La Mindfulness è associata ad una aumentata attività del Sistema Nervoso Parasimpatico, che determina la percezione diffusa di una sensazione di quiete, e ad un rallentamento dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico, che comporta un’attivazione particolarmente intensa nelle condizioni stressanti (Siegel, 2009).
Essere consapevoli significa essere liberi. Liberi, per merito della conoscenza, di scegliere, di cambiare rotta.
La pratica di consapevolezza Mindfulness propone una prospettiva di vita sintonizzata.
Riguarda il risvegliarsi da un’esperienza vissuta con il pilota automatico per poi riacquisire il controllo, essendo consapevoli degli aspetti della propria mente. Il contrario di vivere “mindless”.
Mindfulness e sistema nervoso
Per indagare in merito alle motivazioni per le quali fare esperienza di Mindfulness agisca operosamente sul sistema cerebrale, è opportuna una premessa, seppur generale, sul funzionamento di quest’ultimo.
L’encefalo, che costituisce una parte fondamentale del sistema nervoso centrale, è il centro di elaborazione, integrazione e controllo delle funzioni cognitive, dei sistemi sensoriali e delle funzioni motorie (Pinel & Barnes, 2018).
Il sistema nervoso centrale comincia il suo sviluppo nella fase embrionale. Il cervello umano è la parte superiore di un sistema nervoso che si estende in tutto il corpo. Nella sua repentina evoluzione, stabilendo l’architettura di base, avvicinandosi al momento in cui il feto lascerà l’utero, i neuroni e le loro connessioni sinaptiche cominciano ad essere influenzate dall’esperienza, oltre che dal corredo genetico. Questa crescita produce cambiamenti nella connettività dei neuroni e viene definita “neuroplasticità” (Segal et al, 2006).
In relazione alla Mindfulness, Sara Lazar, Neuroscienziata Dottoressa dell’Università di Harvard, ha pubblicato differenti lavori (Lazar et al., 2005) per mezzo dei quali ha constatato delle modificazioni e una crescita significativa del tessuto neurale favorita dalle pratiche di consapevolezza. Essendo il risultato dell’esperienza, la neuroplasticità diventa la determinante di un aumento dell’attività sinaptica.
Quando ci impegniamo a focalizzare la nostra attenzione con esercizi strutturati attiviamo i circuiti cerebrali e questa conseguenza influisce sul rafforzamento delle connessioni sinaptiche relative alle aree coinvolte. A favore di questa tesi sono stati registrati dei cambiamenti funzionali a livello della corteccia anteriore sinistra che lasciano intendere come la pratica della mindfulness aiuterebbe gli individui a regolare le proprie emozioni, e ancora, cambiamenti nell’emisfero sinistro correlati al sistema immunitario, a dimostrazione che non solo la pratica può aiutarci a sentirci meglio con noi stessi in rapporto con i nostri pensieri, ma a migliorare notevolmente la nostra salute fisica (Lutz et al., 2008).
Aree cerebrali influenzate dalla pratica
Scendendo nel dettaglio di alcune aree cerebrali interessate dalla pratica di Mindfulness troviamo la Corteccia Pre-Frontale (CPF), interessata da un aumento delle dimensioni, con effetti riscontrati di maggior capacità del pensiero riflessivo. Essa agisce sull’amigdala, comportando una riduzione della reattività impulsiva incontrollata; sul lobo dell’Insula, incrementando la meta-cognizione, ossia la capacità di riconoscere pensieri ed emozioni; sull’ippocampo, con sensibili cambiamenti sulla flessibilità di pensiero e sulla memoria; sulla corteccia cingolata anteriore, aumentandone le dimensioni e permettendo di sviluppare una maggiore autoregolazione attentiva e focalizzazione, e sulla giunzione tempero-parietale, aumentando anche di essa le dimensioni e sensibilizzando la percezione del sé corporeo. Inoltre la Mindfulness è anche associata ad una aumentata attività del Sistema Nervoso Parasimpatico, che determina la percezione diffusa di una sensazione di quiete, e ad un rallentamento dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico, che comporta un’attivazione particolarmente intensa nelle condizioni stressanti (Siegel, 2009).
Disturbi d’ansia e patogenesi
Nonostante i disturbi d’ansia siano differenti e specifici ciascuno nel proprio genere, la difficoltà comune che si presenta in questi quadri patologici è l’insorgere dell’ansia (Lingiardi & Gazzillo, 2014).
Un’ansia che non si manifesta nella forma di funzionale reazione dell’organismo ad uno stato di allerta, ma in percezioni alterate del pericolo caratterizzate da meccanismi che includono l’attenzione selettiva, le rimuginazioni, la catastrofizzazione, l’ansia anticipatoria e l’evitamento.
L’attenzione selettiva si esprime nella tendenza del soggetto a ricercare solo quei segnali che possano confermare il suo sintomo, invece di focalizzarsi su tutto ciò che potrebbe smentirlo.
Le rimuginazioni sono la tendenza ricorrente di preoccuparsi di ciò che avverrà in futuro, soffermarsi su pensieri fumosi riconoscendoli come necessità da risolvere invece di riuscire ad affrontare le situazioni concrete vissute nella vita quotidiana.
Parlando di catastrofizzazione, invece, ci riferiamo all’inclinazione ad aspettarsi sempre il peggio, anche quando non ci sono previsioni realistiche che inducono ad aspettarsi sviluppi tragici. L’ansia anticipatoria è quella condizione che insorge quando l’individuo ritiene a priori che si troverà in pericolo in una determinata situazione e quindi entra in uno stato ansiogeno prima del tempo. Infine, l’evitamento è quel meccanismo di difesa tipico del disturbo da attacchi di panico: quando il soggetto è talmente soggiogato dall’ansia e dalla frustrazione a tal punto che si ritrova ad adottare condotte di evitamento che possono condurre alla decisione drastica dell’isolamento e la reclusione nell’ambiente casalingo (Chiesa, 2011). In seguito a ciò che abbiamo appena chiarito non è difficile immaginare come gli interventi basati sulla mindfulness potrebbero portare benefici a chi soffre di disturbi d’ansia. Mediante lo sviluppo di una nuova consapevolezza nell’identificare ciò che caratterizza il quadro ansioso, senza evitare nè reprimere nulla, ma accogliendo per poi poter interagire in modo funzionale (ibidem). Il risultato non sarà quello di far sparire magicamente ansia o pensieri nocivi, l’attività mentale procederà seguendo il proprio corso naturale; a cambiare sarà il modo di entrare in relazione con essa (Nairn, 2002).
Per comprendere meglio gli effetti e le connessioni tra mindfulness e cura ci viene in aiuto la singolare esperienza di un monaco tibetano di nome Yongey Mingyur Rinpoche.
La storia di Yongey Mingyur Rinpoche
Yongey Mingyur Rinpoche nacque nel 1975 in un piccolo villaggio al confine tra il Nepal e il Tibet. Figlio minore del rinomato maestro Tulku Urgyen Rinpoche, insieme ai suoi fratelli viene avviato in giovane età allo studio della meditazione. Il monaco viveva alle pendici del monte Manaslu e soffriva di terribili attacchi di panico.
In un’intervista rilasciata nella docuserie “La mente in poche parole” disponibile sulla piattaforma Netflix, racconta la sua esperienza di vita. Mingyur soffriva fortemente condizioni naturali tipiche del suo paese quali tempeste di neve, tuoni, e anche condizioni più quotidiane come stare in compagnia di altre persone.
Nell’intervista, egli racconta che un giorno il padre, riconoscendo il suo stato di sofferenza, gli propose di meditare insieme; lì si accostò alla sua prima pratica concentrandosi sul respiro, comune esercizio di consapevolezza. Divenne subito un prodigio della meditazione consapevole: imparò a dominare i suoi attacchi di panico rivoluzionando il suo approccio ad essi. Il monaco afferma che inizialmente, all’insorgere di un attacco sperimentava un forte senso di avversione, che non faceva altro che incrementare la paura e l’immobilità. Con la pratica invece cominciò ad accettare quelle sensazioni, accogliendo il panico ogni volta che si presentava, rivoluzionando il suo approccio.
Questo cambiamento nell’affrontare queste manifestazioni portò la mente di Mingyur a vivere i momenti di terrore come parte integrante del suo essere, privandoli sempre più del proprio potere. Durante il dialogo il monaco condivide con l’intervistatore una metafora che spiega chiaramente cosa si intende per mente mindful. Propone l’esempio di un racconto del Buddha storico, dell’incontro tra una volpe e una tartaruga che si ritrovano nella medesima foresta. Trovandosi l’una di fronte all’altra, la volpe cerca di aggredire la seconda, ma la tartaruga si rintana nel guscio. Dopo numerosi tentativi di attaccare la volpe, stanca di girare intorno, abbandona la preda e se ne va. Mingyur afferma che dobbiamo agire attraverso la nostra mente come fossimo una tartaruga, quando incontriamo una volpe nel nostro percorso, come stress, ansia, depressione, panico. Questo non vuol dire fuggire dalle difficoltà, ma fermarsi ad osservare senza lasciarsi travolgere, familiarizzare con i propri stati emotivi in modo da agire poi con consapevolezza.
Ad undici anni, si trasferisce allo Sherab Ling, sede di Tai Situ Rinpoche, dove, due anni dopo, inizia il tradizionale ritiro di tre anni. Viene nominato maestro dei ritiri, e tre anni dopo si trova a ricoprire la carica di abate. Nel 2007 porta a termine la costruzione del monastero Tergar a Bodh Gaya, un centro di studi buddhisti internazionale aperto sia ai monaci sia ai laici.
Nel 2011 Mingyur Rinpoche lascia il monastero nel cuore della notte e senza portare nulla con sé, per passare quattro anni successivi come monaco errante sulle pendici dell’Himalaya. Incuriositi dall’esistenza di questo singolare monaco, alcuni scienziati lo invitarono in Wisconsin per studiarne l’attività cerebrale. Grazie all’utilizzo delle tecniche di neuroimaging scoprirono che a quarantuno anni dimostrava il cervello di una persona di trentuno. Effettuarono inoltre una risonanza mentre meditava coltivando il senso di compassione e osservarono l’attività dei suoi circuiti empatici aumentare dal 7% all’800%. Questa scoperta si annovera tra le più rilevanti che spinsero la comunità scientifica ad interessarsi con maggiore dedizione alla Mindfulness e alle pratiche meditative.