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I paradossi di Carrère – Yoga (2021) di Emmanuel Carrère – Recensione del libro

Punto di partenza di Carrère nell'iniziare a scrivere Yoga è offrire una definizione della meditazione. Poi il progetto iniziale devia verso tutt’altri lidi

Di Alberto Vito

Pubblicato il 30 Lug. 2021

Che libro è Yoga di Carrère? Preceduto in Francia dal clamore mediatico suscitato dalla denuncia della ex moglie che non ha gradito essere citata e ha chiesto che fossero eliminati alcuni brani, il libro sta avendo un buon successo di vendite.

 

D’altro canto, Carrère è ormai autore affermato e apprezzato dal grosso pubblico. Tuttavia, si tratta di un’opera a tratti fastidiosa, autoreferenziale e che suscita reazioni contrastanti.

Nato nel 1957 a Parigi, da una famiglia borghese, figlio di Hélène Carrère d’Encausse, una storica molto nota, esperta di Russia e stalinismo, laureato presso l’Institut d’études politiques de Paris. In volumi precedenti ha descritto il suo rapporto complesso con la figura materna. Le sue opere hanno avuto per protagonisti figure complesse ed estreme, come il serial killer Romand in L’avversario o lo scrittore, dissidente russo al centro di Limonov, per finire con le biografie dell’evangelista Luca e di Paolo di Tarso ne Il Regno, in cui indaga il rapporto con la religiosità. Negli anni ha mostrato di prestare attenzione a una pluralità di temi ma progressivamente i suoi libri hanno sempre più avuto un solo personaggio protagonista: lui stesso.

Il punto di partenza del presente volume è offrire una definizione della meditazione. Stupito sia dall’interesse che dall’ignoranza attorno alle filosofie e pratiche orientali di un giornalista che lo aveva intervistato, Carrère decide di scrivere un libro per raccontare il proprio punto di vista sul tema. Poi, come capita nei suoi libri, il progetto iniziale devia verso tutt’altri lidi.

L’inizio mi è parso promettente. Egli descrive la sua partecipazione ad un ritiro di 10 giorni per praticare meditazione. Il contesto del seminario di Vipassana è molto ben raffigurato, a tratti con umorismo. Chi ha partecipato, anche per una volta sola, a ritiri spirituali in cui si medita, o si prega, con esercizi fisici, pratica del silenzio, dieta e sveglia all’alba, leggendo questa parte del libro non potrà non provare una struggente nostalgia. Piacevole è la descrizione di coloro che partecipano a tali eventi, equamente divisi tra chi soffre di problemi psichici e autentici ricercatori. Come vedremo, l’appartenenza ad una categoria non esclude necessariamente l’appartenenza anche all’altra.

Carrère racconta al lettore che il motivo per cui pratica meditazione e tai chi risiede nel tentativo di limitare il suo smisurato ego. Qui c’è il primo paradosso: per curare il suo ego ingombrante, che riconosce come problema, crea un’opera smisuratamente, insopportabilmente egoica, in cui racconta cosa gli è avvenuto negli ultimi anni. Secondo paradosso: dice di mettersi a nudo, raccontando finanche della malattia psichiatrica e del trattamento con 14 sedute di elettroshock, ma in realtà fa un’operazione assolutamente soggettiva, scrivendo un libro che è solo il suo punto di vista.

La sua partecipazione al ritiro si interrompe dopo pochi giorni, nonostante una delle regole più importanti sia il divieto categorico di allontanarsi dall’esperienza prima che essa sia terminata. Tuttavia, proprio in quei giorni avviene l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, in cui muore, insieme ad altre 11 persone, il vignettista Bernard Verlhac. Carrère è un suo amico ed è richiesta la sua presenza al funerale per leggere un’elegia. Pertanto, viene autorizzato ad allontanarsi.

Le parti successive sono dedicate in larga parte al racconto della sua malattia psichica con il ricovero di 4 mesi nella clinica Sainte Anne nei pressi di Parigi, con la diagnosi di disturbo bipolare di tipo II, e all’esperienza come volontario insegnando ai giovani profughi nell’isola greca di Leros (pare che nella realtà l’esperienza sia stata più breve di come appaia nel testo). Di sfuggita, compaiono le sue vicende sentimentali ed anche il resoconto dei giorni trascorsi con un giornalista americano per un’intervista.

Il libro (si può definire romanzo?) è dunque fortemente autobiografico, descrivendo alcuni episodi essenziali di ciò che gli è avvenuto negli ultimi 4 anni e, di tangente, pone il problema del rapporto tra il modo in cui un autore descrive la sua vita e la realtà degli avvenimenti vissuti e se sia davvero necessario che coincidano. Nelle ultime pagine confessa ad esempio che un personaggio, la donna incontrata a Leros, è sostanzialmente inventato. Ma la questione è ovviamente più complessa. Come sa ogni psicoterapeuta, quando una persona parla di sé, o degli altri, compie sempre un’operazione arbitraria e soggettiva: enfatizza dei particolari, ne omette altri. E’ condizionato dalla sua cultura, dai suoi obiettivi e dai suoi bisogni. Perfino nel modo di vestire, si tenta di dare una visione, in genere migliorativa, di sé. Anche i ricercatori di verità, quindi, raccontano sempre una sola delle tante verità, necessariamente parziale e soggettiva.

La prima parte, circa un terzo delle pagine totali, è quella che ho gradito di più. Egli pone a confronto l’attitudine dello scrittore e quella del meditante, che gli paiono opposte e incompatibili. Lo scrittore deve osservare e fissare i propri pensieri, per poterli poi vergare su carta, mentre chi medita deve lasciare andare i propri pensieri, imparando a non giudicare in alcun modo ciò che avviene dentro di lui.

Carrère è un praticante esperto ma critico. Mette in opposizione Dostoevskij con il Dalai Lama, trovando più saggezza nel primo. Si chiede se davvero l’obiettivo più importante sia superare la permanenza in Samsara, uscire dal ciclo di trasformazioni e sofferenze che chiamiamo condizione umana, per accedere al Nirvana, ovvero la vita davvero reale, sottratta alle illusioni. E come giudicare i meditanti ayurvedici che durante lo tzunami che colpì lo Sri Lanka furono gli unici ospiti dell’albergo in cui si trovava anche lui a non abbandonare le loro attività, mentre tutti gli altri si dedicavano a prestare soccorsi? Analogamente, cosa è più importante, si chiede, essere un chirurgo pediatrico e salvare la vita a bambini o stare chiusi in una stanza a osservare il proprio respiro? Ma non è forse la legge della continua alternanza degli opposti – Yin che diventa Yang e viceversa – ciò che regola il pianeta? Lo yoga, in fine, è unione. Accettazione delle polarità, delle opposizioni. Questa è la lezione più difficile da apprendere, che magari si comprende con la testa ma non si lascia afferrare del tutto. Non c’è opposizione, non c’è dualismo: è vera la notte, è vero il giorno; la sconfitta è vittoria; la vittoria è sconfitta. Trovare l’alba nell’imbrunire, hanno detto altri….

Fulminante è poi la descrizione della personalità di ogni scrittore, descritta come un intreccio inestricabile tra ossessione, megalomania e voglia di fare bene. Da un vecchio prete, con alle spalle tanti anni di confessionale, apprende due cose: 1) le gente è più infelice di quanto non si creda; 2) non esistono adulti: sotto i vestiti, siamo tutti fragili.

Durante la meditazione gli capita di piangere. Piange per l’infelicità dei naufraghi, delle vittime e degli umiliati, ma chi è più infelice di tutti è chi ignora finanche quanto è infelice e, ancora più grande, è l’infelicità dei malvagi.

Della meditazione offre ben 24 definizioni. Alcune sono prevedibili e note, rimandano al silenzio, all’osservazione interna, all’assenza di giudizio, alla sospensione dell’attività mentale consueta. Altre sono più originali e poetiche: la meditazione è essere al corrente dell’esistenza degli altri; la meditazione è essere al proprio posto in qualsiasi posto; la meditazione è non aggiungere niente.

Il libro sembra quasi incompleto, per quanto sono slegate le varie parti che lo costituiscono. Come se si trattasse di più libri, totalmente diversi e incompiuti. Cosa c’entra il volontariato svolto a Leros con la meditazione, o il periodo del ricovero in una struttura psichiatrica con lo yoga?

Alla fine, appare quasi paradossalmente ingenua l’operazione di uno scrittore che invece è smaliziato ed esperto. Vuole scrivere “senza ipocrisie”, ma fa un’opera spudoratamente di parte. Altri autori hanno parlato assai meglio della propria malattia psichica. Penso, per restare al nostro paese e ad anni recenti, ad Andrea Pomella e a come ha raccontato la sua depressione.

Sebbene pratichi da circa 30 anni proprio allo scopo di ridurre il suo ego, un’opera del genere risulta spasmodicamente narcisistica e, in molto tratti, assolutamente autoreferenziale, rivelando l’insuccesso del proposito iniziale. Oppure ha voluto descrivere in tal modo la perenne lotta tra l’aspirazione al bene e all’unità da un lato e dall’altro il fascino calamitoso della disperazione? Il baratro che riguarda ciascuno di noi, capaci sia di nefandezze vergognose che di gesti nobilissimi? Questo è l’uomo, sembra dire.

Leggendo le recensioni alcuni sono stati infastiditi dall’incompiutezza, la frammentarietà e la non unitarietà. Tuttavia si conferma la straordinaria capacità attrattiva dell’autore in virtù di una prosa comunque originale, intervallata da riflessioni argute. In diverse parti Yoga può costituire una piacevole lettura, a volte intensa. Ovviamente Carrère scrive molto bene. A tratti, sembra quasi che quest’opera sia sostanzialmente una sfida a se stesso: vedere se riesce ad attrarre il lettore anche parlando di nulla (e, ultimo paradosso, c’entra l’Oriente con la ricerca del Nulla? E il Nirvana?). Certo, tali sfide a se stesso mettono a repentaglio l’equilibrio psichico di chi le compie. Tenere lo sguardo verso il cielo, eppure ammaliati dal basso. Tenere insieme spirito e materia. O, freudianamente, Eros e Thanatos.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Carrère E. (2021). Yoga. Adelphi.
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