “Condizioni di salute e ricorso ai sevizi sanitari” suggerisce le seguenti percentuali: le donne riferiscono di essere affette, in modo maggiore degli uomini, soprattutto da artrosi/artrite (21,8% contro 14,6%), osteoporosi (9,2% contro 1,1%) e cefalea (10,5% contro il 4,7%); depressione e ansia (7,4% contro il 3,1%); malattie allergiche (11,2% contro 10,3%); ipertensione arteriosa (15,4% contro l’11,8%), diabete (4,7% contro il 4,3%), malattie della tiroide (5,5% contro lo 0,9%); tumore (1,1% contro lo 0,9%).

Continuando con i dati ISTAT, in alcune patologie le donne hanno valori più elevati degli uomini anche nella fascia di età più giovanile (34-35 anni), in particolare per quanto riguarda le malattie della tiroide, allergiche, artrosi e artrite, depressione e ansia, tumore, cefalea (che ha il picco nella fascia d’età 35-44 anni). La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini).

Infine, tra le cause di morte, quelle più frequenti tra le donne sono le malattie dell’apparato circolatorio (46,8%) e il cancro (23,8%). Le malattie dell’apparato respiratorio sono responsabili del 5,5% dei decessi e le causa violente del 3,7%.

Volendo considerare solo le patologie strettamente correlate allo stress, l’Agenzia del Lavoro cita, insieme alle malattie cardiache, anche le malattie psichiche, per le quali le donne sono vittime in percentuali maggiori rispetto agli uomini. In particolare, il 20% di donne rispetto al 17% di uomini riportano sintomi di stress, depressione e ansia (Duprè, 2002).

Nella Quarta Ricerca Europea (European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, Fourth European Working Condition Survey, Denmark, 2007) è emerso che le donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito, subiscono più stress rispetto alla quantità di lavoro in più e rispetto alle difficoltà psicologiche nel gestire i ritmi di entrambe le occupazioni, spesso rese incompatibili dalle organizzazioni del lavoro e dal contesto sociale e familiare.

Uno dei principali fattori che condizionano l’equilibrio tra lavoro e vita riguarda il numero di ore lavorate. Livelli molto elevati di soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata è segnalato da coloro che lavorano meno di 30 ore alla settimana. Il lavoro domestico, per la molteplicità delle mansioni, per la sussistenza di rischi potenziali e per la dispendiosità energetica è collocabile nella graduatoria dei lavori usuranti.

Ciò è sostenuto dalla prevalenza di molte patologie cronico-degenerative in coloro che si occupano prevalentemente di lavori domestici (Reale et al., 2009). La potenzialità patogena aumenta ulteriormente quando si configura come attività aggiuntiva (doppio lavoro). Numerosi studi hanno evidenziato come il doppio carico di lavoro potrebbe avere serie conseguenze sulla salute e sulla sicurezza delle donne, le più esposte a questa condizione (Agenzia Europea per la Sicurezza e la salute sul Lavoro, 2002).

Il lavoro domestico dovrebbe dunque essere considerato alla stessa stregua del lavoro produttivo, con il conseguente riconoscimento dei rischi e una loro standardizzazione, al fine di evitare l’invisibilità dei pericoli fisici, psicologici e sociali ai quali la donna è esposta.

LEGGI:

GENDER STUDIESSOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbo paranoide di personalità – Sospettando ad veritatem pervenit!

 

Disturbo paranoide di personalità - Sospettando ad veritatem pervenit. -Immagine: © Africa Studio - Fotolia.com

La caratteristica essenziale del Disturbo Paranoide di Personalità è un quadro pervasivo di sfiducia e sospettosità, tanto che le intenzioni degli altri sono interpretate sempre come malevole.

Ricordate la canzone Paranoid dei Black Sabbath? Si racconta di una persona che sta male, che non riesce a godersi la vita, rimugina moltissimo, ed è alla ricerca della felicità! Effettivamente, questo stato corrisponde esattamente a  quello che nell’immaginario collettivo si è soliti definire col termine “paranoia”: condizione di confusione, di preoccupazione, di pensieri che si rincorrono. Ma questo non significa essere paranoici nel senso più patologico della termine, anzi non è paranoici affatto!

Che cosa si intende esattamente per “paranoia” patologica?
La caratteristica essenziale del Disturbo Paranoide di Personalità è un quadro pervasivo di sfiducia e sospettosità, tanto che le intenzioni degli altri sono interpretate sempre come malevole.

Gli individui con questo disturbo presumono che gli altri li sfruttino, li danneggino o li ingannino, anche quando non vi sono prove che supportino queste aspettative. Sospettano, sulla base di prove insignificanti o inesistenti, che gli altri complottino contro di loro e possano attaccarli improvvisamente, in ogni momento e senza alcuna ragione.

Dubitano, senza una giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o di colleghi, le cui azioni sono esaminate minuziosamente per evidenziare le intenzioni ostili. Ogni deviazione dalla affidabilità e della lealtà serve a supportare le loro presunzioni: l’altro è malevolo e sicuramente mi farà del male.

Infatti, un gesto di lealtà altrui li porta a rimuginare sull’autenticità dello stesso e se esista un fine diverso celato dietro un atto apparentemente benevolo. Per esempio, un individuo con questo disturbo può interpretare un errore commesso da un amico come un tentativo deliberato di imbroglio, o può intendere un rimprovero scherzoso e casuale da parte del capo come un grave attacco.

I paranoici sono riluttanti a confidarsi o a entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni possano essere usate contro di loro. Leggono significati nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri atti amichevoli.
Possono interpretare un’offerta di aiuto come una critica al fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.

Gli individui con questo disturbo provano costantemente del risentimento, e sono incapaci di dimenticare insulti, offese, o ingiurie che pensano di avere ricevuto. Piccoli torti evocano grande ostilità, e i sentimenti suscitati persistono per molto tempo. Sono costantemente attenti alle intenzioni nocive degli altri, spesso sentono di essere stati attaccati nel ruolo o nella reputazione, o di essere stati offesi in qualche altro modo, per questo contrattaccano e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti.

I paranoici sono gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il partner sessuale sia infedele senza una giustificazione adeguata. Possono raccogliere prove banali o circostanziate per supportare le loro convinzioni di gelosia. Pretendono di mantenere un controllo completo delle relazioni intime per evitare di essere traditi.

E’ difficile possano andare d’accordo con gli altri, e spesso hanno problemi nelle relazioni strette, il loro atteggiamento ipervigile nei confronti di minacce potenziali, gli permette di agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, fino ad apparire privi di sentimenti.
La loro natura aggressiva e sospettosa può suscitare negli altri una risposta ostile, che serve a confermare le loro aspettative originarie, e il pensiero malevole è confermato e validato, profezia che si auto-avvera.

Vista la scarsa fiducia negli altri, i paranoici pretendono da loro stessi di essere autosufficienti e autonomi.
Sono litigiosi e spesso si coinvolgono in dispute legali, e se qualcosa non andasse per il verso giusto? Chiaro, è sempre colpa dell’altro, cattivo e spietato.

E in terapia, cosa è possibile fare con un paranoico?
Il trattamento terapeutico mira a portare il paziente a riconoscere le proprie emozioni, aiutandolo ad individuare lo stato di minaccia, di pericolo o di derisione, a cui seguono emozioni quali ansia e rabbia, oppure lo stato in cui sente di essere stato escluso dagli altri, a cui, invece, seguono tristezza ed isolamento.

Solo in un secondo momento è possibile lavorare per migliorare l’incapacità di porsi nella prospettiva dell’altro e la difficoltà di distinguere tra mondo esterno e mondo interiore. Questo è uno degli aspetti più importanti del trattamento ed è fondamentale per regolare lo stato interno del soggetto e le sue relazioni.

Un’ulteriore parte del trattamento, infine, è costituito dalla messa in discussione delle interpretazioni disfunzionali del paziente riguardanti le intenzioni degli altri,  attraverso la formulazione di ipotesi alternative alle sue convinzioni, intervento prettamente cognitivista basato sul disputing e formulazione di pensieri alternativi.

Quindi, il paziente è allenato a fornire nuove interpretazioni delle situazioni, dei comportamenti e dei pensieri degli altri, permettendo in questo modo di migliorare le difficoltà e di acquisire nuovi strumenti per verificare l’attendibilità delle sue interpretazioni sui comportamenti altrui.
Il neofita sente il dovere di difendere fanaticamente la fede che ha abbracciato. Nel paranoico abbiamo esattamente la stessa condizione: egli si sente costretto a difendersi contro ogni critica esterna perché il suo sistema delirante è fortemente attaccato all’interno” ( Jung, 2011).

LEGGI:

DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITA’ – RAPPORTI INTERPERSONALI

Storie di Terapie #3 – Andrea lo Sfortunato.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

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