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L’individuo nel contesto carcerario: effetti psicologici della detenzione

Dal punto di vista psicologico l’ingresso in carcere è un evento destabilizzante, che modifica gli aspetti emotivi, cognitivi, comportamentali

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 26 Lug. 2023

Il concetto di istituzione totale

Esistono istituzioni talmente soverchianti da imporsi “severamente” sull’identità di quanti vi sono inseriti. Le conseguenze non sono irrilevanti: se in situazioni ordinarie è il soggetto ad agire il ruolo, connotandolo delle proprie soggettività, in questo caso è il ruolo ad agire totalmente l’individuo, condizionandone le scelte, le motivazioni, i comportamenti. Goffmann (1968) le definisce istituzioni totali: strutture che si inseriscono nell’individualità con potere talmente fagocitante, da comportarne la resa collusiva.

L’appartenenza all’istituzione comporta l’abdicazione ad ogni connotato di soggettività. Non è possibile essere se stessi e appartenere all’istituzione. L’unica identità ammessa è quella dilagante di un contesto impositivo che esclude tutto il resto. Con una sostanziale defalcazione degli aspetti di autonomia e unicità personale.

La sociologia parla di “colonizzazione identitaria”, (Goffmann, 1968) una sorta di de-individualizzazione associata soprattutto a strutture istituzionali rigide ed autarchiche, sorta di microsocietà auto riferite in cui la gerarchia è l’unico approccio relazionale consentito, anche e soprattutto nel rispetto dell’ obiettivo educativo-contenitivo che le contraddistingue.

Un esempio tra tutti è l’istituzione carceraria.

Il carcere è un contesto proiettivo. Tutto si proietta lontano. Le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito lontanissimo, quasi estraneo ( Ceraudo, 1997).

L’appartenenza all’istituzione detentiva è totalizzante e preclusiva del resto. Non si può essere un carcerato e qualcosa di più: si è questo e basta. Tutto ciò che apparteneva alla vita precedente, di fronte ad una realtà imponente e impositiva, viene “immolato” nel nome di un imperante collettivismo.

Il trauma dell’inizio: il rifiuto del carcere e la difesa del Sé

Da un punto di vista psicologico l’ingresso in carcere è un evento destabilizzante che, imponendo la rinegoziazione di ruoli e contesti, comporta la trasformazione di approcci intra ed interpsichici pregressi, da cui l’ovvia modifica di aspetti emotivi, cognitivi, comportamentali.

A subire l’impatto maggiore è la dimensione del Sé identitario, lentamente erosa e depauperata, a vantaggio di un progressivo adattamento al collettivismo imposto dall’istituzione.

Quella che Goffmann (1968) indica con il nome di spoliazione materiale (all’ingresso il detenuto viene privato dei suoi beni personali e costretto a consegnarli all’autorità carceraria), soprattutto nei casi di lunga detenzione si tramuta in una definitiva perdita del Sé, amplificata dalla rescissione di legami affettivi, familiari e sociali, che innalzano una barriera tra il carcere e il mondo esterno, consolidando le distanze e i confini.

Gli effetti non sono trascurabili.

Soprattutto all’inizio si denota una reazione di netto rifiuto all’ambiente detentivo, volta soprattutto ad evitare la collusione con un’identità massificante e intrusiva. Minacciati da un “intento  istituzionalizzante” i neo detenuti cercano disperatamente di proteggere il Sé individuale, servendosi di meccanismi di difesa tipicamente regressivi (Lingiardi, Madeddu, 2002): si va da un rifiuto denegante dell’ambiente coercitivo – in seguito al quale il neo detenuto entra in collisione con qualsiasi iniziativa imposta dal medesimo- ad un isolamento volontario, quasi un ritiro autistico che allontana dalla dimensione psichica, emotiva e relazionale del contesto carcerario,  fino ad un adattamento entusiastico- idealizzante, in cui l’acquiescenza con i toni e gli obiettivi istituzionali, lungi dall’essere autentica, sottende l’intento difensivo di negare la realtà carceraria o quello più opportunistico di adattarsi all’inevitabilità della stessa, cercando di godere dei vantaggi secondari legati all’esercizio di una buona condotta: ciò in attuazione di un coping strumentalizzante spesso imposto dal contesto detentivo.

La sindrome da ingresso e le patologie connesse alla detenzione

L’impatto con il carcere è indubbiamente traumatico. Adattarsi non è facile. Si è soliti far riferimento a sindromi da ingresso proprio per indicare stati angosciosi e disperanti legati a questa nuova condizione (Piperno, 1989; De Leo, 2005). Note le c.d. sindromi da prisonizzazione, processi di erosione dell’individualità cui consegue la comparsa di nuclei depressivi, dissociativi, distruttivi dell’autostima e dell’autoconsapevolezza, spesso con gravi esiti patologici (Mastantuono e al. 1975).

Nei nuovi detenuti possono manifestarsi crisi di panico, disturbo di ansia generalizzata, agitazione psicomotoria, crisi confusionali, anedonia, disturbi dell’adattamento di matrice ansiosa o depressiva, ma anche eventi deliranti e psicotici (si vedano le c.d. psicosi carcerarie– Mencacci e Loi, 2002; De Mennato, 1937; Abdalla Filho et al. 2010).

Piuttosto consueti anche i disturbi alimentari, generati sia da un atteggiamento di generale rifiuto contro la struttura, sia dall’auto rivolgimento di una pulsione distruttiva altrimenti incontrollabile. Ove estremizzato, il rifiuto del cibo comporta gravi conseguenze per il benessere psicofisico, tra cui ovvi stati di cachessia, ipotrofia muscolare, indebolimento organico e funzionale, ma anche lo sviluppo di malattie carenziali sistemiche, come la sindrome da inanizione, cui consegue uno stato di deperimento irreversibile e spesso fatale (Mastantuono et al. 1975).

La somatizzazione: il Sé emotivo si scaglia contro il corpo

Spesso espressi attraverso la compiacenza dell’elemento somatico, i disagi psichici danno vita ad una serie di sintomatologie invalidanti e dal decorso ingravescente: ad essere colpiti sono soprattutto l’apparato digerente (a carico del quale si riscontrano ulcere, dispepsie, gastriti), l’apparato respiratorio (asma e bronchiti), l’apparato epidermico (eczemi, dermatiti, psoriasi) e il sistema immunitario (frequenti le  infezioni e le patologie autoimmuni – Gonin, 1994; De Leo, 2005).

Non sono rari i casi di simulazione, nei quale il carcerato mistifica la presenza di una patologia nella finalità di ottenere privilegi -sul breve o lungo termine- con cui migliorare la propria condizione (malingering). Nota la sindrome di Ganser, disturbo di origine isterica la cui sintomatologia è finalizzata a simulare, più o meno consapevolmente, uno stato di malattia mentale psicotica o dissociativa, che tende a peggiorare nel momento in cui il soggetto sa di essere osservato (Mastantonio et al. 1975; Sarteschi, 1989).

Anche i tentativi di suicidio possono assumere in alcuni casi una valenza prettamente strumentale, in quanto volti ad ottenere una serie di benefici materiali (permessi premio, uscite, possibilità di recarsi in ospedale, talvolta semplicemente cure ed attenzioni) altrimenti inaccessibili. Ma nei casi più estremi il suicidio – tentato o compiuto- esprime un dolore rabbioso di cui l’aggressione al Sé costituisce la distruttiva vittoria, una sorta di trionfo maniacale su un oggetto persecutorio da cui è impossibile fuggire.

La dimensione percettivo-sensoriale

La carenza di stimoli -tipica dell’ambiente carcerario– favorisce un isolamento percettivo che coinvolge tutti i sensi, condizionandone la funzionalità: penalizzato da illuminazioni inadeguate, e soprattutto da una segregazione dello sguardo che è obbligato a muoversi su piccole distanze (ad esempio le pareti delle celle), l’occhio perde la capacità di proiettarsi sulle lunghe distanze (fenomeno dello sguardo corto) e di mettere a fuoco i piccoli dettagli (Ceraudo, 1995; Foglia, 2009), indebolendosi notevolmente; l’olfatto può subire modifiche anestetizzanti a causa di odori umidi e stagnanti respirati in maniera continuativa; la capacità tattile, mortificata da una ristretta gamma di stimoli, ma anche da una inconscia volontà di auto isolamento, perde la propria competenza discriminativa; se nelle prime fasi dell’internamento si evidenzia una acutizzazione dell’udito, derivata da uno stato di iperarousal generalizzato, dopo alcuni mesi di detenzione può svilupparsi una sordità idiopatica, ispirata dall’intento difensivo di isolarsi il più possibile da un contesto aberrante e aberrato (Foglia, 2009).

Il funzionamento cognitivo

Limitato da un contesto povero di possibilità creative, il funzionamento cognitivo subisce una semplificazione che limita il pensiero astratto e la capacità di apprendimento. Si veda come, nella maggior parte dei casi, un isolamento prolungato comporti l’utilizzo di uno stile percettivo sincretico e parcellizzato che obbliga gli elementi ambientali in una condizione altrettanto disorganizzata, talvolta fino alla costruzione di contesti allucinatori, sempre più distaccati da una capacità di valutazione sintetica (Farnè, 1963)

La stessa realtà viene ridotta ad uno schema dicotomico costruito sulla base di opposti inconciliabili: all’interno del carcere non esistono ambivalenze, ma soltanto contesti frammentari, opponenti e oppositivi, in cui si sta dalla parte del buono o del cattivo, del giusto o dell’ingiusto, del bene e del male (Bloss, 1967): esito di una logica scissionale con cui una dimensione psichica disfunzionale contagia quella più strettamente cognitiva, osteggiandone stabilità e potenziamento.

Le emozioni, percepite ed espresse

Il contesto accentratore dell’istituto penitenziario indebolisce la comunicazione e limita l’accesso reciproco. Il posto delle parole viene preso da agiti, condensazioni di un vissuto aggressivo che di colpo diventa l’unico strumento relazionale ed espressivo. L’aggressività- nelle sue declinazioni fisiche, sessuali, verbali, relazionali- satura ogni intento motivazionale, costringendo ad una struttura di pensiero autoritaria in cui il conflitto, lungi dal costituire un’occasione di confronto, è soltanto un modo per determinare confini e ruoli gerarchici.

Il contesto coercitivo comporta la regressione ad un Sé arcaico in cui la pulsione di aggressività e quella vitale, essendo ancora indifferenziate, ricevono le medesime modalità di appagamento ed espressione (Freud, 1967). La realtà- inter ed intrapsichica è costituita su una logica duale di piacere – dolore ( Bloss, 1967) che tanto richiama quella delle prime fasi della vita, a testimonianza di una regressione involutiva che impoverisce la libido e la stessa funzione vitale, abilitandola alla gratificazione dei soli bisogni primari, legati al benessere fisiologico e alla sopravvivenza.

L’aspetto sessuale in carcere

Secondo una prospettiva freudiana, in carcere le pulsioni subiscono una profonda regressione, quasi una re istintualizzazione che impoverisce le funzioni egoiche e alimenta quelle dell’Es, favorendo il ritorno di un processo primario in cui a dominare sono le sensazioni somatiche, gli agiti, le esperienze viscerali e prelogiche che impediscono la simbolizzazione e la maturazione di vissuti empatici e relazionali.

Anche l’atto sessuale torna a rappresentare un mezzo per gestire la pulsione aggressiva o per liquidare la tensione. Uno strumento regolativo con cui combattere angosce e distaccarsi da situazioni dolorose.

Non è del resto infrequente che l’eccitazione sessuale venga impiegata come uno strumento difensivo utile a sentirsi vivi, padroneggiare situazioni di abbandono, impotenza, angoscia di frammentazione; come l’opportunità di trasformare un’esperienza traumatica in un evento evacuativo e abreativo del dolore (McWilliams, 1994).

Il tutto ovviamente ad un prezzo: la sessualizzazione delle angosce comporta un disinvestimento delle funzioni egoiche, e dunque un indebolimento del processo secondario, rendendo le funzioni dell’Io instabili, incoerenti e non più in grado di mantenere un equilibrio interiore (Freud, 1926).

In questo contesto egoico involutivo l’atto sessuale perde la propria connotazione erotica – più afferente ad una dimensione adulta-  per assumerne una marcatamente pregenitale, nella quale convergono bisogni emotivi, mancanze, affetti frustrati, ma anche necessità di protezione, contatto e vicinanza fisica, e infine una pressante necessità di autoaffermazione e riconoscimento sociale, attraverso il quale tracciare le righe di una gerarchia “alternativa” – ma non meno impositiva – rispetto a quella istituzionale.

In carcere, il maschio che si impone sessualmente, esattamente come accade nei contesti sociali meno evoluti, è anche il maschio dominatore, al quale i simili devono rispetto ed obbedienza. A testimonianza di un’egemonia primitiva in cui a dominare è la legge del più forte (Ceraudo, 1997).

Un adattamento è possibile?

Generalmente i disturbi d’ingresso tendono a regredire, sostituiti da un adattamento più o meno funzionale di fronte alle nuove condizioni. Si rileva tuttavia come una remissione totale dei sintomi sia maggiormente frequente nei detenuti appartenenti ad un ceto sociale svantaggiato, in coloro che hanno una scarsa dimensione empatica, e in detenuti con basso livello di scolarizzazione, rispetto a quei soggetti incensurati, colti e socialmente inseriti che invece mostrano un disagio meno remissivo, anche sul lungo termine, e per questo facilmente passibile di psicopatologia: ciò fermo restando l’obbligo di non generalizzare, nel rispetto di quelle variabili legate all’età, alla personalità, alle capacità egoiche e di resilienza, oltre che al supporto sociale, familiare e alla tipologia di reato commesso, che possono rivelarsi moderatori più o meno consistenti dell’impatto traumatico.

Il carcere incarna un macrosistema organizzativo nel quale ogni aspetto della vita viene gestito da poteri superiori: si tratta di una delega non contrattabile che si abbatte su contenuti e motivazioni personali, privandoli di spessore. Per quanto ciò accada con intenti necessariamente rieducativi (Serra, 1999; Concato, Rigione, 2005), non basta a renderlo più accettabile.

Per questo lo sviluppo di un disagio psichico, dietro le sbarre, è più elevato di quanto ci si auspicherebbe, soprattutto a causa del legame ben poco virtuoso tra marginalità e patologie psichiatriche che qui si verifica. Numerosi sono i casi patologici presi in carico, e altrettanto consistenti quelli che restano sepolti all’interno di un folto numero oscuro, la cui presenza risulta amplificata da dinamiche relazionali ostili, opportunistiche, spesso omertose, volte esclusivamente alla tutela del Sé (Concato, Rigione, 2005).

All’interno delle numerose sotto realtà imposte dal contesto carcerario, la regola di un “silenzio opportunistico”, cresciuta alla scuola del do ut des, costituisce  un indispensabile strumento adattivo. I detenuti lo apprendono presto, rispondendo con un adattamento collusivo che ne perpetra la svantaggiosa continuazione.

Il momento dell’uscita

Più o meno inconsciamente, spesso il detenuto è restio ad abbandonare la propria condizione. In poche parole, non vuole uscire dal penitenziario. Si parla di una condizione di irradicamento, proprio per indicare la tendenza a prolungare il più possibile il soggiorno nell’unico luogo nel quale, alla fine, ci si sente sicuri e al riparo; o di vertigine dell’uscita, sindrome che si manifesta alcune settimane prima della scarcerazione con un nucleo sintomatologico basato su sintomi depressivi, irritabilità, somatizzazioni, comportamenti autolesivi (Cassano, Tundo, 2009; Foglia, 2009).

Si tratta di un effetto piuttosto prevedibile.

Per quanto coercitiva e limitante, con il tempo la figura del carcere assume il ruolo di un “padre- padrone” cui delegare in toto l’impegno di vivere, al prezzo di un impoverimento identitario e motivazionale da molti non più combattuto, perché considerato vantaggioso. Talvolta indispensabile.

In molti casi la detenzione ha contribuito a potenziare un modello di vita delegante, connotato da tratti di dipendenza che hanno mortificato sensibilmente le capacità di problem solving, decision making, autogestione ed autoefficacia, amplificando la necessità di affidare la propria esistenza ad una presenza dominatrice che ne gestisca i contenuti.

Il detenuto non è più abituato a disporre del Sé in autonomia, non è capace di impiegare proficuamente il proprio tempo o il proprio spazio, né si sente in grado di gestire quelle angosce mortifere di cui il carcere si è rivelato contenitore, liquidandone la componente distruttiva attraverso una soggezione forzata. E sa bene che, al di fuori dalla capsula saturante e protettiva del carcere, sarà costretto a ripristinare quelle quote di soggettività di cui la stessa detenzione lo ha deprivato, favorendone le dispersione all’interno di una massa egoica indifferenziata.

Per molti carcerati la prigione ha rappresentato l’alternativa ad una vita senza direzione, per altri il soggiorno dietro le sbarre ha contributo alla maturazione di un deficit di autostima che ha generato a sua volta vissuti di impotenza e impoverimento del Sé; altri sono spaventati dall’idea di affrontare lo stigma sociale, che fa di un detenuto un delinquente anche dopo la scarcerazione.

Inoltre, al termine della detenzione il Sé è tutt’altro che coeso: spesso le frammentazioni psichiche non sono state oggetto di rielaborazioni adattive, e i traumi legati all’internamento non hanno ottenuto un contenimento adeguato, favorendo l’insorgenza di una mentalizzazione deviata; la dimensione identitaria si è impoverita, e i costrutti motivazionali si sono dissolti in un vissuto di impotenza e rassegnazione dal quale distaccarsi è sorprendentemente complicato.

I pensieri del detenuto in via di scarcerazione sono spesso focalizzati sulle difficoltà del mondo esterno, sulle potenziali insidie cui dovrà far fronte, sulla possibilità di commettere nuovi errori, sulla temibile eventualità di non trovare più nulla di quanto ha lasciato e sull’incapacità di fronteggiare inevitabili cambiamenti; soprattutto si fa strada la paura dell’estraniamento, ossia l’incapacità di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e dunque ad un nuovo contesto dopo la scarcerazione.

In definitiva si ha paura di guardare ad un nuovo progetto di vita. Paura di guardare al di là delle sbarre: esito infruttuoso, questo, di una desensibilizzazione progressiva alla detenzione, a seguito della quale la promessa della libertà, a lungo vagheggiata, diventa un trauma lacerante, uno scossone che sconvolge dinamiche forse all’inizio sgradite, ma con il tempo introiettate in una finalità identificativa, fino a divenire una parte del Sé di cui non ci si può e non ci si vuol privare. Perché il Sé del detenuto, alla fine, diventa imprescindibilmente connesso a quello dell’istituzione. E senza di esso cessa di esistere.

Dunque i detenuti si sentono imprigionati dalla libertà?

È probabile, in attuazione di un ossimoro che non deve stupire più del necessario, se si pensa al carcere come ad una istituzione destinata a condensare gli aspetti più conflittuali ed incoerenti di una società apparentemente adattata, ma ancora ostaggio di tante inguaribili contraddizioni.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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