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Verso la neuroestetica: le premesse filosofico-psicologiche

Neuroestetica: I segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni, per vedere gli oggetti è necessario che sia l’intelletto a formulare congetture.

Di Barbara Missana

Pubblicato il 29 Gen. 2014

Aggiornato il 10 Feb. 2014 17:03

Barbara Missana.

 

 

Verso la neuroestetica- le premesse filosofico-psicologiche. -Immagine:© shotsstudio - Fotolia.com

Neuroestetica –  “I segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

DEFINIZIONE DI NEUROESTETICA SU PSICOPEDIA

Sin dal passato l’uomo ha tentato di afferrare l’intima essenza di un’esperienza estetica ricercando una definizione il più possibile oggettiva di “opera d’arte” e del concetto di bellezza. Platone esaltava la bellezza e condannava l’arte in quanto copia del mondo sensibile, a sua volta copia dell’Iperuranio e quindi allontanatrice della verità. Il corpo è sede di piacere e bellezza ineffabili superabili salendo le scale di Eros e giungendo per gradini all’amore vero per la giustizia, le leggi, la conoscenza, all’intellezione della bellezza in se stessa.

Tuttavia l’affermazione di un gradino percettivo e corporeo nella conoscenza e formazione del fatto artistico sfiorava già l’intuizione di una mediazione fisica e biologica dell’intelletto umano. Kant ed Hegel invece avevano esaltato il compito dell’arte dando nella loro dottrina una maggiore importanza a quanto compie il cervello: per entrambi l’arte è capace di rappresentare la realtà meglio delle sensazioni effimere e particolari soggette a continui mutamenti. Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti.

In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; cosi l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente.

Arthur Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione del 1819 esaltava il primato dell’immaginazione sulla conoscenza promuovendo la sua idea di un mondo visivo complesso ed elaborato dal cervello: a suo dire la pittura deve sforzarsi di ottenere la conoscenza di un oggetto non come cosa particolare ma come forma permanente di quella sfera di affetti.

Tuttavia, queste importanti figure del pensiero occidentale non hanno mai avuto l’opportunità di vedere direttamente cosa avviene nel nostro cervello, per esempio, quando siamo di fronte ad un’opera d’arte. Oggi invece lo sviluppo delle tecniche di brain imaging, come la PET, la SPECT e la risonanza magnetica funzionale, hanno infatti consentito la rilevazione in vivo della funzioni cerebrali permettendo l’identificazione in parte anche di quei circuiti coinvolti a livello neurale nell’apprezzamento estetico.

E tali circuiti sono costanti e invarianti da uomo a uomo: quando il cervello giudica un’opera bella, si attivano le stesse aree ben identificabili in base all’apporto maggiorato di ossigeno e glucosio e di conseguenza i parametri per la valutazione di un’opera sono da ricercare nell’attività del nostro cervello piuttosto che nelle parole e definizioni.

In realtà già i primi testi sulla ricerca estetica erano ricchi di spunti a riguardo questa compenetrazione tra arte-cervello: Jean Baptiste Dubos nel 1719 nelle sue Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura affermava che “le caratteristiche della nostra mente e le nostre inclinazioni dipendono molto dalla qualità del nostro sangue”, a loro volta dipendenti dal contesto ambientale in cui l’uomo vive; oppure ancora Burke parlava dell’organo vista nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime del 1759 sostenendo che tra le cause del bello e del sublime vi fosse la successione di elementi tra loro uguali per taglio, colore e dimensione come in una teoria di colonne uniformi, che inviano impulsi all’occhio.

Sicuramente le prime ricerche che hanno costituito una base solida ai fini dell’approccio neuroestetico sono state quelle della psicologia sperimentale. Primo fra tutti a porre una traccia per lo studio dell’artista e della sua personalità è stato Freud e con la sua psicoanalisi dell’arte.

La psicoanalisi infatti, seppur nata come trattamento per i disturbi della personalità tramite la pratica medico-psichiatrica e neurologica, ha avviato lo studio della psicoanalisi dell’arte – avendo perfino ripercussioni su correnti quali il surrealismo.

Freud con il suo saggio su Leonardo da Vinci del 1910 si è occupato di arte utilizzando gli stessi strumenti della sua pratica clinica e quindi lapsus, sogni, libere associazioni, per indagare in profondità la personalità artistica di Leonardo. Freud è stato il primo che dalla patologia è passato ad occuparsi di una psicologia della creatività.

Secondo la sua tesi, senza che io entri troppo nello specifico, il dipinto di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino avrebbe a che fare con la storia infantile dell’autore, il quale ebbe appunto due madri e una nonna: l’interpretazione è che gli eventi della vita che segnano un uomo traspaiono nelle sue creazioni. Freud per primo punta l’attenzione non sulle caratteristiche formali, ma sul contenuto psicologico dell’opera, convinto che l’arte serva a liberare l’uomo dalle tensioni del suo inconscio.

Gli psicologi della Gestalt invece hanno puntato la loro analisi non sul contenuto ma sulla percezione indagando le qualità formali delle immagini.

Fondata negli anni Venti da un gruppo di scienziati tedeschi capeggiato da Rudolph Arnheim, questa “psicologia della forma” si è occupata proprio della composizione analitica dell’attività di percezione visiva convinti del ruolo fondamentale della intuizione. Chiarificante è il famoso esperimento dello scimpanzé Sultan che per prendere una banana posta troppo in alto utilizzò una serie di bastoncini molto corti che gli erano stati mostrati congiungendoli per recuperarla in seguito alla sua improvvisa intuizione. Le percezioni visive per i gestaltisti derivano da stimoli organizzati secondo delle leggi derivate da un resoconto soggettivo sul modo in cui una certa disposizione di punti crea una forma.

Queste leggi dell’organizzazione visiva della Gestalt – tra cui cito la “chiusura”, quella tendenza a vedere un’unica forma definita  in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva.

I gestaltisti hanno quindi capito che un mosaico di stimoli esterni stimolano la retina creando però una percezione visiva che è netta, definita e questo fatto è frutto di una serie di regole; c’è quindi dietro all’organo occhio una ferrea organizzazione comune che trasforma immagini dai bordi indefiniti in oggetti concreti e chiaramente definibili.

Questa tendenza del nostro sistema visivo- percettivo a raggruppare singoli e frammentari stimoli luminosi in unità fu studiata prendendo in considerazione degli elementi puntiformi e conducendo una serie di esperimenti che consentirono la codifica di tali regole biologiche – tra l’altro tali intuizioni sono state fruttuose per la creazione dei moderni calcolatori artificiali.

Il processo di “raggruppamento dinamico”, per usare un termine coniato da Richard Gregory, è evidente se prendo una matrice puntiforme.

Sam Tasty’s art
Sam Tasty’s art

Gli occhi percepiscono i punti ma sin da subito tendono a collegarli in linee e colonne a organizzarli, a ordinarli secondo un nesso logico, a raggrupparli aumentandone la complessità dell’immagine e della forma.

E questo perché nel processo percettivo interviene la logica e cioè il cervello che continuamente organizza i dati registrati dall’occhio. Questo è quanto accade anche con i disegni dei cartoni animati un insieme spezzettato di linee e colori che col loro movimento porta la memoria cerebrale all’identificazione di precise forme.

Questa capacità del nostro sistema occhio-cervello ha di certo una sua funzione: è chiaro che laddove i fasci di luce che si imprimono sulla retina sono inadeguati a ottenere una netta e precisa visione, interviene la elaborazione della corteccia che tramuta quelle illusioni in forme concrete. Per la Gestalt quindi le percezioni sono delle azioni attive che avvengono a livello cerebrale, contrastando con quanti credevano nella loro passività, nel loro ruolo di registrazione realistica.

La percezione è quindi un processo attivo e intellettivo, basato su dati sensibili non completamente soddisfacenti la visione: secondo la tesi di Herman von Helmholtz, fisiologo e psicologo, “i segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

È proprio questo il trampolino di lancio per gli studi della neuroestetica, la scoperta del presupposto che è l’intelligenza attiva nel cervello a costruire il mondo.

In Arte e Percezione Visiva del 1954 Rudolph Arnheim distingue poi una “buona forma” intendendo per essa quella più regolare, ordinata, equilibrata, armonica che il campo percettivo preferisce interpretare.

Il nostro occhio, seppur percepisca una miriade di informazioni, sceglie sempre quella più semplice figuralmente economizzando gli sforzi interpretativi.

Secondo poi la teoria della espressione, la percezione non è appresa e né è soggetta a modificazioni, bensì sono gli oggetti che tramite le loro caratteristiche formali trasmettono un corrispettivo psicologico.

L’esempio migliore è quello del salice piangente che ricorda una persona triste perché la sua forma impone un tipo di configurazione simile a quella della tristezza nell’uomo.

L’espressione è cioè basata sull’isomorfismo: la percezione di una forma trova corrispondenze nei processi del cervello; c’è una relazione tra forma e attivazione di aree cerebrali.

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l primo filone di ricerca estetica che ha però utilizzato come strumenti quelli tipici delle discipline scientifiche è stato l’estetica sperimentale, sempre nell’ottica di stabilire quali forme esteriori fossero le più accreditate dal cervello dell’uomo.

Secondo Gustav Fechner, il padre di questo tipo di studi, le proprietà fisiche dell’oggetto ossia le proporzioni, la forma etc. determinano la reazione di preferenza nell’uomo. L’esempio più noto è quello sui rettangoli in cui la preferenza della maggior parte degli uomini ricadde su quello avente una proporzione aurea e quindi sul “più proporzionato”.

Secondo lo psicologo Daniel Berlyne ci sono alcune proprietà in particolare che stimolano la preferenza e tra queste di sicuro vi sono la novità, la incertezza, la ambiguità e la complessità che aumentano l’attivazione del cervello eccitandolo, risvegliandolo, motivandolo, da cui scaturirebbe il piacere estetico.

Ogni immagine che giunge alla retina è infatti ambigua e incerta, ossia potrebbe rappresentare e significare una miriade di possibili forme, eppure noi siamo in grado di vedere in essa un sola configurazione che potrebbe anche non corrispondere alla realtà. Questo è certamente uno dei grandi misteri ancora della mente umana e infatti le cosiddette “figure ambigue” oggi mettono proprio in luce il dinamismo della percezione svelando come anche essa non sia mai netta.

Il più noto è certamente l’esperimento del cubo del cristallografo Albert Necker del 1832 che non consente di capire né il verso, né la direzione, né la proiezione della figura lasciando alla libera interpretazione capire quale delle due facce sia quella frontale e quale quella posteriore.

Il nostro cervello nel momento in cui osserva tale figura è indeciso e prende in considerazione tutte le possibili interpretazioni che sono tuttavia equamente possibili.

 

Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni
Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni

Questo ci dimostra che le percezioni sono mutevoli anche quando gli stimoli visivi non lo sono e che il processo percettivo è un processo creativo e intelligente.

Un intero movimento artistico, quello della Op Art, si è sviluppato servendosi di questa ambiguità di fondo: i suoi esponenti hanno creato immagini complesse che proprio sfruttano le incertezze nella decodificazione cerebrale della visione di modo che le loro figure appaiano dinamiche; basti osservare Fall di Bridget Riley, un dipinto del 1963 oggi conservato nella Tate Gallery di Londra, influenzato dai dipinti monocromatici e lineari di Victor Vasarely, che proprio sfida la mente del fruitore illudendolo.

 

Fall, Bridget Riley 1963, Tare Gallery, London
Fall, Bridget Riley 1963, Tate Gallery, London

Questo sta a significare che la percezione è un’ipotesi, un passaggio da generale al particolare senza che noi abbiamo alcuna conferma sensoriale: la nostra supposizione si basa essenzialmente sulla intuizione, sulla nostra esperienza visiva passata che deriva dalle impressioni che il nostro cervello ha per istinto memorizzato.

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Dottore in Storia dell'Arte

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