Cos’è la dipendenza sessuale?
La dipendenza sessuale indica la tendenza patologica ad agire condotte sessuali in maniera incoercibile, avvertendo un estremo disagio ove questa pratica venga limitata o in qualche modo frustrata. Il soggetto dipendente è disposto a tutto pur di gratificare un desiderio compulsivo, il c.d. “craving” che insorge quando il periodo di astinenza dalla pratica sessuale si allunga eccessivamente, diventando intollerabile. Il ruolo del sesso diventa centrale e pervasivo nella sua esistenza, al punto da condizionarne totalmente il corso: non sono rari i casi in cui, pur di appagare questo bisogno improcrastinabile, il dipendente attua condotte autodistruttive o comunque dannose per il Sé (ad esempio interrompe relazioni affettive, mette in pericolo la situazione lavorativa, ruoli sociali, solidità finanziarie).
Spesso il tutto nella segretezza più assoluta. Il prezzo da pagare è il senso di colpa per una “disonestà” che, pur inevitabile, spinge a vissuti di vergogna subito dopo essere stata gratificata.
La vergogna del Sé e la vergogna nel Sé
Il dipendente sessuale prova vergogna del proprio agito, vivendolo come un sintomo dolorosamente egodistonico. Ma la sua vergogna si estende al di là della dimensione erotica, per raggiungere connotati che contagiano ogni parte del Sé.
In realtà il dipendente prova vergogna di ciò tutto che è e di tutto ciò che fa. A testimonianza di un’autostima deficitaria che lo spinge in uno stato di perenne colpevolizzazione e autocondanna.
Non si tratterebbe di una coincidenza. Studi di settore hanno ipotizzato una possibile correlazione tra il disturbo da dipendenza sessuale e un vissuto di vergogna, causato, in questo caso specifico, dall’impossibilità di gratificare elevati standard di comportamento. Da questa convinzione si originerebbe uno stato di disregolazione emotiva di cui una condotta sessuale compulsiva rappresenta l’espressione agita (Lambiase, 2009; Fossum, Mason 1986).
Nel disturbo da dipendenza sessuale il vissuto di vergogna sarebbe amplificato dalla compresenza di tre fattori specifici:
- Perfezionismo: la dimensione autovalutativa è caratterizzata da una rigida scrupolosità, esito dell’interiorizzazione di standard di prestazione esigenti e intolleranti dell’errore; “ho sbagliato perché non ho seguito tutte le regole, e dunque non valgo niente”. L’errore, ritenuto frutto della propria incapacità o del proprio scarso impegno, viene fortemente colpevolizzato, e questo va ad incrementare il vissuto di vergogna e autosqualifica, slatentizzando al contempo una notevole debolezza identitaria;
- Amore condizionato: i soggetti con dipendenza sessuale generalmente provengono da famiglie emotivamente povere, nelle quali l’affetto, oltre a rivestire un ruolo periferico, non viene reso oggetto di verbalizzazione né di esternalizzazioni significative. Una genitorialità autoritaria e richiestiva rende l’affetto un bene da guadagnarsi con l’impegno e i risultati prestazionali. Si instaura così la logica del do ut des, che costringe ad uno stato di perenne insicurezza e doverizzazione, da cui si originano convinzioni di amore condizionato: si verrà amati soltanto se i severi standard di prestazione imposti dai genitori risulteranno soddisfatti (Lambiase, 2009). Si verrà amati soltanto se ci si mostrerà perfetti. La perfezione diventa dunque uno stile di vita, ma anche l’unico modo per “meritarsi” un legame affettivo.
- Debolezza del’IO: la dimensione egoica dei dipendenti sessuali appare priva di contenuti autentici, perché violata da una genitorialità incistante che si è sostituita alla volontà del Sé, provocandone il precoce aborto. Questo Io amorfo– secondo una suggestiva definizione di Carnes (1991)- si accontenta di un’esistenza compiacente, dominata dalle istanze motivazionali e comportamentali di un Falso Sé che induce a provare vergogna per i bisogni affettivi e di vicinanza, considerati come un segno di debolezza. E data l’impossibilità di cancellarne la presenza, questi stessi bisogni vengono controllati mediante un processo di erotizzazione difensiva in cui l’affetto negato diventa un incontro di corpi depauperato di ogni valenza erotica e significante. Il dipendente sessuale tradisce il proprio bisogno d’affetto con un contatto superficiale che non apporta nessuna crescita alla dimensione affettiva, in quanto non incarna una relazione consapevole e reciprocante, ma il mero strumento di una regolazione emotiva altrimenti impossibile (Carnes, 1991; 1983).
Tra perfezione e sregolatezza: l’acting in e l’acting out
I soggetti con dipendenza sessuale non riescono ad unire sinteticamente le dimensioni inerenti il far bene e il sentirsi bene: non apprezzano nulla di ciò che fanno, e pur mantenendo una parvenza di controllo emotivo, non si reputano mai all’altezza delle aspettative (Lambiase, 2009; Fossum e Mason, 1986).
In qualità di disagio non verbalizzabile, il vissuto di vergogna viene controllato attraverso un alternarsi continuo tra agiti di controllo e di allentamento- i c.d. acting in e acting out- espressione di due dimensioni della personalità letteralmente dicotomiche: una caratterizzata da una condotta perfetta e ineccepibile, nella quale il sesso, in qualità di condotta riprovevole, viene evitata il più possibile; e una disorganizzata, delegata al dominio di un processo primario in cui il sesso riveste un ruolo imprescindibile rispetto a qualsiasi altra attività (Lambiase, 2009; Fossum, Mason, 1986).
Durante la fase di controllo il soggetto collude con l’immagine di un Falso Sé conforme ai modelli di perfezionismo genitoriale. Pur nella percezione di un disagio logorante, i bisogni di affetto e prossimità emotiva vengono silenziati al di là di formazioni reattive e spostamenti difensivi nei quali il soggetto trova una pacifica gratificazione superegoica. Dunque si sente in pace con se stesso, e per quanto non gratificato, sa di aver fatto ciò che doveva.
Ovviamente si tratta di un controllo temporaneo, destinato a fallire nel momento in cui il carico pulsionale si farà di nuovo avanti, debilitando le capacità di contenimento e determinando l’insorgere della fase disorganizzata. Quella in cui il Sé più autentico pretende gratificazione, e la ottiene attraverso l’attuazione di condotte sessuali indiscriminate e improcrastinabili.
Ma anche questa è una condotta ingannevole. Non c’è nessun godimento erotico, nella consumazione compulsiva dell’agito sessuale. Nessun piacere pieno e consapevole, in questa erotizzazione forzata dove la sessualità, prendendo la via del sintomo, si rende metafora di un investimento emotivo inappagato, e provoca una cesura patologica tra il Sé e la gestione del disagio, creando il paradosso di un sesso non sessuale.
La dipendenza sessuale prende il posto della vicinanza, dell’affetto, dell’attaccamento.
Questi individui mancano di un Sé consolidato, di capacità di integrazione nel Sé e di un forte legame affettivo con l’altro” (Lambiase, 2009, p. 133).
Può sembrare un paradosso, ma per questi soggetti il sesso non ha nessun valore erotico. Nell’attuazione delle condotte sessuali compulsive l’agito è piuttosto finalizzato a prendere le distanze dal dolore emotivo, dal vuoto interiore e dalle ferite narcisistiche che lacerano un Sé debole e taciuto; è una fuga nell’Es, l’irruzione del processo primario inserita in un contesto regressivo dove non v’è spazio per un’espressione emotiva controllata, e le pulsioni vengono interpretate o come una scarica invasiva alla quale arrendersi totalmente o come una minaccia distruttiva da combattere con ogni risorsa.
La vergogna del sesso e il contesto educativo
Le famiglie dei dipendenti sessuali mostrano, verso il sesso, un atteggiamento rifiutante e critico. Alcuni genitori lo deprecano esplicitamente, considerandolo un’attività contraria alla morale, e per questo da evitare. Altri ne ignorano semplicemente la presenza e costringono il figlio a fare altrettanto, in linea con un atteggiamento difensivo che nega l’esistenza di ciò che non si accetta o si reputa minaccioso.
La sessualità viene letteralmente espunta. Semplicemente non esiste, è un tabù di cui non si può nemmeno pronunciare il nome. E in quanto attività deprecabile può essere praticata soltanto in una dimensione del Sé negata, in linea con la convinzione- piuttosto diffusa tra i dipendenti sessuali- che celare le proprie attività sessuali serva ad assolverli dal compimento delle stesse: “se le persone venissero a sapere ciò che faccio di nascosto perderei la loro stima e il loro affetto” (Lambiase, 2009, p. 160).
Non si può fare sesso se si vuol essere persone perbene, ma non si può fare sesso soprattutto se si vuole ottenere l’approvazione dei genitori, del mondo, dello stesso Sé. Nessuno deve sapere. Se ne origina la convinzione che il sesso possa essere attuato soltanto dalla parte del Sé nascosta, quella che, per quanto autentica, è stata giudicata “imperfetta”, e che, al termine di una pratica sessuale -forsennata e inconsapevole- dovrà essere di nuovo nascosta. Cancellata, come si fa con una colpa.
Ma in questo continuo scomparire e ricomparire è con la scomparsa e la riappropriazione del Sé che si gioca, in una sorta di FORT- DA che tanto ricorda il gioco del rocchetto con cui il nipotino di Freud si divertiva a neutralizzare le angosce di abbandono e il senso di solitudine.
L’agito sessuale come meccanismo di difesa
In situazioni di deprivazione affettiva la pratica sessuale si trasforma in un “surrogato affettivo”, posto in essere per garantire una vicinanza fisica che si esaurisce in un contatto fuggevole e in-autentico, gestito nel rispetto di una distanza di sicurezza inviolabile (McWilliams, 1994; Shane, Shane e Gales, 2000).
Si tratta di un meccanismo prettamente difensivo, in cui l’attività erotica viene reclutata per il soddisfacimento di bisogni che esulano totalmente dalla sfera sessuale ed esprimono i bisogni di una zona d’ombra altrettanto anonima, gestita da una sorta di non – me (Lambiase, 2009; Bloss, 1989). Gli stessi soggetti con cui viene consumato il rapporto risultano spogliati di ogni connotazione identitaria, per venir declassati ad entità amorfe e senza nome che, mentre colmano un senso di vuoto mortifero, al contempo ne esacerbano la profondità, rendendo l’istinto sessuale un impulso inconsapevolmente distruttivo.
La psicodinamica sottolinea che le fantasie sessuali vengono spesso impiegate per il controllo di stati ansiogeni e disregolativi, o per la gestione di vissuti di impotenza e passività (Freud, 1905). Ma in questo caso appare fuori luogo parlare di una vera e propria “fantasia sessuale”: per quanto ne vada compulsivamente alla ricerca, il dipendente non riesce a pensare realmente il sesso, perché non ha potuto integrarlo con una dimensione emotiva significante, e dunque non ne ha compreso i contenuti di piacere, di godimento, di pieno contatto con il Sé.
Tutt’altro: è proprio per sfuggire ad un incontro con la propria intimità che attua la condotta sessuale, e la agisce con una compulsività incoercibile che non lascia spazio al controllo né al significato emotivo. Il contatto sessuale è l’unico modo per allontanarsi da un Sé deprivato, mantenendo al contempo le distanze con un altro che umilia, squalifica e abbandona. Proprio come hanno fatto i genitori.
L’incontro sessuale, da occasione di scambio e intimità, diventa un triste luogo dell’assenza, nella quale il Sé perde ogni contatto propriocettivo e combatte la paura di perdersi e di perdere mediante l’”offerta” fugace di un corpo che alla fine si riprende.
Il sesso agito e l’affetto negato
La dipendenza sessuale vede il continuo alternarsi tra un ipercontenimento delle pulsioni e una scarica sfrenata delle stesse, in una dicotomia polarizzata che rende impossibile la costruzione di un equilibrio dialettico e condanna ad un conflitto persecutorio irrinunciabile: è infatti solo attraverso questa alternanza di opposti che il Sé autentico può trovare temporanea espressione, palesando una dimensione emotiva in cui il bisogno di essere amati, subito dopo essere stato concepito, viene punito.
Nella condotta sessuale meramente agita si nasconde un bisogno affettivo logorato da attese frustranti e reiterate; un impulso ab origine “sano” e tuttavia contaminato da pulsioni libidiche a lungo negate, e per questo diventate resistenti, aggressive, gratificate attraverso una pratica sessuale disinibita e rivendicante.
L’ipersessualità praticata malgrado la vergogna è un messaggio di protesta verso un bisogno affettivo precocemente tradito.
È il rifiuto di una solitudine, ma al contempo di un’incorporazione oggettuale imposta: è il linguaggio polisemico di un Sé altrettanto disregolato che non riesce ad inserire il sesso in un’esperienza emotiva autentica, ma lo tramuta nella metafora patologica di un agito con cui nascondere bisogni affettivi traditi e mantenere la distanza dall’altro.