L’evitamento è una strategia comportamentale messa in atto allo scopo di sottrarsi dall’esposizione a situazioni, persone, eventi temuti, cioè che suscitano emozioni considerate negative per chi le sperimenta.
L’evitamento è un comportamento adattivo nella misura in cui permette di allontanarsi da una situazione di pericolo o di minaccia reale. Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006). In questo caso l’evitamento perde il suo valore adattivo e diventa un vero e proprio meccanismo di difesa utilizzato per proteggersi da uno stato mentale o da un esperienza considerata intollerabile, e quindi da evitare in qualunque modo.
L’evitamento può riferirsi a situazioni esterne ma anche a stati interni (pensieri, emozioni, sensazioni).
Evitamento: cos’è e come si manifesta
L’evitamento è una strategia comportamentale messa in atto per riuscire a gestire al meglio le emozioni. Lo scopo, dunque, è sottrarsi dall’esporsi a situazioni, persone, eventi temuti per evitare di affrontare l’emozione negativa che ne deriva.
L’evitamento, perciò, è un meccanismo difensivo, o strategia di fronteggiamento, dei problemi, tipica dei disturbi d’ansia. Infatti, uno dei sintomi caratteristici di molti disturbi d’ansia è proprio l’evitare di entrare in contatto con la situazione o con la cosa temuta. Di fronte a una minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme, l’individuo evita il affrontarlo. Le fobie sono un esempio clinico calzante che coinvolge massicciamente questo meccanismo. Se si avesse la fobia dei rettili, chiaramente, sarebbero evitate tutte le situazioni che includono i rettili. Nei casi più gravi la fobia può essere scatenata addirittura dalla vista di un serpente raffigurato in un libro o una rivista.
Inoltre, l’evitamento, sebbene fornisca un momentaneo sollievo, non fa altro che confermare ripetutamente la necessità di evitare. Quindi, ogni volta che un ansioso evita, conferma a se stesso di non poter fare a meno di evitare e ciò dà luogo a un circolo vizioso che renderà più probabile in futuro l’evitamento di altre situazioni affini.
Il valore adattivo dell’evitamento
La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare ai professionisti che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.
Tuttavia l’evitamento è una strategia molto diffusa e a tutti sarà capitato di mettere in atto un comportamento evitante. Esso, infatti, non ha solo una connotazione negativa ma ha anche una sua funzionalità: permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.
L’evitamento perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006).
Quando temiamo le conseguenze di una decisione e di un’azione, o se non ci sentiamo competenti, la soluzione migliore diventa non cercare soluzioni: più lo scenario immaginato è catastrofico, più eviteremo le conseguenze negative che si disegnano nella nostra mente.
Tuttavia, il rischio del circolo vizioso di cui sopra, è sempre dietro l’angolo: più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo rinforza l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, quando evitiamo, l’ansia diminuirà e, a questa riduzione, si assocerà un immediato senso di sollievo che ci porti a credere nell’effettiva efficacia dell’evitare, dato che l’emozione negativa si è, appunto, momentaneamente abbassata.
L’evitamento esperenziale
L’ evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali. Lo scopo ultimo dell’evitamento esistenziale è fuggire, razionalizzando o ignorando.
E’ fondamentale indagare col paziente quali siano le aree della sua vita in cui presenta un comportamento evitante. A volte tali comportamenti si palesano nel corso di una seduta: rispondere con rabbia al terapeuta, arrivare in ritardo o anche una risata durante il racconto di un evento doloroso.
L’evitamento esperenziale nella prospettiva dell’ACT
Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT (acceptance e commitment therapy) viene chiamato Accettazione. Spesso malintepretato, lo si può definire in altri termini simili e meno ambigui come lasciare spazio o aprirsi all’esperienza.
Ma a cosa lasciare spazio? Secondo la prospettiva dell’ACT si deve lasciar spazio alle emozioni negative, ai pensieri catastrofici e ai ricordi dolorosi. Il percorso è senza dubbio difficile, ma comunque più funzionale dell’evitare. Assumere un atteggiamento di apertura, di accettazione verso la propria esperienza richiede sforzo, tempo e anche sofferenza.
Tuttavia, lasciare spazio a ciò che cerchiamo di evitare, ci consente di imparare:
- a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi
- accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza informativa che meritano
- indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
L’evitamento nella depressione e le strategie di intervento in psicoterapia cognitiva
La sintomatologia depressiva conduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo e ad una significativa compromissione delle altre aree importanti della vita, la cui intensità varia in relazione al livello di gravità del disturbo.
In riferimento alle ripercussioni che tale disturbo dell’umore genera nella vita quotidiana del soggetto, assume rilevanza evidenziare la connessione tra la difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane e la presenza di comportamenti di evitamento, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.
Chi è depresso manifesta una notevole difficoltà nello svolgimento delle abituali attività quotidiane, causata dalla presenza dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici caratteristici del disturbo, i quali possono alimentare ulteriormente la visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di sé, la sfiducia nelle proprie capacità e le conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.
In conseguenza di ciò, spesso la persona mette in atto istintivamente alcuni tipici comportamenti di evitamento, che conducono ad abbandonare o ridurre notevolmente gli impegni quotidiani e le attività piacevoli consuete, diminuendo in questo modo la possibilità di interrompere le ruminazioni negative e sperimentare un seppur breve stato mentale positivo.
Ad esempio, la presenza di sintomi quali la difficoltà di concentrazione, di memoria, l’indecisione, mancanza di interesse o energia, etc. può condurre la persona a considerarsi incapace di affrontare e gestire autonomamente le occupazioni quotidiane consuete (es. lavorare, studiare, fare la spesa, preparare da mangiare, svolgere faccende domestiche, etc.), oppure a sopravvalutare irrealisticamente le difficoltà insite in esse. A causa di tale convinzione il depresso può iniziare ad evitarle, a rimandarle, o a delegarle a qualcuno, diventando in tal modo eccessivamente dipendente dagli altri.
Apatia e disinteresse posso indurre il depresso a evitare il contatto con altre persone e ridurre al minimo il dialogo con familiari e amici. In altri casi, sono la vergogna, il senso di inferiorità o di colpa per il disturbo, il sentirsi diverso dalla persona che era precedentemente, che spingono all’evitamento e all’isolamento dagli altri, lasciandolo in balia di processi ruminativi che ne aggravano la condizione.
Questi comportamenti di evitamento, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere (in quanto sottraggono la persona allo sforzo di fare ciò che le risulta difficile e faticoso, o che non ha più voglia di fare), in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente. La persona giunge a percepirsi maggiormente come incapace, fallita, senza speranza, a rafforzare l’idea di non essere più in grado di svolgere le attività precedentemente attuate, aggravando in tal modo la valutazione negativa di se stessa e della propria vita attuale e la sfiducia verso il futuro.
In ambito clinico è risaputo come il quadro sintomatologico depressivo conduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo, oltre che alla compromissione di altre aree importanti di vita. La difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane causa spesso la presenza di comportamenti di evitamento, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.
La persona depressa trascorre dunque molto tempo isolata e inattiva, accompagnata solo da lunghe rimuginazioni depressive. Tale stato di evitamento porta a un aggravamento ulteriore della sfiducia nelle proprie capacità, della visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di se stessa e delle conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.
Avviene allora, a conferma della teoria del circolo vizioso sopra descritto, che tali comportamenti di evitamento, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere, in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente.
A fronte di tale quadro sintomatico, e a fronte delle cognizioni disfunzionali tipiche della persona depressa (visione negativa di Sé, del mondo e del futuro), l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione, la spiegazione, l’anticipazione degli eventi passati, presenti o futuri, la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.
Parallelamente a ciò, per ridurre la strategia di evitamento, si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo. E’ necessario dunque attuare una progressiva riattivazione a livello comportamentale, che gradualmente consentirà alla persona di trarre sollievo e distrazione dalle rimuginazioni negative.
In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi di evitamento consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.
Dal punto di vista psicoterapeutico è inoltre possibile trattare con successo gli evitamenti attraverso un programma di esposizione graduale durante il quale il soggetto gradatamente prova a scardinare il circolo vizioso che si è creato, e a entrare in contatto con le situazioni ansiogene in modo da farle diventare normali e accettabili (questo è vero soprattutto nel caso delle fobie)
Evitamento nei disturbi d’ansia
Tipico dei disturbi d’ansia è proprio l’evitare di entrare in contatto con la situazione o con la cosa temuta. Di fronte a una minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme, l’individuo evita di affrontarla. Le fobie sono un esempio clinico calzante che coinvolge massicciamente questo meccanismo.
L’evitamento è una strategia di fronteggiamento del problema che si rivela efficace solo temporaneamente, infatti il sottrarsi al confronto con ciò che si teme, non fa altro che confermare ripetutamente la necessità di evitare: ogni volta che evitiamo ci priviamo dell’esperienza di riuscire a far fronte alla situazione temuta, confermando a noi stessi che evitarla è l’unica cosa che possiamo fare nel presente e nel futuro. Questo oltre a rinforzare i timori e la strategia disfunzionale di fronteggiamento, l’evitamento appunto, aumenta anche la probabilità che in futuro altre circostanze simili diventeranno oggetto di evitamento a loro volta, ampliando il campo delle esperienze a cui sottrarsi per paura.
Dal punto di vista psicoterapeutico è possibile trattare con successo gli evitamenti attraverso un programma di esposizione graduale durante il quale il soggetto gradatamente prova a scardinare il circolo vizioso che si è creato, e a entrare in contatto con le situazioni ansiogene in modo da percepirle progressivamente come sempre più normali e accettabili.
Evitamento nel disturbo d’ansia sociale
Il disturbo d’ansia sociale, o fobia sociale, è un disturbo caratterizzato una marcata sensibilità verso il giudizio altrui: la principale paura è il divenire oggetto di scherno o di valutazioni negative da parte degli altri; sono inoltre presenti sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità con un impatto altamente negativo sull’autostima.
L’evitamento delle situazioni sociali è dunque la strategia comportamentale più utilizzata dalle persone con questo disturbo e più i comportamenti di evitamento si generalizzano, maggiormente il disturbo diventa invalidante. Inoltre l ‘evitamento comportamentale rinforza il ritiro sociale e impedisce di contrastare le rappresentazioni maladattive schematiche che a loro volta sostengono il disturbo. Altri meccanismi di mantenimento possono essere prevalenti: bias attenzionali a segnali di rifiuto o meccanismi di rimuginio metacognitivo che mantengono nella mente il focus su rappresentazioni di umiliazione, derisione e rifiuto.
La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) del disturbo d’ansia sociale si concentra su: (1) ridurre il timore del giudizio e il bisogno di riconoscimento, (2) controllare il rimuginio anticipatorio sulle proprie prestazioni, (3) ridurre il timore di mostrare ansia, (4) ridurre i comportamenti di controllo dell’ansia.
L’evitamento nel disturbo evitante di personalità
nel disturbo evitante di personalità, l’evitamento della relazione con l’altro è massicciamente sostenuto da un complesso quadro di timori e convinzioni che investono sia la sfera della relazione che l’idea di sé: il timore delle critiche, la paura della disapprovazione e dell’esclusione e, soprattutto, la radicata convinzione di valere poco.
Nel disturbo evitante di personalità la paura di non risultare adeguati è tanto forte e la prospettiva di un rifiuto talmente dolorosa che si preferisce l’isolamento e l’evitamento del confronto con gli altri.
Il senso di sicurezza così raggiunto è pagato a caro prezzo: questa condizione di solitudine, infatti, è vissuta con profonda tristezza e senso di estraneità.
Chi soffre di questo disturbo tende quindi, per la convinzione di non essere attraente e di non avere argomenti interessanti da condividere con gli altri, a non instaurare nuove relazioni sociali all’infuori di quelle consuete con i familiari e gli amici più stretti; spesso rinuncia anche alla possibilità di fare carriera per evitare il confronto con gli altri. Lo stile di vita di chi soffre di disturbo evitante di personalità tende ad essere monotono e solitario, condizione che finforza il sentimento di non appartenenza: quando però il soggetto cerca di cambiare questa situazione si scontra con la sua paura di un giudizio negativo e del rifiuto.
Evitamento nella Fobia sociale VS evitamento nel disturbo evitante di personalità
La fobia sociale ha diverse caratteristiche in comune anche con il disturbo evitante di personalità. In entrambi i casi la persona presenta evitamento delle situazioni sociali, bassa autostima ed estrema sensibilità ai giudizi negativi. I due disturbi, tuttavia, sembrano differire per il fatto che la persona con disturbo evitante ha un timore pervasivo in tutte le situazioni sociali e relazionali, mentre chi soffre di fobia sociale ha paure più specificamente correlate alla prestazione sociale, quindi se deve esporsi a fare un compito in pubblico. Questa distinzione, comunque, non permette di differenziare facilmente il disturbo evitante di personalità e la fobia sociale generalizzata. Secondo alcuni esperti, infatti, queste due diagnosi sarebbero sovrapponibili, in altre parole sarebbe possibile che si stanno utilizzando due differenti categorie diagnostiche per lo stesso disturbo. Altri autori, invece, sostengono che ci sono delle differenze tra queste due patologie. Dai risultati di una ricerca, infatti, risulta che le persone con disturbo evitante di personalità, rispetto a chi ha la fobia sociale generalizzata, presentano una maggiore sensibilità interpersonale e più scarse abilità sociali. Secondo altri autori, inoltre, i due disturbi sarebbero distinguibili in base a ciò che attiva il senso di inadeguatezza e l’ansia: i soggetti con fobia sociale di solito si sentono inadeguati quando devono svolgere delle prestazioni agli occhi di altre persone, mentre quelli con disturbo evitante si percepiscono inadeguati soprattutto quando, nel relazionarsi agli altri, avvertono un forte senso di estraneità e di non appartenenza.
Disturbo evitante di personalità e regolazione emotiva
Secondo Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo (https://www.stateofmind.it/2013/10/disturbo-evitante-personalita-emozioni/) la conoscenza sul disturbo evitante di personalità (DEP) si è approfondita solo negli ultimi anni. Appare sempre più evidente che il disturbo evitante di personalità sia un disturbo diffuso, grave, co-occorrente con numerosi disturbi sintomatici e comportamentali – quali disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi alimentari, abuso di sostanze e alcool – e per il quale mancano modelli di trattamento di provata efficacia.
Significativi passi avanti nella conoscenza dell’evitante riguardano l’importanza che hanno i problemi nella conoscenza e regolazione delle emozioni in questi pazienti. Sembra consolidato il dato che la difficoltà a identificare i propri affetti è un aspetto tipico del DEP. Studi recenti portano dati specifici.
I pazienti con disturbo evitante di personalità, confrontati con quelli con disturbo borderline, mostrano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente.
La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo (Johanssen et al., 2013). La carenza nell’identificare l’interesse è coerente con l’idea che in questi pazienti ci sia un’inibizione del sistema esploratorio, che li porta ad essere riluttanti a muoversi in ambienti (sociali) ignoti.
Altri due studi condotti a Indianapolis e Roma hanno raccolto dati che illustrano ulteriormente le caratteristiche di scarsa conoscenza e regolazione emozionale nel DEP.
In sintesi, tratti evitanti in pazienti che abusano di sostanze sembrano associati da una combinazione di scarsa consapevolezza degli affetti e insufficienti strategie di regolazione del comportamento sociale basate su una conoscenza adeguata sugli stati mentali.
In termini semplici: se un paziente non ha buona consapevolezza degli affetti ma adotta strategie funzionali, del tipo “quando sono teso faccio esercizio fisico e mi calmo” difficilmente avrà tratti evitanti. Se invece ha scarsa consapevolezza degli affetti, non riesce a dire meglio di “sono teso” e non ha buona mastery “quando sono teso non so che fare, sono nervoso, irritabile” probabilmente avrà aspetti evitanti (Lysaker et al., in stampa). Questo può aprire la strada all’uso di sostanze come modalità maladattiva di regolazione degli affetti.
I pazienti con DEP inoltre, sembrano avere una tendenza peculiare ad inibire le proprie emozioni, molto più che in altri disturbi del cluster C e in modo opposto a pazienti con disturbo borderline di personalità (Popolo et al., proposto per la pubblicazione).
Nel complesso sembra che approfondire la conoscenza sugli aspetti disfunzionali nella conoscenza e regolazione degli affetti permetterà di conoscere ulteriormente i meccanismi che sostengono il DEP con la speranza di trattare più efficacemente sia il disturbo stesso che i disturbi sintomatici e comportamentali ad esso associati.
Evitamento e psicoterapia
Il disturbo evitante di personalità richiede trattamento psicoterapeutico specifico dal momento che è un disturbo diffuso, con compromissione significativa del funzionamento sintomatico e associato a sintomi psicologici rilevanti. Una comprensione accurata del disturbo evitante di personalità deve includere i problemi di questi pazienti nella consapevolezza, accettazione e regolazione delle emozioni. Questi pazienti sono alessitimici e tendono ad evitare o sopprimere le proprie emozioni. In alternativa si disregolano, sorgente possibile dell’associazione con abuso di sostanze e alcool.
Secondo Giancarlo Dimaggio (https://www.stateofmind.it/2015/03/disturbo-evitante-dipersonalita-psicoterapia/) il paziente con disturbo evitante di personalità ha prima bisogno di capire cosa lo fa soffrire, quali schemi interpersonali lo portano a stare male e ad evitare le situazioni. Poi in un clima di costante e attenta regolazione della relazione terapeutica possono provare ad esporsi. Di solito l’esposizione non ha successo a breve termine e aumenta il dolore psicologico (il che è normale), però grazie all’esposizione aumenta la consapevolezza dei problemi e il clinico può usare la conoscenza in seduta per favorire operazioni di distanza critica. Quando i pazienti hanno acquisito maggiore consapevolezza di essere guidati da schemi interpersonali maladattivi che non sono necessariamente veri possono trovare più semplice esporsi a situazioni sociali temute.
Ritengo discutibile il beneficio del training assertivo, almeno in fase precoce. Per esempio in uno studio di Alden del 1989 la parte dello skills training non contribuiva all’efficacia della terapia. La terapia di gruppo in fase iniziale di trattamento può essere impegnativa e non di particolare efficacia, traduco dalla review di Matusievicz e colleghi.
non ci sono dati che supportino l’efficacia della CBT breve di gruppo nel ridurre sintomi del disturbo evitante, ansia, depressione e comportamenti sintomatici come pure il funzionamento sociale complessivo. Benché la ristrutturazione cognitiva e gli skills training siano associati con miglioramenti in terapia, questi non sembrano migliorare l’outcome dell’esposizione graduale; molti pazienti continuano a mostrare problemi significativi dopo la CBT di gruppo; trattamenti di più lunga durata potrebbero essere necessari per cambiare pattern cognitivi e comportamentali di lunga durata.
La terapia di gruppo è particolarmente difficile per pazienti che hanno difficoltà a decodificare gli stati mentali propri e altrui, e al contrario di quanto suggerito in questo articolo non c’è ragione per considerarla un trattamento di prima scelta. Sull’uso dei farmaci nei disturbi di personalità a parte il borderline non c’è letteratura conclusiva, quindi non c’è motivo di raccomandare gli ansiolitici come trattamento di prima scelta e l’uso degli antidepressivi dovrebbe essere accuratamente valutato.
Studi interessanti vengono dallo Ullevaal project a Oslo e lì si è visto che pazienti con scarse capacità di mentalizzazione potevano rispondere meglio al trattamento ambulatoriale che a quello intensivo di gruppo, probabilmente perché per loro il gruppo poteva essere troppo difficile (Arnevik et al., 2009; Gullestad et al., 2012; 2013).
Trattare l’evitamento con l’esposizione
L’esposizione, ossia quella tecnica che propone alle persone d’affrontare ciò che più temono coll’aiuto di un terapeuta, può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”. Tecnica tradizionalmente associata alla terapia cognitivo-comportamentale, viene in realtà utilizzata in moltissime forme di psicoterapia, in particolare per il trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dell’ipocondria, del disturbo dell’immagine corporea e dei disturbi dell’alimentazione. Sul piano pratico consiste nello stabilire con il paziente graduali step per affrontare l’evento o la situazione temuti, in modo da confrontarsi con le paure temute in diversi contesti, solitamente da quello meno ansiogeno al più spaventoso.
Le tecniche di esposizione sono efficacemente utilizzate anche nel trattamento del disturbo post traumatico da stress, di cui l’evitamento è un aspetto sintomatologico importante.
Il Trattamento di Esposizione Prolungata https://www.stateofmind.it/2016/03/trattamento-di-esposizione-prolungata-per-il-ptsd-con-edna-foa-copenaghen/
era applicata già negli anni 80 ai disturbi d’ ansia con il nome di Teoria dell’elaborazione emotiva (Foa et al, 1986) e solo successivamente è stata applicata al disturbo da stress post traumatico (Foa et al, 1989).
Il protocollo di Esposizione Prolungata per il PTSD prevede dalle 10 alle 14 sedute di 90 minuti ciascuna e si presenta come trattamento specidico per il disturbo da stress post traumatico e non per la terapia del trauma in generale.
L’esposizione immaginativa si presenta come l’elemento maggiormente caratterizzante e specifico dell’intervento terapeutico: il paziente ripercorre all’episodio traumatico raccontando l’evento e successivamente il terapeuta lo aiuta, mediante domande, ad elaborare il materiale traumatico.
Successivamente i singoli hot spots (frammenti del ricordo più attivanti) vengono ripetuti in modo ricorsivo. In tal senso il Trattamento di Esposizione Prolungata interviene sulle componenti disturbo da stress post traumatico sia sull’aspetto sintomatologico (es. flashback, incubi, ipererousal, perdita della dimensione presente) che sulle frequenti cognizioni irrealistiche (es. il mondo è cattivo, io sono incapace di affrontare lo stress legato all’evento traumatico e io sono colpevole) e sulla componente emozionale (legata a vissuti di paura, colpa, vergogna, rabbia ecc) utilizzando due componenti della processazione dei ricordi dolorosi, quali l’ Activasion e la Correttive Information.
Evitamento VS accettazzione: l’ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY
nell’act l’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.
L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione della rabbia.
Che sia rivolto all’interno della nostra esperienza psichica o all’esterno, la natura e la funzione dell’evitamento esperienziale non cambia: lo scopo è fuggire, razionalizzando, ignorando, iperspiegando. Cercando con tutte le forze di allontanare ciò che per noi è doloroso e che riteniamo insopportabile.
Possiamo, quindi, evitare pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni (anche piacevoli, ad esempio entrare in contatto con l’intimità) ma anche situazioni esterne.
E’ fondamentale comprendere insieme al paziente quali siano le aree della sua esperienza in cui presenta un repertorio e modalità di fare esperienza che siano ristretti, ripetitivi, ricorsivi e che portino alla formazioni di circoli viziosi dannosi.
Anche durante la terapia, e nella relazione terapeutica, è possibile osservare alcuni comportamenti del paziente che facciamo pensare ad una messa in atto dell’evitamento. Vediamone alcuni. Rispondere in modo aggressivo ad un intervento del terapeuta, arrivare in ritardo alla seduta, attivare l‘accudimento del terapeuta tramite una richiesta di aiuto disfunzionale e allarmante. Altre situazioni di evitamento esperienziale potrebbero essere le risate durante un racconto doloroso e sofferente, non lasciare mai spazio agli aspetti negativi e dolorosi degli episodi narrati oppure cambiare in modo repentino argomento mentre in seduta si stanno affrontando temi importanti per il paziente.
Come si può vedere da questi esempi, tutti questi comportamenti sono accumunati dallo scopo di evitare pensieri, emozioni, immagini e ricordi dolorosi che sarebbe opportuno affrontare. Il tutto con l’aspettativa e la convinzione che controllando questi aspetti si possa soffrire meno. Presto ci si accorge che, come ben scrive Hayes: “the control is the problem, not the solution” (“il controllo non è la soluzione, ma il problema”).
Quale alternativa, quindi, all’evitamento esperienziale?
Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”.
Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorni la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi.ollo è il Problema, non la Soluzione.
Per quanto difficile tale processo possa essere, l’alternativa sembra più dannosa: versare tutto nel pentolone bucato del dimenticatoio non funziona e non fa altro che aggiungere dolore e sofferenza al dolore già normalmente presente nelle vite di tutti gli esseri umani.
Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’ACT) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.
In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
Bibliografia:
- Beck, A. T. (1976). Cognitive therapy and emotional disorders. New York: Meridian. Trad it. Principi di terapia cognitiva. Roma: Casa Editrice Astrolabio
- Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.