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Pensiero negativo ripetitivo

Rimuginio (Worry) e Ruminazione (Rumination) sono due processi cognitivi caratterizzati da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo.

Aggiornato il 16 lug. 2023

Differenza tra rimuginio e ruminazione

Il rimuginio e la ruminazione sono simili, ma non combaciano perfettamente. Nonostante aspetti comuni, il rimuginio risulta più fastidioso e orientato a prefigurare pericoli futuri, mentre la ruminazione appare maggiormente duratura e orientata ad analizzare e comprendere le cause del proprio malessere.

Il rimuginio

Tutti abbiamo esperienza di rimuginio. In termini tecnici è considerato uno stile di pensiero negativo, analitico, ripetitivo che negli ultimi decenni ha mostrato di avere un impatto fondamentale nel sostenere molti disturbi psicologici.

Esso è considerato una delle componenti principali dell’ansia, in particolare del disturbo d’ansia generalizzato, in cui il soggetto più che preoccuparsi rimugina, ripete mentalmente a sé stesso che gli eventi andranno male o che qualcosa di spiacevole potrebbe capitargli da un momento all’altro, in una sorta di dialogo con se stessi, definito dialogo interno.

Il rimuginio o worry è definito come una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi  che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

Il rimuginio cattura la nostra attenzione. Ci chiude nella nostra mente. Ci isola nei pensieri e ci tiene lontano da ciò che ci circonda. Ci assorbe e mantiene salienti per noi informazioni e contenuti spiacevoli. Il rimuginio impedisce di dimenticare. Il rimuginio impedisce di andare oltre un brutto pensiero o una sensazione spiacevole, perchè quando si inizia a rimuginare è difficile smettere.

Il rimuginio è una modalità di fronteggiamento dell’ansia generata dalla percezione di situazioni identificate come pericolose e/o incerte, per questo difficili da gestire; quindi rimuginare sulla situazione temuta ha lo scopo di prevenirla e controllarla. Coloro che rimuginano sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004), per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto. Il non verificarsi delle conseguenze temute determina, quindi, il rinforzo di tale processo di pensiero (Borkovec et al., 2004).

Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema. Alla lunga, chi rimugina si percepisce debole, fragile, insicuro, spaventato e costantemente soggiogato dalla pericolosità del futuro, di conseguenza il rimuginio si cronicizza e diventa disfunzionale e maladattivo (Clark, & Beck, 2010).

Le persone con Disturbo d’Ansia Generalizzata faticano a controllare il proprio rimuginio. Quando iniziano a pensarci non riescono più a smettere, a concentrarsi su altri compiti o su aspetti piacevoli della vita quotidiana. Il disturbo d’ansia generalizzato è un disturbo d’ansia caratterizzato da una cronica condizione di stress e da uno stato di preoccupazione costante per molte situazioni diverse che risulta eccessivo in intensità durata o frequenza rispetto alla probabilità o alle conseguenze degli eventi temuti. Le preoccupazioni possono essere accompagnate da: irrequietezza, affaticamento, difficoltà di concentrazione e memoria, irritabilità, difficoltà nel sonno, tensione muscolare o altri disturbi somatici (es: nausea, diarrea, emicrania, sudorazione ecc…). Il rimuginio è un elemento centrale del disturbo.

Un’altra caratteristica di questo disturbo sono le strategie di controllo del pensiero (es: tentativo di distrarsi e di non pensare) e la ricerca di rassicurazioni. Questi tentativi di controllo spesso sono controproducenti nel lungo termine e non modificano il modo in cui funziona e si mantiene il malessere emotivo del paziente con Disturbo d’Ansia Generalizzato.

Rimuginio: errore processuale o meccanismo di evitamento del dolore?

Borkovec e il paradosso del rimuginio

Cos’è il paradosso del rimuginio? In breve, secondo Borkovec, rimuginando su ciò che ci preoccupa, evitiamo di pensarci davvero. Questo accade perché nel rimuginio non elaboriamo emozionalmente le preoccupazioni, le minacce e i nostri fallimenti, ma ci crogioliamo in essi sterilmente. A che pro? Per avere un sollievo. Processare emozionalmente, infatti, richiede un carico di attivazione attenzionale e/o emozionale che nel breve termine è faticoso, troppo intenso e doloroso.

Quindi immaginare (rispetto al rimuginare) implica uno svantaggio emozionale immediato e un’allocazione di risorse attenzionali inizialmente maggiore. Questo sforzo immediato alla lunga consente una piena risoluzione emotiva e anche pratica o almeno una piena accettazione di ciò che è accaduto. Nel rimuginio invece si rimane in uno stato intermedio, non troppo doloroso, ma mai davvero risolto. Un continuo preoccuparsi, che è preferito al vero pensare a soluzioni concrete. E perché? Per non affrontare lo sforzo attentivo necessario a innescare la processazione (e accettazione) emozionale.

Insomma, pensare a soluzioni concrete richiede l’attivazione non solo del rimuginio verbale, ma anche della preoccupazione immaginativa e visuale. Solo immaginando ciò che temiamo, possiamo venirne a patti; nominare verbalmente non basta. Operazione impegnativa ed emotivamente intensa, per alcuni troppo dolorosa.

Rimuginio e metacredenze

La metacognizione rappresenta la conoscenza e consapevolezza del funzionamento della propria mente. Con “credenze metacognitive” intendiamo le motivazioni con cui le persone spiegano a loro stesse la propria tendenza a rimuginare, come la convinzione che rimuginare sia utile, ad esempio a risolvere una situazione problematica o ad anticiparne le conseguenze negative facendoci sentire più pronti, oppure la convinzione che non sia possibile fermare il rimuginio, vivendolo come una sorta di automatismo al di fuori del proprio controllo; rimuginare quindi è percepito come un processo automatico, incontrollabile, dannoso al punto che potrebbe, per alcuni, portare alla pazzia.

Per Wells il rimuginio è sempre un errore processuale di focalizzazione eccessiva sull’oggetto della preoccupazione, focalizzazione che poi si cronicizza in rimuginio a causa di credenze secondarie di incontrollabilità del pensiero (“non riesco a smettere”) e mai, come invece per Borkovec,  evitamento di qualcosa di più doloroso. Il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più la persona attribuisce a questo processo mentale significati positivi, metacredenze positive secondo Adrian Wells, cioè pensa che rimuginare sia utile, aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accada l’evento temuto. Spesso si rimugina per sentirsi più sicuri o per analizzare al meglio un problema, chiaramente queste credenze disfunzionali legate all’utilità del rimuginio mantengono l’individuo in una condizione di ansia e in una falsa percezione di risoluzione del problema stesso (Sassaroli & Ruggiero, 2003).

Nel DOC per esempio i pensieri intrusivi e ripetitivi attivano alcune credenze metacognitive negative, cioè pensieri relativi al significato e all’importanza della comparsa nella mente delle ossessioni. In quest’ottica il problema non è quindi avere dei pensieri intrusivi in mente, ma il fatto che per i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo ciò diventa intollerabile, minaccioso, preoccupante, fonte di rimuginio.

Se ha ragione Wells, il trattamento deve essere soprattutto un riaddestramento attenzionale a non rimuginare preceduto da un poco di lavoro cognitivo volto a verificare se davvero il rimuginio è incontrollabile. Tutta l’argomentazione di Borkovec è quindi rigettata. E questo porta a una ancora più forte affermazione clinica che parlare del contenuto -e, a maggior ragione, di contenuti particolarmente dolorosi- è solo altro rimuginio, poiché ribadisce il CAS (Sindrome Cognitivo Attentiva). Se ha ragione Borkovec, invece, vale la pena ragionare anche sul contenuto evitato e incoraggiare il contatto emotivo con il contenuto del tema doloroso che viene tenuto a distanza con il rimuginare.

Rimuginio desiderante

Il pensiero o rimuginio desiderante si esprime attraverso l’elaborazione di informazioni relative a un oggetto o attività piacevoli sia in forma immaginativa (imaginative prefiguration), come ad esempio la costruzione di immagini mentali dell’oggetto desiderato (Kavanagh et al., 2009), sia in forma verbale (verbal perseveration), caratterizzato da un “discorso interno”, di tipo verbale, ripetitivo e con dichiarazioni auto-motivate (Caselli e Spada, 2010).

Rimuginio e ruminazione sono stili di pensiero volontari e perseveranti. In questo senso sono simili al pensiero desiderante. Tuttavia quest’ultimo pare distinguersi per:

  1. una natura concreta (Watkins, 2011);
  2. maggior presenza di immagini;
  3. una valenza che non si limita alle emozioni negative;
  4. un fuoco attentivo che si sposta dall’interno all’esterno ma rimane ristretto a stimoli connessi con il target del desiderio.

La funzione principale di tale processo risulta essere quella di motivare all’azione concreta, poiché aiuta a mettere in evidenza e a far riaffiorare alla coscienza le conseguenze positive dell’oggetto del piacere, permettendo di assaporarle in anticipo. Il rimuginio desiderante ha un impatto negativo sulla regolazione degli stati emotivi, correla con l’ansia contribuendo al suo mantenimento e aggravamento (Borkovec et al., 1990) e spesso si associa ad un basso livello di consapevolezza metacognitiva.

L’uomo possiede una capacità autoriflessiva sul proprio funzionamento cognitivo definita meta-credenza. Il rimuginio desiderante è sostenuto in particolare da metacredenze positive che, in modo disfunzionale, ne sostengono l’utilità, mantenendo uno stato di eccitazione (Wells, 2012). Il pensiero desiderante tende ad avere delle similitudini con il craving, con il quale sono in una relazione di mutua influenza (Caselli e Spada, 2011), ma si differenziano poiché quest’ultimo rappresenta un’esperienza motivazionale interna, mentre il pensiero desiderante è uno stile di elaborazione delle informazioni. Il pensiero desiderante, inoltre, è uno dei maggiori elementi di mantenimento del craving, fattore cruciale nelle dipendenze patologiche.

Il pensiero desiderante risulta essere il predittore maggiormente significativo della dipendenza affettiva, laddove vi sia una tendenza alla stessa, rispetto ad altri fattori come la ruminazione, la propensione al craving e all’autoconsapevolezza cognitiva, anch’essi presenti. Una minore consapevolezza del proprio funzionamento cognitivo, ha effetti diretti sulla dipendenza affettiva, pertanto, si associa ad una maggiore disposizione alla dipendenza affettiva e tale effetto risulta moderato dal pensiero desiderante, dalla ruminazione e dalla tendenza al craving.

Per quanto riguarda lo stile di pensiero dei pazienti bipolari la letteratura evidenzia come la ruminazione sia caratteristica sia della fase depressiva che di quella eutimica. Ancora pochi sono gli studi sulla fase maniacale o ipomaniacale anche se la letteratura che collega lo stile di pensiero ripetitivo alle emozioni positive rimanda alla descrizione del rimuginio desiderante le cui caratteristiche presentano dei punti di convergenza con lo stile di pensiero tipico della fase ipo-maniacale, il quale tende a produrre sensazioni di stima verso se stessi, treni di pensieri molto rapidi, aumento della focalizzazione su attività immediatamente gratificanti, aumento dell’impegno nella produzione di piani d’azione orientati al raggiungimento di un obiettivo, spinta verso decisioni basate sul qui ed ora, iperattivazione generale.

I risultati mostrano come lo stile di pensiero ripetitivo in cui sono coinvolti i pazienti bipolari in fase maniacale o ipomaniacale abbia le caratteristiche del rimuginio desiderante, sostenuto in particolare da meta-credenze positive sul trigger e sullo stato desiderato, quello ipomaniacale o quantomeno ipertimico, nonché da meta-credenze negative di incontrollabilità e pericolosità del pensiero. Emerge inoltre una quota di rimuginio desiderante “di stato” in fase eutimica, riferita sempre alla fase ipo-maniacale, la quale agisce come sintomo residuale e potrebbe concorrere al mantenimento del disturbo, al presentarsi di ricadute nonché alla scarsa aderenza al trattamento.

Rimuginio e stile parentale

Esistono due vie attraverso le quali il genitore iperprotettivo può portare all’educazione di un figlio rimuginatore (per quanto questa associazione non rappresenta un nesso causale e assoluto). Innanzitutto il comportamento iperprotettivo insegna al bambino ad essere eccessivamente preoccupato riguardo ciò che di negativo può accadere in futuro o come conseguenza delle proprie scelte. Secondariamente, un genitore che fa le scelte al posto del bambino riguardo la sua vita non permette a quest’ultimo di allenarsi ad esplorare, a fare scelte e sbagliare. Imparare a sbagliare è fondamentale per costruire personali criteri decisionali ed è molto utile che avvenga in un periodo di vita in cui si è comunque tutelati dall’azione riparativa e di cura dei genitori che possono limitare i danni. Il rischio di un genitore iperprotettivo è l’ostacolo allo sviluppo di decisioni autonome, di fronte a un problema il bambino tende quindi a non agire e a rimuginare su una molteplicità di ipotetiche alternative, incerto su quale tentare.

Precedenti ricerche hanno mostrato come l’iperprotezione possa avere un’influenza diretta sul rimuginio ostacolando le esperienze esplorative dei bambini e non permettendo loro di apprendere strategie di fronteggiamento dei problemi orientate all’azione (Cheron, Ehrenreich and Pincus, 2009; Nolen-Hoeksema, Wolfson, Mumme and Guskin, 1995), oltre che un effetto indiretto, favorendo lo sviluppo di credenze metacognitive non adattive e non realistiche che sono associate all’attivazione del rimuginio e all’aumento di ansia (Wells, 2000). Uno studio di Spada et al. (2012) mostra come la combinazione di un ambiente familiare percepito come iperprotettivo e alti livelli di credenze sulla necessità di controllare questa forma di pensiero e sulla sua utilità o inutilità siano un fattore di rischio per lo sviluppo del rimuginio.

Mentre sembra abbastanza immediato comprendere come credere nell’utilità del rimuginio faciliti la messa in atto di questa forma di pensiero perseverante, è curioso notare come credere che sia sempre e comunque necessario controllare tutti i propri pensieri sortisca lo stesso effetto. In questo senso, sembra che una buona strategia per evitare di incagliarsi nel rimuginio sia concederselo e permettersi di avere momenti e situazioni di ansia e preoccupazione (worry). Come impegnarsi a evitare di pensare all’elefante rosa non fa altro che ingrandire questa immagine nella mente, per non fare dell’elefante rosa un’ossessione basta lasciar scorrere il pensiero dalla proboscide alla coda.

La ruminazione

Sicuramente ognuno di noi ricorda degli eventi e delle emozioni perché fanno parte del patrimonio mentale in termini di ricordi, immagini e pensieri e le ricerche dimostrano che i ricordi più vividi sono quelli con un’alta valenza emotiva. Ma c’è una modalità molto comune con cui cerchiamo di elaborare, volontariamente, l’emozione o il ricordo di una situazione attivante e questa è la ruminazione (Wells e Matthews, 1996) ossia pensare in modo ricorsivo all’evento che ha generato l’emozione disturbante, alle cause e alle conseguenze.

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004). La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione e di valutare eventuali alternative che possano sia attivare emozioni positive sia produrre soluzioni più adeguate al raggiungimento dello scopo. L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

La ruminazione è simile, ma non combacia con il rimuginio. Nonostante aspetti comuni, il rimuginio risulta più fastidioso e orientato a prefigurare pericoli futuri, mentre la ruminazione appare maggiormente duratura e orientata ad analizzare e comprendere le cause del proprio malessere (Papageorgiou e Wells, 2004; Watkins, Moulds e McIntosh, 2005). Mentre la ruminazione ha ricevuto grande attenzione dalla ricerca nello studio della depressione (Just, Alloy, 1997; Nolen-Hoeksema,  Morrow, Fredrickson, 1993) è stato studiato meno estesamente nel contesto dei disturbi d’ansia. Alcuni studi riportano che anche la ruminazione è prospetticamente associata con alti livelli di ansia (Nolen-Hoeksema, 2000) e di ansia sociale (Kocovski, Endler, Rector, Flett, 2005). La ruminazione, inoltre, sembra essere collegata al perfezionismo e sembrerebbe mediare la relazione tra perfezionismo e umore disforico (Harris, Pepper,  Maack, 2008).

La ruminazione, infatti, è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva, che si esplicita principalmente in riflessioni sul “perché” del proprio stato. In aggiunta a ciò, la ruminazione risulta coinvolta nella genesi e nel mantenimento della depressione, ad esempio contribuendo all’esacerbazione del tono dell’umore negativo e all’amplificazione del pensiero negativo. Essendo inoltre una categoria transdiagnostica, intervenire sulla ruminazione permetterebbe di far fronte anche al problema delle patologie in comorbilità alla depressione. Da queste premesse nasce l’ipotesi che l’intervento sulla ruminazione possa essere centrale nel trattamento dei disturbi depressivi.

Ricerche recenti hanno suggerito che la ruminazione sia un fattore transdiagnostico (un meccanismo associato a molteplici disturbi psichiatrici) che si estende agli altri disturbi dell’umore, ai disturbi d’ansia e ai disturbi trauma-correlati, caratterizzato da una modalità di pensiero incontrollabile e ripetitivo (Birrer & Michael, 2011; McLaughlin & Nolen-Hoeksema, 2011; Olatunji, Naragon-Gainey, Wolitzky-Taylor, 2013).

Riguardo quest’ultimo gruppo di disturbi, uno studio condotto da Michael e collaboratori nel 2007 ha mostrato una correlazione positiva tra il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) e la tendenza alla ruminazione (Michael, Halligan, Clark, Ehlers, 2007). Inoltre, la tendenza alla ruminazione precedente all’evento traumatico sembra essere associata allo sviluppo del Disturbo da Stress Post Traumatico, agendo quindi da fattore di vulnerabilità (Spinhoven, Penninx, Krempeniou, van Hemert, Elzinga, 2015), mentre la ruminazione comparsa dopo l’esperienza di un evento traumatico è associata alla gravità dei sintomi del PTSD (Ehlers, Mayou, Bryant, 1998; Kleim, Ehlers, Glucksman, 2007; Ehring, Frank, Ehlers, 2008). Questi risultati sembrano suggerire che la ruminazione possa essere un possibile fattore facilitatore dello sviluppo e del mantenimento del Disturbo da Stress Post Traumatico (Bomyea, Risbrough Lang, 2012). A conferma di questa ipotesi, Ehlers e Clark, nel loro modello cognitivo del Disturbo da Stress Post Traumatico, hanno incorporato la ruminazione interpretata come una strategia di coping evitante (Ehlers & Clark, 2000).

Questo modello descrive la ruminazione come una strategia cognitiva maladattiva perché, da un lato, distrugge la capacità di elaborare la memoria traumatica in modo funzionale e, dall’altro, interferisce con la possibilità di modificare il pensiero inerente al trauma a causa della continua ripetizione di valutazioni negative dello stesso. La ruminazione induce l’individuo a focalizzare il pensiero su informazioni negative “irrilevanti” anziché sulla memoria correlata all’evento traumatico, impedendogli quindi di impegnarsi in un’elaborazione cognitiva ed emotiva funzionale dell’evento (Michael et al., 2007; Echiverri, Jaeger, Chen, Moore, Zoellner, 2011). Ciò contribuisce alla messa in atto di comportamenti di evitamento associati al Disturbo da Stress Post Traumatico e fornisce trigger interni che stimolano i ricordi intrusivi dell’evento traumatico (Ehlers & Clark, 2000; Ehring et al., 2008).

Ruminazione utile e inutile

Come nel rimuginio, la ruminazione ostacola l’azione, ma limita i rischi: il rischio di fallire, di sentirci umiliati, di sentirci persone che non vorremmo essere. Watkins (2018) considera la ruminazione una modalità di pensiero astratto, in opposizione a forme concrete di problem solving. Uno degli obiettivi auspicabili della terapia sarebbe proprio il passare da un pensiero povero e inadoperabile a un ragionamento pratico e funzionale.

La “state-rumination” viene definita come quel tipo di ruminazione in cui i pensieri si focalizzano sullo stato emotivo del soggetto e sulle implicazioni emotive dell’errore.  La “action-rumination”, invece, implica pensieri più strettamente legati all’azione, all’errore in sé e per sé, incentrati sul compito e su come poter risolvere gli errori appena commessi in modo da migliorare per le occasioni future. I pensieri relativi al proprio stato emotivo, ovvero la “state-rumination”, hanno un impatto negativo sulla performance perché bloccano l’impiego efficiente di strategie di controllo dell’azione e di focalizzazione dell’attenzione sul compito corrente, incidono sui tempi di presa di decisione che risultano prolungati e rendono più difficile la presa di decisione tra più alternative. Al contrario, pensieri relativi al compito, “action-oriented”, risultano più funzionali alla prestazione, avendo in sé elementi di problem-solving ed essendo concentrati su aspetti più pragmatici e concreti dell’azione.

Ruminazione intraindividuale e co-ruminazione

In quanto attività sociale, la condivisione può avere degli effetti notevoli anche in colui che ascolta e assimila le informazioni: l’ascolto dell’evento porta ad empatizzare con l’altro e spesso alla necessità di condividere a nostra volta, con il rischio però di sperimentare una rittivazione emotiva anche molto intesa di emozioni disturbanti di rabbia vergogna, paura…

L’aspettativa di un effetto benefico della condivisione sociale, quindi, non trova corrispondenza nella realtà. Già nel momento stesso in cui rievochiamo l’episodio da narrare, magari con tanti dettagli, e con una serie di immagini vivide, si riattiva la sofferenza emotiva e si deprime l’umore, proprio come quando ruminiamo: il sollievo è soltanto momentaneo e molto difficilmente ci sentiamo davvero sollevati. L’informazione emotiva, infatti, si distribuisce su un livello mnestico sia di tipo verbale-concettuale sia analogico e associativo (Power e Dalgleish, 1997) mantenendo così la riattivazione potenzialmente forte dell’emozione anche in fase di ricordo. Ogni ricordo, quindi, porta con sé non soltanto l’evento ma anche l’emozione e anzi, talvolta, quest’ultima è più forte. I ricordi vanno assimilati e ricodificati in modo da lavorare sulle conseguenze collaterali dell’emozione come il senso di impotenza, di destabilizzazione, perdita di autostima, ecc. Questi effetti, secondo Rimé, sono meno devastanti di quelli centrali ma sono ugualmente presenti e sono quelli che maggiormente conducono al bisogno di condividere socialmente l’esperienza. Per superare l’effetto centrale, bisogna invece modificare gli schemi di realtà ed integrare le nuove informazioni all’interno di schemi preesistenti.

I co-ruminatori condividono frequentemente e ripetutamente con amici intimi, lo stesso o gli stessi problemi personali, speculando sui problemi in termini di cause e potenziali conseguenze e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano. La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale (Calmes, Robertes 2008; et. al), dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici (Balsamo et. Al 2015), sintomi esternalizzati (Tompkins; Hockett, et. Al 2011), abuso alcolico nelle studentesse universitarie (Ciesla et al. 2011), accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo (Byrd-Craven et.al 2008). Tuttavia, in letteratura diverse ricerche internazionali e nazionali si sono impegnate a considerare la portata di ciascuna caratteristica della co-ruminazione, suggerendo la possibilità dell’esistenza di componenti adattive e maladattive; sembra, infatti, che soprattutto il focalizzarsi sulle emozioni negative, induca un aumento di cortisolo (Byrd-Craven et al., 2008; 2011). Sia il rehashing (discussione dettagliata di un problema) che il mulling (desiderio di discutere continuamente di problemi), sono significativamente associati alla ruminazione e alla mancanza di fiducia in se stessi (self-confidence). Questi insieme all’encouraging problem talk (la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività) sono anche fattori associati a livelli alti di rimuginio (Davidson et al., 2014).

Se quindi la condivisione non porta alla risoluzione emozionale, perché molte persone affermano di trarne beneficio? Pare che si faccia perché spinti da un bisogno di affiliazione e di pura condivisione che è molto lontano dall’elaborazione, dalla ridefinizione e riorganizzazione interna dell’evento e dell’emozione. In altre parole, resta una condivisione sociale con pochi effetti di regolazione vera e propria.

In conclusione: in quanto esseri sociali tendiamo a condividere con l’ingenua convinzione che questo possa aiutarci a ripristinare lo stato interno, cioè tornare ad una condizione precedente (recovery) ma questo non sempre accade. Quindi se da un punto di vista sociale, la condivisione sociale aiuta a rafforzare i rapporti umani, quindi dà benefici sociali, non sempre conferisce benefici personali.

La ruminazione rabbiosa

La ruminazione rabbiosa è uno stile maladattivo di pensiero che si attiva in presenza di emozioni di rabbia, focalizzando l’attenzione su questa, sulle sue cause e sulle sue conseguenze, alimentando l’attivazione emotiva negativa e aumentando la tendenza a rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012, Pedersen et al., 2011, Anestis et al 2009). Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe portare alla depressione.

La ruminazione rabbiosa, dunque, svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’autocontrollo, nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. La ruminazione rabbiosa è caratterizzata da tre processi fondamentali quali:

  • pensiero ripetitivo rivolto ad esperienze passate che hanno suscitato rabbia;
  • attenzione focalizzata sulle espressioni della rabbia;
  • il pensiero controfattuale (Sukhodolsky, Golub & Cromwell, 2001).

Di conseguenza la ruminazione, concentrandosi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli affetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo (Watkins, Moulds, & Mackintosh, 2005).

Il fenomeno della ruminazione rabbiosa, inteso come processo cognitivo finalizzato al mantenimento delle emozioni negative di rabbia, può variare in base al contenuto dell’evento che induce rabbia e alla modalità di processamento dell’informazione proveniente dall’ambiente esterno valutata come scorretta o non adeguata.

Uno dei temi centrali è il rapporto tra ruminazione rabbiosa e impulsività come elementi caratterizzanti l’espressione rabbiosa. Se si osservano gli strumenti di valutazione clinica della rabbia emergono due modalità espressive.

La prima (Anger-IN o rabbia repressa) riguarda una tendenza a mantenere un stato di rancore nella propria mente, verso di sé o verso altri o per esperienze vissute. In questo caso la ruminazione, nonostante intensifichi gli stati emotivi di rabbia e la relativa attivazione fisiologica, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere con conseguente abbassamento del tono dell’umore. Le persone sopprimono l’espressione esterna della propria rabbia ma vi rimangono intrappolati mentalmente. Il marker di riferimento è un pensiero di analisi ruminativa sulle ingiustizie subite o sulle possibili azioni di rivendicazione e rivalsa. Talvolta anche per giorni, per anni o per tutta la vita.

La seconda (Anger-Out o rabbia esplosiva) riguarda un comportamento aggressivo verbale, fisico contro oggetti o contro le persone. Infatti, se l’individuo attribuisce la causa del verificarsi dell’evento a fattori esterni, la ruminazione facilita la comparsa di comportamenti violenti e incrementa l’emozione di rabbia.

Ci si aspetterebbe che queste due manifestazioni rabbiose abbiano un rapporto discontinuo e separato, come se si distinguessero rabbiosi da ruminazione e rabbiosi da impulsività. Secondo DiGiuseppe, al contrario, nella maggior parte delle persone rappresentano due facce dello stesso problema, le due componenti sono talmente correlate da rendere complesso distinguerle a livello statistico.

Lo sforzo prolungato per l’autocontrollo affiancato da una tendenza ruminante favorisce espressioni impulsive rabbiose. In altre parole, l’affaticamento da ruminazione e da repressione dell’espressione rabbiosa produce agiti impulsivi, anche innanzi a un evento apparentemente di minore importanza. L’individuo appare privo di controllo, si sente impulsivo e fatica a essere consapevole dei processi che hanno generato questa risposta. Esiste un modello che descrive questo meccanismo (Baumeister, 2003): l’autocontrollo è un muscolo e come tale si stanca con il tempo, la ruminazione rabbiosa lo costringe a un continuo sforzo.

La dinamica di ruminazione e autocontrollo consuma i livelli di glucosio disponibili nel cervello per mantenere autocontrollo e aumenta il rischio di comportamenti esplosivi. La ruminazione carica di energia rabbiosa intensa che richiede poi un grande sforzo per regolarla.

In una raccolta dati del gruppo ricerca di DiGiuseppe su componente ruminativa e impulsiva della rabbia, solo il 4% delle persone ha alta impulsività e bassa ruminazione rabbiosa e si tratta di persone con problemi neurocognitivi (lesioni orbitofrontali). Nel 90% delle persone ruminazione e impulsività si muovono assieme. Un altro 4% circa ha alta ruminazione rabbiosa con bassa impulsività. Questi individui per DiGiuseppe sono quelli che manifestano maggior rischio di vendetta violenta.

In letteratura sono presenti studi condotti su studenti con tratti borderline e ruminazione rabbiosa. Tali risultati mostrano come la ruminazione rabbiosa incrementi le emozioni di rabbia e predica la tendenza all’aggressività (Anestis et al 2008, Selby et al 2009), come i tratti borderline siano correlati a forme di ruminazione depressiva e soprattutto rabbiosa (Abela et al. 2003, Smith et al. 2006, Baer et al 2011) e come la ruminazione medi la relazione tra il distress psicologico e il controllo del comportamento (Selby et al. 2008).

La ruminazione rabbiosa quindi risulta centrale nella spiegazione della tendenza a compiere azione aggressive. In particolare nei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di pesonalità, la runinazione rabbiosa è un predittore significativo della propensione all’aggressività: in questi pazienti la tendenza a ruminare rabbiosamente su eventi conflittuali sembra spiegare l’incremento dell’impulsività e della disregolazione comportamentale che porta ad azioni aggressive.

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