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Attacchi di Panico

Gli attacchi di panico sono periodi di paura o disagio intensi in assenza di vero pericolo e accompagnati da sintomi cognitivi e fisici (somatici)... 

Attacchi di panico: sintomi, caratteristiche e cura delle crisi di panico

Chiunque abbia vissuto uno o più attacchi di panico, li descrive come un’esperienza terribile, che si presenta in maniera spesso improvvisa ed inaspettata, soprattutto la prima volta.

Cosa sono gli attacchi di panico?

Gli attacchi di panico si manifestano con un’improvvisa e intensa paura in assenza di un reale pericolo, accompagnata da sintomi somatici, dovuti all’attivazione del sistema simpatico, e cognitivi (paura di impazzire, di perdere il controllo, paura di morire). Generalmente raggiungono rapidamente l’apice e sono di breve durata (di solito 10 minuti o meno).

La parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente del “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata.

Infatti chiunque abbia vissuto uno o più attacchi di panico, li descrive come un’esperienza terribile, che si presenta in maniera spesso improvvisa ed inaspettata, soprattutto la prima volta. Dato il terrore provato, è facile immaginare come la paura di una nuova crisi di panico diventi elevata e dominante.

Un attacco di panico, dunque, può sfociare in un vero e proprio disturbo di panico, in quanto nel soggetto si instaura la cosiddetta “paura della paura”e un rigido circolo vizioso che lo porta a evitare quei luoghi o quelle situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto nel caso di un attacco di panico inaspettato (insorge così la cosiddetta “agorafobia“). In questo modo si evitano i viaggi nei mezzi pubblici, la guida dell’auto, lo stare in mezzo a una folla o situazioni simili. L’evitamento delle situazioni ansiogene guida il comportamento del paziente con attacchi di panico.

I sintomi degli attacchi di panico

I 13 sintomi dell’attacco di panico, così come indicati dal DSM5, sono:

1. Palpitazioni, battito cardiaco accelerato o battito cardiaco accelerato.

2. Sudorazione.

3. Tremore o agitazione.

4. Sensazioni di mancanza di respiro o soffocamento.

5. Sentimenti di soffocamento.

6. Dolore o fastidio al petto.

7. Nausea o disturbi addominali.

8. Sensazione di vertigini, instabilità, stordimento o svenimento.

9. Brividi o sensazioni di calore.

10. Parestesie (sensazioni di intorpidimento o formicolio).

11. Derealizzazione (sentimenti di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi).

12. Paura di perdere il controllo o di “impazzire”.

13. Paura di morire.

Ulteriore caratteristica associata è il forte desiderio di fuggire dal luogo in cui si sta manifestando l’attacco di panico. Il disagio generato dagli attacchi di panico è spesso accompagnato da vergogna e timore che il malessere sia percepito dalle altre persone favorendo un’immagine di sé “debole”.

Il carattere improvviso degli attacchi di panico e la loro relativa imprevedibilità, porta spesso le persone che hanno questo problema a sentirsi particolarmente deboli e vulnerabili, condizione che conduce spesso a un cambiamento significativo della vita.

Come si manifestano gli attacchi di panico? Quanto dura un attacco di panico?

Gli attacchi di panico si manifestano in modo improvviso e intenso, generalmente raggiungono in maniera molto rapida l’apice e sono di breve durata (di solito 10 minuti o meno).

Per parlare di attacco di panico non è necessario che si manifestino tutti i sintomi elencati. Molte crisi di panico sono caratterizzate solo da alcuni di questi. La frequenza e la gravità dei sintomi può cambiare nel corso del tempo e a seconda delle situazioni.

Può capitare che vi siano persone che provano attacchi meno frequenti e più intensi, mentre altre posso avere attacchi più frequenti ma con sintomi più leggeri. Esistono anche gli attacchi paucisintomatici, in cui soi manifesta solo una parte dei sintomi, senza che si sfoci in una vera e propria crisi di panico. Di solito chi li prova ha però sofferto in un qualche momento della propria vita di attacchi di panico completi.

Diagnosi del disturbo da attacchi di panico

Il primo attacco di panico è quindi generalmente inaspettato, per cui chi lo vive si spaventa molto e spesso, allarmato dai sintomi, si rivolge al pronto soccorso. Come abbiamo visto, di frequente il singolo attacco di panico tende a sfociare facilmente in un vero e proprio disturbo, ovvero il disturbo di panico. Tale disturbo è caratterizzato da attacchi di panico inaspettati e ricorrenti, seguiti da almeno un mese di preoccupazione persistente verso il manifestarsi di un altro attacco di panico.

Secondo il DSM-5, per fare diagnosi di disturbo di panico, devono essere soddisfatti i seguenti criteri:

  • A) presenza di attacchi di panico inaspettati e ricorrenti (un solo attacco di panico non è dunque sufficiente), dei quali almeno uno seguito da un mese (o più) di preoccupazione persistente di avere altri attacchi e/o di preoccupazione relativa alle implicazioni o alla conseguenze dell’attacco (ad esempio, perdere il controllo, avere un infarto cardiaco, impazzire), e seguiti da una significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi di panico.
  • B) presenza o assenza di Agorafobia
  • C) gli attacchi di panico non devono essere causati dagli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, da abuso di una droga) o di una condizione medica generale (ad esempio, ipertiroidismo).

Gli attacchi di panico non devono essere meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come ad esempio la Fobia Sociale.

Per la diagnosi di Disturbo di Panico sono dunque richiesti almeno due attacchi di panico inaspettati, ma la maggior parte degli individui ne hanno molti di più.

Può capitare che le crisi di panico si intensifichino in periodi di vita più stressanti, tra cui troviamo: l’inizio di una convivenza, il matrimonio o la separazione; la malattia o il lutto di una persona cara; problemi scolastici, lavorativi ed economici.

Attacchi di panico e agorafobia

Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare gli attacchi di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia, intesa come la paura di trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale. L’agorafobia è dunque come una sorta di cura fai da te del terribile panico.

Etimologicamente, il termine proviene dal greco “αγορά” (piazza) e “φοβία” (paura): “paura della piazza”. Ovvero degli spazi aperti e/o affollati.

La definizione tecnica usata dagli psichiatri, come abbiamo visto, è però differente: è il timore di trovarsi in luoghi dove – secondo il giudizio della stessa persona agorafobica – potrebbe avvenire un attacco di panico. In parole più semplici, si ha paura degli spazi aperti perché si teme che sia probabile avere degli attacchi di panico.

Il panico è una condizione emotiva di paura e terrore, in cui però prevalgono gli aspetti corporei e fisiologici della paura: il cuore palpita, il corpo trema e suda, si percepisce un malessere al petto o all’addome. Inoltre ci si può sentire bizzarramente estraniati dalla realtà e perfino da se stessi. Si ha paura, ma non si capisce bene di cosa. Forse del proprio star male, in una condizione che è terrificante, in cui si tocca con mano la sensazione di impazzire.

Queste sensazioni corporee corrispondono a un preciso assetto fisiologico che è uno dei tre sistemi biologici innati (gli altri due sono la fuga e l’attacco) che abbiamo a disposizione per reagire a un pericolo o a una minaccia: il “freezing”, ovvero il raggelarsi a imitare la freddezza della morte.

Questa reazione è qualitativamente diversa dalla paura che porta alla fuga, o all’attacco, ed è innescata da un pericolo terrificante in cui non vi sono vie di fuga. In questi casi tanto vale paralizzarsi in una condizione di estremo rallentamento delle funzioni vitali, che è l’assetto fisico migliore (o il meno peggio, a essere realistici) per affrontare situazioni estreme, che siano disgrazie naturali o anche attacchi di predatori, che magari potrebbero risparmiarci proprio perché ci scambiano per cadaveri. A volte si scampa in questa maniera alle fucilazioni di massa: svenendo e –naturalmente- avendo la fortuna di non essere colpiti dalle sventagliate di proiettili e di non essere seppelliti subito vivi ma lasciati li, morti apparenti in compagnia dei veri cadaveri.

Quello che è interessante è che la maggior parte degli animali posti in un ambiente non familiare mostrano immediatamente un incremento di indicatori di freezing, a dimostrazione che lo spazio aperto e gli ambienti non familiari racchiudono in sé un’informazione emozionalmente significativa.

Cosa succede al nostro cervello durante le crisi di panico?

I segnali provenienti dagli organi di senso, principalmente quelli visivi, uditivi e olfattivi, raggiungono dapprima il talamo. Da qui, se l’informazione viene percepita come sconosciuta o minacciosa, è trasmessa all’amigdala che, in quanto centralina d’allarme, etichetta lo stimolo, riconoscendolo come pericoloso, sconosciuto o doloroso: in particolare se lo riconosce come pericoloso, attiva il sistema nervoso simpatico, che fa parte del sistema nervoso autonomo (cioè indipendente dai nostri ragionamenti e dalla nostra volontà).

Il sistema nervoso autonomo è composto, per l’appunto, da due vie: simpatico e parasimpatico, che decorrono ai lati della colonna vertebrale (una serie di innervazioni che dal midollo spinale giungono agli organi periferici). Il sistema nervoso simpatico (SNS) è finalizzato a preparare l’organismo ad attaccare o a fuggire da una situazione di pericolo o minacciosa.

Nel nostro cervello però abbiamo un’altra parte molto importante che rappresenta l’area più razionale e abile di tutte: la corteccia.

La corteccia, nello specifico quella prefrontale, che nello sviluppo evolutivo si è formata in un secondo momento, è coinvolta nella pianificazione esecutiva e ha lo scopo di rivalutare la minaccia, prestare attenzione, aiutare a controllare gli impulsi, risolvere i problemi, riflettere sulle conseguenze delle nostre decisioni. Un’elaborazione più lenta, attraverso i vari livelli della corteccia, produce una classificazione più dettagliata ed esatta dello stimolo che viene inviato all’amigdala permettendo il compimento dell’attacco o della fuga oppure, se il sistema veloce e sommario ha prodotto un falso allarme, la cancellazione della risposta di attacco o fuga.

Quindi la corteccia, coinvolta nella memoria, nel ragionamento e nel giudizio può correggere le strutture cerebrali emozionali più antiche e automatiche, riducendo la possibilità di falsi allarmi e quindi l’esperienza soggettiva dell’ansia.

In alcuni momenti della giornata, quando siamo esposti a stimoli minacciosi o percepiti come tali, si attiva l’amigdala e, di conseguenza, viene innescata la modalità di attacco-fuga. Superato l’evento che ha innescato l’attivazione dell’amigdala, la corteccia può nuovamente operare al suo livello ottimale. Questo è il funzionamento della “normale” reazione di stress.

Quando però questo allarme viene attivato tante volte, le persone diventano reattive, impulsive e non riescono più a prendere decisioni lucidamente poiché sono confuse e disorientate. La presenza costante di stimoli percepiti come minacciosi o pericolosi, che scatenano risposte di attacco-fuga determina una sovrastimolazione del sistema limbico e quindi dell’amigdala.

Gli attacchi di panico, dunque, sono il risultato di interpretazioni “catastrofiche” di eventi fisici e mentali che vengono erroneamente considerati come segni di un imminente disastro.

La paura della paura nelle crisi di panico

La paura è un’emozione che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. Il panico può essere innescato da qualsiasi paura per una minaccia esterna, ma immediatamente dopo la minaccia diviene interna. Il soggetto infatti reagisce alla paura con delle risposte fisiologiche che, a lungo andare, non vengono riconosciute per quello che sono (ovvero risposte fisiologiche a qualcosa che ci fa paura). Queste invece diventano lo stimolo che provoca paura, la quale – di conseguenza – si amplifica (ho paura di sentire il mio cuore battere forte, anziché interpretarlo come un segnale fisiologico di risposta a qualcosa che mi spaventa o mi crea stress). Il soggetto non riconosce i segni della paura ma li interpreta come una gravissima minaccia interna alla propria salute fisica o mentale (teme di morire o di impazzire) ed entra in quel loop di autorinforzo chiamato circolo di Clark, noto anche come la paura della paura.

Secondo il Modello del Circolo vizioso del Panico (Clark, 1986 – Modificato da Wells, 1997) vi è uno Stimolo scatenante esterno oppure interno che viene percepito come minaccioso attivando così le sensazioni somatiche del panico, come ad esempio dolori al petto, palpitazioni, salivazione azzerata, nausea, tremore tachicardia, tremore, fame d’aria, iperventilazione ecc.

Dopodiché vi è un’interpretazione catastrofica delle sensazioni mentali e somatiche che accompagnano questa preoccupazione ad esempio ‘non respiro… e se mi sento male? Mi sta venendo un infarto?‘. Tutto ciò porta ad un incremento della preoccupazione, cioè si acuiranno le sensazioni somatiche, fino a causare un vero e proprio Attacco di Panico. Invece, se si mettono in atto evitamenti o comportamenti protettivi le manifestazioni negative diminuiranno con la conseguenza di una cronicizzazione dell’ansia.

Il vortice del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi di panico.

Perché è difficile liberarsi degli attacchi di panico?

Dopo il primo attacco di panico, vi sono dei fattori che mantengono e alimentano il problema, ostacolandone la soluzione:

  • Sensibilità all’ansia

Alcune persone hanno una predisposizione individuale a provare paura per le proprie sensazioni legate all’attivazione fisiologica.

  • Effetto di coerenza con l’emozione

È un fenomeno cognitivo in cui i pensieri e credenze tendono a essere coerenti con l’emozione attivata. Se stiamo provando ansia avremo accesso solo a memorie ansiogene che ci confermeranno la presenza di un pericolo/minaccia.

  • Attenzione selettiva

Consiste nel  monitoraggio delle proprie sensazioni interne con una particolare attenzione alle situazioni temute, allo scopo di verificare la presenza di segnali che potrebbero scatenare l’attacco di panico. Ciò produce un abbassamento della soglia di percezione di queste sensazioni e contemporaneamente l’aumento dell’intensità soggettivamente percepita, facilitando così l’attivazione del circolo vizioso del panico.

  • Emozione come informazione

Lo stato emotivo in cui ci troviamo funziona come fonte d’informazione, per questo motivo se proviamo ansia deduciamo che ci debba essere un pericolo in agguato.

  • Comportamenti protettivi

Hanno lo scopo, durante il circolo del panico, di prevenire l’attacco di panico.

  • Evitamenti

Le persone con attacchi di panico evitano tutte le situazioni che ritengono favorire il panico, cercando di mantenersi all’interno della propria comfort zone che però rischia, col tempo, di restringersi sempre di più.

Attacchi di panico o disturbo cardiaco?

Il sintomo somatico più frequente e angosciante per chi sperimenta un attacco di panico è la tachicardia.

La tachicardia rappresenta generalmente un aumento della frequenza del battito cardiaco al di sopra del valore limite considerato normale per un cuore a riposo, per convenzione, a 100 battiti al minuto (bradicardia è invece una frequenza inferiore a 60 battiti al minuto).

La tachicardia in genere provoca la percezione soggettiva del battito cardiaco (che normalmente non avviene) spesso descritta come “sensazione del cuore in gola”.

È possibile distinguere la tachicardia esclusivamente cardiologica dalla tachicardia dello stato d’ansia e dell’attacco di panico prendendo in considerazione quattro caratteristiche fondamentali del battito cardiaco:

  • Frequenza del battito cardiaco: se la tachicardia si mantiene entro i 130 battiti al minuto ci troviamo, quasi certamente, di fronte a una tachicardia su base ansiosa di pertinenza psicoterapeutica e/o psichiatrica, mentre le tachicardie che superano i 150/ 200 battiti al minuto sono da considerare, quasi sicuramente, di natura cardiologica.
  • Ritmicità o aritmicità: negli attacchi di panico è presente l’aumento del battito cardiaco che conserva regolarità del ritmo, l’aumento della frequenza del battito cardiaco con irregolarità del ritmo, è tipico di condizioni cardiologiche.
  • Modalità di insorgenza e remissione: gli attacchi di panico raggiungono l’apice in 10 minuti, mentre la sua scomparsa è più graduale. Nelle aritmie si passa bruscamente da un ritmo normale a un ritmo di 150 battiti al minuto e oltre, anche la remissione del sintomo è improvvisa e non graduale.
  • Sintomi di accompagnamento: molti sintomi delle aritmie sono simili ai sintomi degli attacchi di panico, ma alcuni sintomi, tipici degli attacchi di panico, non sono presenti nelle aritmie: palpitazioni/tachicardia, sudorazione, brividi o vampate di calore, tremori fini o grandi scosse, parestesie, nausea o disturbi addominali, senso di asfissia, derealizzazione/ depersonalizzazione, non si hanno nelle aritmie. La sintomatologia che si ritrova nell’aritmia e difficilmente negli attacchi di panico riguarda dolori o fastidi al petto.

Come curare gli attacchi di panico

La psicoterapia

Le linee guida internazionali (NICE National Institute for Health and Clinical Excelence, 2011) indicano la psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, insieme al training di rilassamento, come i trattamenti più efficaci per la cura degli attacchi di panico. Anche gli interventi di self-help e la psicoeducazione in gruppo seguono un orientamento cognitivo comportamentale.

Gli interventi CBT si basano su protocolli strutturati che devono essere seguiti durante la terapia.

Secondo il modello cognitivo non è la situazione in sé a spaventare, ma il modo in cui la interpretiamo. Non sono, quindi, gli eventi a provocare quello che sentiamo, ma il modo in cui li vediamo e li gestiamo, attraverso i nostri pensieri (Beck, 2013). Il trattamento cognitivo comportamentale quindi prevede di aiutare il paziente in una serie di passi a:

  • Prestare attenzione a ciò che si prova, anche al livello delle sensazioni corporee, in un determinato momento.
  • Identificare quali sono i pensieri relativi all’emozione, il proprio dialogo interno.
  • Esercitarsi a mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni disfunzionali.
  • Sostituire i pensieri e le convinzioni disfunzionali con pensieri più vicini alla realtà e più utili per il raggiungimento dei propri obiettivi.
  • Smettere di evitare con l’uso di tecniche comportamentali come l’esposizione enterocettiva e in vivo.

Farmaci per gli attacchi di panico

I farmaci d’elezione per il trattamento del disturbo da attacchi di panico sono gli antidepressivi e le benzodiazepine. I primi, tra cui gli inibitori della ricaptazione della serotonina (ssri), riducono gli attacchi di panico e possono essere assunti per periodi più lunghi in quanto non provocano dipendenza.

Le benzodiazepine, invece, producono degli effetti ansiolitici immediati ma, a lungo termine, possono causare dipendenza e sintomi di astinenza (quindi solitamente vengono impiegati solo nella fase iniziale della cura).

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