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Hans e gli altri (2023) di Marco Innamorati – Recensione

Attraverso le storie cliniche di dieci piccoli pazienti il libro "Hans e gli altri" racconta la storia della psicoanalisi infantile

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 18 Set. 2023

La psicoanalisi infantile

“La storia delle psicoanalisi è anche la storia dei suoi pazienti” (Innamorati, 2023, p.7). L’iconica frase che dà avvio all’introduzione del testo ne esprime anche l’intento principale: integrare una selezione di concetti speculativi con un contenuto esperienziale in grado di conferire alla teoria, più che una valenza scientifica, un valore marcatamente “umano”.

Lungi dall’essere soltanto un coacervo di postulati e geniali intuizioni, la psicoanalisi è soprattutto una scienza costruita sulle persone e per le persone, ispirata da un aspetto individualistico che ne costituisce anche il punto di forza. È forse per questo che l’autore ha deciso di impostare la struttura dell’opera non attraverso l’esposizione di patinati saperi epistemologici, ma dando voce alle storie cliniche di pazienti. Esperienze tratte dalla stillante energia del setting, le cui dinamiche intersoggettive hanno costruito orizzonti diagnostico-terapeutici in continua trasformazione. E per questo incredibilmente vitali.

Le storie cliniche di dieci “piccoli pazienti” offrono così il pretesto per raccontare la storia della psicoanalisi infantile, a partire dagli albori fino alle posizioni più recenti, passando per gli autori che ne hanno caratterizzato l’evoluzione.

In questo processo trasformativo –spesso osteggiato da rifiuti, perplessità, scetticismi– al bambino viene gradatamente riconosciuta una funzione pensante, un nucleo identitario, che non si identifica soltanto nell’Io freudiano, ma anche nel Sé di Khout, e che, al di là di gratificazioni pulsionali, va alla ricerca di un legame affettivo per soddisfare un innato bisogno di relazione e contatto con l’altro. In primo luogo con il genitore, il cui ruolo subisce un’altrettanto radicale trasformazione: da istanza intrapsichica meramente fantasticata –tipica del pensiero kleniano– si trasforma in un insostituibile oggetto affettivo, protagonista di un legame concreto che si inscrive in un contesto altrettanto realistico. Fatto di contatti corporei, memorie somatiche, percezioni viscerali che lasciano il segno, sin dalla prime fasi della vita.

Citando il testo, da una concezione monodimensionale, il genitore accede ad una dimensione bidimensionale (Innamorati, 2023, p.162) segnando quell’incedere della svolta relazionale (Innamorati, 2023, p.191) già propugnata da Fairbairn, in forza della quale è stato possibile ipotizzare, in riferimento al bambino e all’essere umano in generale, la presenza di una pulsione tesa a gratificare un bisogno relazionale imprescindibile.

L’importanza di un legame genitoriale vissuto e non più fantasticato si consolida attraverso le tesi di Winnicott (1971) –che arriva a non ammettere l’esistenza del bambino senza la madre– per assumere una posizione assolutamente centrale con l’avvento di Bowlby e la teoria dell’attaccamento, con cui viene sancita la natura innata della pulsione relazionale in ogni essere vivente. Ci penserà Spitz, attraverso le sue numerose rilevazioni osservative, a dimostrare quanto dannosa possa rivelarsi l’assenza di un contatto affettivo e securizzante con il genitore, anche sotto un aspetto puramente fisico. I bambini abbandonati a se stessi, ad esempio quelli istituzionalizzati o precocemente separati dalla madre, rischiano non soltanto la sopravvivenza psichica, ma anche il benessere fisiologico, essendo più esposti a malattie, infezioni, deperimenti spesso irreversibili.

Il legame con il genitore acquista un significato sociale con l’intervento della Mahler e i suoi studi sulle psicosi infantili, e con Selma Freiberg, tra le prime ad occuparsi dell’assistenza alle famiglie disagiate, tramite l’esordio di una terapia genitore-bambino somministrata a casa. La “psicoterapia in cucina”, secondo l’umoristica definizione della stessa Freiberg.

Siamo lontani anni luce dal momento in cui il genitore era una mera rappresentazione mentale, poco più di una fantasia, nella mente del neonato. Figlio e genitore sono ora due soggetti concreti, la cui interazione è necessaria alla formazione del Sé.

Lo dimostrano le scoperte della Infant Research, che del contesto diadico studiano addirittura le microdinamiche, quegli scambi reciproci forniti attraverso il contatto somatico, le espressioni facciali, la direzione dello sguardo. Il tutto videoregistrato e rivisto in seduta, sotto forma di fotogrammi.

La tecnologia viene posta al servizio della terapia. È questa l’ennesima e impensabile svolta con cui si conclude l’opera. Ma l’impressione è di udire, tra le righe, l’eco di una promessa implicita: la storia della psicoanalisi, grazie ai suoi pazienti, è destinata a continuare all’infinito.

La psicoterapia e i racconti senza fine

Il lungo cammino descrittivo, in apparenza percorso tutto d’un fiato, offre il tempo di comprendere ogni singola dinamica trasformativa, di cui spiega cause e conseguenze attraverso una ricca illustrazione di dati, clinici e teorici, che non lascia inappagata la sete informativa del lettore né la sovraccarica.

Dell’opera si apprezzano la scorrevolezza, la fruibilità, la chiarezza stilistica, ma soprattutto la completezza. Il tutto senza mai indulgere in un tecnicismo retorico o celebrativo, e soprattutto senza perdere mai di vista l’elemento individualistico, cui spetta un ruolo prioritario: gli stessi capitoli che compongono il testo –dieci in tutto– non portano il nome dell’argomento che andranno a descrivere, ma quello del paziente di cui verrà raccontata la storia clinica, sancendo un implicito “divieto” di etichettamento nosografico.

L’autore inscrive la psicopatologia in una cornice soggettiva, rendendola parte imprescindibile della storia personale del paziente. Così non parla di fobie, conflitti edipici, angosce persecutorie. Ma di Hans e della sua paura dei cavalli, del piccolo Albert e delle sue nevrosi, delle fantasie schizoparanoidi del piccolo Fritz, di Piggle e dei suoi disagi relazionali, della psicosi di Stanley, del pianto arrabbiato di Mary.

Non sono soltanto pazienti, ma “infanti competenti, dotati di precoci capacità esplorative e interattive” (Innamorati, 2023, p. 162), che li rendono assolutamente idonei al setting psicoanalitico. Malgrado gli scetticismi, a lungo espressi in tal senso, da Anna Freud (1957).

Il setting psicoanalitico infantile è in realtà un contesto ricco di contenuti, latenti e tutti da inferire, ma non per questo meno veritieri di quelli forniti della parola, resa spesso ingannevole da prudenti manovre difensive.

Il gioco –e la fantasia che ne costituisce l’ispirazione– è il mezzo con cui l’Io si difende dal niente e dall’annientamento, è un modo per gestire adattivamente una realtà spesso terrifica senza lasciarsene sopprimere. E a quanti obiettano che la scarsa competenza verbale dei bambini li rende poco adatti ad una talking cure, l’autore risponde dimostrando che la loro capacità immaginativa, ben più sviluppata e autentica di quella degli adulti, svolge una funzione assolutamente compensativa della parola.

Grazie ad una fervida fantasia i bambini riescono a costruire dimensioni alternative alla realtà e tuttavia incredibilmente descrittive della stessa, ove se ne sappiano cogliere i segnali inconsci, le metafore, le simbologie rivelatrici di tante inconsce verità.

Curarsi tramite le storie, la fantasia, le metafore e i simboli, alleggerendo il soverchiante peso della realtà. I bambini ci riescono sempre. E questo li rende pazienti più fiduciosi, spesso più autentici, perché in grado di fidarsi e di affidarsi a quel potere polisemico dell’immaginazione con cui si allontanano dal Sé per raccontarsi, darsi spazio, darsi vita.

Senza la preziosa intuizione di Melanie Klein (1955) il gioco avrebbe continuato a rivestire, nel setting terapeutico, un mero scopo pedagogico, e il suo prezioso contributo all’esplorazione mentale sarebbe passato inosservato, impedendo al terapeuta di avere accesso a quel luogo immaginario (Vallino, 2008) nel quale il bambino si rifugia quando ogni speranza gli sembra perduta. Quello spazio salvifico e inviolabile in cui si nasconde, senza mai perdere la speranza di venir trovato e salvato da quell’adulto di cui, in fondo, si fida disperatamente.

Per questo prima o poi lo lascerà entrare. Sempre che l’adulto in questione –in primo luogo lo psicoterapeuta– varchi questo spazio in punta di piedi, stando bene attento a cogliere i segnali di accesso che gli verranno offerti, mostrandosi leale e comprensivo, rispettando i suoi tempi, le sue esigenze, i suoi ritmi. Ma soprattutto senza mai tradire la sua fiducia. Anche se si tratta soltanto di un gioco. Perché non esiste niente di più serio del gioco di un bambino. Nel setting come nella vita.

La storia di dieci vite. Dieci vite per una storia

Nel testo di Innamorati dieci bambini raccontano la storia della psicoanalisi infantile.  Sempre ove non sia vero l’inverso, e dunque la psicoanalisi si racconta mediante la storia di dieci bambini, che dal setting terapeutico si lasciano arricchire mentre lo arricchiscono con le loro tracce vitali. Fino a modificarlo inevitabilmente.

E le trasformazioni riferite nel testo sono talmente numerose da mettere in crisi ogni convinzione circa una possibile inviolabilità –quasi una sacralità– della teoria psicoanalitica.

In realtà nessuna scienza che sia costruita da e per le persone può costituire un santuario intangibile. Soprattutto la psicoterapia, che prende vita in un setting intriso di storie, ricordi ed emozioni –quelle del paziente come quelle del terapeuta– capaci di mettere all’angolo ogni infrangibilità teorica e di prendersi la scena.

Imbrigliare la psicoanalisi all’interno di copioni standardizzati non renderebbe giustizia a coloro che, con le loro storie, ne riscrivono continuamente il corso, rendendola una scienza in continuo divenire, sulla scia di un individualismo che la percorre voracemente, e percorrendola le dà vita.

La psicoanalisi sarà sempre il frutto, comunque, di “menti che si incontrano”, originando esperienze per molti versi uniche, anche se questo non può di per sé indurre ad abdicare all’idea di una costruzione scientifica. Di alcuni incontri tra menti abbiamo seguito in questo libro le tracce (Innamorati, 2023, p. 192).

È così che si conclude il testo. Un’ottima lettura che consente un affascinante viaggio all’interno della psicoanalisi infantile. Un’esperienza reale e leale, in cui la critica non toglie né distrugge nulla. Casomai arricchisce, trasforma, diventa parte attiva di un’evoluzione, raccontata da un gruppo di bambini. Hans e gli altri.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, A. (1957) Il trattamento psicoanalitico dei bambini, Bollati Boringhieri, Torino, 1977;
  • Klein, M. (1955) La tecnica psicoanalitica del gioco. Sua storia e significato, in Scritti, 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Innamorati, M. (2023) Hans e gli altri. dieci bambini che hanno cambiato la scuola della psicoanalisi, Raffello Cortina, Milano;
  • Vallino, D. (2008) Raccontami una storia, Mimesis, Milano;
  • Vallino, D. (2019) Fare psicoanalisi con genitori e bambini: la consultazione partecipata, Mimesis, Milano;
  • Winnicott, D.W. (1971) Gioco e realtà, Armando Editore, Roma.
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