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Black Dog – Ho un cane che si chiama Depressione

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha promosso questo video per la prevenzione della depressione,  per aiutare chi soffre di depressione o chi sta scivolando in questa patologia, a riconoscerne i sintomi e chiedere aiuto.

Il video è molto chiaro, tutti i sintomi sono spiegati approfonditamente attraverso la metafora del Black Dog.

All’ inizio è la depressione che si insinua e “comanda” ma nel momento in cui si chiede aiuto le cose cambiano, allora si tratterà di “educare” quel cane, imparare a conviverci e piano piano allontanarlo. Il passaggio fondamentale è proprio “puoi smetterla di aver paura di quel cane”, e si può attraverso la psicoterapia, una terapia farmacologica e attraverso uno stile di vita sano… ovvero prendendosi cura di sè!

 

When others seem to be enjoying life, the black dog stands in the way for a lot of people

 

At its worst, depression can be a frightening, debilitating condition. Millions of people around the world live with depression. Many of these individuals and their families are afraid to talk about their struggles, and don’t know where to turn for help. However, depression is largely preventable and treatable. Recognizing depression and seeking help is the first and most critical towards recovery.

In collaboration with WHO to mark World Mental Health Day, writer and illustrator Matthew Johnstone tells the story of overcoming the “black dog of depression”.

What Is Depression? Let This Animation With A Dog Shed Light On It.

Consigliato dalla Redazione

Things that matter. Pass \’em on. (…)

Tratto da: Upworthy

 

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Leadership negli Sport di Squadra #15: Coaching Behavior Assessment System (CBAS)

 

Leadership negli Sport di Squadra #15:

Coaching Behavior Assessment System (CBAS)

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership sport squadra#15 . - Immagine: © Coloures-Pic - Fotolia.comIl CBAS (Coaching Behavior Assessment System) è uno strumento costruito da Smith e Smoll e colleghi [Smith e Smoll, 1990; Smith, Smoll e Curtis, 1978; Smith e al, 1983] allo scopo di raccogliere dati da cui dedurre come poter formare gli allenatori ad entrare in relazione in modo efficace con i giovani praticanti di sport.

Questa necessità è emersa dalla constatazione della frequente assenza di consapevolezza, da parte dei leader istituzionali, delle conseguenze del proprio comportamento sul rapporto con ogni atleta. Il CBAS è fondamentalmente costituito da un sistema di decodifica del comportamento dell’allenatore e della reazione, a questo, dell’atleta. Questa decodifica dei comportamenti del leader, che vengono analizzati sia durante le partite che durante l’allenamento, viene raggiunta attraverso la semplice osservazione e la registrazione con carta e penna.

Il metodo, quindi, è stato sviluppato a partire dall’osservazione diretta e continua delle azioni di allenatori appartenenti a diversi sport di squadra (quali calcio, baseball e pallacanestro) e suddivisi in 12 categorie comportamentali raccolte, a loro volta, in due sottoclassi: i comportamenti reattivi e i comportamenti spontanei. I primi rappresentano risposte comportamentali a particolari azioni dell’atleta, i secondi sono comportamenti naturali e non dipendenti dal modo di agire dei giocatori [Smith, Smoll e Hunt, 1976]. I comportamenti reattivi vengono divisi, nella classificazione del CBAS in tre diverse categorie che sono: 1) reazioni a prestazioni corrette e positive degli atleti (che possono generare un premio o riconoscimento oppure semplice indifferenza), 2) reazioni ad errori degli atleti (che possono portare a un incoraggiamento dell’allenatore, a una correzione, a una punizione oppure a semplice indifferenza), 3) reazioni comportamentali a distrazione o al non rispetto delle regole (solitamente mirate a ripristinare l’ordine e l’attenzione dei giocatori).

I comportamenti spontanei, invece, sono stati divisi in due categorie: correlati al gioco e non correlati al gioco. I primi solitamente rappresentano incoraggiamenti, istruzioni, insegnamenti e suggerimenti correlati al gioco in generale o alla prestazione specifica. Quelli non correlati al gioco riguardano comunicazioni generali sulla vita sociale, privata o pubblica, dell’atleta.

Come per l’LSS anche la nascita dell’CBAS è stata seguita da una serie di ricerche finalizzate a verificarne la validità. In particolare Smith, Smoll e Curtis [1978] hanno utilizzato questo sistema per studiare il comportamento di 51 allenatori della lega giovanile di baseball. I risultati ottenuti hanno dimostrato che la maggior parte degli oltre 1000 comportamenti registrati siano riconducibili a: rinforzi positivi (17,1%), istruzioni tecniche generali (27,3%) e incoraggiamento generale (21,4%), mentre i comportamenti punitivi come la semplice sanzione, sola (1,8%) o associata ad un istruzione tecnica (1,0%), appaiono poco frequenti.

Gli allenatori preferiti, dedotti dal comportamento e da ricerche sulle opinioni degli atleti, erano quelli che tendevano ad avere più comportamenti di incoraggiamento che punitivi. Un altro risultato importante ottenuto attraverso questa ricerca riguarda la preoccupante tendenza all’inconsapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti da parte degli allenatori stessi, che spesso non erano in grado di rendersi conto di come le proprie reazioni potevano influenzare il loro rapporto con gli alteti.

La considerazione positiva, negli atleti, del proprio ruolo, dell’allenatore e dello sport praticato in generale, aumentava all’aumentare del supporto e dell’incoraggiamento fornito dal leader e sembrerebbe in contrasto con altri risultati, precedentemente esposti, secondo i quali lo sport professionistico porterebbe i giocatori a ritenere più idoneo un allenatore più centrato sul compito che sulle relazioni, per ottenere successo.

Probabilmente questa trasformazione è una conseguenza sia delle priorità sia della mentalità diversa che guida il giovane sportivo e l’atleta professionista. 

Come già descritto, questi risultati sono stati la base da cui gli autori sono partiti per costruire un programma di formazione, centrato sugli allenatori del settore giovanile, che avesse come obiettivo quello di formare persone in grado di mantenere alto il livello di soddisfazione personale e di considerazione dello sport nei giovani atleti, insegnando ai leader a conoscere il proprio comportamento, le sue conseguenze, e gli atteggiamenti che possono favorire il raggiungimento di questo obiettivo.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Psiconcologia – Uno studio sulle malattie del Trofoblasto in gravidanza

 

 

La prospettiva psiconcologica nelle malattie del trofoblasto di origine gestazionale

 

Psiconcologia - Uno studio sulle malattie del Trofoblasto in gravidanza. - Immagine: © CLIPAREA.com - Fotolia.com Il presente progetto di ricerca nasce con l’obiettivo di indagare e approfondire i vissuti psicologici relativi alla diagnosi e al trattamento di tale patologia e, in generale, al periodo di malattia sia in fase attiva sia in fase di remissione.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale rappresentano una complicanza rara della gravidanza e sono causate dalla degenerazione del tessuto placentare.

Sebbene da un punto di vista medico tale patologia sia stata ampiamente studiata, le ricerche che in passato si sono interessate allo studio degli aspetti psicologico-clinici della malattia trofoblastica gestazionale sono state relativamente poche. La motivazione di questo dato è da ricercarsi nella rarità della patologia e nell’alto tasso di curabilità.

Il presente progetto di ricerca nasce con l’obiettivo di indagare e approfondire i vissuti psicologici relativi alla diagnosi e al trattamento di tale patologia e, in generale, al periodo di malattia sia in fase attiva sia in fase di remissione.

Il campione dello studio si compone di 18 pazienti affette da malattia del trofoblasto di origine gestazionale. Le pazienti sono state reclutate all’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano, presso gli ambulatori e il reparto di Ostetricia e Ginecologia.

Le variabili su cui si è scelto di focalizzare l’attenzione sono state: stili di attribuzione, aspetti psicologico-clinici relativi al problema di fertilità e presenza di sintomatologia ansiosa e depressiva. Lo studio si è avvalso di una batteria testale composta da quattro questionari in forma autosomministrata: Multidimensional Health Locus Of Control (MHCL) – Forma C, Fertility Problem Inventory (FPI), Beck Depression Inventory (BDI) – Short Form e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) – Forma Y.

I risultati ai test hanno mostrato una discreta coincidenza con i dati normativi a disposizione. I punteggi relativi alle scale MHLC, FPI e STAI e le correlazioni effettuate non hanno fornito informazioni rilevanti.

In accordo con quanto riportato in letteratura, i risultati al Beck Depression Inventory hanno evidenziato un dato interessante: il 39% dei soggetti del campione (n = 7) ha ottenuto un punteggio clinicamente significativo (cut-off ≥ 7).

In considerazione di tali risultati è opportuno porre attenzione ai limiti dello studio: ridotta numerosità campionaria, assenza di un gruppo di controllo e utilizzo di strumenti non adeguati alle caratteristiche di questa particolare popolazione di pazienti.

I dati provenienti da studi precedenti e le considerazioni tratte dal presente progetto di ricerca sembrano invitare a un approccio multidisciplinare alla cura, che consideri aspetti emotivi, fisici e sociali.

ARGOMENTI CORRELATI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – ONCOLOGIA

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Abstract:

GTD represents a rare complication of pregnancy, due to placentar tissue degeneration.

Whilst the medical outcomes of the disease have been well explored, limited data have evaluated the impact on psychological symptomatology, sexual function, and quality of life. Reasons comprise disease rarity and its favourable prognosis.

The principal aim of this work is to explore the psychological consequences of these pathologies related to diagnosis and treatment.

18 adult subjects affected by GTD were enrolled in this study. All patients were selected in Obstetrics and Gynecology Clinic of San Raffaele Scientific Institute. Variables analysed were: attribution styles, psychological impact of cancer-related infertility (with particular interest on reproductive desire, couple relationship and sexual function) and mood symptoms (anxiety or depression). Every subject was administered with a set of test composed by four questionnaires: Multidimensional Health Locus Of Control (MHCL) – Form C, Fertility Problem Inventory (FPI), Beck Depression Inventory (BDI) – Short Form e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) – Form Y.

Results obtained from the study were comparable to the normative data. MHLC, FPI e STAI scores and correlations did not show any considerable results.

Beck Depression Inventory results, according to data in scientific literature, interestingly showed that 39% of subjects (n=7) obtained clinically significant score (cut-off ≥ 7).

Regarding these results it’s important to consider the limits of the present study: low sample dimension, absence of a control group, administration of inappropriate tests for this particular group of patients.

Gathering data from similar previous studies and the conclusions from the present research, we may suggest that women with molar pregnancy may benefit from a multidisciplinary approach to management that addresses their psychological and social needs in addition to medical aspects.

Keywords: malattie del trofoblasto, psiconcologia, locus of control, impatto psicologico, fertilità

 

Introduzione:

Una malattia come il cancro costituisce un evento gravissimo all’interno della vita di una persona: mette a rischio la sicurezza fisica, l’integrità psichica, l’adattamento sociale e, quindi, il senso di identità complessivo e la visione del futuro. La persona deve improvvisamente confrontarsi con la propria vulnerabilità, si sente alienata dalla propria vita e teme di perderne il controllo; teme, inoltre, le mutilazioni derivanti dagli interventi chirurgici, ha paura di essere abbandonata e di dover abbandonare gli altri.

La malattia oncologica ginecologica determina ricadute intrapsichiche e comportamentali in parte comuni a tutte le altre neoplasie e in parte peculiari, in quanto legate alla natura e alla funzione degli organi coinvolti.

Gli organi sessuali sono ciò che struttura l’identità di genere, nella misura in cui costituiscono i caratteri sessuali primari e determinano quelli secondari. Rappresentano ciò che la donna vede di sé e ciò che gli altri vedono della donna e hanno in sé le potenzialità per creare relazione: si pensi alla relazione uomo-donna e alla funzione sessuale implicata, realmente o potenzialmente, nel coinvolgimento con un partner, oppure alla funzione riproduttiva, premessa fondamentale alla creazione dei legami umani più importanti e profondi, quali quelli tra genitore e figlio. Il cancro ginecologico può, quindi, essere particolarmente destabilizzante dal punto di vista emotivo, proprio per il rapporto che unisce gli organi potenzialmente coinvolti dalla malattia alla sfera della femminilità, della sessualità e della maternità.

Per questi motivi, la patologia oncologica ginecologica determina un grande sconvolgimento, che va oltre la sfera della sessualità intuitivamente coinvolta e suscita domande e paure molto specifiche.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale sono patologie ginecologiche rare e per lo più sconosciute, che possiedono tuttavia caratteriste tali da renderle un interessante oggetto di studio psicoloncologico. Diversamente da qualunque altro tumore ginecologico infatti, queste patologie si manifestano subdolamente, nascoste dietro l’illusione di una lieta notizia, la gravidanza. Solo in un secondo momento la donna viene a conoscenza della vera natura della propria condizione. La paziente e il suo partner devono rapidamente passare dalla speranza e dalla gioia legate all’attesa di un figlio, alla consapevolezza di una patologia pericolosa e potenzialmente mortale.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale rappresentano una complicanza rara della gravidanza e sono causate dalla degenerazione del tessuto placentare (Bombelli & Castiglioni, 2001). Comprendono una varietà di patologie per le quali, ad eccezione della mola idatiforme, definibile come tumore benigno, è stato coniato il nome di tumori maligni del trofoblasto di origine gestazionale (mola invasiva, coriocarcinoma e tumore trofoblastico del sito placentare) (Lurain, 2010).  Si tratta, quindi, di neoplasie dotate di aggressività biologica differente, che includono sia forme ad andamento benigno (la mola vescicolare, parziale e completa) che tumori altamente invasivi (il coriocarcinoma) (Bombelli & Castiglioni, 2001).  Differentemente da ciò che accade per una normale gravidanza, nella gravidanza molare il trofoblasto placentare (il tessuto embrionale commissionato alla crescita e allo sviluppo dell’embrioblasto, cioè al gruppo di cellule che si svilupperanno in feto) prolifera e degenera in patologia molare (Kajii & Ohama, 1977; Yamashita et al., 1981; Fisher & Newlands, 1998). Il prodotto del concepimento possiede un corredo genetico anomalo e non si svilupperà mai in feto, pur manifestandosi a tutti gli effetti come una gravidanza (sospensione del ciclo mestruale, test di gravidanza positivo per l’innalzamento dei valori di β-hCG nel sangue, iperemesi…) (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher, & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002).

Nel 90% dei casi, tra la 6° e la 16° settimana di gravidanza, le pazienti presentano un quadro di minaccia d’aborto o di aborto in atto, che spesso si accompagna alla diagnosi di malattia, effettuata attraverso esame ecografico (Fine et al, 1989) e dosaggio dei valori di β-hCG nel sangue (Lurain, 2010). I valori di β-hCG, responsabili in un primo momento della positività al test di gravidanza, diventano ora un marker sensibile e specifico di malattia, fondamentale nel permettere la valutazione dell’andamento della stessa e la sua risposta ai trattamenti (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002) (Figura 1).

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale sono state storicamente associate ad un alto tasso di mortalità. Il coriocarcinoma si avvicinava addirittura al 100% di esiti infausti in presenza di metastasi (Lurain, 2010). Negli anni ‘70, con lo sviluppo di tecniche di diagnosi e di evacuazione uterina precoce, il tasso di mortalità di queste patologie ha subito un crollo: lo sviluppo e il miglioramento di protocolli di trattamento e di follow-up permette, allo stato attuale, di assicurare la guarigione, con mantenimento della fertilità da parte della paziente, nel 98% dei casi (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002). Una volta confermata la diagnosi infatti, lo svuotamento della cavità uterina è spesso sufficiente a determinare la guarigione (Bombelli & Castiglioni, 2001). Solo in una percentuale ristretta la gravidanza molare degenera in tumore maligno, rendendo necessario il trattamento chemioterapico (Kashimura et al., 1986; Kim et al., 1986; Limpongsanurak, 2001) (Tabella 1).

A partire da questi elementi è possibile estrapolare una serie di informazioni che ci permettono, da una parte di avvicinare queste patologie al mondo della psicologia della salute e della psiconcologia, dall’altra di capire come mai, ad oggi, questa “unione” sia stata così scarsamente studiata. La perdita di un bambino, la diagnosi di malattia, il trattamento chirurgico e chemioterapico e, infine, la necessità di rimandare future gravidanze rappresentano le maggiori motivazioni allo studio degli aspetti psicologico-clinici legati alla malattia trofoblastica gestazionale. Tuttavia, è possibile ritenere che la rarità della patologia, l’alto tasso di curabilità e la possibilità di conservare la fertilità della paziente, siano i responsabili del ridotto interesse che tali aspetti hanno suscitato in letteratura. Nonostante questo, i dati, seppur esigui, a nostra disposizione, ci permettono di affermare che le malattie del trofoblasto di origine gestazionale possono risultare, nel breve e lungo periodo, in problematiche di tipo psicologico, sociale e sessuale, sia per le pazienti stesse che per i loro partner (Wenzel et al., 1992; Ferreira et al., 2009; Wenzel et al., 2002; Petersen et al., 2005; Flam et al., 1993; Stafford & Judd, 2011; Wenzel et al., 2004).

Questo studio nasce dunque nell’ambito di tali riflessioni ed è volto alla possibilità di dare un contributo nell’individuazione delle aree maggiormente colpite dalla patologia trofoblastica gestazionale, comprendere le dinamiche di adattamento/disadattamento alla patologia, nonchè individuare i fattori maggiormente implicati in tale processo.

 

Metodo:

Nel tentativo di raggiungere un buon equilibrio tra tradizione e innovazione si è scelto di porre attenzione sia alle aree finora poco studiate sia a quelle evidenziate in letteratura come maggiormente problematiche. I costrutti studiati sono: gli stili di attribuzione (Locus of Control), che si riferiscono alle modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della propria vita siano conseguenza dei propri comportamenti o siano indipendenti dalla propria volontà, gli aspetti psicologico-clinici relativi al problema di fertilità, con particolare riferimento al desiderio riproduttivo, alla relazione di coppia e alla componente sessuale, e la presenza/assenza di sintomatologia ansiosa e depressiva clinicamente significativa.

Il Comitato Etico ha approvato contenuti e modalità di realizzazione di questo progetto e ne ha autorizzato la realizzazione.

Il campione risulta costituito da 18 pazienti affette da malattia del trofoblasto di origine gestazionale. Le pazienti sono state reclutate all’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano, presso gli ambulatori e il reparto di Ostetricia e Ginecologia. L’esiguità del campione rispecchia il basso tasso di incidenza della malattia.

In considerazione di alcuni aspetti etici e metodologici si è scelto di seguire alcune linee guida nella composizione del campione, che prevedono che tutte le pazienti abbiano almeno 18 anni, abbiano firmato il consenso informato, abbiano conseguito la licenza elementare e siano di madrelingua italiana.

Ogni paziente è stata invitata a partecipare allo studio da parte del personale autorizzato (la ginecologa di riferimento) nel corso delle normali visite di routine condotte in ambulatorio (visite di follow-up). Sono stati descritti gli obiettivi scientifici della ricerca e gli strumenti di valutazione, lasciando piena libertà decisionale in merito alla propria adesione e alla possibilità di risposta agli item dei questionari.

Lo studio si è avvalso di una batteria testale composta di quattro questionari in forma autosomministrata: Multidimensional Health Locus Of Control – Forma C (MHCL) (Wallston, Wallston, & DeVellis, 1978), Fertility Problem Inventory (FPI) (Newton, Sherrard, & Glavac, 1999), Beck Depression Inventory – Short Form (BDI) (Davison & Neale, 1998) e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) (Spielberger, Gorsuch, & Lushene, 1970).

Si tratta di una batteria testale composta da strumenti standardizzati, per i quali esiste un campione normativo di riferimento nella popolazione italiana.

I questionari scelti sono stati integrati da una scheda per la rilevazione di informazioni socio-anagrafiche: età, città di residenza, stato civile, professione, presenza/assenza di figli precedenti e/o successivi alla malattia. Si è scelto inoltre di rilevare alcune informazioni di natura medica, attinenti in particolare alla patologia trofoblastica gestazionale: il tempo trascorso dalla diagnosi, il tipo di diagnosi, il tipo di trattamento (chemioterapia e/o isterectomia) e il tempo trascorso dall’ultimo trattamento.

 

Risultati:

I risultati descritti derivano dall’elaborazione statistica dei dati ottenuti a partire dalle risposte ai questionari pervenuti e in seguito inseriti in un foglio di calcolo. Si è proceduto in seguito all’analisi statistica mediante l’utilizzo del programma SPSS versione .17.

Le medie dei punteggi ottenuti ai questionari autosomministrati sono state messe a confronto con i dati normativi relativi ad ogni test. Da tale confronto è stato possibile evidenziare che esiste una buona coincidenza tra dato del campione e dato normativo. Questo può far assumere come realistica l’ipotesi che il campione sia rappresentativo della popolazione presa in esame rispetto alle risposte date alla batteria testale.

Per quanto riguarda i risultati ottenuti al Multidimensional Health Locus of Control (MHLC) la scala Doctors (media = 12,94) risulta essere quella alla quale sono stati ottenuti i punteggi più alti rispetto al possibile range di risposta, mentre la scala Internal presenta i punteggi più bassi (media = 16,33). Sembra dunque che il campione adotti uno stile di attribuzione prevalentemente esterno, affidandosi alla figura del medico e alle sue prescrizioni.

I punteggi ottenuti dalle pazienti alle sottoscale del Fertility Problem Inventory non risultano essere di rilevanza clinica. Nonostante questo, i punteggi più alti sono stati ottenuti alle scale “need for parenthood” e “rejection of childfree lifestyle” maggiormente rappresentativi del vissuto di infertilità: ovvero rifiuto di pensare ad un futuro senza figli e bisogno di genitorialità come obiettivo primario della propria vita. La media dei punteggi ottenuti alla scala Global Stress (il cui range di rilevanza clinica è compreso tra 27 e 30) è risultata essere di 15,62. Questo dato non stupisce, ed è una conferma del fatto che l’alta percentuale di mantenimento della fertilità (98%) sia fondamentale nel preservare il vissuto psicologico delle pazienti. Dal momento che non esiste uno strumento che rilevi i vissuti psicologici di infertilità in questa particolare popolazione di pazienti non si è potuto procedere all’indagine di costrutti più specificatamente legati a questa patologia e possiamo solo ipotizzare che item più specifici avrebbero ottenuto risultati differenti.

I risultati ottenuti dal campione allo State and Trait Anxiety Inventory sembrano avere una buona coincidenza con il dato normativo. Le pazienti non hanno mostrato livelli d’ansia di rilevanza clinica ma presentano una leggera elevazione alla scala ansia di stato (media = 41,89) rispetto al punteggio ottenuto alla scala ansia di tratto (media = 39,22). Tale differenza, seppure non statisticamente significativa, potrebbe essere spiegata dalla situazione testale e dagli esami medici di follow-up, eseguiti subito prima della somministrazione dei questionari. L’ansia di stato infatti si riferisce ad una sensazione soggettiva di tensione e preoccupazione relativa ad una situazione stimolo, quindi transitoria e di intensità variabile. Una conferma di questa ipotesi sembra provenire da un recente studio condotto da Lok et al. (2011), secondo il quale il 51% delle pazienti dichiara di sentirsi teso e ansioso prima di sottoporsi al controllo settimanale.

Il dato più interessante emerge al Beck Depression Inventory: quasi la metà (39%) del campione (n = 7) ha ottenuto un punteggio definibile come clinicamente significativo, in accordo con quanto riportato in precedenti ricerche (Ferreira et al., 2009; Petersen et al., 2005; Flam et al., 1993).

Sulla base dei dati presenti in letteratura è stato deciso di eseguire una serie di correlazioni (coefficiente di Correlazione di Pearson) tra i punteggi ottenuti alle diverse sottoscale dei questionari. I dati emersi, seppure influenzati dai limiti dello studio, sembrerebbero suggerire che non vi sia correlazione tra stili attribuzionali e vissuti di ansia e depressione, nonché tra stili attribuzionali e vissuto di stress globale relativo alla malattia (sottoscala del FPI). Anche l’ipotesi di un legame tra la percezione dello stress relativo alla malattia e i livelli di ansia e depressione non sembra essere avvalorata. Si è scelto inoltre di indagare il ruolo della variabile “tipo di trattamento” (chemioterapia si vs chemioterapia no) nell’influenzare i punteggi ottenuti al Beck Depression Inventory. L’ipotesi di partenza riguardava la possibilità che il sottoporsi ad un trattamento di tipo chemioterapico, e non alla sola evacuazione uterina, avesse un impatto negativo sul presentarsi di manifestazioni depressive. Delle 7 pazienti i cui risultati suggerivano una sintomatologia depressiva clinicamente significativa, 4 sono rientrate nel gruppo “chemioterapia si” e 3 nel gruppo “chemioterapia no”. Nonostante questo dato non assuma grande rilievo, è importante notare che le quattro pazienti facenti parte del gruppo “chemioterapia si” sono le stesse che hanno ottenuto i punteggi più alti in assoluto al BDI. Tale dato sembra essere in accordo con gli studi presenti in letteratura: Berkowitz et al. (1980) hanno trovato che le donne sottoposte a chemioterapia sono più propense a sentirsi tristi, Ngan e Tang (1986) riferiscono che il 22% di donne curate per coriocarcinoma presenta sentimenti di sconforto e insicurezza, contro il 10% di donne curate per mola idatiforme (quindi non con chemioterapia). Infine, anche Wenzel et al. (1992) riportano che il 74% delle pazienti sottoposte a chemioterapia ritiene il periodo di cura estremamente stressante.

 

Discussione:

Alla luce dei risultati ottenuti è necessario porre attenzione a quelli che sono i limiti dello studio: la ridotta numerosità campionaria dovuta, principalmente, alla rarità della patologia e alla ristrettezza dei tempi per la racconta dati, e la mancanza di un gruppo di controllo, per il quale non è stato possibile ottenere l’approvazione del comitato etico. L’impossibilità di costruire un test ad hoc per la misurazione degli aspetti psicologico-clinici relativi a questa patologia ed in particolare al problema di fertilità è stato sicuramente un limite. Le pazienti si trovano infatti ad affrontare una situazione a carattere temporaneo per la quale la somministrazione del Fertility Problem Inventory non risulta adeguata; sarebbe stato interessante dunque creare un test ad hoc, al  fine di indagare costrutti più specifici, quali ad esempio: il timore che una futura gravidanza risulti in un’ulteriore gravidanza molare, il timore che la malattia possa ripresentarsi e i vissuti di sconforto e preoccupazione relativi alla sensazione di non poter concepire figli sani. Studi precedenti hanno scelto di includere nello studio una valutazione dei partner; sicuramente è possibile ipotizzare che, non solo il partner subisca in prima persona le conseguenze della malattia, ma abbia anche un ruolo fondamentale nel mediare l’impatto della malattia sulla compagna e nella gestione della patologia stessa. Purtroppo, diversi problemi hanno ostacolato questa possibilità: l’assenza frequente dei partner alle visite di controllo, la mancata disponibilità da parte di questi a partecipare allo studio e la mancanza di tempo e di risorse necessarie a questo scopo.

Ulteriori spiegazioni ai risultati ottenuti potrebbero essere ricercate nell’ottimo lavoro di informazione e comunicazione svolto dai medici ginecologi specialisti di tali patologie. Possiamo ipotizzare infatti che l’interiorizzazione da parte delle pazienti dei dati relativi all’alto tasso di sopravvivenza e di mantenimento della fertilità abbia svolto un ruolo fondamentale nel mediare l’impatto della patologia sul vissuto psicologico delle donne affette. Da questo punto di vista, uno sguardo potrebbe essere dato anche alla relativa tollerabilità delle cure.

Rivolgendo lo sguardo al futuro, possiamo augurarci che il crescente interesse psicologico nei confronti di queste patologie inviti a un approccio multidisciplinare alla cura, che consideri aspetti emotivi, fisici e sociali e che garantisca un miglioramento della qualità di vita delle donne affette. Sembra inoltre auspicabile una generale educazione al disturbo e alle sue conseguenze, in particolare quelle legate alla fertilità. È importante che le pazienti con disturbo in fase metastatica possano ricevere un supporto psicologico, che le accompagni sia nella fase del trattamento sia durante i controlli di follow-up, e che le aiuti a sviluppare abilità di coping necessarie ad affrontare i cambiamenti portati dalla patologia e dal suo trattamento.

BOCCALARI GRAFICO 1

 BOCCALARI GRAFICO 2

 

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AUTORE: 

Francesca Adriana Boccalari, Psicologa. Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

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L’effetto paradossale dei complimenti sui Bambini con bassa Autostima

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Complimenti estremi ed esagerati possono creare un eccesso di tensione e di pressione – in termini alte aspettative da soddisfare- proprio in coloro che hanno scarsa autostima.

Come e quanto lodare i propri figli, tema  rilevante e delicato su cui pone l’attenzione una nuova ricerca che a  breve verrà pubblicata su Psychological Science. Punto primo sembra che i genitori e altri adulti significativi ricoprano di lodi proprio quei bimbi che sono più sensibili alle lodi e ai complimenti, e cioè a coloro che hanno una bassa autostima.

Mentre i bambini con elevati livelli di autostima sembrano beneficiare di queste lodi in un’ottica di aumento di self-confidence, i piccoli con bassa autostima nel momento in cui si ritrovano investiti di lodi battono in ritirata come se volessero sfuggire da nuove sfide e alte aspettative implicitamente veicolate dai complimenti dell’adulto. Proprio come se, per un effetto paradosso, l’esagerazione delle lodi andasse a colpire criticamente chi –secondo l’agire comune – ne avrebbe più bisogno. 

Ma cosa si intende esattamente per “una mole di lodi e complimenti esagerata”? Non immaginatevi grandi sviolinate, basta poco nelle interazioni quotidiane tra adulto e bambino per rendere un complimento eccessivo. Spesso basta una sola parola, ad esempio un avverbio come “incredibilmente” oppure il fantomatico aggettivo “perfetto”.

Dunque gli studiosi hanno anzitutto identificato un dato di frequenza: gli adulti esprimevano il doppio di lodi e complimenti esagerati ai bimbi con bassi livelli di autostima rispetto ai bimbi con elevati livelli di autostima.

In un altro studio – parte della stessa ricerca- circa un centinaio di famiglie sono state reclutate e videoregistrate nelle loro case, durante una sessione sperimentale in cui ai genitori è stato chiesto di presenziare durante alcuni esercizi di matematica effettuati dai loro figli, e in seguito di fornire un feedback rispetto all’esecuzione dell’esercizio.

I risultati hanno dimostrato che circa il 25% delle lodi erano di fatto classificabili nella categoria di eccessive, nuovamente i genitori erano portati a rivolgere tali lodi eccessivi in misura maggiore nei confronti dei bambini con bassi livelli di autostima.

Una possibile credenza naif dei genitori– magari neppure tanto consapevole- che supporta tale fenomeno è che “i bambini che credono meno in sé stessi necessitano di extra complimenti per sentirsi meglio”.

Il punto è che tali dosi extra di lodi e complimenti possono essere addirittura controproducenti. In un altro esperimento ai bambini veniva richiesto di creare una copia di un famoso dipinto, a seguito del quale gli sperimentatori consegnavano dei feedback sotto forma di un complimento esagerato oppure un feedback positivo adeguato. Dopo questi step ai bambini veniva nuovamente richiesto di applicarsi nella copia di un dipinto lasciando però loro liberi di scegliere tra un range di figure esplicitamente definite come più semplici o più difficili.

Dai dati è emerso che i bambini con bassa autostima erano più facilmente portati a scegliere di eseguire le figure definite come più semplici se avevano ricevuto una lode eccessiva, al contrario dei soggetti con elevata autostima che  – aseguito della lode esagerata – decidevano di riprodurre proprio i disegni più difficili. 

In conclusione complimenti estremi ed esagerati possono creare un eccesso di tensione e di pressione – in termini alte aspettative da soddisfare- proprio in coloro che hanno scarsa autostima. 

LEGGI:

BAMBINIGRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

CIM. La nascita del Centro di Igiene Mentale. Rubrica di Psicoterapia Pubblica – nr. 01

 

– CIM – #01

 La nascita del Centro di Igiene Mentale, CIM

In questa seconda serie di “storie di terapie” si narra di pazienti presi in carico dal Servizio Sanitario Pubblico, nel nostro specifico dal Dipartimento di Salute Mentale…

– Leggi l’introduzione –

CIM n.1. -Immagine: © Kakigori Studio - Fotolia.com

Una rapida successione di suicidi e di comportamenti sconvenienti, per una cittadina pacificata e gestita da decenni dal Partito, avevano spinto l’amministrazione ad una sanatoria. 

Un gruppo di cosiddetti operatori psichiatrici, nome generico e democratico per indicare medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri, era stato convenzionato e poi assunto per ridare vita al fatiscente Centro di Igiene Mentale previsto dalla legge Basaglia in sostituzione dei manicomi.

LEGGI ANCHE: STORIE DI TERAPIE, RUBRICA DI PSICOTERAPIA A CURA DI ROBERTO LORENZINI

A Monticelli per significare che uno era  un po’ strano si diceva  “è del CIM” oppure “viene da Via Carducci” storica sede del suddetto ambulatorio. Trattandosi del luogo diretto erede, dopo la legge Basaglia, del manicomio, sarà opportuno fare ordine per non confondersi finendo per essere scambiati per utenti/clienti dello stesso.

Monticelli era un paesotto con ambizioni da cittadina, tanto da accogliere i passanti con cartelli stradali  con la scritta “Benvenuti nella città di Monticelli, comune d’Europa denuclearizzato, OGM free, ecc. ecc. ecc.”.

Se gli automobilisti avessero cercato  di leggere tutte le ulteriori specificazioni circa gli ideali di pace, giustizia e fratellanza universale riportate nel cartello, che riassumono i concetti fondamentali della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del rispetto dell’ambiente, sarebbe stato  un guaio, ci sarebbero state file e tamponamenti.

Per fortuna bastava il logo pacifista della bandiera arcobaleno per capire che si stava entrando  in un oasi di pace e amore,  mantenuta incontaminata dall’amministrazione di centro sinistra che non l’aveva  mai persa dal ’48 ad oggi,  facendo impallidire persino Bologna ed il collegio elettorale del Mugello dove gli ex comunisti riuscivano a far eleggere anche un tacchino sbronzo.

La forza del Partito (con la maiuscola e senza nome) era radicata nella ex base operaia  che, nel dopoguerra, aveva lasciato il lavoro nei campi per entrare come forza lavoro e poi come socio, con contratti da cottimisti vietatissimi a livello nazionale ma tollerati nel distretto manifatturiero di Monticelli, nelle fabbriche di ceramiche che avevano riempito il mondo dei sanitari (intesi come cessi) e delle stoviglie che gli scossoni della guerra avevano rotto. Poi la lunga pace dell’occidente, quegli stramaledetti copioni dei cinesi che lavoravano sodo come noi quando eravamo poveri e le fabbriche avevano iniziato a chiudere e delocalizzare. Il tenore di vita era precipitato e, disattento alle ammonizioni dei sacerdoti che ricordavano dai pulpiti che non sono i soldi a dare la felicità, il disagio mentale era vorticosamente aumentato. 

Non tutto il male viene per nuocere.

In effetti, una rapida successione di suicidi e di comportamenti sconvenienti, per una cittadina pacificata e gestita da decenni dal Partito, avevano spinto l’amministrazione ad una sanatoria. 

Un gruppo di cosiddetti operatori psichiatrici, nome generico e democratico per indicare medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri, era stato convenzionato e poi assunto per ridare vita al fatiscente Centro di Igiene Mentale previsto dalla legge Basaglia in sostituzione dei manicomi e mai realizzato al di sotto della linea gotica.

Persino il reperimento della sede non era stato facile: i compagni sono ben disposti verso tutti i diversi e le minoranze oppresse ma i matti sono imprevedibili, pericolosi e soprattutto brutti. Certo devono essere assistiti e tenuti bene (allevati a terra e non in batteria) ma “perché proprio vicino al nostro condominio che oltretutto ci stanno un sacco di bambini e con quello che succede…

 C’era voluto l’intervento del sindaco Paoletti, ex partigiano cui non garbava essere contraddetto, per affittare dei locali a piano terra in zona periferica, sette stanze con saracinesche alle finestre sottratte alla loro vocazione di negozi e garage e piccolo cortiletto di ghiaia dove sostavano le quattro auto dei primi ad arrivare che sarebbero stati tutto il giorno impegnati nel gioco “che me la sposti che devo uscire?”.

I condomini, contrariati dall’imposizione del sindaco,  utilizzavano esclusivamente l’entrata secondaria per non passare vicino al CIM e, per provocare incidenti di frontiera come tra le due Coree, stendevano continuamente grondanti bucati sulle auto nel cortiletto e portavano  i cani a pisciare sulle pianticelle che gli operatori avevano piantato per ingentilire l’ambiente.

Gli operatori, appunto,  sono la risorsa principale in qualsiasi struttura sanitaria ed ancora di più in psichiatria dove il rapporto umano è decisivo.

Andiamo dunque a farne la conoscenza,  frugando nelle stanze.

I nomi fuori non c’erano per una scelta ideologica collettivista che sottolinea l’importanza della squadra piuttosto che del singolo. Persino le professionalità  erano  mal definite e tutti facevano un po’ di tutto con un continuo travaso di competenze e una discreta confusione.

La stanza dinnanzi all’ingresso ospitava il più delle volte il Dr. Giuseppe Irati, aiuto primario proveniente dal servizio per i tossicodipendenti, dai quali non doveva essere facilmente distinguibile. 53 anni, capelli neri alla Little Tony che arginano con prodotti naturali, ci teneva sempre a sottolinearlo, l’avanzata tempiare del primo bianco, l’altezza non certo straordinaria (non raggiungeva il metro e ottanta) era esaltata da una magrezza inquietante che, unita all’incarnato giallognolo, lasciava il dubbio tra un disturbo alimentare grave e un cancro in stato avanzato. Occhi piccoli saettanti e neri cercavano di tenere sotto controllo un ambiente percepito come  minaccioso. 

La provenienza da una famiglia ricchissima di proprietari terrieri gli conferiva un’ aria  quasi nobile normalmente scambiata per freddezza e distacco. La squadra lo utilizzava quando c’era da mettere qualcuno in soggezione con sfoggio di cultura e superiorità. Considerato anche che era l’unico a indossare sempre un completo nero, grigio o blu con regolamentare cravatta abbinata, la sua appartenenza alla famiglia Adams era stata spesso ipotizzata.

In verità, il dottor Irati di famiglie ne aveva avute tre, anzi quattro, se si considera anche quella di origine. Sarà per questo che la sua specializzazione era, appunto, la terapia familiare, sembrava ostinarsi a volerci capire qualcosa.

Si era sposato la prima volta a vent’anni, per evitare il servizio militare di leva, conseguenza di una partenza fallimentare al primo anno di medicina. All’inganno si prestò, ben ricompensata, la cugina Argenta di cinque anni più grande. Per non dare nell’occhio andarono a sposarsi a Roma in Campidoglio il giorno dell’Immacolata. Non vissero mai insieme ma, forse proprio a motivo del giorno scelto, o per ragioni molto più prosaiche, all’approssimarsi della Pasqua, Argenta mostrava le inconfondibili stimmate della gravidanza. Il divorzio, uno dei primi in Italia, sistemò rapidamente tutto e fu poi corroborato dall’annullamento della Sacra Rota grazie ad uno zio paterno, avvocato rotale. Ciò che non fu possibile sanare fu la mente di Elena, attualmente diciottenne che, vuoi per la parentela genetica tra i genitori, vuoi per essere cresciuta nella enorme e isolata fattoria dei nonni nascosta al mondo, ha accumulato un ritardo mentale rispetto ai suoi coetanei ogni anno più evidente.

Giuseppe il suo primo matrimonio non lo considerava neppure tale: un escamotage per non fare il militare, finito male.

Quella che considerava la sua prima moglie era Nadia, collega e figlia del professor Tanca, con cui aveva peparato la tesi in psichiatria.

Donna intelligente e votata alla carriera universitaria era unita a Giuseppe soprattutto intellettualmente e  non voleva l’intralcio dei figli almeno fino a quando non avesse ottenuto l’associatura all’ Università.

Giusto un mese prima dell’ambizioso traguardo, raggiunto  giovanissima ad appena 35 anni, Giuseppe le mostra le foto di Carla: non proprio di foto si trattava, ma il profilo era nettamente visibile nell’ecografia e risultato di una relazione extra coniugale.

Come si può immaginare il secondo divorzio fu meno consensuale. Provato da questa esperienza Giuseppe riconobbe la figlia Carla di cui è tuttora teneramente innamorato ed iniziò la convivenza con sua madre,  Marta,  ma non volle nuovamente sposarsi e alla luce degli attuali movimenti possiamo dire che abbia fatto bene.

Marta era indubbiamente una bella donna ma con un tocco inestinguibile di volgarità che la rendeva da un lato inadatta e dall’altro compensante, al fianco dell’aristocratico, colto e distaccato dr. Irati.

Galeotto per loro era stato il lettino psicoanalitico: Giuseppe ci teneva a precisare che tutto era iniziato dopo la fine della terapia, ma soprattutto per timore della vendetta dell’ ex suocero che minacciava di farlo radiare dall’ordine dei medici.

Gli amici lo prendevano in giro dicendogli “si, dopo la fine della terapia e prima del paziente successivo”. A loro avviso nulla poteva giustificare quella bizzarra  accoppiata se non la cieca forza della sessualità.

Detto questo il Dr. Giuseppe Irati era un ottimo psichiatra, se non fosse stato distratto dal servizio pubblico a vantaggio dello studio privato per il continuo bisogno di soldi, anche a causa dei numerosi alimenti che doveva sborsare.

Nella stessa stanza stava anche il tavolino e, soprattutto, l’archivio di Silvia Ciari, 59 anni, assistente sociale di lungo corso. 

Con esperienze pregresse al comune di Monticelli e nell’amministrazione provinciale di Vontano e tanto volontariato con tutti i disgraziati del mondo alle spalle era accorsa all’apertura del CIM come un topino affascinato da un pifferaio magico. Sempre curata ma asettica, sembrava vestirsi per scomparire nell’anonimato quasi a significare  che lei non era importante e solo gli altri, i bisognosi, lo erano. 

Immaginatela un po’ così: suora laica, militante di Partito, intransigente con sé e gli altri a rappresentare la coscienza morale del servizio. Nubile e senza figli,   girava la voce che le sue esperienze sessuali, in gioventù,  fossero state a beneficio di utenti svantaggiati (anziani e disabili) della casa del “Buon Respiro” dove aveva svolto il tirocinio post laurea.

Per Irati era una sorta di sorella maggiore che lo rimproverava  apertamente quando si accorgeva che gli occhi neri e guizzanti del dottore si attardavano su qualche giovane tirocinante. “Ancora?” sembrava dirgli, guardandolo di traverso.

Silvia conosceva tutti in paese ed era la memoria storica e l’archivio del servizio, sembrava  impossibile farne a meno o pensare al momento della sua pensione, ma nessuno credeva che ciò  potesse  realmente accadere.

Lei avrebbe comunque continuato come volontaria, voleva morire in servizio … e fu accontentata da un diciannovenne ubriaco spidermunito, durante una visita domiciliare, un mese prima dell’ultima timbratura, ma questa è un’altra storia.

La frenata brusca nel cortiletto, con schizzare di ghiaia dappertutto, denotava l’inconfondibile arrivo di Maria, detta Gilda per la somiglianza con il famoso personaggio interpretato da Rita Haiworth nel 1945. Infermiera 43enne, Gilda era una forza della natura. Occhi e capelli nerissimi scendevano  ondulati oltre le spalle, alta quasi un metro e ottanta con i muscoli torniti che denotavano familiarità con moltissimi sport, aveva nel fondo schiena la sua attrazione irresistibile, forse per una esagerata lordosi lombare che lo faceva emergere dritto e verso l’alto sul profilo della schiena. Nessun maschio in sua presenza poteva indirizzare altrove l’attenzione. Gilda era il centro di tutti i desideri maschili d’ogni età e di tutte le invidie femminili, che si traducevano in velenose calunnie sui motivi del suo successo.

In verità Maria era anche molto brava nel suo lavoro, scelto per una complicata situazione familiare che l’aveva chiamata, molti anni prima, a farsi carico del fratello Dante, deviante a tempo pieno e paziente tra i più gravi del CIM. Proveniente da una famiglia di compagni, segretaria di sezione  con simpatie extraparlamentari vicine all’eversione, poi accantonate col passare degli anni e il crescere dei figli, a favore  del pacifismo e dell’ambientalismo.

Martino di 15 anni e Sergio di 9 avevano scelto di vivere con il padre Mirko che gestiva un maneggio sul lago. Maria e Mirko andavano d’accordo, lui  in fondo sapeva che una donna del genere era troppo per uno solo e si considerava fortunato ad averla avuta per sei anni nel suo letto. Accettava di buon grado la vita “senza orario e senza bandiera” che Maria aveva scelto, favoriva  i suoi incontri saltuari con i figli ai quali parlava della madre  con parole da innamorato e la descriveva  come un’ eroina sempre  in giro a combattere le ingiustizie , in difesa dei deboli che  fossero persone, animali o piante.

Per i figli, ma anche per molti dei suoi assistiti del CIM, Gilda era una specie di supereroe. Più ammirevole degli altri, i vari Superman,  Hulk, Spiderman ecc. perché lei non aveva alcun superpotere ma solo intelligenza, prestanza fisica ed una ferrea determinazione verso il bene. 

A meno di non considerare un superpotere la sua abbagliante bellezza di cui comunque non faceva uso: la serietà intransigente da comunista sovietica quale diceva di essere, che traspariva da ogni suo comportamento, teneva  a distanza i numerosissimi corteggiatori. Del resto non aveva alcuna intenzione di riformare una coppia stabile.

Ma lasciamo Maria, appena arrivata, ai saluti mattutini con i colleghi… che non si pensi ad un particolare interesse nei suoi confronti.

Un CIM, per garantire un intervento multidisciplinare, vede convivere al suo interno  medici, infermieri,  psicologi e assistenti sociali. Linguaggi, sensibilità e prospettive diverse di vedere la realtà, in aggiunta alle diversità individuali generano una Babele che talvolta genera ricchezza e complessità, più spesso confusione e incomprensioni. 

Maestra nel complicare i rapporti cogliendo dietro ogni comunicazione un significato nascosto certamente ostile e possibilmente complottista era Daniela Ficca, psicologa. 

Raccontava di aver abbandonato  la carriera universitaria di ricercatrice in neuroscienze per l’ostilità e le invidie dei colleghi che, spaventati della sua inarrestabile ascesa, facevano di tutto per ostacolarla. All’inizio i nuovi colleghi del CIM avevano creduto a questa versione, anche influenzati dal suo aspetto mite e bucolico, rotondetto e pacioso che la faceva immaginare come una casalinga anni ’60 tutta preoccupata dell’alimentazione familiare, piuttosto che una donna in carriera. Poi, conoscendola, avevano capito che Daniela, dentro di sé, era sempre in guerra con tutti, una guerra difensiva che sentiva come l’indispensabile risposta agli attacchi che subiva. Aveva il bisogno di identificare i nemici e preferiva eccedere piuttosto che non avvistarne qualcuno, cosa che avrebbe potuto dimostrarsi fatale. 

Cercava alleanze e complicità ma solo per combattere le sue battaglie, gli altri erano armi da utilizzare. Avvolta in una nuvola di sospettosità era l’unica a parlar male dei colleghi al di fuori del CIM.

A 43 anni aveva di fatto rinunciato all’idea di un figlio del quale scherzando, ma solo in parte,  diceva “ti metti in casa un estraneo senza prima averlo potuto conoscere. Conviveva con Riccardo un ingegnere coetaneo che per lavoro e non solo, dicevano i maligni, era sempre in giro per il mondo.

Per fortuna la categoria degli psicologi era ampiamente riscattata da Maria Filata, più grande e punto di riferimento psicologico anche per gli altri CIM della ASL. 

La Dottoressa  Filata aveva 53 anni, impegnati in una vita che aveva scelto e costruito giorno per giorno, al centro della quale c’era il suo matrimonio con Roberto, medico di medicina generale e i due figli Arturo di 21 e Lino di 19 anni.

Amante della lettura e della musica di ogni genere, investiva tutto la sua intelligenza ed il suo enorme cuore nel lavoro nel servizio pubblico di cui era ideologicamente grande sostenitrice. Non aveva mai voluto  lavorare  privatamente. Il paziente per lei era sacro e veniva prima di ogni altra cosa. Proponeva e realizzava continue iniziative per migliorare l’offerta terapeutica e riabilitativa.

Non sentendosi mai adeguata alle situazioni per un perfezionismo che la assillava sin da bambina, era continuamente impegnata nella formazione e per questo rappresentava per tutti gli psicologi un punto di riferimento: i casi difficili si affidavano a lei o le si chiedeva supervisione, cercando di superare la sua ritrosia ad esporsi. La grande stima e simpatia di cui godeva tra gli operatori la rendevano confidente di molti e la grande pacificatrice nei momenti di tensione. 

Di appena un paio di anni più grande, ma senza figli e convivente con un vedovo coetaneo, Lina Mattiacci avrebbe voluto essere in ambito medico ciò che la Filata era per gli psicologi. Giunta ormai avanti nell’età non aveva grandi aspettative di carriera ufficiale, cui al contrario della Filata teneva,  dunque mirava ad un prestigio ed autorevolezza riconosciuti da colleghi e pazienti seppure no dall’ufficio del personale, con riverbero sulla busta paga. Per questo, nonostante sostenitrice e dedicata al servizio pubblico, coltivava una piccola attività privata di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

Appariva molto più giovane dei suoi 55 anni ma non sopportava che la si definisse “giovanile”. Apprezzatissima da Carlo Biagioli, medico psichiatra responsabile  del CIM che, per la sua affidabilità, la considerava il braccio destro e le scaricava molto lavoro, anche gestionale. Per questo lei lo rimproverava di non essersi battuto a sufficienza per aiutarla nella carriera, si sentiva un po’ sfruttata da lui, ma troppe erano le battaglie combattute insieme perché  il legame si incrinasse.

Un’altra che aveva qualcosa da recriminare con Biagioli era  Luisa Tigli, infermiera 43enne sposata  con due figli, Anna di 10 anni e Andrea di 8. Luisa per la sua bravura e disponibilità era per Biagioli la caposala in pectore, però riconoscimenti ufficiali non erano mai arrivati, come  per Lina. Lui pensava che le persone che più apprezzava non avessero bisogno di altri riconoscimenti che non la sua stima e il suo affetto e finiva per trattarle come delle mogli di lungo corso di cui non si potrebbe fare a meno, sono un elemento scontato dell’esistenza e ci si dimentica di riconoscerne l’importanza fino a che non si rischia di perderle. 

Luisa aveva un aspetto sbarazzino: capelli castani a caschetto, occhi da cerbiatto che le davano un aria da bambino spaventato, altezza  modesta e  modi sciatti  che la assomigliavano ad un maschietto. La femminilità, per tutto il resto negata, si esprimeva in un seno prorompente che camuffava con camicione e maglioni extra large soprattutto dopo le due gravidanze.

Luisa e Carlo avevano avuto una appassionata relazione poco dopo l’inizio del lavoro comune. Costruita sul reciproco accudimento, nonostante la differenza di età, li aveva assorbiti in quel mondo psicotico dell’innamoramento che ignora l’esistenza degli altri. Più volte erano stati colti dai colleghi in situazioni imbarazzanti e inequivoche, ma il pettegolezzo non era mai diventato malevolo sia per l’affetto e la stima di cui entrambi godevano, sia per  la benevolenza che la passione suscita in chi l’ha provata almeno una volta quando si presenta così forte ed ingenua: gli innamorati, nella loro infinita stupidità, finiscono per far tenerezza.

La storia era impegnativa per entrambi e Carlo aveva più volte promesso di chiudere il suo barcollante matrimonio. Quando poi l’aveva effettivamente fatto si era però prontamente invaghito di Ornella, una collega pediatra, e troncato rapidamente la storia con Luisa che non aveva affatto apprezzato. Meno male che non aveva detto tutto al marito come Carlo le chiedeva. Era riuscita a recuperare la situazione matrimoniale mettendo al mondo Andrea, ma non tutto era stato digerito.

I gesti di collaborazione fattiva sul lavoro ripresero. Un gelo distaccato ma non ostentato teneva a bada un nucleo ancora tiepido se non più rovente che Carlo conservava come una nascosta consolazione da recuperare nei momenti dell’umore autunnale.

Biagioli con i suoi 53 anni era tra i soci fondatori del CIM e attuale responsabile. Da sempre convinto di non valere nulla e nulla meritarsi  per motivi che davano del filo da torcere al suo analista, aveva elaborato una serie di strategie per campare ed essere accettato dal consorzio umano.

Tra queste la più importante era il servilismo e l’accondiscendere continuamente gli altri, al punto da aver perso di vista i propri desideri e persino i propri bisogni. Apprezzato da tutti per essere l’ideale “specchio, specchio delle mie brame”  che rimanda ad ognuno l’immagine desiderata era totalmente incapace di dire di no. Ottimo gregario ed esecutore, come leader era popolarissimo ma assolutamente disastroso, guidato com’era dai sondaggi. La migliore descrizione della sua mente  l’aveva vista al cinema in “Tutto su mia madre” di Almodovar nel personaggio del trans “Agrado” quando dice di essere nato per far contenti gli altri.

 Non tutto il male vien per nuocere. Infatti per soddisfare i desideri degli altri  occorre percepirli e Carlo aveva imparato a sintonizzarsi immediatamente sui bisogni dell’altro, sapeva mettersi perfettamente nei panni altrui e spesso smarriva i suoi. Ciò lo rendeva un ottimo clinico. Il guaio era quando i bisogni degli altri da soddisfare erano contrastanti, esperienza frequente per un capo che deve scegliere. 

Anche nella vita privata riusciva a cacciarsi nei guai, non sceglieva ed era etero diretto. Così, quando  stava per lasciare Maria, sua storica compagna fin dall’università e moglie, a motivo della recente passione per Luisa, era passata Ornella rovesciando il suo universo.

Con i due figli, Luca di 14 anni e Antonio di 12, aveva trovato la pace e quella fedeltà che non conosceva. Il suo vissuto era quello di essere un impostore e viveva nella costante paura che, da un momento all’altro, il suo bluff venisse smascherato. Basso e fisicamente malmesso sin da ragazzo aveva il suo punto di forza negli occhi azzurri che apparivano vispi, intelligenti e capaci di penetrare l’animo altrui.

Trascurato nel vestire con uno stile post sessantottino, rigorosamente alternativo, si mostrava umile e desideroso che fossero gli altri a valorizzarlo.

Quasi coetaneo e suo fratello elettivo Giovanni Brugnoli detto Giò assistente sociale  e psicologo condivideva con lui tutti i casi più importanti e tutto il tempo libero fuori dal lavoro. I colleghi finivano per trattarli come fossero la stessa persona.

Giò era al terzo matrimonio, dando un contributo rilevante, pari a quello del dr. Irati, al cumulo di fallimenti matrimoniali (modesto sottoinsieme dei fallimenti affettivi) che gli operatori della salute mentale del CIM di  Monticelli potevano vantare.

Fin qui coloro che ogni mattina gareggiavano per parcheggiare la macchina all’interno del cortiletto ghiaioso ed entrando per accaparrarsi una delle scrivanie democraticamente comuni, annunciavano “le chiavi stanno nel quadro” o “dietro il parasole che non si sa mai” oppure, i più precisi “chiamatemi che ci penso io” arricchiti da lagnanze sulla necessità di una sede migliore.

Tali lamentazioni infinite per la mancanza di risorse di tutti i generi erano rivolte a personaggi da cui dipendeva il funzionamento del CIM ma che occupavano scrivanie e poltrone ben più comode in stanze contraddistinte da titolo e nome nella sede centrale della ASL a Vontano 40 km. a nord di Monticello.

Il CIM di Monticello faceva parte, insieme ad altri quattro CIM, del Dipartimento di Salute Mentale di Vontano.

Il direttore, Dr. Rodolfo Torre, aveva appena compiuto 62 anni e aspettava serenamente la pensione, ormai relegato ad un ruolo prevalentemente burocratico. Circondato da una bella famiglia con due figli già alle soglie della laurea in medicina e agli agi di una opulenza tramandata da generazioni, con difficoltà faceva i conti con il passare del tempo e il ricambio generazionale.

Tenuto a distanza dai responsabili dei CIM, che non volevano intromissioni nella gestione e non contento di limitarsi all’inaugurazione di convegni e nuove strutture, aveva accettato insegnamenti nella scuola infermieristica.

Recentemente era piuttosto distratto sul lavoro, impegnato com’era a risolvere una delicata faccenda personale.

Nel tentativo di risolvere nel modo più tradizionale la sensazione di trovarsi al crepuscolo dell’esistenza e di non avere più futuro, aveva fatto male i conti. La bella allieva Viola, nome da opera lirica ottocentesca, traboccante erotismo ed arroganza nello splendore dei suoi 23 anni, non aveva nessuna intenzione di abortire come il cattolicissimo Rodolfo suggeriva.

Torre, preso dall’ansia per un possibile scandalo, trascorreva le giornate rimuginando sulla sua stupidità ed in tale chiave rivisitava l’intera sua esistenza. Possibile che il motore fondamentale fosse stata la ricerca di riconoscimenti?

In gran segreto aveva iniziato a prendere psicofarmaci per attraversare  notti angosciose, ma ciò non impediva che la silouette di Viola cambiasse di settimana in settimana. Provava vergogna per alcune delle soluzioni che gli passavano per  la mente.

Le visite al suo confessore e padre spirituale Don Martino del santuario di Monte Beccai si fecero quasi quotidiane ed il Dipartimento era di fatto acefalo. In famiglia la sua inquietudine era palpabile quanto inspiegabile, il figlio ipotizzò che il padre avesse scoperto una grave malattia ma il medico curante, tradendo tra colleghi il segreto professionale, lo rassicurò.

Doveva dunque essere qualcosa di altrettanto grave se non peggiore, altrimenti come giustificare l’anoressia del padre che era sempre stato un’ ottima forchetta o il suo disinteresse per i primi passi dei figli nella professione per i quali si era sempre impegnato con tutto se stesso? Con la scusa di non disturbare la moglie si era spostato nella camera degli ospiti. La inconsueta magrezza lo faceva sembrare, con  il completo di velluto marrone a coste larghe da signorotto di campagna, uno spaventapasseri in libera uscita. La gobba si era accentuata e l’aria spavalda e orgogliosa era velata da ombre di sconfitta e fallimento. In pochi mesi era invecchiato di dieci anni.

Il direttore generale delle ASL è nominato dalla giunta regionale e svolge un ruolo politico.

E’ auspicato sia un buon manager e raramente si tratta di un medico. In quel periodo la situazione avrebbe dovuto essere particolarmente favorevole per la psichiatria poiché anche il direttore generale era uno psichiatra il sessantaseienne Dr. Francesco Altamura. 

Questi aveva sempre lavorato in provincia di Vontano, sia nel Dipartimento di salute mentale, sia privatamente, sia come consulente di case di cura private, accusato per ciò di conflitto di interessi. Quando era stato chiamato al ruolo politico di direttore generale  aveva cessato ogni attività clinica dopo la disgrazia che lo aveva colpito e aveva occupato le prime pagine dei giornali locali. La moglie Armida, una collega di sei anni più giovane,  si era impiccata nella cantina della loro villetta la notte di Natale, non appena amici e parenti avevano lasciato soli Armida e Francesco.

Come accade spesso in provincia erano girate mille voci, rinforzate dalla velocità con cui venne effettuata la cremazione rendendo impossibile l’autopsia e l’accertamento del presunto tumore inoperabile di cui nessuno sapeva e che,  secondo Altamura, poteva aver spinto la moglie al gesto estremo. Che fosse stata la depressione per la perdita o l’enorme eredità che rendeva superfluo l’impegno lavorativo, sta di fatto che Altamura, ancora uomo attivo e piacente, si era ritirato nella villa di campagna fino alla chiamata al vertice della ASL.

L’esercizio del potere era la cosa che da sempre più lo attirava.

Suo fiero, malsopportato controllore e oppositore era Vitale Eusebi, 72 anni, ex gesuita che aveva lasciato l’abito per amore di Livia quando aveva 40 anni e con la giovane  aveva messo al mondo tre figli. Aveva continuato a servire il signore cercando di rendere il mondo migliore soprattutto per i più deboli. Da oltre quindici anni aveva scelto i pazienti psichiatrici e le loro famiglie come i più deboli tra i deboli e da allora era a capo dell’APMM (Associazione Provinciale dei Malati Mentali). 

Uomo solido di origini contadine badava ai fatti e non si lasciava confondere dalle parole. Condannato per lesioni personali ai danni proprio di Altamura cui aveva tolto due incisivi a seguito di una promessa non mantenuta, non faceva mistero dell’intenzione di riprovarci se fosse stato necessario. Naturalmente tra i due non correva buon sangue e davano un buon contributo all’attività degli avvocati di Vontano.

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Le tre anime del suono. La voce tra mente e corpo – Recensione

 

 

Le tre anime del suono. La voce tra mente e corpo.

di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio

(2013) Armando Editore

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Le Tre Anime Del Suono. Le tre anime del suono: non è così frequente soffermarsi a riflettere sull’importanza della voce umana come strumento di comunicazione e di messa in relazione con l’altro. In ambito clinico l’attenzione sulla voce si concentra soprattutto nel caso delle disfunzionalità vocali che si trovano nei disturbi da conversione (la vecchia isteria) o in altre condizioni psicosomatiche.

Tutte le voci però andrebbero ascoltate con più attenzione perché possono rivelare tante informazioni su chi le emette. Questo bel libro, scritto a quattro mani da una cantante e da un regista provenienti dal mondo della musica lirica, presenta in modo esaustivo tanti concetti interessanti sulla voce e sul suo funzionamento.

Viene privilegiata chiaramente l’esperienza del canto, sicuramente il modo di usare la voce più complesso e interessante, che ci accomuna ad alcune specie animali (in particolare gli uccelli). Risulta molto interessante la parte sull’evoluzione vocale che distingue: una voce animale (pulsionale, orientata alla sopravvivenza, che si manifesta nella segnalazione territoriale, nel richiamo sessuale e nella manifestazione del dolore), una voce emotiva (che smuove nello spazio affettivo e di relazione con l’altro) e una voce culturale (che compare con la rappresentazione simbolica e con lo sviluppo del linguaggio verbale).

Anche il modo di cantare e di parlare seguono l’evoluzione della società e gli autori evidenziano come in una dimensione fortemente regolamentata come quella in cui viviamo spesso “la voce si fa incolore, priva di energia, di timbro, di anima. La carenza degli ultimi anni di grandi voci per la lirica ne è la prova. D’altra parte  gli autori sottolineano anche come il cantare è una complessa attività di coordinamento psicomotorio, ove una disposizione aperta e intuitiva di natura prevalentemente inconscia è più importante dello studio della tecnica.

Un abbandono temporaneo delle strutture di controllo dell’Io, che può avere delle ben note ripercussioni sul piano terapeutico e della salute mentale. Imparare a cantare con un bravo insegnate, per il ritmo che si instaura tra docente e discente, può assomigliare più a un percorso psicoterapico che a una lezione di musica.

I riferimenti a tanti studiosi che sono partiti dalla voce per arrivare alla psiche (Alfred Tomatis, Alexander Lowen) rendono quest’opera interessante anche per gli psichiatri e gli psicoterapeuti. La frase più bella del libro è una citazione del cantante Giacomo Lauri-Volpi che diceva “il segreto del canto sta nella gioia di cantare”.

 

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Depressione: la Vulnerabilità Cognitiva è contagiosa? – Psicopatologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ stato ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione è contagiosa. Questo quanto rilevato da un recente studio pubblicato su Clinical Psychological Science in cui gli autori hanno proprio dimostrato un effetto contagio tra pari.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione consiste nella presenza di bias associativi negativi nel momento in cui si costruisce la propria idea di sé nei diversi contesti (Beevers, 2005); ad esempio, se posta di fronte a una nuova situazione, un individuo cognitivamente vulnerabile alla depressione penserà per prima cosa fallirà con un’autovalutazione negativa di sé.

Tale vulnerabilità cognitiva è considerata un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo dell’umore e anche se tendenzialmente stabile non è immutabile essendo costituita da elementi squisitamente psicologici e cognitivo-emotivi. In particolare gli studiosi hanno ipotizzato un possibile effetto contagio tra pari focalizzando l’attenzione sulla popolazione dei ragazzi frequentanti il college.

Mettendo a punto uno studio longitudinale prospettico hanno coinvolto circa 100 coppie di studenti roommates – che cioè si trovavano a condividevano la stanza nel college. Ingegnosamente gli sperimentatori hanno avuto la possibilità di accoppiare a priori alcuni studenti con elevati livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione con altri studenti che non presentavano tale caratteristica.

E’ stato dunque ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

Ebbene i dati hanno confermato l’ipotesi: gli studenti che furono assegnati al roommate con un elevato livello di vulnerabilità cognitiva depressiva avevano una elevata probabilità di appropriarsi – in modo probabilmente automatico e metacognitivamente inconsapevole- dello stile cognitivo depressivo del loro coinquilino. 

Inoltre, come ci si poteva attendere coloro che presentavano accresciuti livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione riportavano anche maggiori livelli di sintomi depressivi rispetto ai soggetti di controllo. Ahimè dunque appare molto potente il virus dello stile cognitivo depressivo che contagia addirittura i compagni di stanza, peccato che non sia accaduto l’inverso, la conversione verso una modalità di pensiero più positiva e non depressiva nella coppia di amici.

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DEPRESSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Come conquistare una donna? Fatevi crescere la barba!

VOLETE CONQUISTARE UNA DONNA? FATEVI CRESCERE LA BARBA!  Eclissa il modello dell’uomo sbarbato, dall’aria innocente e fanciullesca, per lasciare spazio all’uomo rude e virile. Ma attenzione ai dettagli! Per assicurarsi fascino e mistero non è sufficiente una barba incolta, al contrario occorre calibrare lunghezza e forma.

Lo conferma una curiosa ricerca condotta in Australia presso la University of New South Wales e pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior, che ha coinvolto 177 donne e 351 uomini, tutti eterosessuali.

Gli amanti dello stile glabro si devono arrendere alle preferenze delle donne, che ancora una volta dettano legge in materia di estetica e sex appeal. Eclissa il modello dell’uomo sbarbato, dall’aria innocente e fanciullesca, per lasciare spazio all’uomo rude e virile. Ma attenzione ai dettagli! Per assicurarsi fascino e mistero non è sufficiente una barba incolta, al contrario occorre calibrare lunghezza e forma. Niente basettoni e baffi a manubrio, la barba che assicura irresistibilità  non deve incontrare il rasoio per 10 giorni. Superato questo limite di tempo, ecco che da maschi avvenenti e virili potreste trasformarvi in potenziali genitori affettuosi e accudenti.

Lo conferma una curiosa ricerca condotta in Australia presso la University of New South Wales e pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior, che ha coinvolto 177 donne e 351 uomini, tutti eterosessuali. Ai partecipanti è stato chiesto di esprimere un parere rispetto a quanto trovassero attraenti barbe di diverso taglio: completamente rasato, barba di 5 giorni, barba di 10 giorni, barba lunga. Quella più apprezzata  è risultata la barba di 10 giorni.

 

Tipi di barba. VOLETE CONQUISTARE UNA DONNA? FATEVI CRESCERE LA BARBA!

Le donne, oltre ad esprimere pareri favorevoli in termini di estetica, hanno anche sottolineato il senso di sicurezza e protezione emanato dal look bohemien. Secondo i ricercatori, le preferenze femminili non avevano alcun legame con la fase del ciclo mestruale, anche se le donne in fase di ovulazione hanno considerato questa tipologia di uomo come estremamente affascinante.

La nuova tendenza era già emersa nel 2012 in un’indagine condotta da Found!, la prima agenzia in Italia di mood marketing comunication,  attraverso un monitoraggio on line sui principali social network, blog e community interattive, coinvolgendo circa 1300 utenti femminili tra i 25 e i 55 anni per indagare le caratteristiche dell’uomo ideale. Anche in questa indagine è stato messo in luce l’imperativo categorico della barba incolta.

Le passerelle e i rotocalchi non si sono resi immuni al cambio di rotta, sfoggiando modelli e attori del piccolo e grande schermo con un look che asseconda pienamente le aspettative femminili, basti pensare al Red Carpet o ai volti noti nelle pubblicità, scenari privilegiati dell’elogio alla barba incolta. Superati i miti dell’uniformità tra i sessi, dove uomini e donne fanno a gara per accaparrarsi un appuntamento dall’estetista, assistiamo dunque a un ritorno alla differenziazione, alla riscoperta dell’altro e del suo valore nella diversità, che sottolinea una verità intramontabile, ovvero il bisogno delle donne di sentirsi protette e rassicurate dal proprio partner. Quindi uomini, se volete conquistare una donna, fatevi crescere la barba!

 

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Ragazze interrotte, tratto dal diario di Susanna Kaysen – Cinema & Psicoterapia

Susanna Kaysen, la giovane protagonista di Ragazze interrotte, ha un pessimo rapporto con i genitori, insicura e fragile, spesso si rifugia nel suo mondo mentale. La madre la convince a partecipare ad una festa e la induce ad assumere psicofarmaci e alcool. Viene portata al Claymore Hospital dove la ricoverano per tentato suicidio.

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Ragazze Interrotte (1999) Cinema e Psicoterapia - Disturbo BorderlineRagazze Interrotte (Girl, Interrupted)

Diretto da James Mangold con Winona Ryder e Angelina Jolie. Usa 1999. È tratto dal diario di Susanna Kaysen, La ragazza interrotta.

 

Trama del film:

Ragazze interrotte è la storia di alcune ragazze ricoverate in un ospedale per malattie mentali. Solo una delle ragazze riuscirà ad uscire e a recuperare una vita quasi “normale”. Susanna imparerà ad accettare il fatto di soffrire di disturbi, comincerà a parlarne e a scrivere sul proprio diario le emozioni e i sentimenti provati. Riuscirà a conoscere se stessa e ad affrontare con più serenità la propria vita.

 

Motivi di interesse:

Susanna Kaysen ha un pessimo rapporto con i genitori, insicura e fragile, spesso si rifugia nel suo mondo mentale. La madre la convince a partecipare ad una festa e la induce ad assumere psicofarmaci e alcool. Viene portata al Claymore Hospital dove la ricoverano per tentato suicidio.

La conseguente diagnosi di disturbo borderline di personalità suscita disappunto nella madre, disgustata da una figlia poco conformista e matta.

L’atteggiamento squalificante e invalidante di uno o di entrambi i genitori è una delle cause eziologiche che si ritrovano nelle storie di vita dei pazienti borderline. Si sentono completamente sbagliati e si aspettano che prima o poi gli altri gli rimanderanno un’immagine intollerabilmente negativa.

Nell’ospedale Susanna incontra le altre ragazze: Lisa affetta da un disturbo antisociale di personalità, Daisy ricca e viziata isterica (si esprimeranno in seguito i tratti borderline della sua personalità), Georgina bugiarda patologica, Jane anoressica e Polly con alle spalle un grave incidente da cui è uscita piena di ustioni. Susanna stringe amicizia con Lisa che ricopre un ruolo di leader nel gruppo delle ragazze.

L’ipercoinvolgimento nelle relazioni è una modalità tipica dei pazienti borderline. Le sequenze del film presentano i temi problematici di ogni ragazza in un contesto poco accogliente e piuttosto alienante, più custodialistico che curativo. Così Lisa e Susanna decidono di fuggire e raggiungono Daisy, precedentemente dimessa. Daisy presenta comportamenti autolesionistici, è bulimica e costretta ad un rapporto incestuoso con il padre. Lisa, che per via del suo disturbo non tiene da conto la sicurezza propria e altrui, insinua che, in fin dei conti, Daisy forse trova soddisfazione nel rapporto col padre. Il mattino seguente Daisy s’impicca. Susanna sconvolta torna in ospedale, mentre Lisa continua la fuga.

Quando Lisa torna nella clinica trova il diario di Susanna, e per punirla dell’abbandono nella fuga, lo legge ad alta voce. Quello dell’abbandono associato all’indegnità e alla vulnerabilità è un tema centrale del disturbo borderline. Susanna si scuote, sembrerebbe finalmente regolare in maniera più adattiva le sue emozioni, e rompe definitivamente l’amicizia con Lisa. Viene infine dimessa e torna a vivere in libertà.

Sembra aver migliorato le capacità di individuare e intervenire sugli stati problematici anche grazie all’esperienza relazionale con le altre ragazze: “a volte l’unico modo per rimanere sani di mente è diventare un po’ pazzi”.

 

Indicazioni per l’utilizzo:

Utile per incrementare la consapevolezza e la motivazione al cambiamento nelle componenti di self-efficacy, locus of control, bilancia decisionale. La valutazione delle conseguenze di determinati comportamenti può stimolare l’autoriflessività.

La descrizione e la chiarificazione di alcuni schemi relazionali può aiutare ad attivare con il terapeuta un ciclo protettivo, portando il paziente ad avere fiducia di un validatore autorevole che rafforza il sé degno. Utile anche a fini didattici.

 

Ragazze interrotte, Trailer del film:

The Baby illusion – come i genitori sottovalutano l’altezza dei figli – Psicologia & Genitorialità

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una recente ricerca australiana molti genitori pensano che i loro bambini siano più piccoli di quello che realmente sono.

Quando i ricercatori della Swinburne University of Technology di Melbourne hanno chiesto alle madri di indicare su un muro l’altezza del loro figlio più piccolo queste hanno indicato sempre un altezza inferiore a quella effettiva del bambino, e non di poco.

In media, infatti, lo scarto tra l’altezza reale e quella percepita era di 3 centimetri, e per bambini tra i due e i 6 anni questa è una grande differenza: per un bambino di 4 anni, ad esempio, 3 centimetri di altezza in meno significano che la mamma lo vede come uno di 3.

Le madri però non avevano alcun problema ad indovinare l’altezza dei loro figli più grandi. Questa “baby illusion”  infatti scompare nel momento in cui un nuovo nato arriva in famiglia. 

I ricercatori hanno fatto questa scoperta dopo avere condotto un sondaggio online su 747 madri che avevano appena avuto un bambino, il 70% di loro ha riferito di percepire il figlio più piccolo come improvvisamente più grande all’arrivo in famiglia di un nuovo nato. I ricercatori hanno deciso di capire meglio questo fenomeno e hanno reclutato 77 madri con almeno un figlio di età compresa tra i 2 e 7 per fare il test dell’altezza percepita sul muro.

Più grande era il figlio minore più era probabile che la madre sottovalutasse la sua altezza e complessivamente i figli minori ricevevano sempre stime inferiori alle loro altezze reali, addirittura molte di loro hanno dato stime inferiori di 10 centimetri.

La “baby illusion” motiva  le cure parentali, dicono i ricercatori: esagerando la piccolezza del figlio minore i genitori sono spinti a dedicare particolari attenzioni al piccolo di casa, indipendentemente dalla sua età reale, un po’ come se le mamme tenessero una mano sulla testa dei loro figli più piccoli a dire…“smetti di crescere!”

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BIBLIOGRAFIA:

 

Disturbi Mentali: i poster di minimal design di Patrick Smith

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’artista e graphic designer Patrick Smith utilizza uno stile di design minimale per rappresentare visivamente alcuni dei più tipici disturbi mentali.

To combat the ever growing silence surrounding mental health struggles like depression and obsessive compulsive disorder, artist Patrick Smith chose a simple path. Draw them. His series of minimalist posters capture the essence of various personal afflictions, translating everyday conflict and pain into simple shapes and colors…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Is What OCD Looks LikeConsigliato dalla Redazione

Obsessive Compulsive Disorder - OCD - © Patrick Smith
To combat the ever growing silence surrounding mental health struggles like depression and obsessive compulsive disorder, artist Patrick Smith chose a simple path. Draw them. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Il cervello degli innamorati, Helen Fischer – Neuroscienze

 

La redazione di State of Mind consiglia questo interessante contenuto: 

Neuroscienze: L’Antropologa Helen Fisher ci racconta cosa ha scoperto il suo gruppo di ricerca sul cervello degli innamorati, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI).

 

TRASCRIZIONE:

(Translated into Italian by sabrina de felice  •  Reviewed by Elena Montrasio)

Io ed alcuni colleghi, tra cui Art Aron e Lucy Brown abbiamo sottoposto 37 persone, pazzamente innamorate, a uno scanner di Risonanza Magnetica cerebrale funzionale. 17 erano felicemente innamorate, 15 erano state appena lasciate, e stiamo iniziando ora il nostro terzo esperimento: studiare persone che si dicono ancora innamorate dopo un periodo tra i 10 e i 25 anni di matrimonio. Questa è la breve storia della nostra ricerca.

Nella giungla del Guatemala, a Tikal, si trova un tempio. Fu costruito dal grandioso Re Sole, della grandiosa città stato della grandiosa civilizzazione delle Americhe, i Maya. Il suo nome era Jasaw Chan K’awiil. Era alto piú di 2 metri. Visse più di 80 anni, e fu sepolto sotto questo monumento nel 720 d.C. Le iscrizioni Maya proclamano che era profondamente innamorato di sua moglie. Egli, in suo onore, le fece costruire un tempio di fronte al proprio. Ogni primavera e ogni autunno, nel giorno dell’equinozio, il sole sorge dietro il suo tempio e con l’ombra di lui copre perfettamente il tempio di lei. E quando nel pomeriggio il sole tramonta dietro il tempio di lei abbraccia perfettamente il tempio di lui con l’ombra di lei. Dopo 1.300 anni, questi due innamorati ancora si sfiorano e si baciano dalle loro tombe.

In tutto il mondo le persone amano. Cantano per amore, danzano per amore, compongono poemi e storie sull’amore. Raccontano miti e leggende sull’amore. Si struggono per amore, vivono per amore, uccidono per amore e muoiono per amore Come scrisse Walt Whitman: “Oh, mi giocherei tutto per te”. Gli antropologi hanno trovato testimonianze di amore romantico in 170 società. Non ne hanno mai trovata una in cui fosse assente.

Ma l’amore non è sempre un’esperienza felice. In uno studio condotto tra studenti universitari, sono state poste molte domande sull’amore, ma le due che per me sono emerse,sono: “Sei mai stato rifutato da qualcuno che amavi veramente?” e la seconda domanda: “Hai mai lasciato qualcuno che ti amava veramente?” Quasi il 95 % tra uomini e donne ha risposto di sì ad entrambe. Quasi nessuno esce vivo dall’amore

Ora, prima di iniziare a parlarvi del cervello voglio leggervi quello che considero il poema d’amore più potente sulla Terra. Ci sono altri poemi che sicuramente sono ugualmente belli, ma non credo che questo possa essere superato. Fu raccontato da un anonimo indiano Kwakutl dell’Alaska del sud ad un missionario, nel 1896. Non ho mai avuto la possibilità di recitarlo prima. “Il fuoco attraversa il mio corpo con il dolore di amarti, il dolore corre attraverso il mio corpo con il fuoco del mio amore per te. Un dolore ardente al punto di scoppiare con il mio amore per te, consumato dal fuoco con il mio amore per te, Ricordo quello che mi dicesti. Sto pensando al tuo amore per me, sono devastato dal tuo amore per me. Dolore e ancora più dolore, dove stai andando con il mio amore? Mi hanno detto che te ne andrai da qui. Mi hanno detto che mi lascerai qui. Il mio corpo è reso insensbile dal dolore. Ricroda quello che ti dissi, amore mio. Addio, amore mio, addio.” Emily Dickinson una volta scrisse, “La separazione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per conoscere l’inferno”. Quante persone hanno sofferto durante i milioni di anni dell’evoluzione umana? Quante persone in tutto il mondo stanno ballando di gioia in questo preciso momento? L’amore romantico è una delle sensazioni piú potenti sulla Terra.

E cosí, diversi anni fa, decisi di esaminare il cervello e studiare questa follia. Il nostro primo studio sulle persone che erano felicemente innamorate è stato ampliamente pubblicizzato, per cui non mi soffermerò a lungo su questo aspetto. Abbiamo trovato dell’attivitá in una minuscola zona vicino alla base del cervello detta area tegmentale ventrale. Abbiamo trovato dell’attività in alcune cellule chiamate cellule ApEn. Cellule che in realtá producono dopamina, uno stimolante naturale, e lo distribuiscono in molte regioni celebrali. Difatti questa parte, la TVA, è parte del sistema di ricompensa del cervello. Si trova molto al di sotto del processo cognitivo del pensiero. Si trova sotto le emozioni. È parte di ciò che chiamiamo il cervello rettiliano, associato con la volontá, con la motivazione, con la concentrazione e con il desiderio. Infatti, la stessa regione cerebrale dove abbiamo trovato attivitá si attiva anche quando si acuisce il bisogno di cocaina.

Ma l’amore romantico fa molto più di una dose di cocaina- se non altro, l’effetto della cocaina passa. L’amore romantico è un’ossessione. Ti possiede. Si perde la percezione di se stessi. Non riesci a smettere di pensare ad un altro essere umano. Qualcuno si è accampato nella tua testa. Come disse un poeta giapponese dell’ottavo secolo, “Il mio desiderio non ha tempo quando cessa.” Salvaggio è l’amore. E l’ossessione può peggiorare quando vieni rifiutato.

Così, proprio ora, io e Lucy Brown, la neuroscienziata del nostro progetto, stiamo osservando dati ricavati dalle persone sottoposte a risonanza poco dopo essere state lasciate. In realtà fu veramente difficile, collocare queste persone nel macchinario, poiché erano in pessime condizioni. (Risate) In ogni caso, trovammo attività in tre regioni del cervello. Trovammo attivitá nella regione del cervello, esattamente nella stessa regione del cervello associata con l’intenso amore romantico. Che problema. Sapete, quando vieni lasciato, l’unica cosa che desideri fare è dimenticare quest’essere umano, e continuare con la tua vita, invece no, li amiamo ancora piú intensamente. Come disse una volta il poeta latino Terenzio, “minore la mia speranza, piú ardente il mio amore”. Ed infatti, ora sappiamo il perché. 2000 anni dopo, possiamo rilevarlo nel cervello Quel sistema cerebrale, il sistema di ricompensa per la voglia, la motivazione, il desiderio, la concentrazione si attiva maggiormente quando non si ottiene ciò che si desidera. In questo caso, la più grande ricompensa della vita: il compagno giusto per noi.

Trovammo attivítà anche in altre regioni del cervello— in una regione cerebrale associata al calcolo dei guadagni e delle perdite. Capite, siete distesi lí, state guardando un’immagine, e siete in una macchina, e state valutando, come dire, cosa è andato storto. E vi chiedete, per esempio, cosa ho perso? Io e Lucy abbiamo una piccola barzelletta al riguardo. Viene da una commedia di David Mamet, in cui ci sono due geni della truffa. Una donna sta imbrogliando un uomo, e l’uomo guarda la donna e dice: “oh sei un cavallo perdente, non scommetteró su di te”. E certamente, è questa parte del cervello, il cuore del nucleus accumbens, che si attiva nel momento in cui calcoli i tuoi guadagni e le tue perdite. È anche la regione cerebrale che diventa attiva quando sei disposto a correre grossi rischi legati a grandi guadagni e grandi perdite.

Ultimo, ma non per questo meno importante, trovammo dell’attivitá in una regione cerebrale associata con il profondo attaccamento ad un altro individuo. Non c’é da stupirsi se le persone soffrono, e e se nel mondo si commettono tanti crimini passionali. Quando vieni rifiutato in amore, non solo vieni travolto dai sentimenti legati all’amore romantico, ma ti senti profondamente attaccato all’individuo in questione. Inoltre, con questo circuito cerebrale della ricompensa in funzione, tu stai sentendo un’energia e una concentrazione molto intense, una forte motivazione e la disponibilità a rischiare tutto per vincere il premio più grande della vita.

Dunque, cosa ho imparato da questo esperimento che vorrei raccontare al mondo? Principalmente sono arrivata a pensare che l’amore romantico sia un impulso, un impulso di base legato all’accoppiamento. Non un impluso sessuale- l’impulso sessuale ti fa uscire in cerca di un’intera gamma di partners. L’amore romantico ti permette di concentrare la tua energia di accoppiamento su un individuo, e di conservare tale energia, per iniziare il processo di accoppiamento con una sola persona. Credo che, tra tutte le poesie che ho letto sull’amore romantico, le parole che lo riassumono meglio vengano da Platone, che ce le regalò più di 2000 anni fa: “Il dio dell’amore vive in uno stato di bisogno. E’ un bisogno. E’ un’urgenza. E’ uno squilibrio omeostatico. Come la fame, o la sete, è quasi impossibile da evitare.” Sono arrivata anche a credere che l’amore romantico sia una dipendenza: una dipendenza perfetta, meravigliosa, quando va bene, ed una dipendenza perfetta ma orribile quando va male.

E, senza dubbio, ha tutte le caratteristiche di una dipendenza. Ti concentri su una persona, ci pensi in maniera ossessiva, la desideri, alteri la realtà, e la tua disponibilità a correre grandi rischi per conquistare questa persona. E possiede le tre principali caratteristiche della dipendenza. Tolleranza—hai bisogno di vederla sempre di piú— astinenza e, infine, ricaduta. Ho un’amica che si sta riprendendo da una terribile storia d’amore, sono passati circa otto mesi, e ora sta iniziando a sentirsi meglio. L’altro giorno era in macchina, quando, tutt’a un tratto, alla radio, ha sentito una canzone che le ha ricordato quell’uomo. E non solo è rinato in lei l’istinto del desiderio, ma ha dovuto accostare a lato della strada per fermarsi a piangere. Cosí, una cosa vorrei che la comunità medica, e la comunitá legale, insieme alla comunità educativa, notassero, se riescono capire. Che, in effetti, l’amore romantico è una delle sostanze che crea maggior dipendenza sulla Terra.

Vorrei inoltre raccontare al mondo che gli animali amano. Non c’è animale su questo pianeta che si accopierà con la prima cosa che gli passi davanti. Troppo vecchio, troppo giovane, troppo trasandato, troppo stupido, e loro non lo faranno. A meno che tu non sia bloccato in una gabbia da laboratorio– e sai, se passerai il resto della tua vita in una piccola scatola, non più sarai cosí esigente — ma ho osservato un centinaio di specie, e ovunque, nel loro ambiente naturale, gli animali hanno delle preferenze. A dire la veritá gli etologi lo sanno. Sono circa otto le parole con cui definiscono il favoritismo animale: procettività selettiva, scelta della coppia, scelta della femmina, scelta sessuale. E difatti ci sono tre articoli accademici nei quali loro hanno segnalato questa attrazione, che può durare anche solo un secondo, ma è un’attrazione ben definita, e questa stessa regione cerebrale, o questo sistema di ricompensa, oppure i fattori chimici di questo stesso sistema di ricompensa sono coinvolti. Infatti, penso che l’attrazione animale possa essere immediata– si può vedere un elefante dirigersi all’istante verso un altro elefante. E penso che qui si celino veramente le origini di ció che voi ed io chiamiamo, “amore a prima vista.”

Le persone mi hanno spesso chiesto se quello che so sull’amore mi abbia rovinato. Semplicemente, rispondo, quasi per nulla. Puoi conoscere i singoli ingredienti di una torta al cioccolato, ma quando ti siedi e la assaggi, provi comunque la stessa gioia. E sicuramente commetto gli stessi errori che tutti gli altri commettono, ma questi studi ampliano la mia comprensione e la compassione che provo nei confronti della vita umana. A dire la verità, a New York spesso mi fermo a guardare nei passeggini e mi dispiace un po’ per i bimbetti, e qualche volta provo un po’ di dispiacere per il pollo che mi ritrovo nel piatto a cena, quando penso quanto sia intenso questo sistema cerebrale. Il nostro più recente esperimento è nato da un’idea del mio collega, Art Aron, che ha pensato di fare la risonanza magnetica a quelle persone che si dicono ancora innamorate dopo anni e anni di relazione. Finora abbiamo studiato cinque persone, e, indubbiamente, abbiamo notato la stessa cosa: non stanno mentendo. Le aree del cervello associate con l’intenso amore romantico, continuano ad essere attive dopo 25 anni.

Ci sono ancora molte domande a cui rispondere e altre ancora da fare sull’amore romantico. La domanda che mi sto facendo proprio in questo momento, e ne parlerò solo per un istante, prima di concludere, è questa: perché ti innamori di una persona e non di un’altra? Mai avrei pensato di dovermelo chiedere, ma Match.com, il sito internet che combina appuntamenti, venne da me tre anni fa e mi fece quella domanda. Ed io dissi, non lo so. So cosa succede nel cervello quando ti innamori, ma non so il perché ti innamori di una persona piuttosto che di un’altra. E così, ho trascorso gli ultimi tre anni a studiare l’argomento E sono molte le ragioni per cui ci si innamora di una persona piuttosto che di un’altra; gli psicologi te lo possono dire. E quando tendiamo ad innamorarci di qualcuno del nostro stesso ambiente socioeconomico, dello stesso livello generale di intelligenza, dello stesso livello generale di bellezza, dagli stessi valori religiosi. La tua infanzia sicuramente ha un ruolo ma nessuno sa quale. Questo è tutto quello che sanno. No, loro non hanno mai scoperto il modo in cui due personalità interagiscano per creare una buona relazione.

Cosí, iniziò a venirmi in mente che forse la tua biologia ti porta verso alcune persone piuttosto che altre. E ho creato un questionario per vedere a che livello esprimi dopamina, serotonina, estrogeno e testosterone. Credo che ci siamo evoluti in quattro tipi di personalità molto chiari, legate alle quantità di queste quattro sostanze chimiche nel cervello. E in uno di questi siti di appuntamenti che ho creato, chiamato Chemistry.com ho formulato prima una serie di domande per vedere a che livello tu esprimi questi elementi chimici, e osservo come le persone si scelgono. In America 3,7 milioni di persone hanno compilato il questionario, circa 600.000 persone lo hanno fatto in 33 altri paesi. Sto mettendo insieme i dati ora. Ad un certo punto ci sará sempre la magia dell’amore, ma penso che arriverò più vicina a capire perché puoi entrare in una stanza trovare persone provenienti dal tuo stesso ambiente, con il tuo stesso livello generale di intelligenza, lo stesso livello generale di bellezza, e non sentirti attratto da tutti allo stesso modo. Penso che ci sia in gioco un fattore biologico. Penso che nei prossimi anni riusciremo a capire tutti i tipi di meccanismi del cervello che ci spingono verso una persona piuttosto che un’altra.

Vorrei concludere così: questi sono i miei genitori. Faulkner disse una volta, ” Il passato non è morto, non è ancora passato.” Infatti, noi ci portiamo molto bagaglio dal nostro passato nel cervello umano. E così c’è una cosa che mi continua a spingere verso la comprensione della natura umana, e questo me lo ricorda. Ecco due donne. Le donne tendono ad avere un senso di vicinanza diverso dagli uomini. Le donne creano tale senso parlando faccia a faccia. Noi ci giriamo una verso l’altra, ingaggiamo “lo sguardo fisso” e parliamo. Questo dà alle donne un senso di intimità. Penso che ciò venga da milioni di anni passati a tenere un bambino davanti al volto per persuaderlo, rimproverarlo, educarlo con le parole. Gli uomini tendono a creare intimità stando fianco a fianco. (Risate) Appena uno alza lo sguardo, l’altro guarda da un’altra parte. (Risate) Penso che venga da milioni di anni passati a stare dietro – a sedersi dietro i cespugli, guardare davanti, cercare di colpire quel bufalo sulla testa con una pietra. (Risate) Penso che per milioni di anni gli uomini abbiano affrontato i nemici seduti fianco a fianco con gli amici. Cosí la mia ultima dichiarazione è: l’amore è dentro di noi. E’ profondamente integrato nel cervello. La nostra sfida sta nel capirci l’un l’altro. Grazie. (Applausi)

 

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FONTE: 

I 5 motivi per cui leggerete questo post – Psicologia & Comunicazione

 

 

I 5 motivi per cui leggerete questo postCari internauti perdonatemi ma non ho potuto fare a meno di tentare di ingaggiarvi nella lettura di questo post attraverso un titolo di questo tipo. Quante altre volte del resto vi siete ritrovati a leggere articoli titolati in modo simile?!

Sia che si tratti di contenuti seri, semiseri o sfacciatamente goliardici, chi scrive sul web non sembra infatti poter fare a meno di ricorrere a titoli presentati sotto forma di lista. C’è chi addiritura fa dell’ironia a proposito, immaginando notizie della cronaca passata riscritte secondo lo stile attuale. Sulle pagine dei giornali di allora leggeremmo  titoli come “Le 9 atrocità naziste che ti faranno perdere ogni fiducia nell’umanità” o ancora “I 6 sopravvisuti al Titanic che avrebbero dovuto morire”.

Questa volta però sarà diverso perché il mio intento è proprio quello di spiegarvi come mai questa scelta stilistica è diventata una moda dilagante soprattutto nel panorama delle pubblicazioni web.

Ecco dunque le 5 ragioni scientifiche per cui siete stati catturati dal titolo di questo post.

1.La salienza grafica del numero.

Il nostro sistema visivo, bombardato da numerossisimi stimoli, si lascia catturare da quel qualcosa che presenta notevoli differenze rispetto a ciò che lo circonda.

Così, se mentre esploriamo una rivista cartacea alla ricerca di contenuti di nostro interesse, lo facciamo secondo ritmi dettati dallo sfogliare le pagine, la consultazione dei contenuti web risulta molto più frenetica e la nostra attenzione visiva si sofferma solo su ciò che ha la capacità di emergere dalla mischia. Se si tratta quindi di dover scegliere tra un articolo ed un altro, la presenza di grafemi numerici nel titolo di uno di essi può essere sufficiente a decretare il vincitore.

2. La capacità delle liste di semplificarci la vita.

Ce lo dice la neuroscienza, siamo più bravi a processare informazioni organizzate in elenchi piuttosto che distribuite in tradizionali paragrafi. Ciò consente non solo una più immediata comprensione dei contenuti, risparmiandoci buona parte della fatica mentale di concettualizzare e categorizzare, ma anche un loro più puntuale recupero dalla memoria in un secondo momento. Ciò che insomma un titolo in formato lista promette è un insieme di informazioni pronte ad un facile consumo.

Non è forse più comodo bersi una spremuta aprendo un tetrapack piuttosto che spremere mezzo chilo di arance per gustarne un misero bicchiere?!

3. La rassicurante consapevolezza di una fine.

Spesso ci si ritrova a consultare il web tra una cosa e l’altra, durante una pausa in ufficio, mentre si fa colazione o seduti sul water. Imbattersi nella lettura di articoli dall’imprecisata lunghezza non è la scelta più consona a tali circostanze. Un titolo che garantisce di soddisfare la nostra curiosità in pochi punti si adatta più facilmente a fugaci letture ma anche a tutte quelle situazioni in cui ci ritroviamo a dover interrompere la lettura per poi riprenderla in un secondo momento, se per esempio sentiamo incombere il capo dietro le spalle, se ci cade della marmellata sulla tastiera o se ci accorgiamo che la carta igienica è finita.

4. Questione di stile.

La ricerca ha dimostrato che i lettori prediligono titoli che si dimostrano sia capaci di anticipare le informazioni contenute nell’articolo, sia in grado di farlo attraverso una veste creativa. Un titolo originale e accattivante non ha semplicemente la capacità di suscitare curiosità e interesse ma invoglia alla lettura dell’intero articolo.

5. La naturale tendenza all’organizzazione spaziale.

Avete mai pensato come mai quando fate la lista della spesa non lo fate attraverso la tradizionale scrittura in riga ma preferite ricorrere ad elenchi? Organizzare l’informazione nello spazio è una strategia che consente alla nostra mente una più facile rievocazione dei contenuti. Semmai vi capitasse di dimenticare la lista a casa, l’aver organizzato le parole in un foglio offrirebbe un utile suggerimento per il recupero mnemonico.

Ricevere informazioni già organizzate in elenchi è in buona sostanza come farsi servire su un piatto d’argento.

L’esperienza positiva di lettura che ne deriva costituisce la premessa per indirizzare le nostre scelte future verso articoli dalle caratteristiche sopra citate, dando vita ad un circolo vizioso auto-rinforzante.

Dunque aspirante giornalista d’assalto o umile blogger della domenica sappilo: non importa saper scrivere bene se non sai titolarlo con astuzia!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Più forti delle avversità (2014). Recensione – Letteratura & Psicologia

 Recensione del libro:

Più forti delle avversità

di Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio

Bollati Boringhieri

(2013)

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Più forte delle avversità - Oliverio Ferraris-Oliverio. Più forti delle avversità: esperienze negative, ansiogene e, talvolta, addirittura traumatiche possono, purtroppo, colpire la nostra esistenza, stravolgerla e comportare una serie di cambiamenti di natura emotiva, economica o fisica.

La psicologia si è occupata di indagare le conseguenze derivanti da lutti, catastrofi naturali, difficoltà economiche e altre esperienze stressanti, ma ciò che è emerso da diversi studi condotti è che se alcune persone tendono a farsi travolgere dagli eventi senza avere la forza di reagire, altre sono capaci di trovare interiormente la forza d’animo per affrontare le problematiche e trovarne una soluzione. Dunque, un aspetto sul quale la recente psicologia clinica vuole porre l’attenzione riguarda la capacità che ognuno di noi ha di resistere agli eventi negativi e di superarli e tale concetto è riassunto nel termine “resilienza”.

Il saggio intitolato “Più forti delle avversità” scritto da Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio della casa editrice Bollati Boringhieri in uscita il prossimo 23 Gennaio, si propone di mettere in evidenza la complessità del concetto “resilienza” e la pluralità di contesti in cui essa può rivelarsi funzionale ed essenziale per la sopravvivenza e il superamento di eventi negativi: infatti, non solo il singolo individuo, ma anche le collettività, come la famiglia, la scuola e le organizzazioni lavorative possono risultare resilienti.

Secondo gli autori, per superare le difficoltà, diventa importante puntare su fattori protettivi e di compenso, che risultano diversi a seconda dei contesti e delle età: la rete sociale, il supporto della famiglia, il gioco, la ricerca di soluzioni innovative o un semplice cambio di prospettiva nell’interpretare gli eventi possono favorire l’accettazione delle avversità e il loro superamento.

Un aspetto rilevante di questo saggio è quello di aver messo in evidenza come per ciascuna delle fasi della propria esistenza, dall’infanzia alla terza età esistano delle difese o delle risorse che consentono di adattarsi agli eventi e di accettarli: ad esempio, durante l’infanzia sia il gioco che l’immaginazione possono consentire di sviluppare delle competenze sociali ed emotive, affrontare gli eventi, trovare soluzioni alternative, diventare più sicuri e fiduciosi; l’amico immaginario potrebbe aiutare i bambini ad affrontare le loro paure e a non sentirsi soli di fronte alle difficoltà.

Ma un fattore importantissimo che, secondo gli autori, favorisce la resilienza nei bambini è la relazione di attaccamento sicuro con la propria madre: poter contare su una “base sicura” consente di essere più ottimisti, fiduciosi, ci rassicura e ci incoraggia ad affrontare gli eventi negativi senza perdersi d’animo. Tuttavia, la figura materna non è la sola che può diventare un’ancora di salvezza e un punto di riferimento nei momenti difficili; anche altre figure significative per il bambino, quali i nonni, i fratelli o la tata possono fornire supporto e protezione, soprattutto nei casi in cui la mamma non è “sufficientemente buona”. Persino la scuola potrebbe costituire un contesto capace di fornire sicurezza, se l’insegnante non si propone esclusivamente di impartire delle nozioni, ma si presenta come guida e figura di riferimento. Ed infine la rete di sostegno, composta da amici, familiari, colleghi, ecc. potrebbe rivelarsi una risorsa per affrontare le difficoltà durante l’intero arco della propria esistenza.

E’ per questo motivo che, affinché un intervento psicologico sia efficace, secondo gli autori, sarebbe opportuno non agire soltanto sul singolo ma tener conto dei rapporti tra l’individuo, la famiglia e la rete sociale; bisognerebbe aiutare la persona a ritrovare la speranza, la sicurezza, anche grazie al supporto fornito dall’ambiente in cui vive.

Un concetto rilevante riportato in questo saggio è che anche durante la terza età si può essere resilienti e capaci di accettare i cambiamenti psicofisici che, inevitabilmente, si verificano durante la vecchiaia: tenere la mente e la memoria in allenamento, dedicarsi ad un hobby, intrattenere relazioni sociali sono considerati comportamenti resilienti.

Ed infine, possono anche le organizzazioni mettere in atto comportamenti resilienti? Secondo Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio sì: infatti, alcune di esse sono capaci di adattarsi ai cambiamenti economici, sociali e culturali della società in cui vivono e, per questo, applicano dei cambiamenti anche al proprio interno; altre, invece, soccombono, in quanto non si evolvono al passo con i tempi e restano ancorate a strategie tradizionali e, dunque, obsolete.

Il libro risulta di facile lettura, scritto con un linguaggio semplice seppur preciso e non mancano riferimenti degni di nota a testi e pellicole cinematografiche di spicco.

La lettura del saggio è consigliata a psicologi, psicoterapeuti, educatori, ma soprattutto a chiunque voglia comprendere come si possa essere più forti delle avversità, perché c’è sempre una speranza, un modo per ricominciare e forse la frase pronunciata da Don Abbondio ne “I promessi sposi”: “Il coraggio uno non se lo può dare!” non è poi così vera.

 

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Il potenziale dell’effetto placebo: nuovi orizzonti?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Placebo: sappiamo da tempo che l’efficacia di un farmaco dipende, almeno per metà, dalle aspettative del paziente sulla sua efficacia: nel bel mezzo di un attacco di emicrania, infatti, ha lo stesso effetto sul dolore prendere un farmaco con l’idea che sia placebo che prendere placebo con l’idea che sia un farmaco.

Secondo un recente studio non c’è nessuna differenza tra prendere una pillola e prendere un placebo indorato dalle parole giuste: le parole, secondo i risultato di questo studio, possono addirittura raddoppiare l’effetto di un farmaco. Ciò che un medico dice su un farmaco sembra cioè avere a che fare con la sua efficacia nel ridurre i sintomi. E se funziona nel trattamento dell’emicrania potrebbe funzionare per una vasta gamma di altri disturbi che coinvolgono l’esperienza soggettiva dei sintomi, dall’asma, al mal di schiena, ai crampi intestinali.

Lo studio ha dimostrato che il placebo rivaleggia con l’effetto del farmaco in pazienti con asma; anche anche quando i pazienti sapevano che stavano prendendo un placebo, hanno ottenuto sollievo da crampi, gonfiore e diarrea tipica della sindrome dell’intestino irritabile; inoltre suggerimenti subliminali possono attivare la risposta dei pazienti al placebo.

La ricerca è stata condotta all’interno del Program in Placebo Studies e del Therapeutic Encounter at Beth Israel Deaconess Medical Centerad in collaborazione con altri ospedali di Boston.

Il team ha deciso di utilizzare l’emicrania per separare la componente placebo delle aspettative dei pazienti: hanno osservato gli effetti durante sette attacchi di emicrania successivi in 66 soggetti, per un totale complessivo di 495 attacchi.

I ricercatori hanno chiesto a tutti i loro pazienti di astenersi dal prendere qualsiasi farmaco per due ore dopo l’inizio del loro primo attacco di emicrania  Poi sono state date sei bustine, ognuna contenente una pillola, da prendere durante i successivi sei attacchi di emicrania.

Due delle buste erano etichettate Maxalt (un farmaco noto), due avevano l’etichetta che indicava che potevano essere entrambe farmaco o placebo e le ultime due erano etichettate come placebo. I soggetti hanno valutato la loro quantità di dolore due ore dopo l’assunzione di ogni pillola.

Quando i soggetti non hanno preso pillole hanno segnalato un aumento del 15 per cento nel dolore dell’emicrania dopo due ore .

Quando hanno preso un placebo, etichettato come tale, hanno riferito il 26% in meno di dolore; quando hanno preso il Maxalt, etichettato come tale, hanno riferito il 40% in meno di dolore; e quando hanno preso una pillola che avrebbe potuto essere un placebo o Maxalt, hanno segnalato una diminuzione del dolore del 40% .

Quando i soggetti hanno assunto Maxalt etichettato come placebo la diminuzione del dolore non era statisticamente differente rispetto a quando hanno preso un placebo etichettato come Maxalt.

Una cosa che colpisce nei risultati è il potere dell’incertezza: i pazienti avevano sollievo dal dolore anche quando non sapevano se stavano assumendo il farmaco o il placebo. 

Questi risultati mostrano come potenzialmente il placebo potrebbe essere utilizzato nei trattamenti quotidiani di una serie di disturbi.

LEGGI:

PLACEBO – EFFETTO PLACEBODOLORE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia dialettico comportamentale (DBT): Incontro di formazione – Report

Roberto Framba

 

DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY (DBT)

Incontro di Formazione alla Terapia Dialettico Compartamentale per pazienti Borderline

Vicenza – 17, 18, 19 gennaio 2014

 

Prof. Charles Swenson - DBT Workshop Vicenza 2014
Prof. Charles Swenson – DBT Workshop Vicenza 2014

Terapia dialettico comportamentale – DBT . La centralità del lavoro sui comportamenti autolesivi e suicidari è stata presentata da Swenson con l’immediatezza e la padronanza tipica dei terapeuti DBT che sanno alternare validazione e spinta al cambiamento con grande naturalezza.

Il 17, 18 e 19 gennaio 2014 alla Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza si è svolto il primo modulo di formazione per psicoterapeuti all’utilizzazione della Terapia Dialettico-Comportamentale (dialectical-behavior therapy, ovvero DBT) per il paziente Borderline guidata dal prof. Charles R. Swenson, Psichiatra e professore associato di Psichiatria presso l’Università del Massachusetts Medical School e responsabile del Dipartimento di Salute Mentale del Massachusetts centrale e occidentale. 

Prima di diventare un terapeuta DBT, Swenson ha svolto pratica psicanalitica al Cornell University Medical College di New York, dove per cinque anni ha diretto un programma di ricovero a lungo termine ad orientamento psicoanalitico per i pazienti con disturbi di personalità, tra cui il disturbo di personalità borderline.

Dal 1987 ha  intrapreso la formazione in DBT e in terapia cognitivo-comportamentale e ha sviluppato e diretto  programmi ospedalieri di trattamento diurno per i pazienti con disturbo borderline di personalità basato sulla DBT. Nel 1990 e nel 1993, è stato votato “Teacher of the Year” da parte dei residenti psichiatrici. Alla Cornell ha lavorato come formatore e consulente DBT negli Stati Uniti e in Europa, diventando uno degli esponenti di spicco accanto alla fondatrice Marsha Linehan.

Le tre giornate rappresentano il modulo introduttivo alla DBT. Swenson ha illustrato accuratamente le procedure di addestramento alle abilità di regolazione emotiva e gestione dei rapporti interpersonali (cosiddetto skills traning) dimostrando una smagliante competenza acquisita in decenni di esperienza sul campo e una grande passione e coinvolgimento nel rapporto con il paziente.

La centralità del lavoro sui comportamenti autolesivi e suicidari è stata presentata da Swenson con l’immediatezza e la padronanza tipica dei terapeuti DBT che sanno alternare validazione e spinta al cambiamento con grande naturalezza.

Colpisce la capacità di rimanere in contatto con i pazienti, contemporaneamente proponendosi come figura di attaccamento sicuro e muovendosi su un piano cooperativo che responsabilizza il paziente. È questa la dilettica di cui parla sempre Marsha Linehan. A questi interventi Swenson aggiunge il costante sforzo di sostenere le risorse e di valorizzare i progressi anche minimi che compie il paziente borderline.

Swenson ha anche annunciato una novità: l’imminente revisione del manuale della DBT, che sarà pubblicata alla fine del 2014. Il nuovo manuale introdurrà una maggiore attenzione per le teorie dell’attaccamento e per il trattamento degli aspetti dissociativi. Se le attese saranno soddisfatte, questa nuova versione colmerà alcuni degli aspetti a cui la DBT è stata meno attenta.

L’evento è stato organizzato dall’Associazione NEABPD ITALY in collaborazione con altri enti formativi, le cui fondatrici sono Paola Bertulli, Elena Prunetti, Maria Elena Ridolfi e Roberta Rossi. Questa associazione sta promuovendo una formazione DBT offerta ai singoli terapeuti e non vincolata alla partecipazione a una équipe DBT.

 

SULLO STESSO EVENTO, LEGGI ANCHE IL REPORTAGE:

Dialectical Behavioral therapy (DBT): Skills Training – Report

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY – DBT

 

AUTORE: 

Roberto Framba. Psicologo e Psicoterapeuta. Didatta presso Studi Cognitivi Milano e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano-  VEDI PROFILO

Coglioneno! O almeno si spera – Collettivo Zero – Psicologia e lavoro

 

Coglioneno - Immagine: © Collettivo Zero

E parliamo anche noi come forse già troppi altri siti della campagna #coglioneno sviluppata dal collettivo Zero per combattere lo sfruttamento dei creativi. Pagheresti il tuo idraulico con un po’ di “like” su Facebook?

E anche noi –come gli altri siti- un po’ appoggiamo la campagna, un po’ la critichiamo. Si vede che è il destino dei creativi ricevere uno scappellotto insieme alla pacca sulla spalla. Il dubbio è che i creativi non facciano una trattativa dura prima di fornire il lavoro. Almeno questo è quel che emerge dai video. Sicuramente i datori di lavoro sono predatori e scorretti, almeno per come li presenta il video. Una versione urbana e civile (non sempre) del disturbo di personalità antisociale, descritto da Madeddu e Dazzi (2009). Ma proprio per questo occorre chiarire i termini del rapporto economico prima, e non dopo, aver eseguito il lavoro. 

Il video presenta i creativi come dei ragazzi un po’ tristi, per non dire depressi. Propensi a una rassegnata accettazione dei loro stipendi fatti di niente e di aerea visibilità. C’è un legame tra depressione e debolezza economica? Secondo Barbanti, primario del Centro delle Cefalee e del dolore dell’IRCCS San Raffaele Pisana, la crisi può determinare perfino un raddoppio dell’incidenza della depressione.

Per Barbanti, la mancanza di lavoro genera almeno 3 effetti drammatici: la debolezza del ruolo sociale (non servo a niente); la perdita dei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro (spesso i nostri amici sono i nostri colleghi); e la difficoltà di incanalare la nostra capacità creativa (per chi ha la fortuna di svolgere lavori in cui ci si identifichi in pieno).

Tuttavia questa tristezza non è di aiuto per gestire con forza i rapporti di lavoro, e le trattative sull’onorario. Occorre reagire. Mi viene in mente: e noi psicoterapeuti non rischiamo di deprimerci a nostra volta? In fondo anche il nostro mestiere è da creativi. Per evitare di diventare coglioni, oltre che creativi, una chiara e dura trattativa sul pagamento va intavolata subito. Il pagamento è parte del contratto terapeutico, dei limiti che occorre trasmettere a pazienti certamente sofferenti e maltrattati, ma talvolta anche propensi a maltrattare. Mi chiedo se l’insistenza su accoglimento e accettazione non possa generare effetti imprevisti: un incremento della coglioneria dei terapeuti, ad esempio.

Mi è capitato proprio alcuni giorni fa di supervisionare un giovane collega ancora non pagato da un paziente giunto alla 12a seduta. La supervisione è stata facile: accettazione si, coglione no! Questa gavetta sottopagata genera effetti paradossali, in cui accanto alla povertà di chi è sfruttato c’è anche l’ironico privilegio di chi è in grado economicamente di farsi sfruttare, di accettare –per ricchezza di famiglia- la lunga attesa che attende chi vuole tentare di inserirsi nel mercato del lavoro creativo.

Su Wired qualcuno si è chiesto se questi non siano i danni del famigerato discorso di Jobs a Stanford, il discorso dei sogni, del siate affamati e pazzi.

Col senno di poi di un creativo del collettivo Zero, quell’affamati suona sinistro. E anche quel pazzi. È arrivato il momento di aggiungere anche un bel: siate cattivi! Almeno durante le trattative.

 

 

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Neuroestetica

 

 

 

 Neuroestetica

 

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Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataNell’estetica tradizionale si fa sempre riferimento al processo affettivo e psicologico che scaturisce nell’incontro con l’oggetto, la neuroestetica invece riconosce che nella percezione intervengono processi meccanici di memorizzazione che sono uguali per tutti e probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro cervello.

La neuroestetica è una nuova disciplina che prende le mosse dall’estetica tradizionale ma che nasce dalla sinergia tra le discipline artistiche e le neuroscienze.

Nel 1994 sul numero 117 della rivista di neurologia Brain un artista, Mathew Lamb, ed un professore di neurobiologia, Semir Zeki, firmavano insieme l’articolo The Neurology of Kinetic Art: per la prima volta l’arte veniva criticata da un punto di vista scientifico e si sanciva la nascita di una nuova disciplina, interessata fondamentalmente allo studio dell’organizzazione del cervello visivo, in cui l’artista era elogiato come inconsapevole “neurologo” per via della stimolazione del cervello visivo istigata dalle proprie opere: la neuroestetica.

Semir Zeki, professore di neurobiologia alla University College di Londra, ha condotto la maggiorparte delle sue ricerche sul mondo delle immagini, convinto che anche attraverso l’opera d’arte si possa indagare il meccanismo di percezione e cognizione dell’uomo, e le ha raccolte nel 1999 nel testo La visione dall’interno, incoraggiando i neurobiologi ad accostarsi all’arte per poter conoscere il funzionamento del cervello. Per tale motivo è considerato il padre fondatore della disciplina.

Contemporaneamente lo scienziato di fama Changeux ha pubblicato Ragione e piacere. Dalla scienza all’arte e Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini Arte e cervello: sono stati tutti questi i primi passi mossi verso quello che si può definire un “Secondo Rinascimento” o un “nuovo umanesimo” basato sul prefisso “neuro”.

Dalla ricerca scientifica e dalla diagnosi patologica si sono sviluppate le prime indagini neuroestetiche che hanno assunto l’opera d’arte come una sorta di test fisiologico e comportamentale da sottoporre al paziente-osservatore col fine di comprendere quali sono i meccanismi biologici che sono alla base delle emozioni e dell’apprezzamento estetico.

Prendendo come oggetto un’opera d’arte, la neuroestetica propone l’indagine dei meccanismi percettivi alla base della visione e dimostra il modo in cui l’oggetto stimoli il cervello visivo.

Cosa succede a livello cerebrale quando osserviamo un dipinto di Veermer, la Gioconda, un opera astratta di Kandinsky? Oppure ancora, come è possibile che abbiano creato delle opere che provocano una reazione a più livelli in noi?

Il motto zekiano è “le arti visive devono obbedire alle leggi del cervello visivo, sia nella fruizione sia nella creazione; le arti visive sono un’estensione del cervello visivo che ha la funzione di acquisire nuove conoscenze; gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari”.

Le scoperte sulla funzione visiva del cervello, soprattutto quella della specializzazione funzionale dei centri della corteccia visiva, hanno influito sull’idea di Zeki che anche gli artisti abbiano sfruttato questa specializzazione corticale dando risalto chi alla forma, chi al colore, chi al movimento. La neuroestetica esamina perciò le relazioni fra le aree specializzate della corteccia visiva e la percezione di forme, colori e movimenti, sviluppando le intuizioni della Gestalt.

L’idea è che l’arte sia un’estensione del cervello visivo per via dell’assimilabilità delle loro funzioni: “rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti e situazioni e così via”, ossia eseguire un processo di astrazione e generalizzazione. Esistono delle forme universali?

Artisti e neurologi si pongono interrogativi simili in quanto strettissima è l’analogia tra il mondo dell’arte contemporanea e la fisiologia delle cellule cerebrali riguardo la visione.

L’attenzione di questi artisti per le geometrie e le forme astratte va al di là delle loro conoscenze matematiche e si può assimilare agli esperimenti per ridurre l’insieme delle forme all’essenziale per cercare l’essenza di una forma cosi come è rappresentata nel cervello a seconda della propria percezione visiva. 

L’arte è, infatti, una ricerca di costanti attraverso le forme singole: dal particolare verso l’universale.

L’idea deriva dal concetto e cioè da una registrazione nel cervello delle immagini mnemoniche selezionate. Il dipinto di un oggetto quindi rappresenta tutte le caratteristiche comuni a quell’oggetto e ne costituisce la realtà perché si pone come universale sopra ogni particolare. Gli artisti pertanto sono sempre impegnati nella ricerca dell’essenziale, della essenza di una forma, la cosiddetta “costanza di forma”.

Le ricerche di neuroestetica hanno inoltre identificato l’origine di alcune percezioni elementari comuni, a prescindere dalla propria esperienza: molte aree della corteccia visiva si attivano infatti in modo identico in tutti gli uomini quando sono posti di fronte allo stesso oggetto. Lo stesso scopo dell’arte non è rappresentazione descrittiva bensì ricerca di emozione tramite l’essenzialità dell’oggetto raffigurato. “Proprio come l’arte, il cervello crea ciò che è costante ed essenziale”.

Allora conoscere i meccanismi che permettono di apprezzare l’arte, studiare la natura dell’esperienza estetica può aiutare a conoscere i meccanismi della percezione e le strategie che il cervello usa nell’affrontare gli stimoli esterni.

Quindi, come fa il cervello, l’artista seleziona gli attributi essenziali della realtà e li conferisce alla sua opera.

Nell’estetica tradizionale si fa sempre riferimento al processo affettivo e psicologico che scaturisce nell’incontro con l’oggetto, la neuroestetica invece riconosce che nella percezione intervengono processi meccanici di memorizzazione che sono uguali per tutti e probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro cervello.

L’opera d’arte nel momento in cui viene contemplata, viene percepita, riconosciuta e analizzato prima di tutto nelle sue caratteristiche strutturali e poi scaturisce la risposta emotiva.

Ecco che psicologi e neurobiologi parlano comunemente di “costanza” in relazione alla visione dei colori, delle forme e delle linee e il professor Zeki ha definito la sua legge di costanza: “… quello che ci interessa sono gli aspetti essenziali e persistenti degli oggetti e delle situazioni, ma l’informazione che ci giunge non è mai costante. Il cervello deve quindi avere qualche meccanismo per scartare i continui mutamenti ed estrarre dalle informazioni che ci raggiungono soltanto ciò che è necessario per ottenere conoscenza delle proprietà durevoli delle superfici”. Connessa a questo principio è anche una legge di astrazione, il processo con cui il cervello predilige il generale al particolare e conduce alla realizzazione dei concetti da manifestare nell’opera d’arte.

Tuttavia, non essendo uno storico dell’arte, Zeki ha ammesso di aver trasformato l’estetica in “estetica neuronale” elogiando ossia una competenza artistica di base che è a priori nel cervello dell’uomo e riducendo talvolta l’espressione artistica a mero processo percettivo-cerebrale.

La neuroestetica desta per questo motivo acluni dubbi e scetticismo, tanto che c’è chi parla di sconfinamento verso una “neuromania” che banalizza l’importanza della personalità artistica, il cosiddetto “neuroessenzialismo” la tendenza a ridurre l’uomo alla sua materia grigia e quindi l’arte ad elaborazione visiva.

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