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Parliamo di Autolesionismo nell’era contemporanea

L'autolesionismo è spesso circondato da falsi miti, ma quali sono le reali motivazioni che portano ai comportamenti autolesivi?

Di Diana Lemagne

Pubblicato il 13 Mag. 2024

I falsi miti sull’autolesionismo

Quando si parla di autolesionismo bisogna sfatare diversi miti. A questo proposito Drappo e Casonato (2005) ne evidenziano quattro tipi che a loro parere sono falsi: a) L’autolesionismo è un mezzo per manipolare le altre persone; b) L’autolesionismo è sinonimo di suicidio; c) Gli autolesionisti sono pericolosi e intendono danneggiare gli altri; d) Gli autolesionisti richiedono solo attenzioni (D’Agostino A, Corpi alla deriva. Autolesionismo e oltre, in Rossi Monti, 2012, cap. 2.).

Per quanto riguarda il primo mito, pensare che l’autolesionismo sia soltanto un modo per soggiogare familiari, amici, compagni o altri significativi, non è proprio vero; da una parte il gesto autolesivo può essere un messaggio di aiuto mandato all’altro, ma quasi sempre gli autolesionisti cercano di nascondere e mantenere in segreto le proprie ferite, proprio perché si vergognano e si sentono a disagio, perché come loro stessi dicono: “tanto la gente non potrebbe mai capire”

Da un’altra parte paragonare l’autolesionismo al suicidio genera confusione. Infatti, a differenza del suicidio, l’autolesionismo, è un rituale che viene eseguito dalle persone per diversi motivi. La maggior parte degli autolesionisti racconta che il gesto autolesivo è un modo per trovare benessere e sollievo da uno stato di sofferenza interiore (come frustrazione, rabbia e angoscia); in questo caso, l’autolesionismo è un gesto per alleviare il dolore e rimanere in vita. Il tentativo non è quello di uccidersi, ma quello di trovare un antidoto per superare qualcosa che viene vissuta come intollerabile.  

Ugualmente, pensare che gli autolesionisti siano pericolosi per gli altri è del tutto sbagliato, perché la loro aggressività è rivolta solo su loro stessi, sul loro corpo e serve da autocura per il dolore e la sofferenza che provano; il gesto dell’autolesionista mette in pericolo unicamente chi lo compie.

Per ultimo, si sente spesso dire che l’autolesionismo sia un modo per attirare l’attenzione, questo pensiero rischia di sminuire la gravità del fenomeno; purtroppo chi compie gesti autolesivi in realtà prova sentimenti di vergogna e imbarazzo per quello che fa, tanto è vero che cerca di nascondere le sue ferite per timore del giudizio degli altri (ibid.).

Purtroppo, nella società contemporanea, è difficile realizzare una distinzione tra le condotte chiaramente patologiche e quelle condotte socialmente accettate o approvate dalla cultura. Ad esempio, piercing, incisioni sulla pelle, tatuaggi, scritture direttamente nella carne con ferri arroventati (branding), impianti sottopelle o tagli autoinflitti (cutting) in maniera deliberata, sono tutte pratiche sempre più di moda tra i giovani, ma che vanno a mischiarsi con condotte di auto-ferimento molto più gravi (ibid.).

In base alle variabili di letalità, direzionalità e ripetitività, Favazza suddivide l’autolesionismo in tre grandi sottocategorie: autolesionismo maggiore, stereotipato e superficiale/moderato.

Autolesionismo maggiore

Per quanto riguarda l’autolesionismo maggiore, questo comprende gesti sporadici ma gravi, come ad esempio, l’auto-amputazione di un orecchio, l’enucleazione di un occhio, l’auto-mutilazione dei genitali femminili, l’autocastrazione, l’autocannibalismo, l’auto-amputazione del pene. Sono in genere agiti repentini e sregolati che procurano grave danno fisico. Molte volte chi compie gesti così estremi appare del tutto indifferente rispetto al proprio comportamento, senza riuscire a dare spiegazione del gesto. Altre volte, la spiegazione viene data chiamando in causa idee deliranti di carattere religioso o sessuale, come il bisogno di purificazione spirituale o di espiazione dei propri peccati, l’identificazione con il Cristo che soffre, il desiderio di essere donna, la paura dell’omosessualità o il bisogno di controllare impulsi sessuali troppo forti e incontrollabili.

L’autolesionismo maggiore può manifestarsi in genere in tre specifiche condizioni psicopatologiche: nelle psicosi, transessualismo e intossicazioni alcoliche acute. Nella psicosi i gesti autolesionistici si presentano talvolta in stati acuti, anche se di solito vengono compiuti nel contesto di stati cronici. I pazienti psicotici si accaniscono tendenzialmente su parti importanti del corpo come occhi, capezzoli, dita di mani o piedi e genitali, diversamente da altri soggetti con patologie più lievi che rivolgono la loro violenza su braccia, gambe o addome (D’Agostino A, in Rossi Monti, 2012, cap. 2.).

Nei soggetti psicotici le condotte autolesive vengono realizzate come un vero e proprio rituale, generalmente preceduto da uno stato allucinatorio che può durare diverse settimane. I mezzi da loro privilegiati per eseguire detti atti sono seghe, martelli, coltelli da cucina, asce e tanti altri. 

Nel transessualismo, invece, i soggetti infieriscono soprattutto sui propri genitali, in apparenza perché non vogliono aspettare i lunghi tempi dell’intervento chirurgico. Questi soggetti arrivano a commettere tale azione mossi dalla convinzione di avere un’anima femminile in un corpo maschile. Si è rilevato che molti transessuali che si castrano da soli presentano una diagnosi di Schizofrenia o Depressione Maggiore, nella maggior parte delle volte associate ad abuso di alcol (ibid.)

Per quanto riguarda le intossicazioni alcoliche acute, i soggetti che si feriscono in genere passano all’azione perché in balia di deliri e allucinazioni provocati dal consumo d’alcol. Essi sono convinti (e percepiscono) la propria pelle come infestata da parassiti, microscopici organismi o insetti; quindi per liberarsene, la lacerano, la grattano, oppure la squarciano con unghie, coltelli, forchette e qualsiasi altro mezzo possa essere di loro aiuto.

L’autolesionismo stereotipato

L’autolesionismo stereotipato comprende, invece, una serie di azioni automatiche, come percuotersi, mordersi, battere la testa sul muro, graffiarsi la bocca o gli occhi, irritarsi o lesionare la pelle, strapparsi i capelli, legarsi le dita delle mani o dei piedi. Si tratterebbe di gesti ripetitivi e occasionalmente ritmici. Secondo gli autori sembrerebbe che tali soggetti non provino colpa o vergogna per la loro condotta, ma piuttosto siano spinti ad agire da una qualche pressione interna cui devono obbedire. Questo tipo di autolesionismo è presente talvolta in stati psicotici, ma si riscontra di più nel Disturbo Autistico e in alcune sindromi cerebrali organiche, quali: la sindrome di Gilles de La Tourette, quella di Cornelia di Lange e quella di Lesch-Nyhan.

L’autolesionismo superficiale/moderato

L’autolesionismo superficiale/moderato è invece la forma autolesiva più comune e consiste nel procurarsi ferite alquanto lievi, con rasoi, lamette, forchette, tagliacarte, fiammiferi o utensili in genere. In questo ambito rientrano due tipi di condotte: comportamenti compulsivi, che comprendono la tricotillomania (strapparsi i capelli), mangiarsi le unghie fino a rosicchiare le dita, lacerare e sbucciare la pelle; comportamenti impulsivi, comprendono invece tagliare, scalfire o ustionare la pelle, inserire aghi, rompersi le ossa, ostacolare la cicatrizzazione delle ferite. A loro volta le condotte impulsive vengono suddivise in condotte episodiche e condotte ripetitive. In genere le condotte autolesionistiche superficiali/moderate nascono come episodiche, ma possono diventare ripetitive quando il soggetto le assume come modello di comportamento per affrontare situazioni stressanti oppure per rispondere al bisogno di inclusione in determinati gruppi (ibid.).

L’autolesionismo ripetitivo tende a configurarsi in genere come disturbo a sé stante: una sorta di sindrome di autoferimento intenzionale (Repetitive Self Harm Syndrome) che origina in adolescenza e si estende sino a 10 o 15 anni, con fasi caratterizzate da comportamenti autolesivi e fasi di quiete, o condotte impulsive, come disturbi alimentari, abuso di sostanze e cleptomania. (Es. “Nel giro di un mese mi ritrovai magra come un chiodo, drogata, alcolizzata e sempre più sola.” “Sono stata ricoverata per 7 anni, ho girato 13 reparti diversi, ho trascorso 3 anni della mia vita in una comunità terapeutica.”).

Tra tutte le condotte autolesionistiche superficiali moderate, quella più diffusa è il taglio della pelle (cutting), più precisamente il taglio dei polsi. Il cutting, come altre condotte autolesionistiche superficiali moderate, compare all’interno di numerose patologie, tra le quali Disturbi di Personalità (Borderline, Istrionico, Antisociale), Disturbo Post-Traumatico da Stress, Disturbi del Comportamento alimentare e Disturbi Dissociativi.

Autolesionismo non suicidario (NSSI)

L’autolesionismo non suicidario (NSSI) è un fenomeno di cui si parla relativamente da poco, l’interesse per l’argomento in Italia è esploso in particolare negli ultimi vent’anni. 

Ad oggi sono state date molte definizioni di autolesionismo. Winchel e Stanley (1991), lo definiscono come: “perpetrazione, sul proprio corpo, di una lesione deliberata. Dove la ferita inferta dalla stessa persona su se stessa, è abbastanza grave da danneggiare il tessuto epidermico”. Per Berglas e Baumeister (1993), l’autolesionismo è un “recare danno, perdita, fallimento o sofferenza a se stessi con le proprie azioni od omissioni” (ibid.).

Ma la formulazione più utilizzata è quella di Armando Favazza. L’Autore, nel suo libro, Bodies Under Siege (1987), descrive le manifestazioni sia storiche che attuali dell’automutilazione e pone le basi sistemiche per il concetto di autolesionismo. Più generalmente l’Autore facilita la separazione del comportamento autolesionistico (categoria ampia e generale) in un comportamento suicida (che implica la presenza di almeno qualche intenzione di morire) e comportamento autolesionistico non suicidario (NSSI) dove non c’è intenzione di morire.

Nel 1989, Favazza definisce il Self-injurious behavior o SIB come: “comportamento ripetitivo, di solito non letale per severità né intento, diretto in maniera volontaria e deliberata a danneggiare parti del proprio corpo, come avviene in attività come tagliarsi o bruciarsi”. In poche parole, l’Autore definisce un atto autolesivo quando: questo è rivolto verso la stessa persona (cioè non c’è pericolo per gli altri, ma solo per se stessi); c’è una assenza di volontà suicidaria conscia (nonostante l’atto autolesionista sembri aumentare il rischio di morte); si assiste a una certa ripetitività (ma a volte possono presentarsi come gesti isolati o radi); mira al raggiungimento di uno scopo finale, cioè ferire il proprio corpo, (in vario modo o diversa gravità (ibid.).

Il tasso di prevalenza dell’autolesionismo non suicidario tra gli adolescenti è tra il 7,5 e il 46,5%, in aumento del 38,9% tra la popolazione universitaria e del 4-23 % tra gli adulti (Cipriano et al., 2017; Swannell et al., 2014). L’età di esordio si attesta solitamente tra i 14 e i 24 anni, con picchi significativi a 13-14 e 18-19 (Kerr, Muehlenkamp & Turner, 2010). Circa un 6% tra gli adulti riporta una storia di autolesionismo non suicidario (Klonsky, 2011). 

Nonostante sia spesso supposto che l’autolesionismo non suicidario sia più diffuso nelle donne, diversi studi (Whitlock, Eckenrode & Silverman, 2006; Cerutti et al., 2011; Klonsky, 2011) hanno trovato tassi equivalenti tra uomini e donne. Tuttavia, per quanto riguarda i metodi, sembra che ci sia una differenza. Infatti, le donne presentano maggiore probabilità di adottare il taglio, mentre gli uomini di colpirsi o bruciarsi (Klonsky & Muehlenkamp, 2007).

Il modello integrato di Nock e Cha (2009), Nock (2010), ipotizza che il comportamento autolesivo sia un fenomeno determinato da più elementi, quali: fattori di rischio generali (come predisposizione genetica per un’alta reattività emotiva/cognitiva, maltrattamento/abuso infantile o ostilità/criticità familiare), fattori di vulnerabilità di tipo intrapersonale (come alti livelli di emotività e cognizione negativa o bassa tolleranza della sofferenza) e interpersonale (come incapacità comunicativa e diminuita abilità di problem solving a livello sociale soprattutto), altri fattori riguardano la risposta allo stress (come la diminuita o aumentata reazione a situazioni ed eventi stressanti) e per ultimo fattori di rischio specifici (come apprendimento sociale, autopunizione, attitudine implicita, segnale sociale, anestesia del dolore e pragmaticità). 

Il costrutto di autolesionismo non suicidario ad oggi ha ottenuto un’ampia accettazione negli Stati Uniti, in Europa, in Australia e in molte altre parti del mondo. Questo fenomeno è in continua crescita.

In questo senso gli autori usano il termine disforia per definire una condizione caratterizzata da un sentimento di tensione spiacevole, irritazione, umore scontroso, con aumentata propensione ad acting out rabbiosi e rigidità affettiva con riduzione della capacità di modulare gli affetti (Rossi Monti, 2012).

Quali sono le motivazioni dell’autolesionismo

Sono state individuate 6 matrici di senso, una sorta di macro-categorie che raggruppano le motivazioni dietro la condotta autolesionistica (Rossi Monti, D’Agostino, 2009):

  • Concretizzare. “Voglio tagliarmi, per alleviare la sofferenza che non posso mostrare”. In questi casi il soggetto si taglia per nascondere il dolore psichico. Quando il pensiero si carica di sofferenza, il passaggio all’atto diventa molte volte una necessità vitale. Ferirsi serve a portare alla luce il buio interiore e a dare spazio alle componenti somatiche delle emozioni. Ci si taglia per tirare fuori il dolore. 
  • Punire/estirpare/purificare. In questi casi, tagliarsi è un modo per punire un cattivo Sé, per attaccare quei pensieri, sentimenti o ricordi che rimandano a una storia di abuso infantile ad esempio. Il trauma in questi casi si fa colpa ed è allora che la ferita diventa speranza di purificazione, è come se lasciare defluire il sangue sia un modo per ripulirsi della sporcizia del trauma subito. A questo proposito, Pestalozzi (2008) scrive: “tagliare la pelle crea un’apertura attraverso la quale si libera la tensione, e tutto il cattivo, tutto l’estraneo, può come un lampo sprigionarsi immediatamente dall’interiorità del corpo. Dopo che il dolore ha messo fine a questo stato di trance, il sangue fornisce una sensazione di caldo, di vitalità e si raggiunge così uno stato di liberazione, di sollievo”.
  • Regolare la disforia. In questi casi, ferirsi è uno strumento per interrompere il ciclo della depersonalizzazione-derealizzazione, per tenere sotto controllo sentimenti spiacevoli e angosciosi, come la disforia soprattutto e per ricercare esperienze più vive e stimolanti. L’autolesionismo in questo caso diventa un modo per scaricare la tensione. Il soggetto cerca di ottenere almeno un sollievo temporaneo all’irritazione disforica di base (Rossi Monti, 2012, p. 93), per trasformare il caos in calma e l’impotenza in controllo.
  • Comunicare senza parole. In questi casi, l’autolesionismo è un mezzo per influenzare i comportamenti e le emozioni altrui, per ricevere accudimento, e soprattutto per comunicare quello che le parole non sono in grado di esprimere. “Non riuscivo a parlare dei miei problemi e nemmeno piangere, ma scoprii che quel sistema mi dava sollievo. Dal momento in cui ho iniziato a mutilarmi, ho capito che, se io non ero in grado di parlare, qualcos’altro poteva parlare al posto mio. (Rossi Monti, D’Agostino, 2009).
  • Costruire una memoria di sé. Ferirsi in questi casi è un sistema per fissare una memoria di sé, incidendo sulla propria pelle (con tatuaggi, piercing ecc.) segni che identificano certi momenti della vita, certe vicende o emozioni, che corrispondono a significativi punti di crescita o di passaggio. È un modo per assicurarsi che determinate vicende abbiano lasciato una traccia visibile e che di sicuro potremmo ritrovare nel tempo. Il corpo, dunque, non dimentica. Ad esempio, nella società Dagara del Burkina Faso, i bambini nati dopo la morte di un fratellino ricevono il segno del pitone, serpente che nella mitologia veglia sui fanciulli; presso i Bambole dello Zaire, per esempio le ragazze hanno sui polpacci un segno detto piume di gallina che le connota come donne in età di matrimonio (Marenko, 2002).
  • Cambiare pelle. In questi casi, ferirsi è un modo di trasformare tutto quello che la persona vive in maniera passiva (come un vissuto) in un’esperienza attiva. È un modo per sentirsi padroni della propria vita: “Il mio corpo è mio, e ne faccio quello che voglio. È la sola cosa su cui ho il controllo. Se voglio incidermi, lo faccio. Nessuno può fermarmi”(ibid.).
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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