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La strategia dell’evitamento negli attacchi di panico

Oltre all’ingombrante comportamento evitante, gli attacchi di panico si caratterizzano per le alterazioni fisiologiche e per quelle cognitive

Di Giovanni Luise

Pubblicato il 28 Giu. 2021

Sono dieci milioni gli italiani che almeno una volta nella vita hanno avuto un attacco di panico che si trasforma in una malattia cronica in un caso su due.

 

Ammettilo: quant’è bello avere tutto sotto controllo?

Sapere con certezza che ogni cosa andrà come previsto, che le persone faranno esattamente ciò che avevi programmato e che la tua vita andrà sempre nella direzione che fin da piccolo avevi sognato.

Appunto, sognato.

Come ho letto nel bagno di un Autogrill “Ricordati che l’unica cosa che va secondo i piani…è l’ascensore”.

In Psicologia esiste un’efficace espressione per definire l’eccessivo utilizzo da parte dell’uomo delle strategie di controllo: si chiama evitamento esperienziale.

Tutti, chi più chi meno, mettiamo in pratica questo comportamento quando evitiamo di parlare con la vicina di casa perché è noiosa e ci fa perdere cinque minuti del nostro preziosissimo tempo, quando tentiamo di allontanare il ricordo triste e desolante che ciclicamente la nostra mente ci ripropone, o quando ci sforziamo di mascherare la sofferenza che stiamo provando in quel momento nel tentativo di non farla percepire alle persone che ci vogliono bene (ma che se ci vogliono veramente bene, lo capiscono ugualmente).

L’evitamento consiste, quindi, nel fuggire da situazioni, pensieri, emozioni e ricordi che ci fanno stare male.

Praticando questa strategia con una certa costanza, nel tempo possiamo arrivare a sperimentare ansia, tristezza, depressione, ossessioni varie, dipendenza da persone, alcool, droghe, ma soprattutto forniamo terreno fertile ai famigerati e temuti attacchi di panico.

Sono dieci milioni gli italiani che almeno una volta nella vita hanno avuto un attacco di panico che si trasforma in una malattia cronica in un caso su due.

Personalmente ho avuto il piacere di sperimentarlo a vent’anni (l’età media di esordio), in un locale affollato quando nel bel mezzo di una bevuta con gli amici, la mente decise di richiamare la mia attenzione proponendomi il seguente pensiero: “C’è troppa gente. Non si respira!” e, da cane ben addestrato, ho incondizionatamente dato ascolto alla mia padrona.

Con il cuore a mille, sudato, in preda ad una sensazione di soffocamento e affamato d’aria, mi sono precipitato fuori dal locale cercando di dribblare tutti i presenti e una volta raggiunta l’uscita, in pochi secondi le mie funzioni vitali si sono riequilibrate a standard più accettabili concedendomi la possibilità di ricominciare a fare quella cosa a cui tutti pensiamo molto poco ma che, in fondo, è l’evento più straordinario del mondo: respirare.

Purtroppo, però, è stato proprio quel sollievo a cui mi sono disperatamente aggrappato che mi ha fregato perché ha creato ciò che gli studiosi della Psiche definiscono consolidamento negativo, e cioè la tendenza a ripetere il comportamento che ha allontanato le sensazioni fastidiose.

In poche parole, non ha la minima importanza di quale ricordo o circostanza abbia innescato l’ansia la prima volta: scappando dal contesto in cui è comparsa per cercare sollievo, “impariamo” a temere e ad evitare quella situazione, con il risultato che la paura nella mente si solidifica diventando una certezza nella nostra vita.

Fuggendo dalla situazione che temiamo, pensiamo di indebolire l’ansia, ma in realtà la rafforziamo.

È come se la coltivassimo, continuando a farla crescere dentro di noi innaffiandola attraverso quotidiane gocce di paura.

Con il passare del tempo ho realizzato che la mia agorafobia, e cioè la fobia dei posti chiusi, non consisteva tanto nella paura della grandezza del locale, della presenza o meno al suo interno di una uscita di sicurezza (cosa che verificavo puntualmente) o della capienza massima di persone che poteva contenere la stanza, quanto dall’ingombrante e sempre più incontrollato pensiero che, qualora avessi rimesso piede in un locale, non solo avrei avuto un nuovo attacco ma questo sarebbe stato ancora più catastrofico del precedente.

Oltre all’ingombrante comportamento evitante, l’attacco di panico si caratterizza sia per le alterazioni fisiologiche come il battito del cuore accelerato, il respiro affannato, un senso di confusione generale e la fatica a deglutire, sia per le alterazioni cognitive come preoccupazioni e pensieri che confondiamo con la realtà immaginando disastri di ogni genere finendo per escogitare decine di modi per evitarli.

Senza riuscirci chiaramente.

Alla base della nostra paura vi è quindi sempre la strategia dell’evitamento ma più scappiamo, più rendiamo inevitabile il verificarsi del prossimo attacco di panico perché ci impratichiamo a fuggire da tutte quelle situazioni che potrebbero suscitare in noi sia reazioni fisiologiche che cognitive.

Il panico non sopraggiunge perché abbiamo paura del locale affollato, ma arriva perché abbiamo paura del pensiero del locale affollato.

Se ci ostiniamo ad evitare le esperienze per paura di provare…paura, rischiamo di impoverire radicalmente la nostra vita; possiamo arrivare a non salire più sopra un aereo, sviluppare fobie per animali o insetti, rinunciare a prendere l’ascensore, stare in luoghi affollati, guidare una macchina, camminare in un bosco o parlare in mezzo alla gente.

Pensando di fare la cosa giusta, mettiamo in realtà in pratica l’errore più grande perché è proprio fuggendo da ciò che temiamo che tendiamo a rafforzare nella nostra mente l’idea che il pericolo sia reale.

Anche se di reale al giorno d’oggi è rimasta la regina Elisabetta e poco altro.

Ansiogeno per eccellenza fu Alessandro Manzoni e famoso è il suo attacco di panico quando durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, si ritrovò bloccato nel mezzo di una folla e a seguito dello scoppio di qualche petardo fu letteralmente preso dal terrore.

Come scrisse successivamente l’amatissima moglie Enrichetta Blondel “il mio caro Alessandro si definisce lui stesso un povero convulsionario”.

La strategia dell’evitamento si caratterizza per quattro step fondamentali: nel primo si evitano accuratamente tutti i luoghi dove si è verificato l’attacco di panico. Nel secondo si sta alla larga da tutti i contesti simili che possono riportarci alla memoria il primo drammatico episodio, nel terzo ci scervelliamo come Arsenio Lupin cercando di evitare ogni situazione e posto in cui la fuga è difficile, e infine, dopo aver dato ampio spazio ai precedenti, potremmo arrivare all’ultimo stadio in cui si è ritrovato l’autore dei Promessi Sposi che, ad un certo punto della sua vita, non fu più in grado di uscire di casa da solo.

Proprio così. L’attacco di panico da questo punto di vista è estremamente democratico: può colpire chiunque senza distinzione di classe sociale, etnia o età.

Cosa fare quindi se ci capita di essere travolti da questo tsunami?

Cerchiamo di mettere in pratica quella cosa che avremmo dovuto imparare fin da piccoli: quando si presenta il panic, anziché spaventarci, andiamogli incontro; in questo modo perderà vigore e comincerà a ridimensionarsi perché ha bisogno di essere contrastato per alimentarsi.

Non combattendolo, si indebolirà da solo e allo stesso tempo crescerà dentro di noi il coraggio necessario per andargli incontro nelle circostanze quotidiane in cui sorge.

Durante un convegno di qualche anno fa, il relatore prof. Attilio Piazza lesse in aula una breve e illuminante storiella:

Un uomo fece un terribile sogno in cui stava per essere mangiato da un tremendo mostro. Disperato, supplicò il mostro piangendo: “ti prego risparmiami!”, “ti prego non farmi male!”, “ti prego lasciami libero!” E il mostro, guardandolo con stupore gli rispose: “Guarda che non so mica se posso farlo: il sogno è il tuo!”.

Non dimentichiamoci mai che dipende, sempre, tutto da noi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Russ H. (2010). La trappola della felicità. Erickson, Trento.
  • Manzoni A. (1827). I Promessi Sposi. Newton Compton Editori, Roma.
  • Piazza A. (2013). La saggezza viene dal cuore. Tea, Milano.
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