La ruminazione
Sicuramente ognuno di noi ricorda degli eventi e delle emozioni perché fanno parte del patrimonio mentale in termini di ricordi, immagini e pensieri e le ricerche dimostrano che i ricordi più vividi sono quelli con un’alta valenza emotiva. Ma c’è una modalità molto comune con cui cerchiamo di elaborare, volontariamente, l’emozione o il ricordo di una situazione attivante e questa è la ruminazione (Wells e Matthews, 1996) ossia pensare in modo ricorsivo all’evento che ha generato l’emozione disturbante, alle cause e alle conseguenze.
La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).
La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004). La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009).
Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione e di valutare eventuali alternative che possano sia attivare emozioni positive sia produrre soluzioni più adeguate al raggiungimento dello scopo. L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.
La ruminazione è simile, ma non combacia con il rimuginio. Nonostante aspetti comuni, il rimuginio risulta più fastidioso e orientato a prefigurare pericoli futuri, mentre la ruminazione appare maggiormente duratura e orientata ad analizzare e comprendere le cause del proprio malessere (Papageorgiou e Wells, 2004; Watkins, Moulds e McIntosh, 2005). Mentre la ruminazione ha ricevuto grande attenzione dalla ricerca nello studio della depressione (Just, Alloy, 1997; Nolen-Hoeksema, Morrow, Fredrickson, 1993) è stato studiato meno estesamente nel contesto dei disturbi d’ansia. Alcuni studi riportano che anche la ruminazione è prospetticamente associata con alti livelli di ansia (Nolen-Hoeksema, 2000) e di ansia sociale (Kocovski, Endler, Rector, Flett, 2005). La ruminazione, inoltre, sembra essere collegata al perfezionismo e sembrerebbe mediare la relazione tra perfezionismo e umore disforico (Harris, Pepper, Maack, 2008).
La ruminazione, infatti, è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva, che si esplicita principalmente in riflessioni sul “perché” del proprio stato. In aggiunta a ciò, la ruminazione risulta coinvolta nella genesi e nel mantenimento della depressione, ad esempio contribuendo all’esacerbazione del tono dell’umore negativo e all’amplificazione del pensiero negativo. Essendo inoltre una categoria transdiagnostica, intervenire sulla ruminazione permetterebbe di far fronte anche al problema delle patologie in comorbilità alla depressione. Da queste premesse nasce l’ipotesi che l’intervento sulla ruminazione possa essere centrale nel trattamento dei disturbi depressivi.
Ricerche recenti hanno suggerito che la ruminazione sia un fattore transdiagnostico (un meccanismo associato a molteplici disturbi psichiatrici) che si estende agli altri disturbi dell’umore, ai disturbi d’ansia e ai disturbi trauma-correlati, caratterizzato da una modalità di pensiero incontrollabile e ripetitivo (Birrer & Michael, 2011; McLaughlin & Nolen-Hoeksema, 2011; Olatunji, Naragon-Gainey, Wolitzky-Taylor, 2013).
Riguardo quest’ultimo gruppo di disturbi, uno studio condotto da Michael e collaboratori nel 2007 ha mostrato una correlazione positiva tra il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) e la tendenza alla ruminazione (Michael, Halligan, Clark, Ehlers, 2007). Inoltre, la tendenza alla ruminazione precedente all’evento traumatico sembra essere associata allo sviluppo del Disturbo da Stress Post Traumatico, agendo quindi da fattore di vulnerabilità (Spinhoven, Penninx, Krempeniou, van Hemert, Elzinga, 2015), mentre la ruminazione comparsa dopo l’esperienza di un evento traumatico è associata alla gravità dei sintomi del PTSD (Ehlers, Mayou, Bryant, 1998; Kleim, Ehlers, Glucksman, 2007; Ehring, Frank, Ehlers, 2008). Questi risultati sembrano suggerire che la ruminazione possa essere un possibile fattore facilitatore dello sviluppo e del mantenimento del Disturbo da Stress Post Traumatico (Bomyea, Risbrough Lang, 2012). A conferma di questa ipotesi, Ehlers e Clark, nel loro modello cognitivo del Disturbo da Stress Post Traumatico, hanno incorporato la ruminazione interpretata come una strategia di coping evitante (Ehlers & Clark, 2000).
Questo modello descrive la ruminazione come una strategia cognitiva maladattiva perché, da un lato, distrugge la capacità di elaborare la memoria traumatica in modo funzionale e, dall’altro, interferisce con la possibilità di modificare il pensiero inerente al trauma a causa della continua ripetizione di valutazioni negative dello stesso. La ruminazione induce l’individuo a focalizzare il pensiero su informazioni negative “irrilevanti” anziché sulla memoria correlata all’evento traumatico, impedendogli quindi di impegnarsi in un’elaborazione cognitiva ed emotiva funzionale dell’evento (Michael et al., 2007; Echiverri, Jaeger, Chen, Moore, Zoellner, 2011). Ciò contribuisce alla messa in atto di comportamenti di evitamento associati al Disturbo da Stress Post Traumatico e fornisce trigger interni che stimolano i ricordi intrusivi dell’evento traumatico (Ehlers & Clark, 2000; Ehring et al., 2008).
Ruminazione utile e inutile
Come nel rimuginio, la ruminazione ostacola l’azione, ma limita i rischi: il rischio di fallire, di sentirci umiliati, di sentirci persone che non vorremmo essere. Watkins (2018) considera la ruminazione una modalità di pensiero astratto, in opposizione a forme concrete di problem solving. Uno degli obiettivi auspicabili della terapia sarebbe proprio il passare da un pensiero povero e inadoperabile a un ragionamento pratico e funzionale.
La “state-rumination” viene definita come quel tipo di ruminazione in cui i pensieri si focalizzano sullo stato emotivo del soggetto e sulle implicazioni emotive dell’errore. La “action-rumination”, invece, implica pensieri più strettamente legati all’azione, all’errore in sé e per sé, incentrati sul compito e su come poter risolvere gli errori appena commessi in modo da migliorare per le occasioni future. I pensieri relativi al proprio stato emotivo, ovvero la “state-rumination”, hanno un impatto negativo sulla performance perché bloccano l’impiego efficiente di strategie di controllo dell’azione e di focalizzazione dell’attenzione sul compito corrente, incidono sui tempi di presa di decisione che risultano prolungati e rendono più difficile la presa di decisione tra più alternative. Al contrario, pensieri relativi al compito, “action-oriented”, risultano più funzionali alla prestazione, avendo in sé elementi di problem-solving ed essendo concentrati su aspetti più pragmatici e concreti dell’azione.
Ruminazione intraindividuale e co-ruminazione
In quanto attività sociale, la condivisione può avere degli effetti notevoli anche in colui che ascolta e assimila le informazioni: l’ascolto dell’evento porta ad empatizzare con l’altro e spesso alla necessità di condividere a nostra volta, con il rischio però di sperimentare una rittivazione emotiva anche molto intesa di emozioni disturbanti di rabbia vergogna, paura…
L’aspettativa di un effetto benefico della condivisione sociale, quindi, non trova corrispondenza nella realtà. Già nel momento stesso in cui rievochiamo l’episodio da narrare, magari con tanti dettagli, e con una serie di immagini vivide, si riattiva la sofferenza emotiva e si deprime l’umore, proprio come quando ruminiamo: il sollievo è soltanto momentaneo e molto difficilmente ci sentiamo davvero sollevati. L’informazione emotiva, infatti, si distribuisce su un livello mnestico sia di tipo verbale-concettuale sia analogico e associativo (Power e Dalgleish, 1997) mantenendo così la riattivazione potenzialmente forte dell’emozione anche in fase di ricordo. Ogni ricordo, quindi, porta con sé non soltanto l’evento ma anche l’emozione e anzi, talvolta, quest’ultima è più forte. I ricordi vanno assimilati e ricodificati in modo da lavorare sulle conseguenze collaterali dell’emozione come il senso di impotenza, di destabilizzazione, perdita di autostima, ecc. Questi effetti, secondo Rimé, sono meno devastanti di quelli centrali ma sono ugualmente presenti e sono quelli che maggiormente conducono al bisogno di condividere socialmente l’esperienza. Per superare l’effetto centrale, bisogna invece modificare gli schemi di realtà ed integrare le nuove informazioni all’interno di schemi preesistenti.
I co-ruminatori condividono frequentemente e ripetutamente con amici intimi, lo stesso o gli stessi problemi personali, speculando sui problemi in termini di cause e potenziali conseguenze e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano. La co-ruminazione se da una parte permette attraverso la self disclosure di avvicinare e legare le persone, soddisfacendo l’aspetto puramente relazionale (Calmes, Robertes 2008; et. al), dall’altra è associata ad una serie di sintomi tra cui ansia, depressione e disturbi psicosomatici (Balsamo et. Al 2015), sintomi esternalizzati (Tompkins; Hockett, et. Al 2011), abuso alcolico nelle studentesse universitarie (Ciesla et al. 2011), accresciuta risposta allo stress con produzione di cortisolo (Byrd-Craven et.al 2008). Tuttavia, in letteratura diverse ricerche internazionali e nazionali si sono impegnate a considerare la portata di ciascuna caratteristica della co-ruminazione, suggerendo la possibilità dell’esistenza di componenti adattive e maladattive; sembra, infatti, che soprattutto il focalizzarsi sulle emozioni negative, induca un aumento di cortisolo (Byrd-Craven et al., 2008; 2011). Sia il rehashing (discussione dettagliata di un problema) che il mulling (desiderio di discutere continuamente di problemi), sono significativamente associati alla ruminazione e alla mancanza di fiducia in se stessi (self-confidence). Questi insieme all’encouraging problem talk (la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività) sono anche fattori associati a livelli alti di rimuginio (Davidson et al., 2014).
Se quindi la condivisione non porta alla risoluzione emozionale, perché molte persone affermano di trarne beneficio? Pare che si faccia perché spinti da un bisogno di affiliazione e di pura condivisione che è molto lontano dall’elaborazione, dalla ridefinizione e riorganizzazione interna dell’evento e dell’emozione. In altre parole, resta una condivisione sociale con pochi effetti di regolazione vera e propria.
In conclusione: in quanto esseri sociali tendiamo a condividere con l’ingenua convinzione che questo possa aiutarci a ripristinare lo stato interno, cioè tornare ad una condizione precedente (recovery) ma questo non sempre accade. Quindi se da un punto di vista sociale, la condivisione sociale aiuta a rafforzare i rapporti umani, quindi dà benefici sociali, non sempre conferisce benefici personali.
La ruminazione rabbiosa
La ruminazione rabbiosa è uno stile maladattivo di pensiero che si attiva in presenza di emozioni di rabbia, focalizzando l’attenzione su questa, sulle sue cause e sulle sue conseguenze, alimentando l’attivazione emotiva negativa e aumentando la tendenza a rispondere con comportamenti aggressivi (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012, Pedersen et al., 2011, Anestis et al 2009). Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe portare alla depressione.
La ruminazione rabbiosa, dunque, svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’autocontrollo, nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. La ruminazione rabbiosa è caratterizzata da tre processi fondamentali quali:
- pensiero ripetitivo rivolto ad esperienze passate che hanno suscitato rabbia;
- attenzione focalizzata sulle espressioni della rabbia;
- il pensiero controfattuale (Sukhodolsky, Golub & Cromwell, 2001).
Di conseguenza la ruminazione, concentrandosi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli affetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo (Watkins, Moulds, & Mackintosh, 2005).
Il fenomeno della ruminazione rabbiosa, inteso come processo cognitivo finalizzato al mantenimento delle emozioni negative di rabbia, può variare in base al contenuto dell’evento che induce rabbia e alla modalità di processamento dell’informazione proveniente dall’ambiente esterno valutata come scorretta o non adeguata.
Uno dei temi centrali è il rapporto tra ruminazione rabbiosa e impulsività come elementi caratterizzanti l’espressione rabbiosa. Se si osservano gli strumenti di valutazione clinica della rabbia emergono due modalità espressive.
La prima (Anger-IN o rabbia repressa) riguarda una tendenza a mantenere un stato di rancore nella propria mente, verso di sé o verso altri o per esperienze vissute. In questo caso la ruminazione, nonostante intensifichi gli stati emotivi di rabbia e la relativa attivazione fisiologica, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere con conseguente abbassamento del tono dell’umore. Le persone sopprimono l’espressione esterna della propria rabbia ma vi rimangono intrappolati mentalmente. Il marker di riferimento è un pensiero di analisi ruminativa sulle ingiustizie subite o sulle possibili azioni di rivendicazione e rivalsa. Talvolta anche per giorni, per anni o per tutta la vita.
La seconda (Anger-Out o rabbia esplosiva) riguarda un comportamento aggressivo verbale, fisico contro oggetti o contro le persone. Infatti, se l’individuo attribuisce la causa del verificarsi dell’evento a fattori esterni, la ruminazione facilita la comparsa di comportamenti violenti e incrementa l’emozione di rabbia.
Ci si aspetterebbe che queste due manifestazioni rabbiose abbiano un rapporto discontinuo e separato, come se si distinguessero rabbiosi da ruminazione e rabbiosi da impulsività. Secondo DiGiuseppe, al contrario, nella maggior parte delle persone rappresentano due facce dello stesso problema, le due componenti sono talmente correlate da rendere complesso distinguerle a livello statistico.
Lo sforzo prolungato per l’autocontrollo affiancato da una tendenza ruminante favorisce espressioni impulsive rabbiose. In altre parole, l’affaticamento da ruminazione e da repressione dell’espressione rabbiosa produce agiti impulsivi, anche innanzi a un evento apparentemente di minore importanza. L’individuo appare privo di controllo, si sente impulsivo e fatica a essere consapevole dei processi che hanno generato questa risposta. Esiste un modello che descrive questo meccanismo (Baumeister, 2003): l’autocontrollo è un muscolo e come tale si stanca con il tempo, la ruminazione rabbiosa lo costringe a un continuo sforzo.
La dinamica di ruminazione e autocontrollo consuma i livelli di glucosio disponibili nel cervello per mantenere autocontrollo e aumenta il rischio di comportamenti esplosivi. La ruminazione carica di energia rabbiosa intensa che richiede poi un grande sforzo per regolarla.
In una raccolta dati del gruppo ricerca di DiGiuseppe su componente ruminativa e impulsiva della rabbia, solo il 4% delle persone ha alta impulsività e bassa ruminazione rabbiosa e si tratta di persone con problemi neurocognitivi (lesioni orbitofrontali). Nel 90% delle persone ruminazione e impulsività si muovono assieme. Un altro 4% circa ha alta ruminazione rabbiosa con bassa impulsività. Questi individui per DiGiuseppe sono quelli che manifestano maggior rischio di vendetta violenta.
In letteratura sono presenti studi condotti su studenti con tratti borderline e ruminazione rabbiosa. Tali risultati mostrano come la ruminazione rabbiosa incrementi le emozioni di rabbia e predica la tendenza all’aggressività (Anestis et al 2008, Selby et al 2009), come i tratti borderline siano correlati a forme di ruminazione depressiva e soprattutto rabbiosa (Abela et al. 2003, Smith et al. 2006, Baer et al 2011) e come la ruminazione medi la relazione tra il distress psicologico e il controllo del comportamento (Selby et al. 2008).
La ruminazione rabbiosa quindi risulta centrale nella spiegazione della tendenza a compiere azione aggressive. In particolare nei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di pesonalità, la runinazione rabbiosa è un predittore significativo della propensione all’aggressività: in questi pazienti la tendenza a ruminare rabbiosamente su eventi conflittuali sembra spiegare l’incremento dell’impulsività e della disregolazione comportamentale che porta ad azioni aggressive.