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Io esco da solo: come guarire da agorafobia e attacchi di panico (2022) – Recensione

"Io esco da solo: come guarire da agorafobia e attacchi di panico" mira a trasmettere il messaggio che rompere la prigione costruita dal panico è possibile

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 11 Nov. 2022

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo “Io esco da solo” si fa portatore. 

 

Non si può guidare un aereo senza guardare i comandi, ignorando che la benzina stia per terminare. Lo schianto sarebbe inevitabile.

La dr.ssa Scilla Chiesa, autrice dell’introduzione al testo di Marco Fava, utilizza questa efficace metafora per indicare la necessità di gestire le nostre emozioni, per evitare di frantumarci letteralmente contro di esse. La conseguenza ben poco augurabile sarebbe la perdita della coscienza e del dominio di Sé.

Una regolazione emotiva disfunzionale può rivelarsi matrice di disagi potenzialmente lesivi dell’omeostasi e del benessere psicofisico, tanto da esitare, nei casi più gravi, in una dimensione patologica. Il testo lo spiega chiaramente identificando come il panico, oggetto centrale della trattazione, costituisca una degenerazione della paura, e nello specifico un’estremizzazione dell’intento autoconservativo insito in essa.

Questa scarica di angoscia incontrollabile che colpisce all’improvviso e priva del controllo di sé, ha infatti ben poco a che vedere con lo scopo principale della paura, identificabile nella volontà di difendersi da uno stimolo minaccioso in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza; piuttosto si mostra un elemento annichilente, indomabile ma terribilmente dominante, di fronte al quale l’individuo può arrivare a perdere la percezione del proprio corpo e persino della realtà.

Il panico depotenzia, limita, paralizza. Carica di valenza traumatica ogni contesto cui viene associato.

Dopo il primo terribile attacco, ogni istanza reattiva o motivazionale viene meno: la sola priorità diviene quella di evitarne il riproporsi, per sfuggire alle sensazioni terrifiche ancora vivide nella memoria. Da qui le strategie di evitamento, confortanti quanto deleterie: ci rinchiudiamo in casa, ci rifiutiamo di viaggiare da soli, ci costruiamo una confort zone in grado di difendere da quegli stessi pericoli di cui non si conosce neppure l’identità.

Tramutandosi in una sorta di prigione, la volontà di difendersi crea una sintomatologia egodistonica che, oltre a causare stati affettivi disforici e cadute di autostima, comporta un elevato costo esistenziale. In poche parole, il prezzo da pagare è molto alto: colui che soffre di attacchi di panico o di agorafobia è costretto in un recinto, psichico prima ancora che territoriale. È ostaggio di un’angoscia avida e invadente che non si accontenta delle limitazioni. Non giunge al compromesso, ma vuole sempre di più. Fino a che, dopo limitazioni sempre più restrittive, non ci si sente più sicuri neppure a casa. Il circolo vizioso ha ormai preso il sopravvento. Ed è a questo punto che la convivenza con il panico si fa impossibile.

Si tocca il fondo. Sembra arrivata la fine. Ma paradossalmente è proprio questo il momento in cui prospettare una possibile svolta. Un processo decisionale che costringe a fare i conti con questa terribile paura della paura. Provando a capire cosa si può fare per tornare indietro.

È quanto vuole dirci l’autore del testo, che, sulle righe di un racconto onesto ed empatico, espone la sua esperienza di vita senza porsi un intento clinico o scientifico. Non si trova, in queste pagine, nessun tecnicismo o divulgazione o disquisizione scientifica relativa al panico e ai suoi correlati. Nessun modello teorico, nessuna ricerca sperimentale. Né è ad un pubblico di professionisti che l’autore si rivolge: la narrazione, colma di riferimenti dal sapore personale, empatico e dolorosamente “vissuto”, è piuttosto diretta a quelli che, come lui, combattono da anni contro la prigionia del panico, confrontandosi ogni giorno con le sue perfide intransigenze, le sue proibizioni, le sue ostinazioni: fino a rendersi schiavi del suo gioco mortifero.

I messaggi del testo

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo si fa portatore.

L’inganno del panico è quello di millantare se stesso come un’entità invincibile e insopprimibile. Non è così. Tutti coloro che ne soffrono possono riuscire a liberarsene. A guarire. Laddove con guarigione non si intende una miracolistica remissione del sintomo, ma soprattutto una gestione funzionale e consapevole dello stesso, finalizzata a depotenziarne gli effetti e le conseguenze. Terribili quanto erronee, fallaci, ingannevoli. Il bluff della mente, come lo chiama l’autore, è quello di entrare in un circolo vizioso in cui la potenza annichilente del panico alimenta interpretazioni falsate, deficit di conoscenze realistiche sulle malattie e sul loro decorso, credenze erronee ma così cogenti da rendersi impermeabili a qualsiasi interpretazione alternativa.

È necessario smascherare questo inganno, perpetrato da sterili meccanismi di mantenimento, prigionie travestite da difese che danneggiano e impoveriscono. E lo si può fare imparando a ragionare consapevolmente sulla paura, anziché lasciarsi travolgere. Rielaborare le cause, gli effetti, le origini e le direzioni, tramite una rieducazione del pensiero, che per raggiungere questo importante risultato richiede la mobilitazione di tutte le risorse psicofisiche di cui possiamo disporre.

E qui veniamo al secondo messaggio: nessuno può guarire da solo. È necessario affidarsi a una terapia che sia in grado di attivare le capacità cognitive utili a rapportarci al panico in una percezione più reattiva e consapevole, al fine di smantellarne letteralmente le fondamenta. Un sostegno che aiuterà a metterci alla guida di quel famoso aereo delle emozioni con doti di consapevolezza, controllo, agency.

È impensabile credere di poter uscire dal panico senza il supporto di un setting terapeutico adeguato: troppi sarebbero i rischi di ricaduta, di inefficacia, o addirittura di peggioramento. Via dunque ai pregiudizi circa un possibile percorso terapeutico. Per quanto questo comporterà sacrifici economici, fallimenti, talvolta passi falsi e ricadute. È il caso di cominciare il prima possibile, senza ripensamenti.

E la direzione è una e una soltanto: la psicoterapia cognitivo comportamentale. La sola in grado di costruire un impianto razionale contro l’irrazionalità del panico, un antidoto logico e pensante contro i suoi inganni, le sue assurdità, le sue infondatezze.

È grazie al modello cognitivo comportamentale se l’autore è riuscito a costruire un progetto di gestione consapevole delle proprie fobie. L’esercizio al ragionamento realistico cui la psicoterapia lo ha iniziato ha contribuito a restituire una struttura raziocinante ad un pensiero cui il panico aveva tolto competenze astrattive, riflessive, deduttive, rendendolo un mero gregario al servizio della sua fasulla onnipotenza. Ed è questo, forse, il terzo obiettivo del testo: omaggiare un modello terapeutico che tanto lo ha aiutato nel disegno del suo difficoltoso, e ormai insperato, percorso di guarigione.

Passo dopo passo: il percorso di guarigione

Per mettere fine allo strapotere del panico, l’autore identifica un percorso sintetizzabile nei seguenti punti chiave.

  • Obiettivi concreti e realistici. Il panico fa leva su una totale assenza di definizioni, di certezze, di conoscenze: non sappiamo da dove si origina, quanto potrà durare, a cosa ci porterà. Lo sentiamo soltanto arrivare nelle situazioni più inattese, e non possiamo che asservirci al suo crudele dominio. Tutto questo deve finire. L’autore lo spiega bene, evidenziando come sia necessario darsi degli obiettivi, senza pretendere troppo da noi stessi. Iniziando a piccoli passi, accontentandoci del poco che riusciamo a fare, e prendendolo come incentivo per fare meglio e di più la prossima volta. Se non riusciamo ad uscire neppure di casa è inutile imporci di fare improvvisamente un viaggio intorno al mondo. L’inevitabile fallimento cui andremmo incontro servirebbe solo da deterrente per qualsiasi progetto di crescita personale. Al contrario, i compiti devono essere scomposti in tante piccole fasi, i sotto obiettivi così tanto cari alla psicologia cognitivo comportamentale che, sul lungo termine, possono aiutarci a raggiungere grandi distanze.
  • Fare chiarezza e usare la ragione. Conoscere i propri sintomi, cosa li provoca, chiarine gli effetti. Iniziare a ragionare con la mente e non con la paura, ad esempio, servirà a comprendere che non si può morire di panico. Che una palpitazione non preannuncia necessariamente un infarto, e che una dispnea non corrisponde ad un principio di soffocamento. Le malattie hanno un’eziologia, un decorso, un’identità. Non è il caso di estremizzare, né di impiegare sugli stessi un’attenzione dispercettiva. È più opportuno lavorare per raggiungere una preziosa competenza di agency,  che consentirà una gestione più adeguata e consapevole dei propri sintomi.
  • Evitare l’evitamento. Una delle strategie più subdole del panico è quella di spingerci ad evitare i luoghi nei quali si è verificato la prima volta, nella speranza di riuscire a scongiurarne il temuto ripresentarsi. Il rinforzo negativo apportato dalle strategie di evitamento ci spinge a considerarle la via d’elezione per contrastare l’avvento della crisi. All’inizio può sembrare giusto. Ma alla fine questo rimedio illusorio diventa una trappola che impedisce la vita stessa, perché il panico è avido e intransigente. E impone restrizioni sempre più limitanti. Tanto che alla fine nessun posto –neppure la casa– sarà in grado di rassicurarci sufficientemente.
  • Distrarsi. Dobbiamo cercare di distrarre l’attenzione dal pensiero del panico. Trovando dei diversivi in grado di depotenziare la focalizzazione sullo stato di malessere innescato dal sintomo somatico e da lì l’ansia parossistica. Possiamo affidarci alle disponibilità contingenti o alle nostre naturali preferenze, per trovare attività in grado di ispirarci sentimenti positivi: scrivere, parlare con qualcuno, mettersi al computer. Fare una telefonata, se possibile, persino giocare con lo smartphone –non è sempre il caso di demonizzare la tecnologia!–, ma anche semplicemente mettersi a contare, fare associazioni di numeri e lettere. Utile anche l’utilizzo dei canali sensoriali, attraverso i quali stornare adattivamente lo stress suscitato da una sensazione sgradevole o minacciosa, e costruire un più intimo contatto col Sé. Un contatto viscerale che sia in grado di evocare sensazioni piacevoli e contenitive, e che, soprattutto, ci restituisca un’immagine del corpo più affidabile e meno distruttibile. Siamo più forti di quanto il panico ci spinga a credere.
  • Restare sul confine. Non dobbiamo illuderci. Il panico tornerà di nuovo e ci imporrà di tornare indietro, per rifugiarci in quella confort zone che tanto ci protegge. Ma non sarebbe onesto assumere un comportamento di ritirata, all’interno di un percorso di cambiamento concretamente meditato. È invece necessario accettare gli attacchi, quando si presenteranno. E anziché arrenderci alla loro intensità distruttiva, fissare l’attenzione sul sintomo che sono riusciti a suscitare in noi, scomponendone razionalmente le caratteristiche. Iniziamo ad esempio a chiederci: di cosa ho paura? Cosa mi fa male? Per quale motivo? Da quando è iniziato questo sintomo, e oggettivamente, a cosa potrà condurmi? Intraprendiamo un’analisi funzionale del panico, al fine di comprenderne l’origine, la durata e l’intensità. È necessario smascherare l’impostore, per impedirgli di averla vinta ancora una volta. Dobbiamo stare fermi sul confine, senza tornare indietro, e vedere quanto riusciamo a resistere.
  • Normalizzare i fallimenti. Non è il caso di lasciarsi prendere dallo sconforto, di fronte ad un fallimento. Consideriamolo piuttosto un incidente di percorso sul quale non è il caso di drammatizzare. Lo stesso autore riporta i passi falsi, gli errori, le ricadute che hanno costellato il suo percorso di guarigione e che, proprio grazie alla guida direzionante della psicoterapia, è riuscito ad inserire in un contesto di normalizzazione, senza lasciarsi scoraggiare in una prospettiva demotivante.
  • Pensiero positivo. Lasciare spazio all’ottimismo, non in senso irrealistico, e neppure in una modalità di negazione onnipotente. Ma soltanto per permettere l’instaurarsi di quelle strategie di coping che sottraggono all’impotenza, alla passività senza risoluzione, spingendo ad un confronto reattivo con il Sé e con la propria paura. Pensare in positivo vuol dire credere nel miglioramento, motivare il percorso terapeutico, lasciarsi andare a speranze e progettazioni. Una rieducazione di pensiero in grado di renderci un terreno meno fertile per l’insorgenza del panico e delle sue terrifiche conseguenze.
  • Cercare la paura. Alla fine non basta evitare il panico. Dobbiamo letteralmente stanarlo, sfidarlo, affrontando le stesse situazioni che ne causano l’insorgenza. Fino a provocarle volontariamente. Anche se può apparire impossibile. È l’unico modo per tenergli finalmente testa.
  • Voglio capire che paura sei. Da questa frase possiamo carpire il senso più profondo del testo, che non risiede tanto in un miracoloso passaggio dalla paura alla non paura, bensì nel raggiungimento di una gestione consapevole e tollerante dell’ansia distruttiva, quando si insedierà di nuovo nei nostri pensieri.

Uno dei meriti principali del testo di Fava è quello di trattare con semplicità di stile e di linguaggio- argomenti di grande intensità psichica. Esponendo senza sensazionalismi la sua esperienza personale, l’autore è riuscito a lanciare un messaggio diretto e leale, creando una sinergia empatica che si percepisce nell’intero corpo del testo.

Il messaggio è più volte ribadito: realizzare una breccia nella prigione costruita dal panico è possibile. E la narrazione della sua esperienza personale si pone l’obiettivo di mostrare il modo in cui riuscirci a tutti coloro che come lui sono incatenati da questo oscuro carceriere.

Fronteggiare la paura, accettare di penetrarne le profondità, chiamarla per nome. Sono questi, i capisaldi della guarigione, dai quali tutti possono trarre un’ispirazione motivante. Un punto di partenza per iniziare il percorso di liberazione dalla melma ottenebrante del panico, che può prendere vita solo dalla volontà individuale.

Il testo si pone come un prezioso appello alla mobilitazione delle proprie risorse personali –quelle stesse che il panico spinge a reputare inesistenti– per porle al servizio di uno scopo ben più costruttivo e proficuo: raggiungere il benessere e la padronanza di sé. Usare la ragione contro l’irrazionalità, la consapevolezza contro l’ignoto, per togliere potere al panico. Gestire la vita in base alle nostre e non alle sue esigenze.

Tutti ce la possono fare. Quindi è meglio cominciare il prima possibile. Il panico ci ha già portato via troppo tempo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Fava, M. (2022). Io esco da solo: come guarire da agorafobia e attacchi di panico. Giraldi.
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