Che cos’è lo stress?
Lo stress è una risposta psicofisica a compiti anche molto diversi tra loro, di natura emotiva, cognitiva o sociale, che la persona percepisce come eccessivi. Fu Selye il primo a parlare di stress, definendolo come una risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso (Selye, 1976).
In base alla durata dell’evento stressante è possibile distinguere due categorie di stress: se lo stimolo si verifica una volta sola e ha una durata limitata si parla di “stress acuto”, se invece la fonte di stress permane nel tempo si utilizza l’espressione “stress cronico“. Lo stress cronico propriamente detto dura a lungo, investe diverse sfere di vita e costituisce un ostacolo al perseguimento degli obiettivi personali. Si definisce, infine, “stress cronico intermittente” un quadro di attivazione da stress che si presenta ad intervalli regolari, con una durata limitata e un buon livello di prevedibilità. Accanto alla distinzione sulla base della durata è possibile individuare due categorie sulla base della natura degli eventi stressanti. In molti casi gli stressor sono nocivi e possono portare ad un abbassamento delle difese immunitarie – si parla quindi di distress. In altri casi, invece, gli stressor sono benefici, poiché favoriscono una maggior vitalità dell’organismo – si utilizza in questo caso l’espressione eustress.
Stress: un po’ di storia
Un punto di partenza nella ricerca sullo stress in ambito medico può essere individuato nei lavori di Hans Selye, un medico austriaco che, dalla metà degli anni Trenta del secolo scorso, iniziò a lavorare su questo tema presso l’Università di Montreal. Come riporta lo stesso Selye (1976) fu un esperimento condotto su alcuni topi alla ricerca di un nuovo ormone a indicare un’interessante linea di indagine. Indipendentemente dalla sostanza tossica iniettata, i topi mostravano tutti la stessa reazione: ispessimento della corteccia surrenale, riduzione del timo e ulcere sanguinanti nello stomaco e nell’intestino.
Selye conosceva i lavori del fisiologo Walter Cannon, che dagli anni Venti aveva lavorato sul concetto di omeostasi e sulla risposta d’allarme presso l’Università di Harvard. Dinnanzi ad un pericolo l’organismo ha una reazione di allarme che ha la funzione di preparare il soggetto ad una rapida azione offensiva o difensiva, fondamentale per la sopravvivenza. Cannon (1929) studiò e descrisse quella che è nota con il nome di flight or fight reaction: uno stato di sovraeccitazione innescato dall’attivazione del sistema nervoso autonomo in seguito alla rilevazione di un pericolo nell’ambiente esterno. Questa reazione di allarme è comune a uomini e animali e ha un forte valore evolutivo, poiché permette al soggetto di attivare una serie di risorse che possono risultare vitali in situazioni di pericolo.
Selye aveva studiato questo testo, ma riteneva che la fase di allarme non fosse sufficiente per rendere conto di un processo in realtà più articolato. Studiando i suoi topi in laboratorio il medico descrisse un ciclo che è noto come ‘sindrome generale di adattamento’ (Selye, 1974). La prima risposta ad un evento esterno stressante (che chiamò stressor) costituisce quella che propriamente si indica come ‘reazione di allarme’. Se lo stressor non è sufficientemente potente da risultare incompatibile con la sopravvivenza dell’organismo, ma al tempo stesso è prolungato, si innesca una seconda fase che si definisce di ‘resistenza’ e che, a livello di attivazione dell’organismo, coincide con risposte diverse e per alcuni versi opposte rispetto alla reazione di allarme. Tuttavia questa fase non può essere protratta a lungo: se lo stressor continua ad essere presente in modo intenso, si innesca la fase di esaurimento – le risorse a disposizione dell’organismo sono limitate e ad un certo punto si esauriscono (Selye, 1976).
La sindrome generale di adattamento negli esseri umani è un fenomeno di gran lunga più complesso di quello osservabile negli animali. Se nel regno animale la reazione di allarme è innescata dalla presenza di un predatore o da qualche minaccia concreta per la vita o per lo status nel gruppo del singolo, gli uomini tendono a reagire in questo modo anche se nessun pericolo reale è presente. Tra gli esseri umani, lo stress rappresenta una questione importante, che non si esaurisce in una reazione naturale ad un pericolo concreto: soprattutto nelle società occidentali moderne, questo utile strumento può diventare un modo di vivere dannoso, portando con sé difficoltà non indifferenti.
Quali sono le cause dello stress?
Lo stress è una risposta psicofisica che l’organismo mette in atto in risposta a compiti che sono valutati dall’individuo come eccessivi: questo significa che un evento stressante per qualcuno potrebbe non esserlo per altri e che uno stesso evento in fasi di vita diverse può risultare più o meno stressante. È tuttavia utile individuare alcuni fattori che risultano tipicamente stressanti per la maggior parte delle persone. Molti dei grandi eventi della vita possono risultare stressanti, sia eventi piacevoli come il matrimonio, la nascita di un figlio o un nuovo lavoro, sia quelli spiacevoli come la morte di una persona cara, una separazione o il pensionamento. Accanto a questi eventi possiamo identificare come fonti frequenti di stress alcuni fattori fisici: il freddo o il caldo intensi, l’abuso di alcol o il fumo, ma anche serie limitazioni nei movimenti. Esistono inoltre fattori ambientali che ci espongono al rischio di stress, pensiamo ad esempio alla mancanza di un’abitazione, agli ambienti molto rumorosi, a livelli di inquinamento elevati. Ricordiamo, infine, le malattie organiche e gli eventi straordinari quali i cataclismi.
I sintomi dello stress
Ci capita spesso di dire che siamo “stressati” ma non tutti i sintomi sono facili da individuare e possiamo sottovalutare il problema. Pur essendo difficile fornire un elenco esaustivo di tutti i sintomi dello stress, è utile individuare i più frequenti. Si individuano quattro categorie di sintomi da stress:
- sintomi fisici: mal di testa, mal di schiena, indigestione, tensione nel collo e nelle spalle, dolore allo stomaco, tachicardia, sudorazione delle mani, extrasistole, agitazione, problemi di sonno, stanchezza, capogiri, perdita di appetito, problemi sessuali, fischi alle orecchie;
- sintomi comportamentali: digrignare i denti, alimentazione compulsiva, più frequente assunzione di alcolici, atteggiamento critico verso gli altri, comportamenti prepotenti, difficoltà a portare a termine i compiti;
- sintomi emozionali: tensione, rabbia, nervosismo, ansia, pianto frequente, infelicità, senso di impotenza, predisposizione ad agitarsi o sentirsi sconvolti;
- sintomi cognitivi: difficoltà a pensare in maniera chiara, problemi nella presa di decisione, distrazione, preoccupazione costante, perdita del senso dell’umorismo, mancanza di creatività.
Stress e disturbi psicologici
Lo stress è connesso ad una quantità di disturbi psicologici: disturbo da stress post-traumatico, disturbo acuto da stress, disturbi psicosomatici, depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, disturbi della sfera sessuale e disturbi dell’alimentazione.
Stress e disturbi dell’umore
I disturbi dell’umore comprendono depressione e disturbo bipolare. Le depressioni ricorrenti si verificano in circa l’8% della popolazione e il disturbo bipolare, che è caratterizzato sia da depressioni ricorrenti che da episodi ipomaniacali/maniacali, si verifica in circa l’1% della popolazione. Chi ne soffre convive con sintomi depressivi o maniacali circa il 50% del tempo, ha una marcata diminuzione della qualità di vita e un’aspettativa di vita di 10-15 anni inferiore a quella della popolazione generale, dovuta a una maggior prevalenza di suicidio e alla mortalità cardiovascolare.
Lo stress è uno dei molti fattori di rischio per la depressione e anche un fattore di rischio per i disturbi cardiovascolari. Inoltre lo stress provoca un aumento dell’attività del sistema ormonale che regola la secrezione di cortisolo. L’ipercortisolismo, infatti, è comune nei pazienti con depressione. All’altra estremità dello spettro, ci sono esempi che mostrano che alti livelli di stress possono portare a ipocortisolismo a lungo termine. È possibile infatti che depressione e/o episodi maniacali ricorrenti, provocando un elevato accumulo di stress nel tempo, portino ad un esaurimento del sistema ormonale.
Disturbo acuto da stress
A seguito di un’esperienza molto stressante è possibile che l’individuo sviluppi un disturbo acuto da stress. Tale disturbo emerge nel corso dell’esperienza traumatica e del primo mese successivo all’evento. I sintomi comprendono dissociazione, evitamento, elevato arousal, difficoltà di concentrazione; può essere inoltre predittivo di disturbi post traumatici da stress.
Il disturbo acuto da stress (ASD) è stato introdotto nel DMS-IV per dare visibilità alla situazione di forte sofferenza provata durante un’esperienza traumatica, che può successivamente dar vita a Disturbi post-traumatici da stress (PTSD).
Nel DSM-5 è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali ricordiamo (American Psychiatric Association, 2013):
- l’esposizione a una situazione di forte minaccia, alla vita o all’integrità fisica (questo comprende anche la dimensione sessuale), per se stessi o altri.
- La possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni.
- Impossibilità a provare emozioni positive.
- Sintomi di evitamento, sia a livello cognitivo che comportamentale.
- Irritabilità, difficoltà di concentrazione o ipervigilanza.
Il disturbo acuto da stress differisce dal disturbo da stress post-traumatico per la gravità dei sintomi, che non sono riconducibili a un comune disturbo d’assestamento, e per la loro comparsa: il disturbo include infatti sia l’esperienza traumatica, sia i sintomi manifestati entro 1 mese dal trauma.
Sono inoltre presenti, durante l’evento traumatico (dissociazione peritraumatica) o successivamente ad esso, sintomi dissociativi quali derealizzazione, depersonalizzazione, amnesia dissociativa (Cardeñña, 2011).
Disturbo post-traumatico da stress
Se il Disturbo Acuto da Stress definisce una costellazione di sintomi che si manifestano entro un mese dall’evento traumatico, la diagnosi di Disturbo da Stress Post Traumatico si effettua per sintomi legati all’evento traumatico ma insorti o protratti al di là della soglia del primo mese; la sua durata può variare da un mese alla cronicità.
Il Disturbo Post-Traumatico da stress si manifesta in conseguenza di un fattore traumatico estremo, in cui la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri, come, ad esempio, aggressioni personali, disastri, guerre e combattimenti, rapimenti, torture, incidenti, malattie gravi.
La risposta della persona comprende paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore e l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente con ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni, incubi e sogni spiacevoli, agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando, disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico, reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico, evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale, difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, irritabilità o scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme.
Disturbo da Stress Post-Traumatico: come trattarlo?
Il Disturbo da Stress Post-Traumatico fa parte dei Disturbi d’Ansia, una categoria diagnostica per la quale la terapia cognitivo-comportamentale ha sviluppato approcci efficaci. Dato il carattere invalidante che il disturbo può assumere, una volta riconosciuto è importante intervenire. Scopo della terapia cognitivo-comportamentale è aiutare il soggetto ad identificare e controllare i pensieri e le convinzioni negative, identificando gli errori logici contenuti nelle convinzioni e le alternative di pensiero e di comportamento più funzionali e vantaggiose in relazione all’evento traumatico vissuto.
Alcune tecniche da utilizzare sono:
- l’esposizione
- ri-etichettamento delle sensazioni somatiche
- rilassamento e respirazione addominale
- ristrutturazione cognitiva
- EMDR
- Homework
La terapia cognitivo-comportamentale si rivela molto efficace subito dopo il trauma, sia per gestire i sintomi del Disturbo Acuto da Stress, sia per prevenire i Disturbi Post-Traumatici da stress. Nello specifico il trattamento può avvenire tramite la psicoeducazione, per aumentare la consapevolezza nell’individuo dei suoi schemi e delle sue risposte disfunzionali (La Mela, 2014) e la gestione dell’ansia e la ristrutturazione cognitiva, per lavorare invece sulle core beliefs (Bryant, 2003). Pare che proprio il focus sui meccanismi di mantenimento aiuti l’individuo a integrare il trauma ed evitare l’insorgere di PTSD, dato avvalorato dallo studio di Bryant et al. del 1998.
Gli effetti sono visibili non solo nel qui ed ora, ma anche dopo 6 mesi, il che fa intendere un cambiamento che non si ferma solo al sintomo, ma va già almeno a livello di credenze intermedie; oltre ad una più bassa emergenza di PTSD c’è anche una comparsa minore di sintomi di evitamento, un miglioramento quindi funzionale che ben contrasta l’ASD e una sua successiva evoluzione patologica (Bryant et al., 2002).
Il protocollo di Esposizione Prolungata (Prologed Exposure Therapy – PE) è stato messo a punto da Edna Foa e dal suo gruppo alcuni anni fa (Foa et al, 2007) e si colloca tra le procedure manualizzate insieme all’EMDR e alla Terapia Cognitiva Processuale (PCT) maggiormente presente in studi di efficacia e soggetta a sperimentazione (NovoNavarro et al, 2016).
La teoria alla base della concettualizzazione del Trattamento di Esposizione Prolungata era applicata già negli anni 80 ai disturbi d’ ansia con il nome di Teoria dell’elaborazione emotiva (Foa et al, 1986) e solo successivamente è stata applicata al disturbo da stress post traumatico (Foa et al, 1989).
Il protocollo di Esposizione Prolungata per il PTSD prevede dalle 10 alle 14 sedute di 90 minuti ciascuna e si presenta come trattamento per il disturbo post traumatico da stress e non per la terapia del trauma in generale.
Anche l’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) ha prodotto ottimi risultati. Tale tecnica prevede la rievocazione da parte del paziente di ricordi traumatici contemporaneamente al movimento orizzontale degli occhi, che seguono uno stimolo in movimento (i.e: le dita del terapeuta) (Shapiro, 2001).
Stress e mindfulness
Anche in assenza di un vero e proprio Disturbo da Stress, la frenesia delle nostre vite quotidiane può mettere a dura prova il benessere psicofisico. Come possiamo gestirlo? Una possibile risposta è: praticando mindfulness.
Mindfulness significa portare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Figlia di una millenaria tradizione che affonda le sue radici nella cultura orientale e nella tradizione buddhista, la mindfulness è arrivata in Occidente grazie al lavoro di Kabat-Zinn, a partire dalla fine degli anni Settanta. Era convinzione di Kabat-Zinn, infatti, che la pratica di meditazione avesse il potere di trasformare in modo duraturo l’esperienza individuale della sofferenza e dello stress, offrendo un’alternativa alle strategie orientate alla risoluzione dei problemi che sono profondamente radicate nella cultura occidentale. L’orizzonte teorico in cui è indispensabile inquadrare le intuizioni e le ricerche di Kabat-Zinn, la messa a punto del programma Mindfulness Based Stress Reduction e la fondazione della Clinica dello stress è quello della medicina mente-corpo. La relazione tra la mente e il corpo, tra i pensieri e la salute, costituisce una premessa fondamentale per comprendere la natura e lo scopo di questo programma.
Stress da lavoro
Secondo una definizione del National Institute for Occupational Safety and Health lo stress dovuto al lavoro può essere definito come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore.
Gran parte dello stress della nostra quotidianità deriva dall’attività lavorativa. I ritmi sempre più sostenuti e le richieste pressanti delle aziende, oltre alla crescente tendenza ad identificarsi con il proprio lavoro, determinano spesso un grande investimento di risorse che, prolungato nel tempo, può intaccare seriamente il nostro benessere. Diverse patologie psichiche, come stress, ansia e panico, possono generarsi da un ambiente lavorativo poco sano e compromettono le risorse individuali. Per questo motivo chi si occupa di Risorse Umane è oggi chiamato più che mai a favorire la diffusione del benessere organizzativo, a motivare e a prevenire il senso di frustrazione.
Richieste eccessive e protratte nel corso del tempo sul posto di lavoro possono dare origine alla “sindrome del burn-out”, una vera e propria forma di esaurimento derivante dalla natura di alcune mansioni professionali. Il termine “burn-out” deriva dall’inglese e letteralmente significa essere bruciati, esauriti, scoppiati. Il termine è stato preso in prestito dal mondo dello sport, dove viene usato per indicare la condizione di un atleta che, dopo vari successi e nonostante la perfetta forma fisica, non riesce più a conseguire buoni risultati. La sindrome del burn-out è una malattia professionale e chi ne soffre può essere definito un “bruciato” dal troppo lavoro. Il soggetto colpito da burn-out manifesta alcuni sintomi, quali nervosismo, insonnia, depressione, senso di fallimento, bassa stima di sé, indifferenza, isolamento, rabbia e risentimento.
Sembra che gli insegnanti costituiscano una categoria di lavoratori particolarmente colpita dal burnout (D’Oria, 2002). Sembra che per gli insegnanti, accanto ad alcuni fattori di rischio individuali, come l’eccessiva dedizione al sacrificio, i problemi personali e familiari e una scarsa tolleranza allo stress, un ruolo importante sia giocato dalle mancanze organizzative: pensiamo alle classi numerose, alla carenza di attrezzature, alle eccessive pratiche burocratiche, alla carenza di occasioni di aggiornamento, alla limitata possibilità di carriera, alla retribuzione insoddisfacente e alla precarietà. Sembra siano invece fattori di protezione l’appartenenza al sesso femminile, l’anzianità, il supporto dei colleghi e il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti e anche di se stessi.
Il burnout richiede di essere trattato tempestivamente e l’aiuto migliore che una persona in stato di burnout può attendersi sono le cure psicologiche. L’obiettivo del trattamento cognitivo comportamentale è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo. La meditazione, in particolare la mindfulness, è una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti: imparare ad accogliere il presente in modo non giudicante è un utile strumento per difendersi dal rischio di burnout. Per gestire le relazioni in modo più efficace e meno stressante può inoltre essere utile apprendere tecniche di assertività. Infine, i gruppi di sostegno tra persone con difficoltà simili costituiscono una risorsa preziosa per affrontare un contesto lavorativo stressante.
Una delle fonti più insidiose di stress è il mobbing. Nella lingua inglese il verbo “to mob” significa aggredire, assalire tumultuosamente; il termine, mutuato dalla scienza etologica, descrive il comportamento di un branco che assale un singolo. In ambito aziendale, il mobbing può essere definito come quell’insieme di comportamenti graduali e sistematici che mirano all’emarginazione ed all’annichilimento di un lavoratore. L’esposizione al mobbing è stata classificata come una sorgente di stress sociale sul lavoro e come il problema più paralizzante e devastante per i lavoratori rispetto a tutti gli altri stressor correlati al lavoro messi assieme.
Conclusioni
Lo stress è una risposta psicofisica naturale e può avere la funzione benefica di attivare risorse e guidarci alla risoluzione di problemi. Tuttavia, nella nostra vita quotidiana sono numerose le fonti di stress e un’attivazione eccessiva per intensità e prolungata nel tempo può compromettere il nostro benessere. Imparare a riconoscere lo stress è importante, così come apprendere alcune strategie che ci permettano di fare un passo indietro e non essere travolti da ciò che accade, ad esempio praticando mindfulness. Quando lo stress è molto forte, può condurre allo sviluppo di patologie come il Disturbo da stress Post Traumatico. La terapia cognitivo-comportamentale dispone di diversi strumenti di dimostrata efficacia per intervenire su tali disturbi, non di rado molto invalidanti. Infine, un occhio di riguardo merita l’ambiente lavorativo: i ritmi frenetici a cui siamo sottoposti possono determinare l’insorgere di una sindrome da burnout e l’esposizione al mobbing causa di frequente una forte reazione di stress nel lavoratore. Intervenire con una terapia risulta fondamentale per eliminare i sintomi e restituire all’individuo la possibilità di accedere alle proprie risorse e recuperare uno stato di benessere.
- American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing
- Cannon, W.B. (1929). Organization for physiological homeostasis. Physiological Review, IX(3), 399-431.
- Kabat-Zinn, J. (1990). Vivere momento per momento. Trad. it.: Sabbadini, A. Tea Pratica, Milano.
- Selye, H. (1974). Stress without distress. J. B. Lippincott, Philadelphia.
- Selye, H. (1976). Stress in health and disease. Butterworth’s, reading, Massachusetts.