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Autolesionismo non suicidario e ruminazione

Recenti metanalisi mostrano un'associazione tra autolesionismo non suicidario e ruminazione, che si può approfondire in ottica metacognitiva

Di Stefania Righini

Pubblicato il 11 Set. 2024

Autolesionismo non suicidario e ruminazione: spunti di letteratura

Circa il 22% degli adolescenti, il 39% della popolazione degli studenti, ed il 5,5 % degli adulti, mettono in atto comportamenti autolesivi, ancorchè non a scopo suicidario (e.g. Cipriano et al., 2017; Lim et al., 2019; Swannell et al., 2014; Cheung et al., 2024; Nagy, Shanhan & Seaford, 2022; International Society for the Study of Self-Injury, 2018). Il dato sembra in aumento, negli ultimi venti anni, e questo rende particolarmente importante la sua approfondita analisi nonché la comprensione, non soltanto del dolore psicologico sottostante, ma anche dei processi di pensiero eventualmente connessi al comportamento autolesivo

A tal proposito, una parte di letteratura si sta concentrando nell’approfondire se il pensiero ripetitivo, in particolare la ruminazione, possa giocare un ruolo in questo senso, con risultati ancora non chiarissimi, ed a maggior ragione importante fonte di ragionamento clinico.

La ruminazione è una modalità di pensiero ripetitivo utilizzato tipicamente dalla maggior parte di noi come strategia, seppur maladattiva, di gestione degli stati mentali caratterizzati da emozioni a connotazione negativa (e.g. Cheung et al., 2024; Casselli, Ruggiero & Sassaroli, 2017), la quale però, per un discorso di focalizzazione attentiva su tali stati mentali, ottiene, come spesso capita alle strategie maladattive di gestione, esattamente ciò che voleva evitare: il mantenimento, nonché il rinforzo, dello stato mentale a connotazione negativa (Lavender & Qatkins, 2004; Moberly & Watkins, 2008; Wells, 1995; 2012; Casselli, Ruggiero & Sassaroli, 2017). A quel punto la sofferenza diventa tale che, oltre ad evidenziare il fallimento della ruminazione come strategia di gestione, richiede una strategia di coping di emergenza, di nuovo maladattiva a causa delle sottese difficoltà, che spesso, soprattutto negli adolescenti, si manifesta con l’autolesionismo, allo scopo di “fermare il dolore”, “sentire altro”, “ritornare in me” … e così via.

La letteratura evidenzia una non chiara associazione fra ruminazione ed autolesionismo non suicidario, probabilmente anche perché entrambi i costrutti sono molto complessi e le variabili che li compongono sono difficili da isolare ed operazionalizzare. Ci hanno provato, recentemente, per quanto riguarda il costrutto della ruminazione, due meta-analisi (Nagy, Shanahan & Seaford, 2022; Cheung et al., 2024), cercando di analizzare non solo la relazione fra i due costrutti, ma anche alcuni sottotipi di pensiero ruminativo, quali la ruminazione depressiva, quella rabbiosa, quella esplosiva e situazionale, caratteristica del Disturbo Borderline di Personalità (Cho et al., 2022), nonché la ruminazione ansiosa. Le due metanalisi, prese insieme, analizzano in questo senso oltre 100 studi di ricerca, e ci offrono quindi un panorama piuttosto ampio sul quale poter riflettere e, perché no, speculare clinicamente. 

I risultati che riguardano l’associazione fra autolesionismo non suicidario e la ruminazione, presa come costrutto complessivo, mostrano un’associazione statisticamente significativa, da piccola a moderata, fra la ruminazione di tratto ed il comportamento autolesivo non suicidario, con un potenziale ruolo moderatore, a carico di ruminazione depressiva e rimuginio (Cheung et al., 2024; Nagy, Shanan & Seaford, 2022). 

La tendenza di tratto al pensiero ripetitivo, risulta inoltre positivamente associata alla frequenza del comportamento autolesivo nonché al numero di modalità utilizzate per mettere in atto tale procedura comportamentale (Nagy, Shanahan & Seaford, 2022). Concludono inoltre gli autori, sottolineando come alcuni temperamenti, in particolare il temperamento affettivo di tipo depressivo, sia maggiormente associato alla presenza di ruminazione depressiva, individuata appunto come possibile mediatore, nonché come l’autolesionismo non suicidario sia particolarmente rappresentativo del funzionamento Borderline di Personalità, i cui mediatori cognitivi, in termini di pensiero ripetitivo, necessitano però di ulteriori approfondimenti.

Alla luce di tali risultati, riflettendo sui potenziali fattori di rischio riscontrabili nei nostri pazienti, (perché è soprattutto a questo che la ricerca serve a noi clinici, a formarci e farci riflettere rispetto alla implementazione del progetto terapeutico ed alla gerarchizzazione dei nostri interventi, sulla strada degli obiettivi condivisi con i nostri pazienti) viene da pensare che spesso il processo del pensiero ripetitivo è da noi sottovalutato, non trattato, o lasciato come ultimo intervento di psicoterapia, di prevenzione della ricaduta, trattato come fattore di mantenimento. 

Ormai sappiamo che è tutt’altro che così.

La ruminazione depressiva e il rimuginio

La ruminazione un processo di pensiero analitico, ripetitivo, retrospettivo, focalizzato su emozioni a connotazione negativa, nella percezione del paziente allo scopo di analizzare il problema e comprenderne le cause. Tale scopo, purtroppo, rappresenta una metacredenza positiva che mantiene di fatto il pensiero ripetitivo ed il nostro paziente dentro una sindrome cognitivo affettiva (CAS), la quale impedisce il ristoro del tono dell’umore. E’ quindi già di per sé causa, incremento e fattore di mantenimento (Casselli, Ruggiero & Sassaroli, 2017): 3 al prezzo di 1.

Dobbiamo inoltre considerare, con i nostri pazienti, che la ruminazione depressiva non è caratteristica soltanto dei disturbi dell’umore, ma rappresenta un costrutto transdiagnostico, che va quindi sempre valutato, misurato, ed il cui trattamento ha bisogno di essere implementato nei nostri progetti di psicoterapia. Prolunga ed amplifica, ovviamente, la flessione del tono dell’umore, ma riguarda anche l’evitamento, la riduzione della capacità di problem solving, le prestazioni delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, funzioni esecutive), contribuisce nella riduzione dell’autostima e della motivazione al cambiamento (Casselli, Ruggiero & Sassaroli, 2017).

Fattori di mantenimento, slatentizzazione ed incremento, 3 al prezzo di 1, dicevamo, sono anche le metacredenze negative, sottese al pensiero ripetitivo. Il nostro paziente ha infatti spesso la percezione che ruminare sia fuori dal proprio controllo, e/o che sia pericoloso, per il carico che costituisce per la propria mente, ad esempio. 

Il rimuginio è sempre un processo di pensiero di tipo ripetitivo allo scopo di regolare uno stato mentale a connotazione negativa. Una strategia che tende alla regolazione cognitiva, capacità di regolare volontariamente i propri processi di pensiero, la quale poi risulta fallimentare poiché lo stesso viene mantenuto in modo ripetitivo, dalle metacredenze (cioè credenze rispetto ad esso) positive e negative sopra descritte, favorendo così la salienza permanente di contenuti negativi alla coscienza, producendo sentimenti negativi secondari, ostacolando l’implementazione di altre possibili strategie alternative (Wells, 1995; 2000; Casselli, Ruggiero & Sassaroli, 2017).

La prospettiva metacognitiva

Il trattamento psicoterapeutico di tutto quanto sopra, risultante in letteratura come possibile mediatore dell’autolesionismo non suicidario, comunque ad esso correlato in modo statisticamente significativo, ha diverse possibili declinazioni.

Le linee guida internazionali, dalle quali noi clinici non possiamo, né vogliamo, prescindere, indicano la Terapia Metacognitiva come intervento di prima linea terapeutica per quanto riguarda il trattamento del pensiero ripetitivo e, recentissimamente, fra le terapia di prima linea anche per quanto riguarda la ruminazione depressiva.

Tale successo scientifico, con particolare riguardo al pensiero ripetitivo, è probabilmente dovuto al paradigma per cui, in prospettiva metacognitiva, la psicopatologia non riguarda i contenuti del pensiero, ma i processi dello stesso, quali strategie di regolazione cognitiva messe in atto a seguito di mancato raggiungimento di uno scopo, e, seppur evidentemente inefficaci, mantenute da metacredenze positive di utilità, e/o negative, di pericolosità ed incontrollabilità. Tale gestione esita purtroppo nel mantenimento del disturbo, se non nell’incremento della sofferenza del nostro paziente. 

Target dell’intervento di psicoterapia metacognitiva sono pertanto, dopo un’accurata diagnosi ed una buona concettualizzazione e condivisione del caso, con il nostro paziente, e dopo aver familiarizzato in seduta con il modello clinico metacognitivo, anche attraverso esercizi esperenziali, le metacredenze (Wells, 2012), senza le quali, la nostra mente, così come quella dei nostri pazienti, fa semplicemente il proprio lavoro.

In questo modo, attraverso una serie di esperienze, corporee nella gestione del proprio pensiero, e quindi attraverso il processi ascendenti, buttom-up, e cognitive, nel modificare i processi del proprio pensiero, attraverso i processi discendenti, e quindi top-down, arrivano informazioni al sistema limbico e si favorisce l’integrazione di tutte le fonti di informazione, organizzate in un funzionamento maggiormente adattivo, che comprenda flessibilità e nuove strategie di gestione e regolazione cognitiva e, conseguentemente, emotiva.

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