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La scienza del dialogo interiore – Psicologia

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheStudiare dal punto di vista empirico il fenomeno del dialogo interiore, o inner talk, e cioè il processo per cui le persone mentalmente parlano a sé stesse, è oltremodo complicato poiché nel momento in cui si cerca di indagare tale attività mentale mediante self-report retrospettivi si attua un’interferenza con il  fenomeno oggetto di studio.

Per diversi anni lo studioso Russell Hurlbert ha utilizzato una tecnica particolare per indagare questo self-talk o dialogo interiore nella quotidianità. La tecnica consiste nel fornire ai soggetti un dispositivo che emette un suono  (beep) che si attiva diverse volte durante il giorno e non appena suona si richiede ai partecipanti di riportare in maniera dettagliata la loro attività mentale immediatamente prima del suono del beep. Tale approccio viene definito “descriptive experience sampling” (DES) e implica una collaborazione stretta tra soggetti e ricercatori affinchè il soggetto sperimentale  apprenda a distinguere e a descrivere puntualmente le diverse tipologie di attività mentale.

In un recente articolo il team di ricercatori guidati da Hurlbert fanno il punto dei loro risultati di ricerca sul tema del dialogo interiore. Anzitutto la voce del dialogo interiore – che è un dialogo silente puramente mentale- viene solitamente percepita come la nostra stessa voce e soltanto in rarissimi casi con la voce di altri. Anche se in alcuni casi sono emersi esempi di dialogo interiore a più voci che dicono cose differenti (forse in relazione a un processo di disputing di credenze?E’ un aspetto ancora da verificare). Proprio come la nostra voce vera, la voce del nostro dialogo interno viene percepita a livello fenomenico con caratteristiche sovrasegmentali non verbali differenti in funzione dell’emozione che stiamo provando. 

Vi sarebbe poi una grande variabilità nella frequenza con cui le persone parlano a sé stesse nelle loro menti: mediamente al 23% dei beep sono stati rilevati dialoghi interiori, però con elevate deviazioni standard. Interessante è anche il tema della localizzazione: alcune persone localizzano il processo del dialogo interiore nella testa, mentre altri nel petto.

In alcuni casi un self-talk con una velocità così elevata da essere impossibile da riprodurre a voce alta (per inevitabili vincoli fisiologici del nostro sistema fonatorio).

Vale la pena sottolineare che cosa non è dialogo interiore. Va distinto dal fenomeno di ascolto interiore, in cui una voce viene esperita passivamente. E’ anche differente dal “pensiero non simbolizzato”, esperienza mentale riguardo uno specifico concetto che però non implica parole e simboli. 

La tecnica di indagine “descriptive experience sampling” (DES) secondo i ricercatori avrebbe il vantaggio – rispetto a indagini retrospettive mediante questionari – di rimanere più ancorata temporalmente al momento in cui si verifica il fenomeno di inner speaking.

Diversi aspetti sono ancora da indagare, dalle differenze individuali riguardo alla presenza del dialogo interiore, al processo di sviluppo ontogenetico, alle differenze cross-culturali, così come la comprensione di questo costrutto rispetto ad altri quali il rimuginio e la ruminazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista – Recensione

Recensione

La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista.

di Leahy, Tirch e Napolitano

(2013)

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La regolazione delle emozioni.La regolazione delle emozioni in psicoterapia: per la recensione di questo volume della Eclipsi possiamo prendere spunto dalla prefazione scritta da Cesare Maffei. Il volume si pone come obiettivo principale fornire una cassetta degli attrezzi ai professionisti che si trovano a lavorare con i propri pazienti.

Il libro, infatti, rappresenta lo sforzo ben riuscito di integrare il Cognitivismo più standard (basti pensare che Robert Leahy é Direttore dell’Amerian Institute for Cognitive Therapy di New York) con i recenti modelli di terapia cosiddetti di Terza Ondata.

Ciò non toglie che il volume, prima di prendere in esame le singole possibili forme di intervento sulla regolazione delle emozioni, dedica i primi capitoli a fornire una cornice teorica ben chiara di riferimento, la Teoria degli Schemi Emozionali.

Come sottolineato sulla prefazione, infatti, “i clinici da tempo hanno compreso come una delle esperienze più problematiche per i pazienti sia la sensazione di essere sopraffatti dalle emozioni e come, non sapendo regolarne l’intensità, alcuni adottino strategie di doping maladattive (abuso di alcol o sostanze, abbuffate, vomito autoindotto, colpevolizzazioni degli altri, dipendenza dalla pornografia, rimugino e ruminazione etc…)”.

Questa breve osservazione degli autori rende l’idea di come tutte le strategie che mettiamo in atto in presenza di emozioni forti e presumibilmente per noi non regolabili, altro non siano che tentativi di gestire, in modo spesso dannoso, una attivazione emotiva vissuta come incontrollabile o quantomeno pericolosa per noi.

La parte teorica del libro si concentra sulla descrizione accurata della Emotional Schema Therapy (EST) ideata da Leahy. Il centro della teoria riguarda l’ipotesi che le differenti interpretazioni che vengono date dalle persone siano riconducibili a differenti e specifici “schemi emozionali. Ad esempio, credenze negative rispetto alle proprie emozioni, come ad esempio “sono prive di senso, non finiscono mai, sono qualcosa di imbarazzante etc…”, portano a sviluppare strategie dannose di gestione di tali emozioni, ad esempio il rimuginio. Avere credenze positive e adattive circa le proprie emozioni, invece, ci permette non solo di esprimerle in modo funzionale ma viene anche meno la necessità di attivare strategie disfunzionali per gestirle.

Senza entrare in merito alla teoria molto interessante presentata in questo libro, ci limitiamo a segnalare che la prima parte del volume, quella teorica appunto, prepara il clinico lettore a dare un ordine e un senso alle molteplici tecniche descrittive nella seconda parte del libro, che occupa la maggior parte del volume.

Interventi come accettazione e compassione, Mindfulness, validazione, ma anche ristrutturazione cognitivastretta” e tecniche di gestione dello stress, vengono presentate e integrate in un corpus coerente e ricco di spunti di riflessione.

La sensazione che si ha leggendo questa guida per i professionisti é che gli autori, di formazione e tradizioni differenti all’interno del panorama cognitivista, abbiamo davvero compiuto uno sforzo di discussione, andando oltre le proprie singole formazioni e cercando, spesso riuscendoci, di aprire le proprie prospettive a interventi e modelli diversi.

Ristrutturazione cognitiva e tecniche comportamentali vengono integrate con interventi basati sulla Compassione Focud Therapy, interventi di riduzione dello stress con interventi di Mindfulness.

Il modello della EST, come indicato dagli autori, incoraggia l’utilizzo e l’integrazione con concettualizzazioni e interventi che promuovano nel paziente la regolazione delle emozioni.

Lo stile dei capitoli sugli strumenti della “cassetta degli attrezzi” é stato costruito con la migliore traduzione dei manuali “british“, razionale, schematizzata e standardizzata. Ogni capitolo, infatti, include un elenco di tecniche e strategie che possono essere utilizzate dal clinico.

L’aspetto interessante é che gli autori non propongono un modello a step, seduta dopo seduta, bensì lasciano al lettore la possibilità di utilizzare il manuale in modo flessibile e coerente con i propri modelli di riferimento, mantenendo come base del lavoro l’importanza sia dell’esperienza emotiva sia della sua regolazione (o disregolazione).

Ogni tecnica viene presentata seguendo uno schema chiaro e semplice: descrizione della tecnica, domande da porre, esempi con dialoghi terapeuta-paziente, homework da proporre per il lavoro a casa tra una seduta e l’altra, i possibili problemi che si possono incontrare nel percorso e infine altre tecniche integrabili con quella descritta.

Inoltre, il manuale é accompagnato da un insieme ricco di schede, moduli e esercizi pratici che aiutano, nel miglior stile cognitivista, non solo a comprendere il razionale teorico ma anche a cogliere sia da subito l’utilità clinica-esperienziale delle tecniche proposte.

Insomma, un volume molto denso quello di Leahy e colleghi, che rappresenta anche uno sforzo notevole per terapeuti cognitivi standard: dare valore all’aspetto emotivo dei nostri pazienti e di coglierne l’importanza fondamentale in terapia.

Chissà che questi volumi aiutino a chiudere una volta per tutte l’annosa (e ormai noiosa) questione legata alla poca importanza che alcune terapie cognitive hanno dato, in passato, alla dimensione emotiva dell’essere umano.

I nostri pazienti arrivano sempre nei nostri studi con un problema o una difficoltà “emotiva” che li guida. Non dare a essa valore sarebbe come avere il privilegio di entrare in un meraviglioso giardino privato all’italiana e non soffermassi sui colori delle piante, sugli odori e sulle singole isole e concentrarsi solo sui gradini.

 

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Alimentazione: La dimensione sociale dei pasti – Psicologia

Alimentazione: La dimensione sociale dei pasti - Psicologia. -Immagine: © Robert Kneschke - Fotolia.comAlimentazione: La dimensione sociale dei pasti correla con il peso dei bambini e dei loro genitori.

La dimensione sociale gioca un ruolo cruciale quando si parla di cibo: mangiare è bello, ma mangiare in compagnia lo è ancora di più. La convivialità rappresenta quindi un elemento fondante la percezione di piacere connessa al cibo, che non è solo indispensabile per la sopravvivenza, ma può essere condivisa, quindi diventare uno spazio sociale di incontro tra le persone.

L’ambiente in cui il pasto si consuma ha a sua volta un effetto sulla qualità percepita del pasto: mangiare su una bella terrazza sul mare è ben diverso che farlo in ufficio davanti al computer, e questo incide fortemente sul nostro umore e sulla possibilità di sperimentare stati emotivi positivi. Non solo, ma è anche il corpo a subirne l’effetto.

Questa la scoperta recente di due ricercatori americani Brian  Wansink e Ellen van Kleef, i quali hanno indagato la relazione tra i rituali familiari durante la cena e l’indice di massa corporea (BMI), calcolato considerando il peso e l’altezza dell’individuo.  Hanno partecipato allo studio un gruppo di bambini e di loro genitori, i quali hanno compilato un questionario volto ad indagare le abitudini familiari durante i pasti, tra cui ad esempio l’abitudine di raccontarsi quanto fatto durante la giornata, piuttosto che l’abitudine di mangiare seduti a tavola o sul divano davanti alla televisione.

I risultati hanno mostrato come le abitudini sociali durante i pasti correlavano con il BMI sia dei genitori che dei loro figli, ovvero tanto più il BMI era elevato tanto più ad esempio le coppie genitori-figli riferivano l’abitudine di mangiare davanti alla televisione accesa. 

Mangiare seduti a tavola in cucina o in sala da pranzo si associava invece a BMI più bassi nei bambini e nei loro genitori. Le bambine che avevano l’abitudine di aiutare i propri genitori nella preparazione della cena mostravano livelli di BMI più elevati, dato non presente nei bambini maschi, che viceversa mostravano più bassi livelli di BMI se provenienti da famiglie in cui vigeva la regola per tutti di stare a tavola sino a quando ognuno non aveva finito di mangiare.

Questi risultati confermano quindi l’importanza della dimensione sociale di condivisione dei momenti dei pasti in famiglia e il suo effetto sull’indice di massa corporea tanto nei bambini che nei loro genitori. L’interazione sociale si sostituisce quindi alla sovra-alimentazione, tipicamente associata con lo svolgimento di attività passive durante i pasti, favorendo la possibilità di sperimentare emozioni positive.

Il risultato di questa ricerca potrebbe quindi rappresentare un fattore chiave nella prevenzione dell’obesità, spunto per poter arricchire i programmi di prevenzione e di cura di tale problematica attraverso una più attenta educazione dei bambini e del loro genitori non solo al cosa mangiare ma anche al come farlo in modo socialmente stimolante e gratificante.

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ALIMENTAZIONESOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – BAMBINI GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Impulsività e videogame violenti: quale legame? – Psicologia

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Giocare con videogame violenti può aumentare la probabilità di attuare comportamenti impulsivi rispetto al gioco non-violento.

In un nuovo studio sono stati coinvolti 172 ragazzi di età compresa tra i 13 e 19 anni.

I soggetti sono stati sottoposti a circa 30 minuti di gioco violento oppure 30 minuti di gioco “non violento” mediante computer.

I ricercatori hanno scoperto che i ragazzi del primo gruppo coinvolti in videogame violenti di fatto hanno mangiato tre volte tanto (rispetto all’altro gruppo) dolci e caramelle lasciate in una ciotola accanto a loro durante il gioco stesso.

Al termine della sessione di gioco ai soggetti è stato chiesto di rispondere ad alcune domande generiche, di autoverificarne la correttezza e di premiarsi con dei biglietti della lotteria per ciascuna risposta corretta: tutto questo senza che nessuno li stesse a controllare.

Dai risultati è emerso che i ragazzi che avevano giocato a videogames violenti avevano una probabilità di 8 volte maggiore di prendersi biglietti non meritati – e cioè anche quando le risposte fornite erano sbagliate.

E’ qualcosa di differente da quel che genericamente si dice riguardo videogames violenti e aggressività, qui sono in gioco i comportamenti impulsivi, intesi come difficoltà a inibire alcune risposte comportamentali in funzione delle conseguenze a breve e lungo temine, con un legame stretto tra emozione e azione. 

LEGGI:

IMPULSIVITA’PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA PSICOLOGIA & TECNOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Omicidio-Suicidio alla clinica di Paderno Dugnano. Prospettiva Psicologica

 

 

Due righe di commento sull’uomo (GB) che giovedì 2 gennaio ha ucciso la moglie (MP) nella clinica «Emilio Bernardelli» a Paderno Dugnano, dove la donna era ricoverata per un’ischemia cerebrale, e che poi si è ucciso.

Una storia dolorosa che nei giornali viene descritta come una storia di affetto e di amore.  Un uomo, dopo un grave evento invalidante, per non potere rinunciare alla donna con la quale vive e che ama, la uccide e si uccide.

Però potrebbe essere anche una storia di dipendenza eccessiva. La donna dopo l’ischemia (sono passati solo due mesi) stava lentamente riprendendosi e aveva bisogno di tempo. I medici stessi dicono che occorrono molti mesi perché la situazione cerebrale dopo un trauma si assesti.  E allora perché ucciderla? Cito dal Corriere della Sera:

MP non era in pericolo di vita. Si stava riabilitando, era cosciente e vigile, la signora aveva sicuramente subito dei danni però nessuno può giudicare “perenne” un quadro evolutivo come poteva essere il suo “anche se comunque era un quadro importante”.

Se dobbiamo fare una riflessione su questa vicenda, certo non è quella della Bossi Fedrigotti, che qui citiamo

“la tragedia fornirà motivo per discutere di nuovo di eutanasia, la cosiddetta morte dolce in contrasto con quella violenta, scioccante a colpi di rivoltella: ma avrebbe, anche a più dolce delle morti, indotto G. a vincere il suo smarrimento, a posare la pistola, a continuare a vivere, magari anche dieci anni, da solo e soprattutto senza A?”

Mi chiedo: ma che c’entra l’eutanasia?

Non viene voglia di riflettere da psicoterapeuti su questo omicidio? Si possono fare alcune ipotesi (che rimarranno ipotesi) perché ora la scena è ferma per sempre.

La prima è quella che ha dominato la scena giornalistica e che ha a che fare con il dolore e la depressione.  L’uomo si è sentito solo, senza l’affetto di sua moglie, probabilmente con difficoltà a sentirsi competente e adeguato. Il dolore è troppo grande e non sa affrontarlo in modo profondo, e prende la scorciatoia, spara a lei e a se stesso.  Certo se fossi stata la moglie avrei voluto essere messa al corrente della scelta e che mi venisse richiesto, in quello specifico momento, non prima, mentre se ne parlava prima che le cose vere accadessero.

In questo caso, da clinici, pensiamo che quest’uomo fosse poco abituato ad affrontare in modo consapevole le emozioni dolorose.  E che anzi ne fuggisse, le temesse.

Oppure l’uomo è un ansioso, ha visioni catastrofiche del futuro, teme che da solo non ce la farà, non tollera di non conoscere ciò che ha davanti a sé e affronta l’evento chiudendo il futuro che non sa prevedere, che teme di non sapere affrontare e organizzare.  In questo caso l’ansia, la paura, hanno portato a una scelta poco riflessiva, non condivisa.

Oppure è un impulsivo, è arrabbiato con il destino che gli ha fatto quello scherzo, protesta contro l’evento che gli sembra gli tolga la libertà di scegliere la vita che preferiva fare.

Gli spari, a se stesso e alla moglie sono spari di rabbia e di protesta. Che non tengono conto delle esigenze e del punto di vista della compagna. E forse anche dei figli, che non sono stati consultati sull’esito cruento che si andava preparando.

 

Insomma in tutti i casi abbiamo una persona poco capace di accettare e affrontare in modo consapevole questa fase dolorosa della vita in cui sembra che tutte le certezze si perdano, e in cui si è davanti a eventi improvvisi e imprevisti che non si pensava di potere affrontare.

La consapevolezza emotiva, la capacità di accettazione della realtà e di quello che essa improvvisamente ci impone sono tipici argomenti di un intervento psicologico.

Così come la capacità di mettersi in relazione con l’altro e condividere ciò che l’altro prova o può provare o pensa o può pensare.  MP non parlava in questa fase ma certo GB non è stato capace di mettersi nei panni di lei. Per dolore? Per paura? Per rabbia?  Si è messo violentemente al centro della scena decidendone lo script e il finale.

Insomma, a mio parere, un evento della patologia mentale e della violenza più che un evento dell’esagerato amore.

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Leadership negli Sport di Squadra #13: I leader e la soddisfazione

Leadership negli Sport di Squadra #13:

I leader e la soddisfazione

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli sport di squadra Parte 13. - Immagine: © wacomka - Fotolia.comNel capitolo precedente è stata analizzata la figura del leader, che sia istituzionale o intimo,in relazione alle prestazioni e al raggiungimento di risultati positivi. In questa sezione l’accento verrà posto sull’aspetto socio-relazionale del rapporto tra il leader e gli altri atleti.

Un leader non deve mettere in atto comportamenti esclusivamente centrati sul compito ma in alcune condizioni (per la precisione quelle con un livello di controllabilità intermedio) si possono ottenere risultati migliori con un comportamento improntato allo sviluppo delle relazioni e all’aumento della soddisfazione individuale degli atleti. Questa considerazione, già, per altro, giustificata, è utile per sottolineare come esista un forte rapporto di interdipendenza tra la prestazione e la soddisfazione dei giocatori di una squadra e come esistano variabili (quali la coesione) che agiscono positivamente su entrambe.

Perché la soddisfazione e gli obiettivi della squadra possano entrambi realizzarsi è necessario, nel pensiero di Giovannini e Savoia [2002], la costituzione di un accordo allenatore-atleta nel quale il primo esponga le sue aspettative prestazionali nei confronti dell’altro e quest’ultimo lo informi sui suoi obiettivi personali. Questa può rappresentare una buona base di partenza per il lavoro di tutti, proprio perché imposta l’organizzazione stagionale per realizzare entrambi i livelli di obiettivi. Di per sé questo è già uno stimolo motivazionale non indifferente che, come si è visto nel capitolo precedente, ha la possibilità di influenzare la prestazione di ogni singolo giocatore.

Ma la soddisfazione all’interno del gruppo da che cosa nasce? Mazzali [1995] individua alcuni punti importanti che non dipendono esclusivamente dal raggiungimento dei propri obiettivi personali ma:

  1. Dal riuscire a trovare un propria identità tecnica all’interno del gruppo.
  2. Dal riuscire a trovare una propria identità di espressione fisica nell’ambito del gruppo.
  3. Dal riuscire a trovare nel ruolo un proprio riconoscimento all’interno dei rapporti espressivo-emozionali del gruppo.
  4. Dal riuscire a riconoscersi come membro appartenente alla società sportiva.
  5. Dal sentire che la società cerca di ricompensarlo adeguatamente.

Perché tutto questo sia possibile è necessario che il leader sia consapevole dei bisogni di ciascun giocatore e che cerchi di coltivare il terreno sociale del gruppo.

L’allenatore-leader che voglia raggiungere gli obiettivi prestabiliti deve, quindi, prestare attenzione oltre che ai risultati anche al livello di soddisfazione del gruppo e deve comportarsi in modo tale da favorirne la crescita nel caso risulti bassa. E’ ovvio che le sue capacità di orientamento verso il compito siano maggiormente importanti per la preparazione delle prestazioni altrettanto quanto è ovvio che le sue qualità socio-relazionali divengono principali nel raggiungere la soddisfazione da parte di tutti i membri. Spesso si può osservare che gli aspetti prettamente legati alla socialità del gruppo siano organizzati dal leader intimo della squadra ma gli autori che trattano l’argomento sono concordi nell’affermare che un buon allenatore non deve mantenersi su di un rigido piano istituzionale se vuole avere successo.

Le variabili inerenti la leadership sono ritenute essere uno degli elementi chiave per lo sviluppo di un senso di soddisfazione negli atleti. Tra queste, quelle che gli autori di psicologia dello sport, primo fra tutti Carron [1982, 1988], individuano come principali ci sono: lo stile comportamentale del leader, lo stile decisionale del leader, il rapporto allenatore/atleta e il rapporto allenatore/squadra. A queste si può aggiungere anche lo stile comunicativo del leader. Questi fattori legati alla leadership appaiono simili, per non dire identici, a quelli inerenti la prestazione della squadra. Questo dimostra ancora una volta alcune considerazioni importanti; innanzitutto ribadisce l’esistenza di una forte interdipendenza tra prestazione e soddisfazione, secondariamente mette in rilievo l’importanza per il bravo allenatore di saper comportarsi sia per favorire l’una che per favorire l’altra.

Prendendo in considerazione il primo di questi fattori, infatti, si può ricordare come lo stile socio-relazionale e quello centrato sul compito siano ritenuti entrambi importanti in relazione a specifiche situazioni e, nonostante il primo sia spesso collegato alla soddisfazione dei membri del team e il secondo alla loro prestazione, devono essere considerati entrambi indispensabili sia per l’una che per l’altra. Ciononostante esistono comportamenti particolarmente utili per favorire la soddisfazione dei giocatori che un allenatore dovrebbe sempre cercare di considerare e di perseguire. Alcuni studi di Horne e Carron [1985] e di Weiss e Friedrichs [1986], a proposito di questi, mettono in evidenza che i giocatori si sentono soddisfatti quando l’allenatore-leader a) predispone in allenamento dei comportamenti che tendono a migliorare le abilità personali coinvolgendo l’impegno di tutti i giocatori, b) fornisce dei feedback positivi che mirano a premiare le prestazioni positive, c) si preoccupa di promuovere il benessere degli atleti e di mantenere un clima interpersonale positivo. Giovannini e Savoia [2002] attraverso un adattamento del modello di Krech, Crutchfield, Ballachey [1962] individuano nel comportamento dell’allenatore e nei fattori che da questo dipendono, delle variabili intermedie che agiscono su tre categorie di fattori (strutturali, relativi al compito e ambientali), determinando le caratteristiche di produttività ma anche di soddisfazione della squadra.

 Tra i fattori che possiamo riconoscere dipendenti dal comportamento del leader, quell’insieme di variabili attraverso le quali l’allenatore influenza indirettamente il livello di soddisfazione del gruppo, possiamo sottolineare: la coesione sociale, la motivazione individuale e la collaborazione intragruppo.

La coesione della squadra può essere distinta, secondo Carron [1982], in due diversi livelli: uno, definito come coesione relativa al compito, riguarda la compattezza, la stabilità e l’unione del gruppo nell’affrontare e superare le prove a cui viene sottoposto; l’altra, la coesione sociale, si riferisce alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri sociali dei componenti (quali l’affiliazione, amicizia e morale).

Il raggiungimento della prima è strettamente importante per il miglioramento delle prestazioni, il raggiungimento della seconda, per il miglioramento del livello di soddisfazione individuale. Ancora una volta vale la pena sottolineare che questa distinzione non possiede limiti così netti se si presuppone l’interdipendenza tra prestazione e soddisfazione. Quando il comportamento dell’allenatore permette e stimola l’aumento della disponibilità sociale dei giocatori, la consapevolezza di avere uno scopo comune, la possibilità di comunicare serenamente, il bisogno spontaneo di farsi conoscere dai compagni, la spinta a rivivere le situazioni degli altri, la ricerca dell’appagamento personale all’interno dei fini della squadra, la capacità di stabilire delle regole e accettarle volontariamente, la volontà di integrare il proprio lavoro con quello degli altri, lo sviluppo di dinamiche affettive all’interno di esperienze comuni, il divertimento collettivo nel corso dell’allenamento; allora la coesione sociale del gruppo, e quindi la soddisfazione, sono sicuramente favorite.

Oltre che rispetto alla coesione, la soddisfazione dei giocatori è influenzata dal loro livello di motivazione individuale. Sicuramente se manca quest’ultima il raggiungimento degli obiettivi o l’appartenenza alla squadra risultano meno importanti e quindi determinano non solo una minore quantità di impegno ma anche un livello di appagamento minore. Il comportamento dell’allenatore, relativamente a quelli che sono stati individuati da Carron [1984] come fattori situazionali o personali che possono essere limitatamente controllati, può aumentare il livello di motivazione individuale di ogni singolo atleta, aumentando così l’importanza che ha per quest’ultimo l’appartenenza alla squadra e la possibilità di impegnarsi per raggiungere specifici obiettivi e, di conseguenza, anche la soddisfazione che dipende da questi fattori.

Infine, sempre riguardo ai fattori che possono aumentare la soddisfazione individuale e che dipendono dal comportamento del leader, anche lo sviluppo di una salda collaborazione ingroup (dipendente anche dal livello di coesione interna, sociale e non) può essere un ottimo mezzo per veder migliorato il livello di soddisfazione personale degli atleti. Alcune analisi di casi singoli hanno evidenziato come, in squadre caratterizzate dalla presenza di uno o più campioni in grado di compiere imprese grazie al proprio talento individuale e di portare alla vittoria il proprio team, la carenza di una collaborazione con i compagni di squadra poteva facilmente minare il livello di soddisfazione di questi ultimi rendendo vane, a questo livello, le vittorie ottenute nel complesso di risultati scadenti [Riley, 1993].

Alla lunga, infatti, la collaborazione e, di conseguenza, la soddisfazione tendeva a divenire tanto scarsa da portare inevitabilmente al crollo delle prestazioni, rendendo inutile il talento dei campioni. In altri casi, in cui il campione mostrava anche capacità di leader o in cui l’allenatore era in grado di arginare questo fenomeno, si poteva comunque formare una condizione di collaborazione in cui tutti i giocatori si sentivano parte attiva del team, indipendentemente dalla presenza di compagni virtuosi, aumentando la propria disponibilità e il proprio livello di soddisfazione ed evitando il prevedibile calo nelle prestazioni. Perché ciò sia possibile la squadra, secondo Cei, deve sempre ragionare in termini di “noi” evitando, o limitando a episodi circoscritti, la rivalità interna, che tende a far sprecare inutili energie agli atleti e che, per di più, hanno un’influenza negativa sui risultati e sul morale del team. Una competizione tra i componenti di un gruppo esiste sempre, ma può rimanere latente e subordinata alla volontà di collaborare fino a ché vi sono successi e vittorie e fino a che il leader riesce ad arginarne lo sviluppo [Behm, 1996].

Per ottenere questo proposito Peterson, Bauer e Tiburzio [1987] suggeriscono all’allenatore di a) favorire la partecipazione dei giocatori tenendo in considerazione le loro indicazioni, b) utilizzare gli stessi criteri di giudizio per tutti ed evitare i favoritismi, c) premiare comportamenti altruistici, d) ridurre comportamenti individualistici per evitare che il gioco si accentri solo su alcuni giocatori anche se particolarmente virtuosi e e) promuovere occasioni per stare insieme. Prima di ciò è importante che l’allenatore sappia riconoscere quando la collaborazione all’interno di una squadra sportiva viene messa a rischio. Secondo Peterson e al, esistono alcuni segnali significativi che tendono a ripetersi in situazioni di questo tipo e che devono essere colti alle loro prime manifestazioni. Innanzitutto i giocatori iniziano a non svolgere i compiti affidati dagli allenatori, iniziano ad essere infrante sia regole tecniche che non tecniche, alcuni atleti possono lamentarsi perché ritengono di rivestire un ruolo eccessivamente marginale rispetto alle loro qualità, alcuni componenti possono giungere a esprimere critiche all’esterno verso allenatore e società, nei momenti di difficoltà i giocatori sono facili al litigio e all’accusa reciproca di responsabilità per gli errori commessi.

Tutto questo è sintomo, non solo di una scarsa disposizione individuale alla collaborazione intragruppo (e a una conseguente competizione intergruppi), ma anche di una buona dose di insoddisfazione personale. La nostra tendenza a sentirci parte di un gruppo (o di una squadra sportiva) è legata alla necessità che abbiamo di veder riconosciuta una caratterizzazione positiva alla nostra identità sociale (dipendente principalmente dalle caratteristiche del gruppo) e identità di ruolo. Quest’ultima per alcuni autori [Deaux,1992] rappresenta una parte dell’identità sociale; ma in realtà deve essere distinta da questa in quanto non si riferisce all’immagine di sé dipendente dall’appartenenza ad un particolare gruppo (o squadra sportiva) ma all’immagine che le persone hanno di sé in rapporto ai ruoli che giocano nei contesti della loro vita quotidiana [Mancini, 2001; Thoits, 1991; Stryker, 1987] o, in questo caso, dello loro vita sportiva. Questo è il livello di identità che viene danneggiato se viene dato corso a queste dinamiche. La perdita della valenza positiva della propria identità di ruolo non può che portare ad un’insoddisfazione e ad un allontanamento, sia cognitivo che comportamentale, dalla squadra. Questo è ciò che il leader deve evitare.

La seconda categoria di variabili legate alla leadership che possono influenzare il livello di soddisfazione negli atleti di una squadra è rappresentata dagli stili decisionali del leader. Questi, come è già stato descritto nel primo capitolo, sono stati suddivisi da Chelladurai e Haggerty [1978] in 5 categorie riconducibili, per semplificazione a uno stile autocratico e ad uno partecipativo o consultivo. Mentre le ricerche portate avanti in ambito sportivo hanno dimostrato che lo stile autocratico è ritenuto essere, sia dai giocatori che dagli allenatori, quello maggiormente valido al fine di raggiungere gli obiettivi della squadra (anche se limitatamente a situazioni molto complesse o molto banali), la situazione si capovolge quando si analizza quale sia il migliore per elevare il livello di soddisfazione tra i membri del gruppo. Nella maggior parte dei casi questo fine viene raggiunto da uno stile decisionale partecipativo che, di per sé, risulta anche il più efficace, per le prestazioni, in situazioni caratterizzate da un livello di controllabilità intermedio.

Questo potrebbe essere principalmente dovuto al fatto che lo stile decisionale partecipativo permette all’atleta di mettere in rilievo le proprie capacità ed esalta l’importanza di ogni giocatore all’interno del gruppo qualificandone positivamente l’identità di ruolo. Un identità di ruolo positiva determina un aumento della soddisfazione personale e, per questo, è importante che l’allenatore sappia quando è necessario utilizzare uno stile autocratico e quando la situazione ne permette uno partecipativo per agire anche sul morale e sfruttare i vantaggi di entrambi.

Altre due categorie importanti di fattori che possono influenzare il livello di soddisfazione della squadra riguardano la relazione tre allenatore/atleta e allenatore/squadra. Come è già stato osservato nel capitolo 2.2 esistono alcuni comportamenti, al di là della necessità di versatilità, che l’allenatore deve comunque mettere in atto o evitare nel momento in cui si relazione con gli altri giocatori. Questi comportamenti devono permettere la costruzione di un rapporto che sia aperto agli interventi degli atleti, in cui il leader deve possedere la sensibilità di ascoltarli, supportarli, premiarli per accentuare il riconoscimento del loro ruolo all’interno della squadra, ed evitare di sanzionarli o punirli per ogni errore. Allo stesso tempo, però, deve essere chiaro sin dal principio e mantenere salda la propria autorità senza abbassare la testa davanti a nessuno dei suoi giocatori. E’ importante ritornare a questo punto sull’idea di accordo allenatore/atleta di Giovannini e Savoia, poiché appare essere questa la base sulla quale fondare la relazione con l’atleta. Per mantenere fede a quest’accordo iniziale, secondo Mazzali [1995], l’allenatore deve preoccuparsi di:

  • dimostrare che tecnicamente è più competente dei giocatori,
  • possedere la sensibilità di comprendere e influenzare l’anima gruppale,
  • aumentare la propria autorità guadagnandosi il riconoscimento da parte dei giocatori e non solo quello istituzionale,
  • dare opportunità di soddisfazione ai giocatori in termini di competizione attraverso: l’assegnazione corretta dei ruoli, variabilità e incisività del programma di allenamento e la possibilità per gli atleti di mettersi alla prova fisicamente.

Un esempio di come la relazione che si forma tra allenatore e atleta possa influenzare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra è rappresentato dalla gestione della panchina. Mazzali [1995] definisce la panchina come “uno dei più importanti mezzi di cui l’allenatore dispone per stimolare i giocatori”. Allo stesso modo è importante osservare come, per le sue conseguenze sulla relazione, costringere un giocatore in panchina risulta una pericolosa arma a doppio taglio. Infatti da un lato può rappresentare uno stimolo a competere sia con sé stessi, sia con i compagni di squadra per migliorare le proprie capacità e poter uscire da questa condizione. In questo modo la motivazione e l’impegno del giocatore viene assolutamente incentivata e la soddisfazione guadagna un forte incremento al momento della realizzazione dell’obiettivo. D’altro canto la frustrazione causata dalla condizione della panchina, soprattutto per i giocatori abituati ad essere in campo, può determinare una ritorsione nei confronti dell’allenatore arrivando a minare la relazione con quest’ultimo, una frattura che può ripercuotersi su tutta la squadra minacciando il clima interno del gruppo. Questo comportamento dipende principalmente dalla percezione che l’atleta ha del comportamento e delle decisioni dell’allenatore reputate essere un evidenza della sua scarsa considerazione verso il proprio lavoro. In questo modo l’identità di ruolo dell’atleta viene ferita tanto profondamente da portare al conflitto aperto. Ovviamente l’allenatore deve evitare questa situazione per impedire che sia la soddisfazione che la prestazione, del giocatore, in primis, ma di tutta la squadra, crollino. Fermo restando che la scelta della panchina deve essere fatta sempre e comunque, in primo luogo, su un motivo tecnico per porre in primo piano il bene della squadra rispetto agli obiettivi individuali, è importante imparare a prendere certi provvedimenti. Al fine di mantenere salda la relazione con l’atleta, Mazzali ritiene che l’allenatore debba imparare a bilanciare la propria capacità diplomatica e persuasoria con la chiarezza e la validità delle spiegazioni tecniche che hanno dettato le sue decisioni. L’atteggiamento che deve mantenere è quello di un “virtuoso” pronto a non abbassare la testa per far valere le proprie decisioni a costo di affrontare il giocatore in un conflitto aperto (per evitare che il proprio status di leader venga intaccato) ma altrettanto pronto a non abusare del suo potere e a dimenticarsi di eventuali offese pur di recuperare il rapporto con un atleta.

Infine, l’ultimo elemento preso in considerazione come variabile importante per la soddisfazione dei membri dei gruppi riguarda lo stile comunicativo del leader e la comunicazione intragruppo in generale. La presenza di forti rapporti comunicativi è spesso sintomo di altrettanto forti rapporti sociali, i quali a loro volta aumentano la coesione del gruppo, il senso di appartenenza degli atleti e la soddisfazione provata nel far parte del team e condividere la propria esperienza con i compagni. Burgoon, Heston e Mc Croskey [1974] sostengono che la comunicazione sia principalmente orientata dalla omogeneità e quindi dalla somiglianza tra i membri e risulta più difficile se i giocatori sono molto diversi tra loro. Nelle squadre professionistiche odierne l’eterogeneità è molto diffusa, in quanto molti società acquistano atleti provenienti da diversi paesi, di conseguenza il problema della comunicazione risulta essere piuttosto centrale. Le variabili che influenzano i rapporti comunicativi riguardano le caratteristiche individuali degli interlocutori, le caratteristiche dell’ambiente in cui sono inseriti, le situazioni che vivono e gli obiettivi delle loro prestazioni. Zander [1982] sostiene che l’allenatore-leader, per aumentare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra, può mettere in atto alcune soluzioni operative come: fare in modo che ogni membro conosca i doveri e le responsabilità degli altri compagni, fornire occasioni ai giocatori per socializzare e conoscersi, fare in modo di comunicare ai giocatori il riconoscimento del loro impegno e dei loro valore, fare in modo che eventuali conflitti tra membri della squadra siano risolti tra loro attraverso la discussione diretta, cercare di promuovere collaborazione tra i giocatori e con lo staff tecnico.

 L’obiettivo è quello di promuovere un comunicazione aperta, chiara e votata alla libera espressione che abitui i giocatori a sviluppare i rapporti e la conoscenza interpersonale evitando che si fermino a pregiudizi superficiali, dannosi non solo per le singole relazioni ma anche per il clima e la coesione di squadra. La comunicazione non è comunque una variabile da stimolare solo all’interno della squadra ma rappresenta un fattore a cui lo stesso leader deve porre estrema attenzione nei suoi rapporti con ciascun atleta. Brewer [2000] sottolinea, infatti, l’importanza per l’allenatore di un’adeguata formazione al riguardo, che gli permetta di utilizzare la psicologia dello sport nello svolgimento del proprio ruolo e nei colloqui con i singoli giocatori.

Come l’allenatore, ancor più il capitano deve essere in grado di favorire la soddisfazione personale degli altri atleti. Anche in questo caso, come nell’ambito della prestazione, le variabili su cui i due leader possono e devono intervenire per ottenere questo risultato sono le medesime. Tuttavia il modo di affrontarle risulta, ancora una volta, diverso. Questa differenza è, ovviamente, dipendente dalla diversa posizione dei leader. In particolar modo il capitano, come è stato già accennato descrivendo il rapporto con gli altri giocatori, viene caricato di un credito idiosincratico al momento della sua elezione, che non si è particolarmente meritato ma che viene investito sulle sue presunte capacità di essere un buon leader intimo. In questo senso parte avvantaggiato rispetto all’allenatore, per questo appare più legato ad un aspetto relazione che prestazionale. Questa fiducia posta dei compagni di squadra non deve poi essere delusa. Per evitare ciò il capitano deve utilizzarla, e utilizzare il potere che ne deriva, sulle variabili già descritte, che possono essere associate allo stile comportamentale del leader, a quello decisionale, alle caratteristiche della sua relazione con gli atleti e al suo stile comunicativo. Se ciò non avviene, il patto con gli atleti, sottoscritto dall’assegnazione di credito idiosincratico non sarà rispettato dal leader intimo e ciò porterà probabilmente all’esplosione di un conflitto interno al gruppo, spesso guidato da aspiranti leader. Se il capitano non possiede le capacità diplomatiche, gestionali ed empatiche per arginarlo, probabilmente verrà sostituito ma, al dì la di questa condizione, tutto ciò influirà in modo negativo sulla soddisfazione, sia direttamente che indirettamente attraverso l’azione che determinerà sul clima della squadra, sulla sua coesione interna e sulla sua prestazione.

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT 

 STILI DI COMUNICAZIONE – RAPPORTI INTERPERSONALI

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Misurarsi – Tribolazioni Nr. 21 – Rubrica di Psicologia

Obesità e stigmatizzazione nelle pubblicità sociali – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Chi pensa a sé stesso come in sovrappeso e lo associa a uno stigma sociale, svalutato e ridicolizzato, probabilmente vivrà la sua condizione come una minaccia alla sua identità sociale: questo può causare maggiore ansia e indebolire l’autocontrollo ed entrambi questi fattori possono indurre a mangiare troppo.

Numerose sono le concause dell’obesità, in particolare, a livello sociale, i nostri stili di vita sempre più sedentari e la disponibilità di cibi ad alto contenuto calorico non aiutano a prevenire e ridurre il fenomeno. Ma c’è un altro fattore sociale a pesare sul fenomeno dell’obesità: la stigmatizzazione delle persone obese. Ironia della sorte, questa stigmatizzazione spesso la ritroviamo proprio all’interno di campagne pubblicitarie anti obesità.

Secondo un gruppo di ricercatori della University of California di Santa Barbara , la lotta all’obesità attraverso messaggi sociali può avere effetti paradossali e indesiderati.

Se pensi a te stesso in sovrappeso, e ti identifichi in uno stereotipo è probabile che sperimenterai quella che i ricercatori chiamano “minaccia all’identità sociale”.

93 studentesse universitarie – 49 di loro si giudicavano in sovrappeso e le altre 44 normopeso o sotto la media – hanno letto un articolo di giornale in due versioni diverse. È’ stato usato un pool di donne perché sono meno stigmatizzate meno degli uomini, anche sui posti di lavoro.

Una versione dell’articolo spiegava perché i datori di lavoro sono riluttanti ad assumere persone che sono in sovrappeso, l’altra perchè i datori di lavoro sono riluttanti ad assumere fumatori.

Dopo aver letto l’articolo ciascuna delle partecipanti ha potuto parlare di ciò che aveva letto per 5 minuti davanti a una telecamera. Successivamente ciascuna di loro veniva accompagnata in una stanza ed era invitata a rilassarsi e a fare uno spuntino.

Dopo 10 minuti gli veniva chiesto di stimare il suo indice di massa corporea, mentre i ricercatori misuravano quanti grammi di cibo erano stati consumati.

L’87 % delle donne hanno mangiato durante la pausa, ma a variare era la quantità di cibo consumato.

Chi aveva letto l’articolo sui costi sociali ed economici associati con l’essere sovrappeso consumava uno spuntino con un contenuto calorico significativamente più alto di chi aveva letto l’articolo sulla discriminazione verso i fumatori.

Inoltre, le risposte a un questionario hanno rivelato che le donne si sentivano significativamente meno in grado di controllare l’assunzione di cibo dopo la lettura dell’articolo che stigmatizzava l’obesità, rispetto alla lettura dell’articolo sulla stigmatizzazione dei fumatori.

È importante sottolineare che questo effetto si verificava nelle donne che si percepivano in sovrappeso, ma non in quelle che lo erano realmente. Nel caso in cui le donne non si consideravano sovrappeso l’esposizione al messaggio stigmatizzante nei confronti dell’obesità ha avuto l’effetto sorprendente di incrementare l’autocontrollo della dieta.

Questi risultati suggeriscono che chi pensa a sé stesso come in sovrappeso e lo associa a uno stigma sociale, svalutato e ridicolizzato, probabilmente vivrà la sua condizione come una minaccia alla sua identità sociale: questo può causare maggiore ansia e indebolire l’autocontrollo ed entrambi questi fattori possono indurre a mangiare troppo.

Per concludere le campagne pubblicitarie dovrebbero puntare a sottolineare gli aspetti positivi del perdere peso piuttosto che enfatizzare quelli negativi legati al sovrappeso.

LEGGI:

ALIMENTAZIONE STIGMA PSICOLOGIA & MARKETING

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Brenda Major, Jeffrey M. Hunger, Debra P. Bunyan, Carol T. Miller, The ironic effects of weight stigmaJournal of Experimental Social Psychology, Volume 51, March 2014, Pages 74–80

 

Dolore Cronico: il modello cognitivo stress-valutazione-coping

 

 

 

Il dolore cronico. - Immagine: © creative soul - Fotolia.comSe il tuo corpo è dolorante e il dolore che senti è insopportabile, l’ultima cosa che vuoi sentire è: “è tutto nella tua testa”. Per le persone con dolore cronico, il disagio è molto reale, e lo sanno fin troppo bene quello che sentono nei loro corpi.

Se sei sdraiato a letto, e senti dolore, il dolore è tutto il tuo mondo. Il modello transazionale dello stress di Lazarus and Folkman’s (1984) ha dato importanti elementi per la spiegazione, lo studio e la costruzione di un approccio cognitivo che vede il dolore cronico come uno stressor, rimanendo molto attuale in campo di riabilitazione fisica e trattamento cognitivo del dolore.

Secondo tale modello transazionale dello stress in generale, diverse variabili come la personalità, il ruolo sociale stabile e/o diversi parametri biologici, possono influire l’interazione di una persona con uno stressor. In aggiunta a questo, le persone effettuano una serie di processi di valutazione dinamici che influenzano la loro risposta allo stressor, in particolare se, e quali, risposte di coping saranno tentate.

I processi di valutazione sono pensieri, e riguardano interpretazioni cognitive di eventi o stimoli, che possiamo distinguere in: “Valutazioni primarie”, intendendo quelle relative ai giudizi sulla potenziale rilevanza degli stressors (benigni/positiviti oppure stressanti), e in “valutazioni secondarie”, che sono invece i beliefs sulle opzioni di coping e la loro possibile efficacia. In ultimo, le risposte di coping, che implicano sia sforzi cognitivi e comportamentali per la gestione dello stress, sia importanti effetti adattivi sul funzionamento sociale, l’umore e la salute fisica.

E’ evidente che le richieste di uno stressor non restano statiche, ma sono in costante mutamento. Al variare delle richieste dello stressor, cambiano le valutazioni, e di conseguenze le risposte di coping. Per un paziente con dolore cronico, purtroppo tale mutamento nelle valutazioni e nelle strategie di coping potrebbe spesso porsi alla base di una sindrome di disabilità.

Seguendo tale lettura, Beverly Thorn ha proposto un modello stress-valutazione-coping del dolore cronico, per l’organizzazione del trattamento cognitivo di tale problematica. Schematizzando:

Le caratteristiche individuali che intervengono nell’adattamento al dolore, comprendono:

  • Fattori biologici: lo stato della malattia (ad esempio, tipo e decorso) non predicono la disfunzione, ma forniscono un contesto per la comprensione del tipo di trattamento di cui il paziente potrebbe necessitare (ad es. chirurgia, medicazione, ecc.);
  • Ruoli sociali: i ruoli di genere e le aspettative culturali hanno un impatto sulle credenze di causalità e appropriatezza nel trattamento del dolore, influenzando la scelta della strategia di coping;
  • Fattori di personalità: le caratteristiche temperamentali come il nevroticismo, l’affettività negativa, e la vulnerabilità emozionale incrementa il rischio di disabilità;
  • Core beliefs: le credenze più profonde su sé stessi come persone nel dolore potrebbero evolvere durante il corso della malattia, ma restare sottostanti alla precoce formulazione di sé stessi costruita nel corso della propria vita.

Un soggetto con le caratteristiche individuali sopra elencate, in condizioni di dolore, non considera lo stimolo doloroso né la reazione biologica come uno stressor. E’ il processo cognitivo che traduce tale stimolo e tale reazione in “minaccioso” o “ingestibile”, aprendo le porte allo stress.

Dolore”, allora, verrà considerato uno stressor, quando e se una persona giudicherà l’esperienza percepita come onerosa o eccessiva rispetto alla sua abilità di fronteggiarla. Affinchè ci sia tale passaggio, da stimolo doloroso a stressor, il soggetto effettua delle valutazioni primarie, che possono essere:

  • Valutazione di Minaccia: la percezione di dolore è superiore alle proprie strategie di coping.
    • Emozione: produce emozioni negative come paura e ansia, che possono essere psicologicamente debilitanti;
    • Cognizione: il focus attentivo viene fissato sul dolore o sul potenziale stimolo doloroso, attraverso la riduzione dell’abilità di spostare l’attenzione su altri stimoli, distorcendo una valutazione più realistica, riducendo la concentrazione e la memoria;
    • Comportamenti: Riduzione delle attività che potrebbero incrementare il dolore, aumentando gli evitamenti, esacerbando così la disabilità fisica;
  • Valutazione di Perdita/Danno: la percezione che un danneggiamento è accaduto/risultato dallo stimolo doloroso.
    • Emozione: produce dispiacere, tristezza ed emozioni depressive, tutte associate a disfunzione psicologica;
    • Cognizione: incrementa pensieri di perdita e impotenza, attraverso la distorsione di una più realistica valutazione della situazione stressante;
    • Comportamenti: aumenta la passività, e riduce l’attività fisica e delle altre attività quotidiane, producendo la perdita di lavoro, reddito e qualità economica della vita, così come difficoltà relazionali;
  • Valutazione di sfida: la percezione che l’abilità di fronteggiamento non è inferiore al potenziale pericolo.
    • Emozione: produce sensazioni di impegno o convinzione, e in certe situazioni anche impazienza o eccitamento;
    • Cognizione: conduce alla credenza che reazioni efficaci di coping sono possibili, e a percepire gli stimoli dolore correlati come una sfida; gli stressors sono percepiti più realisticamente; vi è un’autoidentificazione come “persona sana con il dolore”;
    • Comportamenti: aumenta la probabilità di autogestione del dolore, così come il coinvolgimento in attività indipendenti del vivere quotidiano, arrivando ad una diminuzione della disabilità.

La concettualizzazione cognitiva del dolore cronico deve tenere in considerazione anche le valutazioni secondarie che intervengono nel paziente. Tali valutazioni, si sostanziano in:

  • Credenze intermedie: interpretazioni acquisite derivanti da fattori personali, culturali, e ambientali, spesso riconducibili a doverizzazioni;
    • Beliefs sul dolore: opinioni sulla natura del dolore, sulle cause, e/o sul trattamento appropriato del dolore; questi influenzano sia l’angoscia sia la disabilità;
    • Beliefs sulle proprie capacità di controllo del dolore: credenze basate sulla propria autoefficacia e il locus of control; queste influenzano l’iniziativa ad intraprendere l’autocontrollo del dolore;
  • Pensieri automatici/errori cognitivi: si presentano frequentemente al di fuori della propria consapevolezza, influenzando la scelta delle strategie di coping:
    • Catastrofizzazione: intesa come un’orientamento negativo distorto verso il dolore o di anticipazione del dolore. E’ un forte predittore del livello di dolore percepito, di disabilità e adattamento alle condizioni di dolore cronico;
    • Altri errori cognitivi: percezione negativa di sé stessi, interpretazione negativa dell’interazione con gli altri e auto colpevolizzazione. Sono tutti associati con grande afflizione e disfunzione.

Parallelamente, il soggetto attiva reazioni di coping verso il dolore, che includono sforzi cognitivi e comportamentali; essi rappresentano tentativi di ridurre il dolore o lo stress dolore correlato.

Infine, l’ultimo componente del modello stress-valutazione-coping del dolore, è l’adattamento: esso include più di una eliminazione del dolore, è multidimensionale, coinvolge cioè il funzionamento fisico, sociale e psicologico del paziente. Viene spesso quantificato usando questi parametri: dolore percepito (inclusa l’intensità e sgradevolezza), funzione psicologica (specialmente l’ansia e la depressione), livello di attività (includendo status lavorativo e i markers di disabilità), l’assunzione di farmaci (a volte divisi in sedativi/ipnotici, non oppiacei analgesici e oppiacei analgesici), ricorso al servizio sanitario (numero di richieste mediche, numero di ospedalizzazioni, numero di interventi chirurgici).

Appare evidente che un intervento di psicoterapia cognitivo comportamentale possa essere di grande aiuto nel trattamento medico di pazienti con tale sofferenza. Molte le ricerche che si muovono nello studio della componente cognitiva nei soggetti che fanno esperienza di dolore fisico, come i pazienti della grande chirurgia ortopedica.

Una recente ricerca italiana condotta dall’equipe del Dottor Monticone dell’Istituto Scientifico di Lissone (MI) pubblicata sulla rivista internazionale Archives of Physical Medicine and Rehabilitation nel febbraio 2013, ha sottolineato la rilevanza della componente cognitiva nella riabilitazione dei pazienti sottoposti ad artroplastica totale del ginocchio: su 110 pazienti di età media di 67 anni operati di protesi completa dell’articolazione del ginocchio, alla normale riabilitazione fisica è stata affiancata una riabilitazione cognitiva che aiutava i pazienti a gestire le problematiche relative al dolore, alla kinesiofobia (paura del movimento), gli evitamenti e le credenze disfunzionali ad essi associate. Il trattamento riduceva significativamente il grado di disabilità, aumentando il livello di qualità della vita percepito dai pazienti.

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DOLORESTRESSPERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

CATASTROFIZZAZIONE DEL DOLORE NEL PAZIENTE OBESO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Quanto mi amo? Questioni di autostima – Psicologia

 

 

Quanto mi ano? Questioni di autostima - Psicologia. -Immagine: © lculig - Fotolia.comLavorare su stessi significa capire chi si è e cosa si vuole, amarsi e stimarsi per quelli che si è. Ognuno di noi è unico e irripetibile anche se ha dei difetti, la perfezione non è umana. 

Cosa penso di me stesso? Mi stimo? Pare, da quanto presente in rete, che esista una formula per far lievitare l’autostima . Si tratta di una serie di liste per la spesa , 10 regole, 4 regole, 5 regole, non si sa neanche bene quante dovrebbero esserne, che garantiscono un risultato sicuro e determinante: sentirsi Super man o Wander woman!

In realtà non è così semplice, esiste una componente individuale, personale, che si tralascia, ma che risulta essere determinate per l’autostima. L’autostima è una stima, una valutazione, che si fa di se stessi, un giudizio derivante dalla domanda: “Cosa penso di me?”.

Se si ha una buona concezione di se stessi, allora si avrà una alta autostima, altrimenti ci si disistima. Solitamente, quest’ultima deriva da un gap che si crea tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che realmente si è. Quando queste due valutazioni sono distanti, si determina una discrepanza che porta ad una scarsa considerazione di se stessi. Ed è proprio qui che si comincia a ruminare negativamente su quanto poco valore si ha. 

Se l’autostima cala significa che qualcosa d’importante sta accadendo, in qualche modo si inseguono i desideri altrui trascurando quelli che sono i reali bisogni della persona, e così si cade nel baratro del non valore, pensando che i desideri altrui sono sempre migliori dei propri.

Perché è così importante avere una buona stima di se stessi?

Chiaro, più ci stimiamo e più ci sentiamo efficaci ed efficienti, meno lo facciamo e più sprofondiamo nell’abisso. In questo caso siamo pronti a ricercare sempre e comunque all’esterno qualcosa che in qualche modo possa determinare un miglioramento della nostra stima.
Chi non pensa di avere valore personale, spesse volte, evita di affrontare le situazioni per paura di sbagliare o si sperimenta goffamente in alcune contesti. E se si verificasse un insuccesso? Allora si soffre maggiormente associando l’accaduto esclusivamente ad una propria mancanza. Al contrario, quando si sperimenta un successo si tende a svalutarlo e a sminuirlo.

Chi sperimenta bassa autostima vive la sensazione di perdere il controllo delle emozioni, che conosce poco, sentendosi di non essere capace di raggiungere i propri obiettivi nel modo in cui vorrebbe venissero raggiunti
La mancanza di fiducia in sé stessi può danneggiare la vita, al punto da creare situazioni anche senza via d’uscita, a meno che non si passi ai ripari e costruiscano delle certezze su cui contare.

Quindi, chi ha una bassa autostima pensa che se i progetti, i lavori o le iniziative intraprese non sfociano nel giusto successo che meritano allora si raggiunge un fallimento, e si rumina in buona sostanza su quanto si è inutili. Di conseguenza la tristezza prende il sopravvento su tutto fino al punto da perdere il controllo emotivo.

D’altro canto colui che ha una giusta visione di sé stesso è pienamente consapevole del fatto che non tutti i progetti o iniziative si concludono con successo, che probabilmente alcuni d’essi non raggiungeranno gli obiettivi sperati. Questa giusta attitudine mentale permette di imparare dai propri errori e migliorare in futuro dai propri insuccessi, aumentando così le probabilità di buona riuscita.

Quando ci si butta in situazioni sociali aventi come scopo l’affermare se stessi e malauguratamente questa situazione non esita positivamente, è possibile si possa piombare in uno stato depressivo o aggressivo perché la posta in gioco è troppo alta e le aspettative sono disattese. Chi ha bassa autostima non accetta la perdita di un incarico di prestigio, perché equipara il ruolo sociale al proprio prestigio personale.Rivestire un ruolo di prestigio rende queste persone autorevoli.

Attenzione, si è piombati in un falso sillogismo dove le conclusioni sono sbagliate, perché se il posto prestigioso un giorno venisse a mancare la persona diventerebbe un nulla pieno di rancore, odio e tristezza. Tutto questo porta ad inferire che, innanzitutto, non si hanno dei valori personali, per questo è necessario chiarire con se stessi quello che si vuole e quello che non si vuole ottenere dalla vita.

Poi, è necessario riconoscere le proprie emozioni imparando a riconoscerle ed entrare in contatto la propria sofferenza. Solo così si può capire perché è importante avere una buona stima di noi stessi.

Per perseverare questo obiettivo bisogna lavorare sulla immagine di se, che non significa dimagrire, smettere di fumare etc…, perché così facendo ancora una volta si sta rispondendo a dei dictat sociali, esterni, che potrebbero non corrispondere alle esigenze della persona.

Lavorare su stessi significa capire chi si è e cosa si vuole, amarsi e stimarsi per quelli che si è. Ognuno di noi è unico e irripetibile anche se ha dei difetti, la perfezione non è umana. 

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SCOPI ESISTENZIALI RIMUGIONIO (WORRY) -RUMINAZIONE (RUMINATION)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Stimolazione elettrica cerebrale: può migliorare l’autocontrollo?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio apparso sul Journal of Neuroscience la stimolazione elettrica cerebrale può migliorare l’autocontrollo. Questa scoperta secondo gli scienziati potrebbe essere utile nel trattamento dell’ADHD e di altri disturbi gravi di auto-monitoraggio.

Lo studio, in doppio cieco, ha coinvolto quattro volontari epilettici ai quali è stato chiesto di eseguire semplici compiti comportamentali che implicavano l’interruzione o il rallentamento di un azione. Per ogni paziente i ricercatori hanno identificato la posizione specifica di questo “freno” nella regione prefrontale del cervello. Successivamente, un computer ha stimolato la corteccia prefrontale esattamente nel momento in cui l’interruzione dell’azione era necessaria. Ciò è stato fatto utilizzando elettrodi impiantati direttamente sulla superficie del cervello .

La stimolazione con cariche elettriche brevi e impercettibili ha portato a una forma di maggiore auto-controllo nei soggetti epilettici.

Quando la stimolazione elettrica avveniva al di fuori della corteccia prefrontale non c’erano effetti sul comportamento e questo dimostra che l’effetto della stimolazione è specifico per il sistema di frenata prefrontale.

Questo è il primo studio pubblicato sul come migliorare la funzione del lobo prefrontale umano utilizzando la stimolazione elettrica diretta. Inoltre la stimolazione elettrica ha avuto l’effetto di amplificare la funzione del lobo prefrontale, mentre normalmente negli studi in cui viene utilizzata la stimolazione elettrica su esseri umani si ottiene l’effetto di disturbare momentaneamente la normale attività cerebrale.

I ricercatori sottolineano che nonostante i risultati dello studio siano promettenti, non si focalizzano ancora sulla capacità di migliorare il controllo in generale; in particolare  la stimolazione elettrica diretta non sembra essere un’opzione realistica per il trattamento dei disturbi di auto-monitoraggio, come il disturbo ossessivo -compulsivo, sindrome di Tourette e disturbo borderline di personalità .

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DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – ADHD NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La pubblicità con il mio nome: quante soddisfazioni! – Psicologia

 

 

La pubblicità con il mio nome: quante soddisfazioni! . -Immagine: © Mr Korn Flakes - Fotolia.comOra possiamo avere in casa la cioccolata con il nostro nome o la bevanda con il ruolo che ricopriamo nelle interazioni sociali (moglie, fratello, mamma…), e, se non vogliamo farci mancare proprio nulla, addirittura entrambe! Un’operazione di marketing che soddisfa il nostro bisogno di stima.

Nell’ultimo anno si è assistito ad un cambiamento di forma negli spot pubblicitari: grosse industrie di prodotti alimentari hanno aggiunto, al proprio prodotto in vendita, il nome e il ruolo sociale che ciascuno di noi può ricoprire.

In cosa consiste questa operazione di marketing? Perché dovrebbe farci piacere comprare prodotti che portano il nostro nome o il nostro ruolo? Perché secondo Maslow, in realtà, questo soddisfa il nostro bisogno di stima. 

Il nostro comportamento è motivato da una serie di cause ed è finalizzato alla realizzazione di determinati scopi: ad esempio dormiamo perché siamo stanchi (causa) e abbiamo bisogno di riposare (scopo). L’insieme degli scopi rappresenta il sistema motivazionale dell’individuo (Lorenzini & Sassaroli, 2000).

Nel panorama psicologico internazionale esistono diverse teorie volte a spiegare la dimensione motivazionale nell’agire umano. La motivazione, in generale, può essere definita come un costrutto che prevede la presenza di diversi livelli di complessità ordinati in modo gerarchico: da risposte automatiche semplici (i riflessi: ad esempio l’attività involontaria e automatica delle ghiandole sudoripare che consente di mantenere costante la temperatura del corpo) e spinte elementari (bisogni, pulsioni) a condotte più articolate ed elaborate (essere amati, sentirsi realizzati) (Anolli & Legrenzi, 2001).

Secondo Maslow (1954), in particolare, è possibile organizzare i bisogni umani in una gerarchia piramidale, dove, partendo dalla base, troviamo:

  1. i bisogni fisiologici connessi alla sopravvivenza (come sete e fame);
  2. i bisogni di sicurezza che portano alla ricerca di tranquillità, protezione ed evitamento di condizioni pericolose;
  3. i bisogni di appartenenza ed amore (ad esempio sentirsi parte di un gruppo, dare e ricevere amore);
  4. i bisogni di stima, che si dividono in autostima (fiducia in se stessi, indipendenza, realizzazione) ed eterostima (status, riconoscimento, apprezzamento e rispetto meritato degli altri). Quando questi bisogni non sono soddisfatti, si possono sviluppare sentimenti di inferiorità o di debolezza;
  5. i bisogni di realizzazione del sé, intesi come il desiderio di realizzare le proprie potenzialità, di portare a compimento le proprie aspettative e di occupare una posizione significativa all’interno del proprio contesto sociale.

I bisogni alla base della piramide scompaiono al loro appagamento, gli altri continuano a svilupparsi via via che vengono soddisfatti.

La tipologia di pubblicità in questione tende a soddisfare i gradini più alti di questa piramide, come il bisogno di stima e il bisogno di realizzazione del sé: la qualità non risulta più essere l’unico fattore importante, ma emergono anche i valori che l’azienda e il prodotto comunicano.

Più l’azienda è capace di creare approcci fondati su relazioni durature e interattive con i clienti, più i clienti saranno soddisfatti. Sentire: “Per noi rimarrai sempre Stefano”, equivale a dire che per quell’azienda Stefano è importante, e (Maslow insegna) essere riconosciuti e apprezzati è uno dei bisogni sempre attivi, che se appagato è un toccasana per la nostra autostima e dà origine ad un senso di soddisfazione e benessere, che aumenta esponenzialmente se si sperimenta proprio mentre ci troviamo in condizioni di stress (come essere in coda con il carrello il sabato mattina!).

Consigli per l’uso: usare con moderazione. Godiamo del senso di benessere non solo al supermercato, ma appaghiamo il bisogno di stima impegnandoci per migliorare la nostra condizione sociale, per avere una buona reputazione o una posizione importante all’interno di un gruppo, condizioni che rendono il benessere più stabile. Ed eventualmente, se non è indispensabile, evitiamo di fare la spesa il sabato mattina!

LEGGI:

PSICOLOGIA & MARKETINGSCOPI ESISTENZIALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psiche & Legge #10: L’ espressione di disprezzo rivolta al partner vale come maltrattamento?

PSICHE E LEGGE #10

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Può l’espressione di disprezzo rivolta al partner, valere come maltrattamento in famiglia?

 

Psiche & legge#10. - Immagine:  © Rudie - Fotolia.comLe espressioni di disprezzo del coniuge, certamente lesive della dignità umana, possono talora costare anche una condanna per il reato di maltrattamento in famiglia, di cui all’art. 572 del Codice Penale.

Vediamo, però, in quali casi ciò è ipotizzabile, e quali sono i presupposti che il legislatore richiede ai fini della configurazione del delitto. Va precisato, in primo luogo, come i maltrattamenti in famiglia si delineano, nel codice, alla stregua di una risposta punitiva tesa a sanzionare la condotta di chi “maltratti” una persona della famiglia.

Così, analizzando con maggiore attenzione la nozione di maltrattamenti, verrà spontaneo ricondurre a tale alveo, non solo gli atti di violenza fisica – quali percosse o lesioni – ma altresì ogni condotta in grado di arrecare alla vittima sofferenze, anche soltanto psichiche. E’ noto, difatti, come la serenità psicologica sia elemento integrante della salute umana, intesa nel senso più ampio di benessere psicofisico. Di qui, la rilevanza, per l’integrazione del reato, sia delle aggressioni al corpo del familiare, che delle ingiurie, minacce, privazioni o umiliazioni idonee a violarne la tranquillità quotidiana. A tal fine, inoltre, il giudice dovrà riservare adeguata attenzione – come del resto precisato, di recente, dalla Cassazione con sentenza n. 44700/13 – agli atti “di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali”.

Ma quando, allora, un comportamento teso a mortificare le persone vicine diviene reato? Non sempre, è evidente. Si pensi all’agire, obiettivamente spiacevole, di chi rivolga espressioni atte a mortificare il valore altrui, o all’abitudine, purtroppo frequente, di svilire il partner durante una lite. Ebbene, entrambe le azioni, seppur riprovevoli sotto il profilo personale, non vanno certamente qualificate come delitti, ove singolarmente considerate. Scatterà il reato, tuttavia, nell’ipotesi in cui detti modi di fare assumano un’abitualità tale da sottoporre i familiari a continue vessazioni. Vessazioni che, però – va precisato – vestiranno valenza penale esclusivamente ove espressione di una condotta abituale del soggetto, che risulti mosso dall’intenzione di porre in essere un programma criminoso, caratterizzato dalla volontà unitaria di ledere la vittima.

L’abitualità, pertanto, quale elemento connotante i maltrattamenti in famiglia, inquadrati, proprio per tale ragione, tra i reati abituali, la cui consumazione coinciderà con l’ultimo degli atti perpetrati. È la natura abituale del crimine, dunque, a comportare la possibilità di punire il comportamento complessivamente valutato, a nulla rilevando che i singoli segmenti dell’agire siano, o meno, penalmente perseguibili. Potrebbe accadere, ad esempio, che isolate frasi ingiuriose – seppur in se lecite – si trasformino in reato, ove inserite in un contesto di vita caratterizzato da una serie costante di vessazioni, fonte di sofferenza psichica per la persona offesa.

Preme sottolineare, ancora, come il giudice potrà emettere sentenza di condanna anche nell’evenienza in cui sia stata riscontrata l’abitudine dell’imputato a proferire espressioni di disprezzo nei confronti del familiare, tali da ridurlo in stato di sofferenza, nonostante il suo atteggiarsi venga ad innestarsi, come di sovente accade, in una situazione di conflittualità familiare, reciproca e permanente. A segnare la responsabilità penale, pertanto, sarà solo il formarsi della cosiddetta serie “di minima rilevanza” di atti vessatori, sufficiente a procurare lesioni psicologiche alla vittima.

Altro aspetto meritevole di analisi, è quello attinente le vicende in cui il reo sia separato dalla consorte.

In tale evenienza, occorre domandarsi se lo stato di separazione consente di ritenere le parti ancora legate da quel vincolo di familiarità che il Codice Penale richiede per la sussistenza del reato. La soluzione, alla luce dei principi giuridici generali, non può che essere positiva. Del resto, ma è palese, la separazione dei coniugi sospende – e non interrompe – i doveri assunti con la celebrazione del matrimonio. Restano intatti, perciò, almeno fino alla pronuncia di divorzio, gli obblighi di rispetto e di assistenza, morale e materiale. Di conseguenza, i maltrattamenti in famiglia potranno configurarsi anche nelle ipotesi in cui il comportamento del reo – dunque le vessazioni, le offese e gli atti di disprezzo rivolti al partner – sia iniziato durante la vita coniugale, e si sia protratto durante lo stato di separazione, sia essa legale, o solo di fatto. Assunto, questo, immediatamente collegato al concetto di familiare, quale soggetto passibile di restare vittima del reato di maltrattamenti. Ebbene, familiare – secondo costante giurisprudenza – è senz’altro il convivente, nel caso in cui la coppia abbia comunque progettato una vita basata sulla reciproca solidarietà e sostegno. Che la stabile convivenza sia ormai equiparata alla famiglia fondata sul matrimonio, almeno ai fini in esame, lo si deduce altresì dal mutamento del titolo della rubrica normativa, oggi non più rubricata “maltrattamenti in famiglia” ma “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.

Ecco che il delitto in lettura, potrà scattare quando le continue vessazioni siano rivolte, non solo al coniuge, ma ad ogni soggetto legato al reo da obblighi assistenziali, seppur non connessi a specifici vincoli di parentela, naturale o giuridica.

Di conseguenza, laddove i comportamenti tenuti dall’agente – volgari, irriguardosi, umilianti o ingiuriosi – siano tali da costringere il familiare a vivere in un contesto quotidiano avvilente e mortificante, il giudice, accertata l’esistenza di un programma criminoso volto a vessare la vittima, potrà senz’altro emettere sentenza di condanna ai sensi dell’art. 572 del Codice Penale.

 

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

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VIOLENZA – ABUSI E MALTRATTAMENTI – FAMIGLIA – PSICOLOGIA PENITENZIARIA

IL MANIPOLATORE PERVERSO: COME RICONOSCERE IL NARCISISTA MALIGNO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Pascasi, S. (2013). Ciò che caratterizza la sussistenza del crimine è l’abitualità di fatti che procurano sofferenza. Nota a Cass. Pen. n. 44700-13, in Guida al Diritto (Il Sole 24 Ore) n. 47/13, pagg. 83-86

Sexual economic theory e pubblicità – Psicologia & Marketing

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le donne sono insensibili ​​alle immagini sessualmente esplicite delle pubblicità…a meno che il prodotto pubblicizzato sia molto prezioso, e speciale.

Questo secondo i risultati di un nuovo studio condotto da un gruppo internazionale di docenti di marketing, Kathleen D. Vohs , Jaideep Sengupta e Darren W. Dahl.

L’ipotesi alla base dello studio si rifà alla “sexual economic theory” una teoria molto poco romantica su come uomini e donne pensano, sentono, reagiscono e si comportano in un contesto sessuale. Nello specifico, secondo questa teoria, pensieri,  sentimenti, comportamenti e preferenze sessuali di uomini e donne seguono principi economici: la premessa fondamentale è che “il sesso” è qualcosa che le donne hanno e gli uomini desiderano.

Per cui la sessualità femminile è considerata un bene prezioso che verrà ceduto solo in cambio di adeguate risorse maschili (impegno, affetto, attenzione, tempo, rispetto…e denaro). Inoltre per le donne è importante che la sessualità femminile venga rappresentata come qualcosa di speciale e che venga valorizzata, come un oggetto prezioso.

I ricercatori hanno messo alla prova questa teoria in campo pubblicitario e mostrato a uomini e donne annunci pubblicitari di orologi da polso: alcuni avevano come contesto immagini piccanti, altri una maestosa catena montuosa, inoltre il valore dell’orologio poteva essere di 10 o di 1250 dollari. I partecipanti all’esperimento avevano il compito di valutare l’annuncio pubblicitario.

Le donne hanno giudicato in modo estremamente negativo gli annunci associati al contesto piccante quando l’oggetto era di poco valore, mostrandosi disgustate, arrabbiate e spiacevolmente sorprese. I giudizi sull’annuncio erano però molto meno severi quando il prezzo dell’orologio era alto. Il prezzo dell’orologio non influenzava le valutazioni nel caso in cui il contesto era mondano.

Negli uomini, invece, il prezzo dell’orologio non ha modificato le valutazioni in entrambi i contesti. Gli uomini però hanno reagito molto negativamente ad alcuni annunci sessualmente espliciti quando questi ammiccavano al fatto di dover investire risorse economiche per avere un contatto sessuale. Questa reazione non si verificava quando l’annuncio suggeriva che le risorse da investire erano affettive, e non monetarie.

Sebbene i risultati dimostrassero esattamente ciò che i ricercatori avevano previsto questi sono rimasti sorpresi “Siamo riusciti a ottenere questi effetti persino al di fuori si uno scenario d’acquisto reale.  È bastata una breve esposizione ad annunci pubblicitari perchè la  sexual economic theory emergesse. Questo significa che il processo avviene a livello profondo e intuitivo.”

LEGGI:

SESSO-SESSUALITA’GENDER STUDIES PSICOLOGIA & MARKETING

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Buon anno e buone feste da State of Mind

Happy Christmas State of Mind 2013. - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti
Happy Christmas State of Mind 2013. – Immagine: © 2013 Costanza Prinetti

Cari amici e lettori di State of Mind!

E’ passato un altro anno di SoM, un anno di articoli, recensioni, polemiche, commenti, congressi e post. Un anno di blogger straordinari e di lettori generosi e attenti.

Il giornale è cresciuto, e diventato un punto di riferimento importante della psicologia italiana.

Anche quest’anno il Premio State of Mind ha avuto molto successo, sono arrivate in redazione decine di proposte che hanno reso difficile la decisione data l’alta qualità delle ricerche in gara.

Abbiamo inventato un format difficile, che chiede un equilibrio costante tra severità delle citazioni, controllo delle notizie, e leggibilità e attenzione al mondo mainstream e al pubblico generalista.  Le oscillazioni esistono e ogni volta ci fanno rimuginare, ci rendono insoddisfatti, ci fanno cambiare direzione.

Ma ogni volta, condotti dal nostro Direttore, Giovanni Ruggiero, dal nostro webmaster Flavio Ponzio, dalla redazione Linda Confalonieri, Serena Mancioppi, Valentina Davi, dagli studenti della scuola, le preziose Roberta e Daniela… troviamo una strada nuova che consente di rimettere il timone in asse.

Noi crediamo che un giornale come il nostro contribuisca in piccolo, modestamente ma con grande testardaggine, all’avanzamento della psicologia italiana,  crediamo nell’eccellenza dei nostri psicologi, degli psichiatri, dei neuroscienziati, e vogliamo che SoM sia una delle molte voci che si fanno ascoltare dall’Italia verso il mondo.

Una voce divertente e informata che parli non solo al mondo psicologico ma che renda più attuale e aggiornata la conoscenza della psicologia da parte dei lettori non specialisti.

State of Mind non esisteva ma l’esigenza di un journal come SoM c’era. Noi l’abbiamo soltanto intercettata. E ne siamo orgogliosi.

 

Cari amici e lettori, Buon anno a tutti, buon SoM a tutti!

Sandra Sassaroli

 

 

 

 

Photo-taking impairment effect: se vuoi ricordare…non fare foto!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Photo-taking impairment effect: le persone è come se usassero la macchina fotografica come una stampella alla quale affidarsi per memorizzare gli oggetti, questo però indebolisce il ricordo che è affidato alla memoria della macchina fotografica invece che a quello della mente.

Fare foto o video di ciò che osserviamo non sempre ci aiuta a ricordare meglio ciò che abbiamo visto e vissuto, è quanto emerso da una ricerca della Fairfield University in Connecticut. Lo studio, ispirato dall’osservazioni di vita reale, ha voluto indagare se l’abitudine a fotografare e videoriprendere compulsivamente tutto ciò che vediamo, per esempio quando siamo in vacanza, aiuti davvero a scolpire il ricordo nella memoria o se invece possa avere l’effetto contrario, cioè quello di distoglierci dalla vera osservazione.

La psicologa ricercatrice Linda Henkel ha testato 28 soggetti che hanno visitato il Bellarmine Museum of Art: gli studenti sono stati assegnati in modo casuale al compito di osservare o fotografare 30 diversi oggetti.

Il giorno successivo i partecipanti allo studio hanno svolto un test di memoria: dovevano scrivere i nomi degli oggetti  visti o fotografati il giorno prima, rispondere a domande su dettagli degli oggetti, e infine svolgere un test fotografico di riconoscimento.

I risultati indicano che i partecipanti allo studio ricordavano più facilmente gli oggetti osservati di quelli fotografati. La Henkel ha chiamato questo fenomeno “photo-taking impairment effect”, le persone, cioè, è come se usassero la macchina fotografica come una stampella alla quale affidarsi per memorizzare gli oggetti, questo però indebolisce il ricordo che è affidato alla memoria della macchina fotografica invece che a quello della mente.

In un secondo esperimento, 46 studenti hanno percorso lo stesso tour al museo: la metà di loro avevano il compito di osservare gli oggetti e l’altra metà quello di fotografare solo un dettaglio (ad esempio la testa o i piedi di una statua).

Anche in questo caso l’indebolimento del ricordo, legato all’uso del supporto tecnologico, era evidente, però il fatto di zoommare su alcuni dettagli dell’oggetto li aiutava a ricordare la figura intera.

Questo studio ci suggerisce di prestare davvero attenzione a ciò che fotografiamo o videoregistriamo, perchè solo così saremo facilitati nel recuperare i ricordi, in caso contrario le immagini non rimarranno impresse nella mente ma solo nella scheda di memoria della macchina fotografica.

La Henkel sta ora progettando di studiare le differenze nelle memorie di persone scelgono di scattare una foto rispetto a quelle a cui viene chiesto di scattare una foto. L’idea è quella che il livello di attenzione e interesse che varierebbe nelle due situazioni influenzerebbe anche la qualità del ricordo.

LEGGI:

MEMORIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Legge anti stalking: novità e criticità – Report dal convegno

 

Una risposta alla violenza di genere?

La cura dei sistemi di convivenza.

 

Legge antistalking, Convegno Napoli Novembre 2013. -Immagine: locandinaLunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, durante il quale si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere.

Lunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, promosso dall’avvocato Maria Giovanna Castaldo, consigliere segretario della Camera Minorile di Napoli. Durante tale incontro, intorno a un tavolo, si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere. Qui di seguito proverò a riassumere i punti nodali del mio intervento, anche alla luce delle riflessioni emerse dal convegno.

Se cerchiamo su internet la parola “violenza di genere” vengono fuori numerose immagini di donne profondamente sole e dal volto livido. Strano a dirsi ma, pur essendo molteplici le rappresentazioni proposte ai nostri occhi, avremo la bizzarra percezione di essere di fronte alla medesima donna maltrattata: l’aggressore, se c’è, è sullo sfondo, lo si percepisce appena in uno sguardo, lo si vede in un braccio che elargisce uno schiaffo o, ancora, lontano intento a sbattere una porta, dopo aver compito la sua brutalità.

Ciò che manca in queste foto è la relazione che si crea tra vittima e aggressore; la sua rappresentazione in queste immagini è quasi sempre assente. Vien da chiedersi la ragione di tutto ciò. Probabilmente perché è davvero intollerabile concepire la violenza come un qualcosa che sia ascrivibile a una qualsiasi danza relazionale.

C’è chi è reo di quel gesto meschino e chi ne è vittima: la responsabilità del misfatto è da osservare, in questo rarissimo caso, con una casualità semplicistica di tipo lineare, altrimenti si rischia di rifare i tristi errori del passato, che spingevano a intravedere una corresponsabilità di quanto accaduto in gonne troppo corte o atteggiamenti femminili eccessivamente provocanti.

Eppure la relazione anche in questi casi esiste, c’è sempre, anche in queste amare storie di cronaca. Interessante sarebbe, infatti, ad esempio capire quale incastro relazionale si crei tra vittima e carnefice e in quali contesti tali fenomeni si vadano per lo più a sviluppare.

Il mio insistere tanto sulle relazioni non è dovuto solo al mio bagaglio formativo (sono una psicoterapeuta sistemico-relazionale), ma nasce anche dalla convinzione che, come sosteneva Gregory Bateson, “la relazione viene prima”. Della saggezza di quest’affermazione ne portiamo il segno sul nostro corpo attraverso l’ombelico, un piccolo ma pregnante simbolo che dà a queste premesse epistemologiche conforto e ragione, ricordandoci che noi veniamo al mondo già in una relazione. Anche il figlio meno desiderato, e magari per questo motivo abbandonato, sa che quando è nato era già in relazione con qualcuno. Pensare a quel simbolo mi regala sempre un sospiro di sollievo: mi ricorda che i problemi non sono nelle persone ma nelle relazioni che tra esse intercorrono e che, dunque, anche le soluzioni sono da ricercare lì.

E sulla scia del riconoscimento dell’importanza degli aspetti relazionali in ogni situazione, credo sia importante fronteggiare il sempre più elevato numero di casi di violenza di genere attraverso un proficuo lavoro di rete tra tutti i professionisti che di tale fenomeno si occupano, anche per fungere da opportuno modello di riferimento per quella rete amicale e familiare che pure si deve costruire intorno alla vittima. La solitudine, infatti, costituisce a mio avviso la vera violenza!

Attualmente i validi interventi che sono stati allestiti per fronteggiare e contrastare questo dilagare di violenza sono quelli relativi agli sportelli dedicati alle donne, o, ancora, quelli “di nuova generazione”, destinati agli uomini violenti, cui viene ugualmente offerta la possibilità di avere un “luogo” ove poter accedere a vissuti conflittuali non elaborati e non risolti, che sono probabilmente responsabili di quelle condotte criminali.

Relativamente alle leggi, invece, l’aspetto che in esse trova maggiore spazio è quello della repressione: l’aumento delle pene, come se ciò potesse garantire di per sé che la violenza non verrà più perpetrata. E così il nostro ordinamento giuridico vive nell’illusione, proprio come ahimè accade ad alcune donne vittime di violenza, che l’aggressore un giorno la smetterà e che l’emergenza che oggi viviamo è quella dell’ “ultima volta”. Che illusione! Occorre educare alla non violenza a partire dalle scuole, ove è opportuno realizzare un percorso educativo ed etico che promuova il benessere psicologico dei futuri cittadini e delle future comunità. Accanto alla repressione andrebbe data dunque importanza all’educazione.

Da psicoterapeuta sistemico-relazionale mi sono sforzata di leggere il fenomeno della violenza di genere da un punto di vista più allargato, che arrivasse a includere il contesto nel quale oggi tanto essa si esplica: quello della crisi. Crisi che nel nostro Paese è qualcosa che va ben al di là dei meri aspetti economici. 

Tempo fa mi ha colpito molto quanto osservato da una mia collega argentina che, dopo avermi ricordato che anche nel suo Paese una forte crisi c’era stata, ha precisato che i suoi connazionali non hanno mai perso il sorriso e la voglia di ballare, “voi siete tristi, questa crisi ha toccato le vostre identità”.

Ho riflettuto a lungo su quanto da lei saggiamente sottolineato e mi sono ritrovata a pensare che, probabilmente, avesse ragione. Se ci fate caso la seconda domanda che segue un “come stai?”, che un qualsiasi amico o conoscente ci rivolge a un incontro fortuito per strada, è seguita da un: “il lavoro come va?” Domanda dolente di questi tempi che mette in seria discussione il nostro senso d’identità, perché sì noi italiani o, meglio ancora, noi occidentali, abbiamo finito, forse, con il far coincidere il nostro senso d’identità con lo status sociale. C’è dunque da chiedersi quanto tutto questo abbia potuto incidere su questo spaventoso incremento dei casi di violenza di genere se, come diceva Goethe, «chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza».

Diversi studi hanno indagato i modi della violenza esercitata e minimizzata dagli uomini. Questi ultimi giustificano le loro azioni in quanto ciò consente loro di dimostrare di essere uomini (Hearn 1998, p,37). Le identità maschili sono costruite  attraverso atti di violenza e attraverso la narrazione delle stesse. Anderson e Umberson (2001), per esempio, riportano una varietà di modi in cui i resoconti degli uomini violenti sono reputati performance di genere” (pag 126 di “Sono caduta dalle  scale”- i luoghi e gli attori della violenza di genere a cura di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli 2012 Franco Angeli Milano)

E se fosse questa indeterminatezza identitaria che spinge ancora di più a essere violenti verso tutto ciò che è diverso, nella speranza che per lo meno in quella folle contrapposizione si trovi un’identità? La stessa identità che, poi, il molestatore fa perdere anche alla donna vittima di violenza che, offuscata dal terrore psicologico e fisico che sovente vive, finisce con il dimenticarsi chi sia, quali siano i propri sogni, i propri desideri, smettendo di immaginarsi un futuro possibile, completamente catturata dal presente orribile. Dunque, forse, le immagini da me trovate su internet, e di cui parlavo all’inizio, colgono proprio questa indeterminatezza identitaria della vittima e dell’aggressore?

Ad aggravare la situazione sono poi i mass media, spesso dei veri “stalker della società”, pronti a ricordare, per fare notizia, che la vita, quando meno te lo aspetti, può cambiare tragicamente (omicidi familiari, attentati, incidenti disastrosi ecc.) e che spesso a tutto questo non c’è rimedio, come ad esempio quando raccontano storie di donne vittime di violenza, che sono state uccise nonostante le frequenti segnalazioni effettuate alle forze dell’ordine. Vien da chiedersi quante donne rischino di inibirsi di fronte a tali sconfortanti notizie di cronaca, quale devastante senso di precarietà possa regalare ascoltare informazioni tanto angoscianti a una donna che si trova, poiché vittima di violenza, già in una situazione di estrema fragilità. Non sarebbe più opportuno dare maggiore lustro e visibilità a pratiche d’intervento positive che possano far riacquistare senso di fiducia e di empowerment?

Dopo aver evidenziato le “criticità” vien dunque da chiedersi quali soluzioni occorrerebbe proporre, quali “novità” apportare agli interventi già in atto. Forse il primo aspetto da recuperare è quello della storia della vittima di violenza in modo che la donna recuperi quell’importante senso d’identità che, andando al di là del terribile abuso subito, la rimetta in contatto con il proprio progetto di vita: solo così potrà, infatti, riprogrammare la propria esistenza e rispettare di più la propria persona, sottraendosi a quell’impietosa prepotenza.

Un altro aspetto importante è poi quello di recuperare un sano rapporto con le Istituzioni, che non devono apparire ai cittadini come qualcosa di lontano e noncurante ma come un’importante strumento per vedere riconosciuti i propri diritti e per far sentire la propria voce. A tale scopo occorre lavorare proprio su quella rete di relazioni professionali, di cui discutevo all’inizio, affinché si riesca a superare il pericoloso senso di solitudine di cui la violenza si nutre. E’ assurdo, ad esempio, oggigiorno pensare che le case di accoglienza per le vittime di violenza siano presenti in un numero talmente esiguo da non permettere a molte donne di allontanarsi dal proprio carnefice dopo aver effettuato la denuncia.

E poi… cos’altro fare? Ripensare i contesti di convivenza perché udite udite chi pratica violenza non vive sulla luna ma nel nostro pianeta ed è in relazione con noi, per quanto ciò ci possa sembrare strano. Prendersi cura dunque dei sistemi di convivenza, vuol dire prendersi cura delle relazioni e con esse della possibilità che la violenza si estingua. Sensibilizzare su quest’argomento, allestire contesti di riflessione sulle pratiche d’intervento, come il convegno promosso dall’avvocato Castaldo, queste sono valide strategie per contrastare questo increscioso fenomeno, che con la sola repressione ben poco rischia l’estinzione.

“Il fenomeno della violenza e del maltrattamento alle donne non è ancora riconosciuto come un grave problema sociale: esso è inserito nel Piano Socio Sanitario Regionale, ma senza indicazioni di tempi, luoghi, strumenti, competenze, poteri risorse per una sua corretta e concreta presa in carico” (pag 166 di “C.A. DO. M Rompere il silenzio- l’esperienza del centro Aiuto Donne Maltrattate 2005 Franco Angeli, Milano) e questo costituisce davvero un pericoloso problema perché ciò non consente, a mio avviso, di fare un costruttivo e ponderato lavoro di prevenzione, ove per prevenzione intendo più precisamente un lavoro di promozione del benessere psicologico.

Vi racconto un episodio. Anni fa ero responsabile di un progetto di inclusione sociale in una scuola elementare nell’hinterland napoletano. Il più terribile dei bambini  prendeva puntualmente a pugni e a calci gli operatori, specialmente quando questi gli impedivano di fare il “delinquentello”. L’unica a non essere mai stata malmenata ero io, forse perché, come responsabile del progetto, ero considerata “il boss della situazione”. Un giorno, però, Salvatore (userò un nome di fantasia), dopo l’ennesima violazione di una regola, venne da me messo in severa punizione. La cosa non gli andò giù, per cui decise che era giunto anche il mio turno: le avrei prese! Era arrabbiatissimo e mi si avvicinò con fare da bullo e minaccioso, in quel momento non sapevo cosa fare, si ero una psicologa, all’epoca quasi psicoterapeuta, ma nessun libro di psicologia o di psicoterapia mi avrebbe mai potuto fornire una risposta corretta su come intervenire, attinsi così alla mia integrità, alla mia verità, non volli fingere. Spaventata chiesi al piccolo Salvatore, prima che mi mollasse un terribile calcio, di appoggiare la sua mano sul mio cuore per sentirne il battito accelerato dalla paura che nutrivo per lui. Non dimenticherò mai l’espressione del suo volto, pronto com’era a darmi un calcio, decise di abbandonare quella malvagia espressione per sorridermi e venirmi in braccio. Non c’era più spazio per le “mazzate”, solo per le parole: ci calmammo, entrambi. Nella mia paura Salvatore si era riconosciuto! Qualche momento dopo mi chiese cosa avrebbe dovuto fare Nicola (un suo amichetto) visto che la madre gli suggeriva sovente di pestare chiunque gli mancasse di rispetto mentre io ogni giorno mostravo a lui e agli altri bambini, in quel progetto, un modo diverso di affrontare la rabbia: attraverso le parole, il dialogo.

Ricordo che felice sorrisi, avevo capito che Salvatore parlando di Nicola stava parlando di sé, e mi trovai a rispondergli che gli stavo semplicemente mostrando un altro modo di stare nel mondo, di stare in relazione con gli altri, sarebbe stato poi “Nicola” a scegliere ogni volta quale comportamento adottare, se il mio o quello suggerito dalla madre (e dal quartiere). Salvatore mi sorrise rasserenato.

Quel progetto durò pochi mesi. Ancora mi chiedo se poi quel ragazzino oggi abbia davvero in memoria, nel suo cuore, quella possibilità di scelta e mi arrabbio quando penso che forse una maggiore continuità a quel progetto avrebbe potuto garantire a lui e a tutti noi un domani migliore.

Certo, interventi che siano attenti alla cura dei sistemi di convivenza, richiedono tempo, un lento e laborioso insieme di azioni che lentamente, germoglio dopo germoglio, vedano crescere e svilupparsi una cultura di pace.

Così recitano i personaggi di “Questa storia” di Alessandro Baricco:

«Lo sa come si fa a riconoscere se qualcuno ti ama? Ti ama veramente, dico?»

«Non ci ho mai pensato.»

« Io si»

«E ha trovato una risposta?»

«Credo che sia una cosa che ha a che vedere con l’aspettare. Se è in grado di aspettarti, ti ama.»

Beh se amiamo questa causa, se la amiamo veramente, allora dobbiamo imparare ad attendere e allestire contesti in cui gli interventi di promozione del benessere psicologico possano trovare spazio: con la consapevolezza che se sapremo aspettare vedremo lentamente  sbocciare dei frutti molto più succosi e consistenti.

LEGGI:

VIOLENZA ABUSI & MALTRATTAMENTICONGRESSI – STALKING

 

Prostituzione minorile: quale il ruolo delle famiglie? – Psicologia

Prostituzione minorile. - Immagine: © Superingo - Fotolia.comProstituzione minorile: Baby squillo arrestate! Baby squillo, parlano! Baby squillo, il giro si allarga! Queste sono alcune delle informazioni che leggiamo, di recente, sui quotidiani. Sembrano termini antitetici, contrastanti, eppure succede questo: le ragazzine si prostituiscono! Il solo pensare all’associazione tra ragazzine e squillo fa male, crea sgomento, sconforta.

È difficile riflettere sui bambini e legare a questa parola il termine “prostituzione“, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, non rappresenta mai una libera scelta. Usare, dunque, l’aggettivo prostituiti, rende più chiaro il concetto che dietro ogni bambino prostituito c’è qualcuno che ha voluto esplicitamente ridurlo a merce. Comunque, anche quando un minore offre “volontariamente” servizi sessuali lo fa perché indotto da situazioni oggettive e cogenti, in primis la povertà. Solitamente i minori prostituiti provengono da situazioni di emarginazione e di miseria, non a caso, la maggioranza di essi ha origini umili (Bressan, 1999). Ma al degrado economico e sociale si affianca il deterioramento familiare. Infatti, in tutto il mondo la vulnerabilità dei bambini rispetto allo sfruttamento sessuale risiede innanzitutto nelle condizioni di vita e familiari, sia economiche sia emotive (Ambrosini, 2002).

Quanto accaduto di recente, al contrario di quanto comunemente succede, coinvolge bambini/adolescenti che appartengono ad un ceto medio-alto per i quali la prostituzione può essere considerata una scelta autonoma dettata da una forte ribellione interiore, da un grande bisogno di trasgredire che nasce dalla speranza di attirare l’attenzione, classico adolescenziale, di una famiglia distante e disattenta, e di colmare un vuoto esistenziale attraverso la conquista di una disponibilità economica che consenta un facile acquisto di beni (Brown, 2006). Equivale a dire che l’adolescente afferma se stesso attraverso il denaro facile e per questo si sente un adulto. Si tratta di rispondere a delle esigenze dettate dal consumismo vigente nella società contemporanea dove il denaro può tutto, o piuttosto una questione di breakdown adolescenziale? Forse, una commistione di cause!

Spesso sono minori che appartengono ad ambienti familiari deteriorati, disfunzionali, inesistenti, dove ogni membro è sempre impegnato in qualcos’altro di più importante al punto da non vedere il figlio, non considerarlo e non parlare con lui. Si valutano scontati degli aspetti di vita quotidiana che in realtà non lo sono affatto, e il non detto diventa la copertura e il falso consenso al comportamento inadeguato.

Spesse volte si ha a che fare con famiglie monogenitoriali, dove la madre sola, già vittima di disavventure, ha dovuto gestire come poteva la prole, magari senza risorse cognitive alle quali attingere. Quindi, l’adolescente abbandonato e senza regole, senza confini, non messi per rispondere a delle esigenze di falso amore permettendogli tutto, sopperendo a grosse lacune dettate dall’assenza emotiva, ha potuto superare l’insuperabile: vendere il proprio corpo in cambio di denaro!

La cosa che colpisce è che nessuno accenna mai alla figura del padre. Che ruolo hanno nella crescita delle figlie, che funzione svolgono? Eppure, dati clinici fanno propendere per una funzione determinate nella crescita psico-sociale delle figlie. Ma non esistono, non sono presenti in queste famiglie, sia materialmente che emotivamente. Sono sempre impegnati in altro, diverso da ciò che la famiglia richiede, lavoro, affari, interessi. Sembrano estranei e sconosciuti a dei meccanismi di deterioramento familiare, dove ciò che conta è l’apparire (Rohner, & Veneziano, 2001).

In letteratura si evidenzia come questa assenza determina, spesso, nelle adolescenti l’insorgenza di comportamenti non socialmente condivisibili, e torniamo all’inizio del nostro scritto, alla prostituzione.

Spesso si minimizza l’importanza dei padri nello sviluppo soprattutto della figlia, rispetto alla tanto studiata e dibattuta relazione madre-figlia. Ma la relazione padre-figlia è determinante per la creazione del benessere. Infatti, un rapporto qualitativamente buono tra padre e figlia provoca in quest’ultima maggiore benessere psicologico, definito in termini di autostima, migliore soddisfazione di vita e scarso disagio psicologico (Allgood, Beckert, & Peterson, 2012). Insomma, è la qualità del rapporto che è in grado di trasmettere una sensazione di sostegno, d’amore, e nutrimento per le figlie (Chao, 2011). Quando questa qualità non è presente è possibile si possa ricercarla in fittizie relazioni a pagamento dove attimi di finto amore creano l’illusione di un benessere che non esiste, e i soldi potrebbero rinvigorirlo e portare la ragazzina a pensare di poter affermare se stessa attraverso un comportamento adulto, in cui il materialismo del corpo e dei soldi cedono il posto al benessere psichico (Schwartz, & Finley, 2006).

Ma il corpo giovane porterà le cicatrici dei traumi subiti nel tempo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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