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La balbuzie: un complesso disordine neurologico e psicologico

Una panoramica sugli aspetti neurologici, psicologici e terapeutici della balbuzie, definita dall'OMS come un disordine nel ritmo della parola

Di Micol Agradi

Pubblicato il 23 Mag. 2023

La balbuzie si riconosce in base a degli indici neurologici primari e a degli indici psicologici secondari che, insieme, indicano la necessità di una presa in carico multidisciplinare che unisca logopedia e psicoterapia.

La balbuzie: alcuni dati introduttivi

 Secondo i dati attuali, la balbuzie è una condizione che colpisce circa l’1.5% della popolazione mondiale e quasi un milione di italiani. Il genere maschile viene maggiormente colpito (rapporto 4:1), mentre nella minoranza femminile si riscontra un più frequente recupero spontaneo. Tende ad esordire in infanzia, mediamente fra i 3 e i 7 anni, con un andamento graduale e insidioso che, nell’80% dei casi, finisce per risolversi spontaneamente (Yari e Ambrose, 1999). Anche se la predisposizione genetica alla balbuzie è ormai comprovata a livello scientifico, avere un familiare con questo disturbo non porta a manifestare deterministicamente la stessa condizione: la manifestazione della balbuzie, infatti, è il risultato di un complesso intreccio tra variabili individuali di tipo cognitivo, linguistico, affettivo e neurofisiologico e variabili ambientali di tipo socio-culturale, familiare, scolastico e terapeutico.

Una panoramica neurologica del disturbo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1977) definisce la balbuzie come un disturbo del linguaggio consistente in un “disordine nel ritmo della parola, per il quale il paziente sa con precisione cosa vorrebbe dire ma, nello stesso tempo, non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono”.

Dal punto di vista neurologico, questa definizione considera la balbuzie come un problema di fluenza verbale basato sulla mancanza di coordinazione tra i centri motori deputati all’articolazione del linguaggio e i centri cognitivi responsabili della produzione linguistica: visto che i primi non seguono di necessità la formulazione del linguaggio, accade che il balbuziente abbia ben in mente cosa dire senza disporre in quel momento degli strumenti motori atti a poterlo esprimere. Da una prospettiva eziologica, si ipotizza che le alterazioni presenti a livello genetico determinino una serie di alterazioni strutturali e funzionali a livello del sistema nervoso centrale, che sono in grado di modificare la capacità di elaborare correttamente i piani linguistici e quelli motori complessi, come quelli necessari per la corretta formulazione del linguaggio (Etchell et al., 2018).

In linea con tale profilo neurologico, Buchel e Sommer (2004) hanno individuato una particolare classe di indici in grado di descrivere la balbuzie dal punto di vista funzionale: gli “indici primari”. Questi consistono in tutte le alterazioni della fluenza verbale che includono le ripetizioni di suoni, sillabe, parole o frasi, i blocchi silenziosi o il prolungamento dei suoni.

Dal punto di vista terapeutico, tali indici non sono altro che i target principali del trattamento neurostimolativo per la balbuzie, che andrà ad intervenire sulle aree deficitarie del linguaggio mediante la logopedia.

La dimensione psicologica della balbuzie

Nel delineare i marker essenziali al riconoscimento della balbuzie, Buchel e Sommer (2004) hanno proposto una seconda categoria di indici utile a una concettualizzazione completa del disordine: gli “indici secondari”. Essi sono i meccanismi di evitamento su base psicologica che emergono dopo l’insorgenza dei sintomi della balbuzie allo scopo di creare un linguaggio protettivo: la sostituzione della parola su cui si sta per balbettare, il cambiamento della struttura della frase, l’incapacità di mantenere contatto oculare o l’evitamento delle situazioni e delle persone che causano ansia da prestazione (questo perché la balbuzie tende ad aumentare nelle situazioni comunicative a elevato impatto emotivo nel soggetto). Il problema di questi comportamenti compensativi, tuttavia, è quello di portare il soggetto a parlare il meno possibile, con ricadute soprattutto dal punto di vista psicologico. Anche se la definizione dell’OMS (1977) riporta una descrizione prettamente neurofisiologica del disturbo, la balbuzie è un disordine del linguaggio che investe significativamente la dimensione psicologica, sotto due punti di vista:

  • È possibile la condizione in cui il soggetto balbuziente abbia preesistenti disturbi psichiatrici che, in compresenza, si associano ai sintomi della balbuzie che tendono più o meno a stabilizzarsi (è il caso, ad esempio, di un adolescente con disturbo d’ansia sociale che, temendo il giudizio degli altri nelle situazioni sociali, finisce per balbettare regolarmente nel tentativo di controllare l’ansia);
  • È anche possibile la condizione in cui il soggetto balbuziente sviluppa un disturbo emotivo (d’ansia o depressivo) come conseguenza dei sintomi della balbuzie. Secondo diverse ricerche, i bambini e gli adolescenti che balbettano riportano esperienze di vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale che sono in grado di provocare sentimenti di vergogna, imbarazzo e scarsa autostima.

Nel caso in cui questi aspetti fossero presenti, la logopedia non può essere sufficiente per il trattamento. In questa direzione, la psicoterapia cognitivo-comportamentale risulta il trattamento d’elezione per affrontare il vissuto emotivo delle persone che balbettano e per estinguere i comportamenti secondari di evitamento.

 Nel primo caso, essa proverebbe a far accettare al soggetto la possibilità di ridurre (ma non sconfiggere) la balbuzie in modo che il giudizio degli altri non lo definisca come persona. I metodi più indicati in questo senso sono la ristrutturazione cognitiva, atta a riconoscere i pensieri irrazionali legati all’ansia e a sostituirli con convinzioni più funzionali, e la mindfulness, utile a fornire una dimensione in cui lasciar andare i pensieri e accettare la propria condizione senza giudicarla.

Nel secondo caso, gli interventi più efficaci a eliminare i comportamenti di sicurezza nei balbuzienti sono l’esposizione e gli esperimenti comportamentali. La prima inviterebbe il soggetto a praticare la costruzione della fluenza in situazioni sempre più temute fino a che, in assenza di strategie di fuga, la persona capisca che è stata in grado di affrontare la circostanza perché essa è effettivamente meno pericolosa del previsto (e che dunque i comportamenti di evitamento sono inutili). I secondi, invitando il soggetto a balbettare volontariamente nei contesti sociali, sono finalizzati a ridurre le stime di probabilità associate alla paura che la persona sarà valutata negativamente a causa della sua balbuzie.

Conclusioni

Visto che un trattamento che tenga conto solo della balbuzie in quanto tale, senza considerare la sfera psicologica, potrebbe determinare un peggioramento della sintomatologia con effetti collaterali, è bene che l’approccio terapeutico sia di tipo multidisciplinare. Quest’ultimo non dovrebbe porsi come obiettivo il mero raggiungimento della fluenza, bensì stimolare nel balbuziente la presa di coscienza del fatto che la balbuzie non è un fallimento, ma una condizione da poter migliorare con accettazione e assenza di giudizio verso se stessi.

 

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