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Qual è la prima reazione di un atleta dopo una vittoria?

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli autori hanno comparato l’intensità dell’espressione di trionfo dell’atleta con il  “power distance (PD)” dalla propria cultura, una misura che rappresenta il grado con il quale una certa cultura incoraggia o scoraggia lo status e le differenze gerarchiche tra i gruppi.

Dallo studio è emerso come gli atleti appartenenti a culture con un alto PD mostrano un maggior linguaggio del corpo rispetto a quelli appartenenti a culture con un basso PD.

Secondo un recente studio pubblicato sul giornale Motivation and Emotion, dopo una vittoria, la prima ed istintiva reazione di un atleta è quella di ostentare il proprio dominio sull’avversario. Per questo, il loro linguaggio del corpo, conosciuto come “dominance threat display” ed etichettato come “trionfo” in altri studi, è stato oggetto di osservazione nei vincitori di incontri durante le Olimpiadi e le Paraolimpiadi.

Sembra che sia un comportamento innato che nasce da un bisogno evolutivo di stabilire ordine e gerarchia nella società”, afferma David Matsumoto, Professore di Psicologia dell’Università di San Francisco e co-autore di questo studio insieme a Hyisung Hwang.

In un precedente studio, Hwang e Matsumoto avevano riscontrato che la cultura di appartenenza di un atleta influenza il modo e l’intensità del proprio linguaggio del corpo. “Individui appartenenti a culture volte all’individualismo mostrano maggiormente questo tipo di comportamenti di predominio rispetto ad individui provenienti da culture di tipo più egalitario”, continua Matsumoto.

Sempre in quello studio, gli osservatori avevano etichettato come “trionfo” la posizione vittoriosa che assumevano gli atleti dopo una vittoria e avevano stabilito che questo trionfo poteva potenzialmente essere un’espressione separata rispetto all’orgoglio, il quale richiede una maggior meditazione e riflessione.

Nel nuovo studio, invece, per la prima volta ci si è chiesti se le espressioni di trionfo siano veramente la reazione immediata di un’atleta dopo una vittoria. Per rispondere a questa domanda, Hwang e Matsumoto si sono concentrati sull’osservazione della prima reazione corporea di un atleta quando egli realizzava di aver vinto, verificando se quell’azione appartenesse a quelle che costituivano il “trionfo” e valutandone l’intensità su una scala da 1 a 5.

Le azioni considerate trionfanti includevano alzare le braccia in alto, gonfiare il petto, inclinare la testa all’indietro e sorridere. Questi comportamenti sono stati osservati in atleti vincitori appartenenti a qualsiasi background culturale e anche in atleti ciechi durante le Paraolimpiadi, suggerendo che questi comportamenti siano biologicamente innati.

L’espressione che viene prodotta da molte persone diverse, di diverse culture, subito dopo aver vinto un match è davvero rapida, immediata e universale”, afferma Matsumoto.

In questo studio, i due autori hanno comparato l’intensità dell’espressione di trionfo dell’atleta con il suo “power distance (PD)” dalla propria cultura, una misura che rappresenta il grado con il quale una certa cultura incoraggia o scoraggia lo status e le differenze gerarchiche tra i gruppi.

Gli autori hanno riscontrato che gli atleti appartenenti a culture con un alto PD mostrano un maggior linguaggio del corpo rispetto a quelli appartenenti a culture con un basso PD. Gli stati con un alto PD includono Malesia, Repubblica Slovacca e Romania, mentre gli stati con un basso PD comprendono Israele, Austria e Finlandia. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra si trovano nel mezzo di questo spettro PD, insieme a Italia, Ungheria e Iran. Gli atleti appartenenti a stati che pongono grande enfasi sulla gerarchia mostrano un maggior numero di comportamenti volti a stabilire lo status e il potere.

Matsumoto infine propone un esempio concreto, facendo notare come, durante una riunione, la persona che si capisce che detiene il potere si presenta eretta e sembra più alta, utilizza una voce forte ed utilizza una gestualità che indica dominanza. “Se c’è un conflitto, la persona che urla di più o si mostra più severa sarà vista come il leader e stabilisce una gerarchia in quel determinato contesto”.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Ascolta, è il suono di un acino d’uva. La pienezza mentale della Mindfulness

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” n. 115 del 2 febbraio 2014.

 

 

 

Mindfulness - acino uva - Immagine: © dziewul - Fotolia.comAscolta, è il suono di un acino d’uva

Mindfulness significa pienezza mentale o consapevolezza intenzionale. È una forma di meditazione che può avere applicazioni cliniche contro stati di ansia, stress e depressione

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Il 7 luglio 2013 a Wimbledon c’era un sole da quelle parti inusuale. Nel pomeriggio Novak Djokovic avrebbe giocato la finale con Andy Murray — per la cronaca: vincerà Murray, per la gloria della regina, ma questa è un’altra storia —. Che cosa avrà fatto Djokovic la mattina della finale di un torneo del Grande Slam? Allenarsi, studiare l’avversario? Probabilmente. Ma è certo che si è recato al tempio Buddhapadipa. C’è un bel giardino. Lì, tra le foglie, nel silenzio, ha passato un po’ di tempo, un’ora o giù di lì. A fare cosa? Assolutamente niente. Se non stare fermo, occhi chiusi e portare l’attenzione sul respiro.

La meditazione è una roba così. Vi sedete abbastanza comodi, non immaginate contorsioni yoga dolorosissime, chiudete gli occhi e aspettate che i pensieri vi passino per la testa. Non ci vuole molto, ne arrivano a sciami. E voi li osservate, notate che vi passano per la mente e li lasciate scivolare via, dicendovi «non ora». E riportate l’attenzione al semplice dato primordiale che state respirando.

Perché Djokovic, uno che per inciso di tornei dello Slam ne ha vinti sette, invece di dedicarsi completamente al tennis, in un giorno così importante passa del tempo ad accorgersi che respira? E non è il solo. Ricky Martin, sì quello di Livin’ la vida loca , bello da fare impazzire o morire di invidia, tutta una questione di punti di vista. Un successo senza limiti. Lo immaginate uno che la vida loca la vive veramente. Eppure anche Ricky Martin, tutti i giorni, medita. Sì, quella cosa del respiro. Lo fanno anche The Edge, Oprah Winfrey, Kobe Bryant. E molti altri.

Perché?

Perché quest’arte del non fare niente, ma con dedizione assoluta, come dicono alcuni dei maestri che ho ascoltato, è arrivata sulla copertina di «Time»? Moda? Forse. Ma è una spiegazione insufficiente. Può essere si tratti di qualcosa che cambia la vita. Muove la mente. Modifica il funzionamento del cervello. In meglio. Entro certi limiti naturalmente. 
Di che si tratta? Molti dei moderni meditanti occidentali ne praticano una forma — derivata dal tipo buddhista chiamato Vipassana — definita mindfulness. In italiano tendiamo a non tradurla, ma significa consapevolezza intenzionale , attenzione consapevole , pienezza mentale.

Avete mai pensato che suono fa un acino d’uva passa? No, non sapore, forma, consistenza. Quelle sono cose che più o meno pensate di sapere. Ma, il suono, quello non vi viene in mente. Un tipico esercizio di mindfulness è portare l’acino d’uva presso l’orecchio. Poi lo si sfrega dolcemente tra le dita. E si ascolta. Emette un suono tutto suo. Fatelo. Vi verranno parole per descriverlo, non le avreste immaginate mai. 
Ma quelle parole si formeranno nella vostra mente solo se staccate l’attenzione via da tutto il resto. E vi rendete conto che in quel momento esistete voi, l’acino e i vostri polpastrelli che gentili lo sfregano.

La mindfulness è l’esercizio del momento presente, del qui e ora. Seduti comodi. Chiudete gli occhi. Respirate. L’aria entra nel naso, attraversa la trachea, riempie i polmoni, il diaframma si solleva e si abbassa. È il vostro corpo vivo, attivo, funzionante. In quel momento lo sentite. Ma la mente non dà scampo. Arriva l’angoscia, la litigata col coniuge, una multa da pagare, controllare l’email, la riunione che vorremmo evitare, controllare ancora l’email, Facebook, Twitter, Facebook, non valgo niente, non mi amano. Rabbia, rancore, angoscia, lo stomaco si stringe, il cuore batte più forte. Mentre voi siete lì seduti, a badare al respiro, di pensieri come questi ne arrivano a frotte, stormi agguerriti di caccia. Ma voi non vi muovete. Lasciate scorrere il pensiero, senza combatterlo. Vi dite: «Penso all’abbandono. C’è dell’ansia dentro di me». La osservate allontanarsi finché ne resta l’eco. E tornate a concentrarvi sul respiro.

Mindfulness - pratica dell'uva Passa
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Tutto qui? Quasi. Più altri esercizi. La meditazione camminata: badate al piede che si solleva, al tallone che poggia a terra, alla pianta che morbida tocca il pavimento. Immaginate di essere avvolti da una nube di gentilezza. Già a nominarla fa sentir bene. Che senso ha? Che effetto fa? Ci vuole pratica, esercizio, allenamento.

A un certo punto fate scoperte. La principale è che i pensieri non sono oggetti; descrivono la realtà, ma fino a un certo punto. Che il timore che vi attanagliava fino a un minuto fa, ora non è più nella vostra mente. Al suo posto l’ombra di un olmo in un giorno in cui passeggiavate in campagna d’estate. E un attimo dopo anche quel ricordo è andato via. I pensieri li prendete sul serio. Ci credete, possono avvelenarvi l’esistenza. La mindfulness mai li combatte. Li accompagna gentilmente verso le periferie della coscienza, toglie loro le luci della ribalta, li fa scivolare via.

L’impazienza del lettore ora si affaccia. E una volta che abbiamo privato i pensieri della luce per cui si dibattevano come trote in un lago di pesca artificiale, che succede di così buono? Molte cose a quanto pare. La mindfulness, soprattutto nella forma iniziata da Jon Kabat-Zinn, si è mostrata efficace nel ridurre ansia, stress, dolore cronico, nel prevenire le ricadute della depressione, migliorare la risposta immunitaria e via dicendo. Le applicazioni cliniche sono in aumento. E fa davvero effetto sul cervello.

Un esempio: Véronique Taylor, del Centre de Recherche en Neuropsychologie et Cognition di Montréal, ha pubblicato una ricerca su «Social Cognitive and Affective Neuroscience» che mostrava come nei meditatori esperti rispetto ai novizi si disattivassero quelle aree cerebrali (per amor di rigore: il Default Mode Network) che portano il cervello a riposo a focalizzarsi automaticamente su di sé. Se iper-attivate non ci si stacca mai dal proprio ombelico. Grazie alla mindfulness, la mente si allena a smorzarne l’azione e di conseguenza riprende a guardare il mondo. A vederlo davvero.

Studi simili di neuro-immagini mostrano come la pratica mindfulness aiuti a calmare le emozioni negative e migliori l’empatia. Una moda? Forse. Una panacea? No. Molti non ne saranno incuriositi o, semplicemente, non ne beneficerebbero se la praticassero. È un sostituto della psicoterapia? Non lo è. È un’alternativa. Un complemento. Una sua declinazione. Ma, di solito, quelli che la praticano provano gratitudine.

GIANCARLO DIMAGGIO - Mindfulness articolo Corriere della Sera
Ascolta, è il suono di un acino d’uva. Di Giancarlo Dimaggio, articolo uscito sul Corriere della Sera, domenica 2 febbraio 2014.

Ero con il mio amico Edoardo. I piedi immersi nell’acqua del torrente che delimita il suo casale nelle campagne della Sabina. Lui medita da decenni. In quei giorni era affannato dalla ristrutturazione. Muratori, piastrelle, il tagliaerba si era rotto, i costi lievitavano.

Ci ha meditato su. L’acqua scorreva vivace, portandosi foglie che sembravano animate. Rami di nocciolo sporgevano dalle rive. Edoardo mi dice: «Ho capito. Io di questo luogo non sono il proprietario. Sono il custode. Ora lo vivo con più serenità».

Guardo il sole che filtra tra una vegetazione che era lì milioni di anni prima di noi e sarà lì molto dopo che noi non ci saremo più. Ha ragione. Respiro. Sento l’acqua che scorre sulle caviglie. È fresca.

 

 

 

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Tutta colpa di Freud (2014) di Paolo Genovese – Cinema & Psicologia

 

 

Tutta colpa di Freud (2014)

di Paolo Genovese

 

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Tutta colpa di FreudTutta colpa di Freud è una commedia piacevole, mai banale, coinvolgente, in cui la comicità e l’ironia si mescolano, sebbene non manchino battute tese alla riflessione e tematiche significative.

“Tutta colpa di Freud, dei suoi sordidi inganni, degli incontri imprevisti, delle scelte sbagliate, dei dolori pregressi, dei peccati commessi una sera d’estate, delle mille promesse mancate”.

Così Daniele Silvestri canta nella colonna sonora dell’ultimo film di Paolo Genovese, una commedia divertente, ironica che ruota attorno alle storie amorose di Marta (Vittoria Puccini), Sara (Anna Foglietta) ed Emma (Laura Adriani), figlie di Francesco (Marco Giallini), uno psicoanalista freudiano divorziato, un padre moderno coinvolto in una relazione amorosa platonica con una donna sposata (Claudia Gerini), alle prese con le vite sentimentali complicate delle figlie e che non si esime mai dal dispensare consigli e suggerimenti.

Dopo il successo della commedia agrodolce “Una famiglia perfetta”, Paolo Genovese scende in campo con una nuova trama centrata sulle relazioni familiari, ma questa volta il filo conduttore che muove tutta la commedia è l’amore con tutte le sue sfaccettature perché si sa, come dice lo stesso Marco Giallini, “è la malattia più diffusa che ci sia al mondo” e purtroppo “l’amore ha i denti, i denti mordono; fanno male, lasciano cicatrici e quelle cicatrici non svaniscono più”.

Il film esordisce con la presentazione delle tre figlie di Francesco, ognuna delle quali rappresenta un prototipo della donna attuale, ognuna con le sue contraddizioni e peculiarità. Marta è una libraia, molto dolce, innamorata della letteratura, in attesa del principe azzurro e che, dopo tante storie fallimentari con poeti e scrittori, si innamora di Fabio (Vinicio Marchioni), un cleptomane sordomuto permaloso; Sara è una “ventinovenne da 3 anni” con la paura di varcare la soglia dei 30 anni, che dopo l’ultima delusione amorosa avuta con una donna, decide di provare ad essere eterosessuale; infine, Emma è una diciottenne che si innamora di un uomo (Alessandro Gassman) più grande di lei di 32 anni e sposato con Claudia, la stessa donna di cui Francesco si è invaghito.

Essere al contempo sia analista che genitore non è certo un’ impresa semplice, soprattutto se le proprie figlie sono un po’ sopra le righe e, a volte, viene spontaneo domandarsi dove abbiamo sbagliato; i figli sono sicuramente i pazienti più difficili, in quanto tocca chiedersi continuamente se sia meglio preservarli da futuri fallimenti e delusioni o lasciarli liberi di scegliere e lo psicoanalista Francesco questo lo sa bene; nonostante i suoi tentativi di evitare sofferenze ed errori alle proprie figlie, queste ultime proseguono per la propria strada curandosi poco dei consigli paterni, che pur ricercano continuamente stendendosi sul lettino. Centrale nella trama è, dunque, il rapporto padre-figlie, un rapporto che, come dichiara lo stesso protagonista, non dovrebbe sovrapporsi ad un’amicizia (“I padri devono fare i padri, non gli amici!”).

Una commedia piacevole, mai banale, coinvolgente, in cui la comicità e l’ironia si mescolano, sebbene non manchino battute tese alla riflessione e tematiche significative: la paura di crescere che ritroviamo in Sara, la quale non accetta di aver superato i 30 anni e si dichiara ancora ventinovenne; la sindrome di Peter Pan sempre più frequente negli uomini di oggi e rappresentata appieno dal fidanzato cinquantenne di Emma; l’incontro spesso piacevole e arricchente tra persone con differenze di età, genere e orientamento sessuale.

Momenti densi di dolcezza e di romanticismo caratterizzano soprattutto il rapporto tra Marta e il ragazzo sordomuto, una relazione che svela come i sentimenti possano andare al di là delle parole, la comunicazione non verbale possa essere più profonda e come ancora una volta le differenze possano unire anziché dividere.

Un cast eccezionale capitanato dal protagonista Marco Giallini, perfetto nel ruolo di padre permissivo e moderno, ma al contempo preoccupato delle complicate storie delle figlie, al quale spettano le battute più profonde della commedia. Straordinaria anche Anna Foglietta nel ruolo della lesbica che cerca di cambiare orientamento sessuale con le sue battute spesso ironiche sulla sessualità.

Ebbene sì l’amore è la malattia più diffusa al mondo, ma tranquilli, secondo Paolo Genovese, non è mortale e soprattutto la maggior parte delle volte è solo una specie di influenza che col tempo passa, sebbene continui ad essere ciò che muove continuamente le nostre vite.  

 

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Amore e tradimento di Robin Dunbar (2013) – Recensione – Letteratura

 

 

Amore e tradimento

di Robin Dunbar

(2013) Raffaello Cortina Editore

 

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Amore e tradimento - Immagine ©: 001 (5)Amore e tradimento: uno sguardo scientifico, edito da Raffaello Cortina nella sezione scienza e idee, nel quale si parla di come nasce e si sviluppa l’amore in tutte le sue sfumature e sfaccettature, di come la genetica e i neurotrasmettitori influiscono sulle scelte e le alimentano, di come l’antropologia ci influenza.

Vi presentiamo l’ultimo libro di Robin Dunbar, il docente di antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford famoso per aver determinato la quantità massima di relazioni di amicizia che il cervello umano può mantenere (vedi la monografia: 150 amici). Questa volta Dunbar si cimenta nell’elaborazione di un saggio, Amore e tradimento: uno sguardo scientifico, edito da Raffaello Cortina nella sezione scienza e idee, nel quale si parla di come nasce e si sviluppa l’amore in tutte le sue sfumature e sfaccettature, di come la genetica e i neurotrasmettitori influiscono sulle scelte e le alimentano, di come l’antropologia ci influenza.

Apparentemente innamorarsi di qualcuno potrebbe risultare casuale e arbitrario, ma in realtà è un processo che può essere spiegato attraverso una serie di resoconti storici/antropologici e genetici. Eros e agape, da sempre destano l’interesse di tutti, ma spesso si è concentrati solo sulle conseguenze negative psicologiche derivanti, a scapito di capire come si costruisce una relazione partendo dall’interazione madre-bimbo, da come noi ci percepiamo e dal ruolo che svolgiamo all’interno delle relazioni.

L’evoluzione ci spinge nella mischia, perché a livello biologico non si può aspettare per trovare l’anima gemella. Così quando individuiamo una persona attraente, per alcuni aspetti che selezioniamo accuratamente, si riduce l’attività nelle aree cerebrali che ci rendono lucidi e a quel punto dobbiamo “scegliere.

Quindi, le nostre scelte derivano da veloci valutazioni di una serie di fattori che portano alla individuazione non casuale del partner. Insomma, si ha un considerevole grado di preveggenza prospettandosi anticipatamente i vantaggi da poter trarre dalla relazione. Per questo, calcoliamo perfettamente chi scegliere, sulla base di informazioni apprese alle quali non sempre prestiamo attenzione, facciamo finta di non sapere quale possano essere le conseguenze delle nostre decisioni, lasciandoci imbrogliare dal limbo della passione, amore romantico mosso verso un preciso individuo.

Solo con l’avvento di quest’ultimo siamo diventati monogami, altrimenti ci comporteremmo come gli scimpanzé: promiscui e poligami. E’ stato scoperto che il livello di poligamia nei primati è espresso dalla maggior lunghezza del quarto dito della mano rispetto al secondo dito. Noi abbiamo ancora, in effetti, l’anulare più lungo dell’indice, seppure la differenza sia decisamente minore rispetto alla mano dell’uomo di Neanderthal, siamo meno poligami di un tempo.

Quindi, possiamo dire che la monogamia comparve non più tardi di 200mila anni fa, quando la pressione dei maschi riproduttori sulle femmine diventò intollerabile e la donna sentì il bisogno di creare una situazione monogamica per difendersi da tutti gli altri uomini predatori. 
Ma avere un legame continuo e duraturo con un uomo è servito alla donna non solo per difendere se stessa, ma anche, e soprattutto, per prevenire l’infanticidio da parte di altri uomini desiderosi di accoppiarsi. 
Dunque, l’amore romantico è l’effetto collaterale di queste forti spinte evolutive, volto a difendere la relazione e la prole. Ma per ottenere alchimia in una relazione si è dovuto aspettare del tempo, perché per creare sintonia col partner era necessario avere un cervello evoluto che potesse processare un numero notevole di informazioni che permettessero di costruire all’interno di una relazione e non di cercare altrove.

Una volta conquistata la persona che ci piace, si mettono in atto comportamenti che la fanno diventare unica, distogliendo lo sguardo dagli altri, quanto più questi altri sono attraenti, perchè costituiscono una minaccia per la stabilità del rapporto di coppia, comportamento sociale evoluto.

E allora perché a un certo punto si tradisce? Sarebbe colpa di un neurotrasmettitore/ormone la vasopressina, che porta l’uomo ad essere predatore, per natura biologica. La soluzione è incanalarla in comportamenti socialmente condivisi che inducono l’uomo a diventare una “guardia del corpo” a vita per la donna e per i figli.

 

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ADHD e competenze scolastiche: quale relazione? Psicologia & Infanzia

Giuseppina Ferrer

Come il rallentamento cognitivo media la relazione tra ADHD e competenze scolastiche in età evolutiva:

uno studio genetico multivariato

 

 

 PREMIO STATE OF MIND 2013

ADHD e competenze scolastiche . - Immagine: ©-pressmaster-Fotolia.com_.jpgLo scopo precipuo del presente studio è quello di indagare la relazione esistente tra l’ADHD, lo Sluggish Cognitive Tempo (SCT) e la compromissione delle competenze scolastiche.

L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, è che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresenti un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche. In secondo luogo, dopo aver confermato l’ipotesi di mediazione, è stato condotto uno studio genetico multivariato allo scopo di chiarire le cause della covariazione osservata tra i tre fenotipi sotto studio.

I tre fenotipi sono stati misurati mediante la “Child Behavior Checklist” (CBCL), in particolare ci si è serviti della scala DSM-oriented “problemi di ADHD”, la scala relativa allo SCT e quella relativa alle competenze scolastiche presenti nello strumento. Il campione è composto da 398 coppie di gemelli appartenenti al Registro Nazionale dei Gemelli, di età compresa tra i 9 e i 18 anni.

Le tre scale sono prima state analizzate dal punto di vista descrittivo, in particolare è stata calcolata la media e la deviazione standard prima nel campione intero e poi separatamente, nei maschi e nelle femmine, e nei monozigoti e nei dizigoti, infine i suddetti parametri sono stati calcolati all’interno di due fasce di età. Utilizzando dei t-test abbiamo potuto rilevare alcune differenze nelle medie tra maschi e femmine: nella sottoscala “problemi di ADHD” i maschi presentano punteggi significativamente più elevati rispetto alla femmine, nelle competenze scolastiche, la media dei punteggi delle femmine risulta essere significativamente maggiore rispetto a quella stimata nei maschi. Inoltre la media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere significativamente maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18).

Sono state poi condotte le analisi di mediazione mediante il Test di Sobel. Dopo aver sottratto l’effetto dello SCT dalla relazione tra ADHD e competenze scolastiche, il coefficiente di regressione si è ridotto in modo significativo. Infatti, il grado di attenuazione del coefficiente di regressione è pari al 14.3%. Si deduce, dunque, che lo SCT è un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.

Infine, sono state condotte le analisi genetiche univariate e multivariate, mediante le tecniche di model fitting. Dalle analisi genetiche univariate è emerso che le differenze tra gli individui per tutte le tre scale sono largamente spiegate dai fattori ambientali idiosincrasici e genetici, rispettivamente (SCT: A=0.31, E=0.69; ADHD: A=0.56, E=0.44; competenze scolastiche: A=0.68, E=0.32). I modelli gemellari multivariati sono stati implementati per poter comprendere le cause della covariazione tra i tre fenotipi. Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky presenti una migliore bontà di adattamento rispetto agli altri modelli messi a confronto (Independent Pathway Model e Common Pathway Model). Le analisi genetiche multivariate hanno evidenziato che la covariazione tra i tre fenotipi può essere spiegata da una comune suscettibilità di natura in parte genetica, in parte ambientale unica.

Abstract

 The main objective of this study is to analyze the existing relation between ADHD, Sluggish Cognitive Tempo (SCT) and the impairment of scholastic competence. The basic assumption, which has been subject of empiric tests, envisages that the cognitive impairment, typical of the SCT, represents a causal mediator of the observed relation between ADHD and the impairment of scholastic competence. Farther, after having confirmed the hypothesis of mediation, a multivariate genetic analysis has been carried out in order to explain the causes of the observed covariance among the three phenotypes under observation.

The three phenotypes have been measured through the “Child Behavior Checklist” (CBCL), in particular through the DSM-oriented scale “ADHD problems”, the SCT scale and other related to scholastic competence. The sample consist of 398 pairs of twins registered in the National Twin Registry, with the age between 9 and 18 years old.

The three scales have been analyzed firstly from a descriptive point of view, in particular the average and the standard deviation have been calculated on the whole sample and then separately, in the males and in the females, in the monozygotic and dizygotic, eventually the above mentioned parameters have been figured out within the two age intervals.

Using t-tests we were able to detect some differences between males and females in the averages: in the scale “ADHD-problems” males have significantly higher scores than females, whilst in academic competence, the average scores of females appears to be significantly greater than males. Also, the average of academic competence was significantly higher in the age group of younger children (8-11 years), compared to the age group of older children (12-18).

Then Sobel test has been employed to analyze the mediation aspects. It emerged that after adjusting for the mediator’s effect, the relation between ADHD and scholastic competence was significantly reduced. Indeed, the relief grade of the regression coefficient is equal to 14.3%. We can therefore conclude that the SCT is a mediator of the existing relation between ADHD and the impairment of scholastic competence.

Finally, genetic univariate and multivariate analysis have been performed, using model fitting techniques. From the univariate genetic analysis, it emerges that the differences among people for all three scales are widely explained by idiosyncratic environmental factors and genetic factors, respectively (SCT: A=0.31, E=0.69; ADHD: A=0.56, E=0.44; scholastic competence: A=0.68, E=0.32). After that, we have applied multivariate twin models to understand the reasons of the covariance of the three phenotypes. Fit indexes highlight that the saturated model of Cholesky shows better adaptation features than the other models (Independent Pathway Model and Common Pathway Model). The multivariate genetic analysis showed that the covariance among the three phenotypes can be explained by a common susceptibility, in part genetic and in part due to unique environmental factors.

 

Parole chiaveADHD, Sluggish Cognitive Tempo, competenze scolastiche, età evolutiva, genetica del comportamento

 

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ARGOMENTI CORRELATI: DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – ADHD

BAMBINI E ADOLESCENTI – ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

 

INTRODUZIONE

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è un disturbo neuropsichiatrico infantile, caratterizzato dalla presenza di pervasivi sintomi di inattenzione, iperattività e impulsività (American Psychiatric Association, 1994). I bambini con ADHD hanno difficoltà ad aspettare il proprio turno, tendono a parlare in modo eccessivo, spesso sembra che non ascoltino quando gli si parla, e tendono ad interrompere ed ad intromettersi nelle attività di gioco dei pari, così come a disturbare le discussioni in classe.

Spesso questo disturbo si manifesta in comorbilità con altre condizioni cliniche, in particolare circa il 30-50% dei bambini con ADHD presenta un Disturbo Oppositivo Provocatorio, e/o un Disturbo della Condotta (Thapar et al., 2001); è inoltre possibile la co-occorrenza di Disturbi d’Ansia nel 20-30% dei casi (Biederman et al., 1991; Hinshaw & Zalecki, 2001). E’ interessante sottolineare come dal 20 al 30% dei bambini ADHD presenti anche un Disturbo dell’Apprendimento (Friedman et al., 2003) o più in generale una compromissione delle competenze scolastiche (Hinshaw & Zalecki, 2001; Frazier et al., 2007; Polderman et al., 2010).

Dal momento che il maggior numero di casi di ADHD si manifesta in età scolare, le problematiche scolastiche che spesso si trovano associate, determinano una compromissione significativa del funzionamento globale del bambino, tuttavia, sono pochi gli studi che hanno indagato in maniera approfondita questa relazione. Pertanto la domanda che ci si è posti nel presente studio è la seguente: i problemi scolastici sono direttamente correlati all’ADHD, o piuttosto sono il risultato di un processo più complesso in cui intervengono anche altri fattori?

I criteri diagnostici dell’ADHD previsti dal DSM-IV si focalizzano sulle manifestazioni meramente comportamentali derivanti dai problemi di attenzione, iperattività e impulsività, senza tuttavia porre sufficiente attenzione alla compromissione del funzionamento cognitivo che pure è caratteristica del disturbo. Si stima, infatti, che dal 30 al 50% dei bambini che presentano il sottotipo inattentivo dell’ADHD, manifesti problemi nella velocità di processazione ed elaborazione cognitiva degli stimoli, fenomeno noto come Sluggish Cognitive Tempo (SCT) (Carlson & Mann, 2002; McBurnett et al., 2001).

La velocità di elaborazione cognitiva degli stimoli consiste nel tempo che l’individuo impiega a recepire informazioni dall’ambiente, tramite i cinque sensi e a modulare una risposta appropriata. Ne consegue che tale lentezza nella processazione degli stimoli influisca negativamente sulle capacità di apprendimento scolastico, rendendo così estremamente difficoltoso lo svolgimento dei compiti scolastici.

Alla luce di quanto appena esposto, lo scopo precipuo del presente studio è quello di indagare la relazione esistente tra l’ADHD, lo SCT e la compromissione delle competenze scolastiche. L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, è che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresenti un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche.

Infine, dopo aver confermato l’ipotesi di mediazione è stato condotto uno studio genetico multivariato allo scopo di chiarire le cause della covariazione osservata tra i tre fenotipi sotto studio.

METODI

Partecipanti

All’interno del Registro Nazionale dei Gemelli sono stati selezionati i nominativi dei soggetti nati tra il 1986 e il 1995 e residenti nelle province di Milano e di Lecco. Delle 2015 famiglie contattate, il 48% (937) ha risposto confermando la presenza di coppie gemellari in famiglia. Di queste il 35% (707) ha accettato di aderire al progetto, di esse 407 ha acconsentito affinché i figli compilassero i questionari psicometrici; infine sono state escluse 9 coppie a causa dell’insufficienza dei dati acquisiti.

Pertanto, il campione dello studio è costituito da 398 coppie di gemelli, la cui età è compresa tra i 9 e i 18 anni (media 13.05 ± 2.59). Da un’analisi descrittiva del campione è emerso che le madri dei gemelli che avevano aderito al progetto, avevano un livello di istruzione e una percentuale di occupazione a tempo pieno lievemente ma non significativamente superiore a quello delle madri che non avevano aderito al progetto (Pesenti-Gritti et al., 2007; Spatola et al., 2007). Infatti le indagini psicometriche hanno evidenziato che il diploma di laurea era presente nel 17.7% delle madri di bambini partecipanti al progetto e nel 16.3% delle madri di bambini che non vi avevano aderito; il dato relativo all’occupazione a tempo pieno mostra una percentuale rispettivamente del 54% e del 52%. Queste cifre rispecchiano fedelmente quelle disponibili relativamente alla popolazione dell’Italia nord-occidentale (ISTAT, 2003).

Il campione è così composto: 74 coppie di gemelli monozigoti maschi, 70 coppie di gemelli monozigoti femmine, 53 coppie di gemelli dizigoti maschi, 81 coppie di gemelli dizigoti femmine, e 120 coppie di gemelli dizigoti di sesso opposto. La frequenza delle diverse tipologie di coppie gemellari (sesso e zigosità), rilevata nel campione sotto studio, non si discosta in maniera significativa da quella delle coppie di gemelli che non hanno preso parte allo studio. Inoltre, il campione risulta essere ben rappresentativo della popolazione generale, in quanto il rapporto tra monozigoti dello stesso sesso, dizigoti dello stesso sesso, e dizigoti di sesso opposto è di 1.1:1.0:0.9, laddove in popolazione generale il rapporto atteso è di 1:1:1.

Misure

Il Questionario di Goldsmith

Per accertare la zigosità di ciascuna coppia di gemelli è stato utilizzato il questionario di Goldsmith (Goldsmith, 1991) (appendice 2), si tratta di un questionario che viene fatto compilare ai genitori. Esso indaga la somiglianza fisica tra i gemelli, informazioni mediche che potrebbero indicare la zigosità (es: gruppo sanguigno, quante placente erano presenti alla nascita), la frequenza con la quale essi vengono confusi da familiari ed estranei. Inoltre, viene richiesta la personale opinione dei genitori e del pediatra circa la zigosità dei figli e le eventuali tendenze degli stessi ad esaltare le somiglianze ovvero le differenze tra i due gemelli. La zigosità viene poi determinata attraverso un algoritmo matematico con una probabilità di errore pari al 6% (van Beijsterveldt et al., 2004).

La Child Behavior Checklist

A tutte le madri è stato chiesto di compilare la Child Behavior Checklist (Achenbach & Rescorla, 2001), una delle scale di valutazione del comportamento infantile più diffuse e utilizzate a livello internazionale in ambito sia clinico che di ricerca. Fa parte di un sistema di valutazione multiassiale, l’“Achenbach System of Empirically Based Assessment” (ASEBA), La prima parte è costituita da 20 items sulle competenze del bambino/adolescente, essi fanno capo alle aree dell’attività, della socialità e della scuola, ovvero indagano la qualità della partecipazione del bambino ad attività varie (sportive, domestiche e scolastiche). La seconda parte contiene 118 items relativi ai problemi comportamentali, valutati su una scala di risposta a tre livelli. Tramite un’analisi fattoriale questi items sono stati raggruppati in 8 scale sindromiche relative a diversi quadri problematici: ritiro, lamentele somatiche, ansia/depressione, problemi sociali, problemi del pensiero, problemi attentivi, comportamento delinquenziale, comportamento aggressivo. Infine la CBCL comprende sei scale DSM-oriented, esse sono state create al fine di confrontare i profili CBCL ai criteri diagnostici del DSM-IV. E’ stato chiesto di stimare la conformità degli items dei problemi del comportamento con i sintomi presenti nei criteri di diversi disturbi del DSM. Se almeno 14 dei 22 (64%) valutatori ritenevano che un item fosse conforme alla categoria diagnostica questo veniva assegnato a quella categoria. Sono state condotte alcune ricerche al fine di indagare la validità e l’affidabilità delle scale DSM-oriented. Achenbach et al. (2003) hanno evidenziato come le scale CBCL DSM-oriented, comparate con le scale sindromiche, presentino un simile grado di coerenza interna, affidabilità test-retest, e accordo tra valutatori. Inoltre, la struttura fattoriale delle scale DSM-oriented è stata replicata all’interno di un campione di popolazione generale (Achenbach et al., 2003)

La scala Sluggish Cognitive Tempo (SCT)

All’interno del presente studio il costrutto della SCT è stato misurato mediante la specifica sottoscala “Sluggish Cognitive Tempo” presente nella CBCL. Quest’ultima è stata introdotta nella CBCL nel 2007 (Achenbach & Rescorla, 2007). Essa comprende i seguenti items: E’ confuso e sembra avere la testa nel pallone; Sogna ad occhi aperti, si perde nei suoi pensieri; Apatico; Fissa il vuoto; E’ poco attivo, lento nei movimenti, non energico.

 

Analisi

Analisi preliminari

Statistiche descrittive

Sono state analizzate dal punto di vista descrittivo le seguenti scale: DSM4 “problemi di attenzione e iperattività”, SCT “Sluggish Cognitive Tempo” e “competenze scolastiche”. In particolare è stata calcolata la media e la deviazione standard prima nel campione intero e poi separatamente, nei maschi e nelle femmine, e nei monozigoti e nei dizigoti, infine i suddetti parametri sono stati calcolati all’interno di due fasce di età, la prima costituita dai bambini di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni, la seconda costituita dai bambini di età compresa tra i 12 e i 18 anni. Si è scelto di usare l’undicesimo anno di vita come valore soglia, in quanto verosimilmente divide la fase pre-puberale dalla pubertà, momento nel quale si suppone avvengano i principali cambiamenti sia per quel che riguarda l’individuo, che per quanto concerne le caratteristiche dell’ambiente.

Al fine di rilevare la significatività delle differenze di medie tra i suddetti gruppi è stato utilizzato il t-test per campioni indipendenti.

Perché possa essere mantenuto il massimo potere statistico, nell’implementare le tecniche di genetica quantitativa, è preferibile disporre di fenotipi normo-distribuiti nella popolazione in esame. Per questa ragione, al fine di valutare la distribuzione dei punteggi, sono stati calcolati i valori di Skewness e Kurtosis delle tre variabili fenotipiche sotto studio.

Alla luce dei dati di Skewness e Kurtosis, al fine di rendere le distribuzioni dei punteggi approssimabili ad una distribuzione normale, è stata effettuata una trasformazione logaritmica (ln(x+1)), necessaria per poter implementare in modo ottimale le tecniche di genetica quantitativa, il cui fit può risentire della non normalità dei dati (Derks et al., 2004). L’appropriatezza della tecnica nel rendere la distribuzione dei punteggi approssimabile ad una normale è dimostrata dal confronto dei valori di Skewness e di Kurtosis calcolati prima e dopo la suddetta trasformazione logaritmica.

Analisi di mediazione: ADHD – SCT – competenze scolastiche

Nel presente studio è stata indagata la relazione esistente tra i problemi di attenzione e iperattività e le competenze scolastiche, ipotizzando che lo SCT possa agire da variabile mediatrice della relazione tra le suddette due variabili. Si tratta di un esempio di mediazione semplice che vede coinvolte soltanto tre variabili: indipendente x=ADHD, dipendente y=competenze scolastiche, ed infine una mediatrice M=SCT.

Per effettuare le analisi di mediazione ci si è serviti del test di Sobel (Sobel ME, 1982); esso permette di valutare se l’effetto totale di x  y si riduce in modo significativo dopo aver sottratto l’effetto di un mediatore (M), pertanto esso testa la significatività della relazione tra c e c’ (Figura1).

Abbiamo quindi valutato l’entità della riduzione del valore del path c’, rispetto al path c, al fine di testare l’ipotesi iniziale, ovvero che lo SCT fosse un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.

Analisi genetiche quantitative

Il Metodo gemellare e le statistiche fondamentali

Sono state calcolate le correlazioni tra i gemelli per lo stesso fenotipo, separatamente per i MZ e per i DZ (cross-twin within-trait). Si tratta di correlazioni tra il gemello-a e il gemello-b per la scala “Problemi di ADHD”, per la scala dello SCT e per quella relativa alle competenze scolastiche. Esse forniscono un’iniziale indicazione riguardo le componenti di varianza. Se le correlazioni tra i gemelli MZ sono più alte rispetto a quelle dei DZ, è possibile ipotizzare che ci sia un’influenza della componente genetica nel determinare il carattere in esame. Nel caso in cui, invece, i valori delle correlazioni siano molto simili nei monozigoti e nei dizigoti è possibile ipotizzare un ruolo dell’ambiente (Silberg et al., 1996).

Infine sono state calcolate le correlazioni tra i due gemelli e tra i due diversi fenotipi (cross-twin cross-trait), separatamente per i MZ e per i DZ. Queste ultime permettono di indagare quanto fattori genetici ed ambientali sottendano alla covariazione tra due fenotipi. Le correlazioni cross-twin cross-trait permettono di valutare quanto il fenotipo-a (ad esempio l’ADHD) presente nel gemello-a sia associato al fenotipo-b (ad esempio lo SCT) nel gemello-b di ciascuna coppia. Nel caso in cui queste correlazioni fossero più alte nei gemelli monozigoti rispetto ai dizigoti, si può ipotizzare la presenza di fattori genetici nell’influenzare la covariazione (Silberg et al., 1996). Nel nostro caso le correlazioni tra gemelli tra tratti sono state calcolate tra i due gemelli di ogni coppia, tra i tre fenotipi sotto studio, prima nei MZ e poi nei DZ.

 

Analisi genetica quantitativa univariata

Le analisi genetiche quantitative sono state implementate mediante il software Mx (Neale et al., 1992). Si tratta di un programma di model fitting che permette di costruire un modello a partire da dati osservati.

Nel presente studio relativamente ai tre fenotipi (Problemi di ADHD, SCT e Competenze scolastiche) sono state condotte in primo luogo le analisi genetiche univariate, che permettono di stimare le influenze (A, C ed E) sulla varianza di ciascun fenotipo. Mediante le tecniche di model fitting sono stati messi a confronto i modelli univariati ACE, AE, CE ed E, al fine di individuare quale di essi fosse più adatto a spiegare i dati.

Analisi genetica quantitativa multivariata

Le analisi genetiche multivariate permettono di indagare le cause della covariazione fenotipica tra due o più condizioni presenti contemporaneamente nello stesso individuo. Nel presente studio il modello gemellare multivariato è stato implementato al fine di stimare le sorgenti causali – genetiche e ambientali – sottostanti la covariazione osservata tra le scale relative ai problemi di attenzione e iperattività, quelle relative allo SCT e alle competenze scolastiche.

Esistono diverse tipologie di modelli multivariati (Plomin, 2001): il Cholesky model, il Correlated factors model, l’Independent pathway model e il Common pathway model (Neale & Cardon, 1992). Il Cholesky model prevede che ogni carattere abbia dei fattori genetici ed ambientali che ne influenzano la varianza attraverso dei path di regressione specifici, ognuna delle variabili latenti relative ad un tratto può influenzare, però, anche gli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazione. Il Correlated factors model, una ri-parametrizzazione del Cholesky, assume che i fattori genetici, ambientali condivisi e ambientali unici relativi ad un fenotipo correlino con i rispettivi fattori dell’altro carattere. Si ottengono pertanto delle stime di correlazione genetica, correlazione ambientale condivisa e correlazione ambientale non condivisa. L’Independent pathway model prevede che ci siano dei fattori causali comuni (genetici, ambientali condivisi e ambientali non condivisi) che predicono contemporaneamente la varianza di tutte le misure. Il modello include anche dei path di regressione specifici che agiscono in maniera specifica su ognuno dei caratteri. Infine, il Common pathway model ipotizza che i fattori genetici e ambientali abbiano un effetto indiretto sui fenotipi, mediante la loro influenza su una variabile latente “L”, la quale a sua volta presenta dei path di regressione su tutti i fenotipi.

E’ interessante sottolineare che in questo modo non solo è possibile quantificare l’influenza di A, C ed E sulla covariazione tra i fenotipi, ma è possibile anche comprendere in che modo e attraverso quali percorsi i fattori causali stimati (A, C ed E), influenzano i fenotipi.

I modelli appena descritti sono stati messi a confronto con il modello di Cholesky. Abbiamo quindi confrontato il fit del modello saturato (Cholesky) con il fit di modelli più semplici (Independent pathway model e Common pathway model). Come per l’analisi genetica univariata, anche in questo caso il modello con la migliore bontà di adattamento è stato scelto mediante alcuni indici di fit: il X² (chi-quadro goodness of fit), e l’AIC (Akaike Information Criterion) (Akaike, 1974; Plomin, 2001).

Se la differenza tra i due modelli risulta non significativa si preferisce il modello più parsimonioso, ovvero quello che con il minor numero di parametri spiega meglio i dati osservati.

RISULTATI

Analisi preliminari

Statistiche descrittive

E’ stata calcolata la media e la deviazione standard dei tre fenotipi sotto studio – ADHD, SCT, competenze scolastiche. Tali statistiche descrittive sono state calcolate prima nell’intero campione, e successivamente suddividendo il campione per sesso, zigosità ed età. Le statistiche descrittive sono state calcolate nell’intero campione considerato per individui, non considerando quindi le coppie.

Il t-test ha evidenziato una differenza statisticamente significativa tra maschi e femmine relativamente alla sottoscala “problemi di ADHD”, in questa scala i maschi presentano punteggi significativamente più elevati rispetto alla femmine.

Inoltre è emersa una differenza statisticamente significativa tra maschi e femmine anche per quel che riguarda le competenze scolastiche, la media dei punteggi delle femmine risulta infatti essere significativamente maggiore rispetto a quella stimata nei maschi. Infine, il t-test è risultato significativo per quel che riguarda la differenza di medie relativa alle competenze scolastiche, nelle due diverse fasce di età. La media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18).

Infine, dopo la trasformazione logaritmica secondo la formula Ln(x+1), i valori di Skewness e Kurtosis evidenziano una distribuzione campionaria che si avvicina a quella normale. Anche in questo caso le analisi sono state condotte nell’intero campione considerato per individui, non considerando quindi le coppie

Analisi di mediazione

Il Test di Sobel

Le analisi di mediazione sono state condotte nell’intero campione considerato per soggetti. Mediante il test di Sobel sono stati calcolati quattro path di regressione (Figura1), il path a (x  M), il path b (M  y), il path c (x  y) ed infine il path c’ (x  y dopo aver controllato per M). Dove x=ADHD, M=SCT e y=competenze scolastiche. Sono quindi stati calcolati i coefficienti di regressione.

Dunque, il test di Sobel valuta se l’effetto totale di x  y si riduce in modo significativo dopo aver sottratto l’effetto di un mediatore (M), pertanto esso testa la significatività della relazione tra c e c’. Ciò che è emerso è che dopo aver sottratto l’effetto del mediatore si è ridotta in modo significativo l’associazione tra ADHD e competenze scolastiche. Infatti, il grado di attenuazione del coefficiente di regressione dal path c al path c’ è pari al 14.3%. Il Test di Sobel ha quindi permesso di dimostrare la significatività dell’effetto indiretto e la presenza di una mediazione parziale. L’effetto di mediazione è parziale in quanto l’effetto diretto di x su y dopo aver controllato per M, nonostante risulti ridotto, rimane significativamente diverso da 0.

Si deduce dunque che lo SCT è un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.

Analisi genetica quantitativa

Correlazioni cross-twin within-trait e correlazioni cross-twin cross-trait

In tabella1 sono state riportate le correlazioni tra coppie gemellari all’interno dello stesso tratto (cross-twin within-trait, nella tabella sulla diagonale in grassetto) e le correlazioni tra coppie gemellari nei diversi tratti in esame (cross-twin cross-trait, nella tabella sopra e sotto la diagonale), queste ultime sono correlazioni tra il primo fenotipo nel primo gemello e il secondo fenotipo nel secondo gemello e viceversa.

Dalle correlazioni tra gemelli all’interno dello stesso tratto si può dedurre come la varianza di tutti i tre fenotipi sotto studio sia influenzata anche dalla componente genetica. Le correlazioni, infatti, risultano essere maggiori nei MZ rispetto ai DZ. Il valore delle correlazioni tra gemelli all’interno dello stesso tratto, sia per lo SCT che per l’ADHD e le competenze scolastiche è risultato essere nei MZ più del doppio rispetto a quello calcolato nei DZ, indicando il possibile ruolo di effetti genetici di dominanza, oltre agli effetti genetici additivi.

Le correlazioni tra gemelli tra tratti risultano essere maggiori nei MZ rispetto ai DZ per tutti i fenotipi in esame, suggerendo che la cause della covariazione tra gli stessi siano in parte dovute ad una comune suscettibilità genetica.

Analisi genetica univariata

Le analisi genetiche univariate sono state condotte mediante le tecniche di model fitting precedentemente illustrate. I fenotipi analizzati sono: “ADHD”, “Sluggish Cognitive Tempo”, “Competenze scolastiche”.

Per tutti i tre fenotipi analizzati il best fitting model, ovvero il modello che spiega in modo più appropriato i dati, è risultato essere un modello AE, dove la C è stata azzerata in quanto ininfluente. Tutti gli altri modelli testati, ovvero quelli in cui si tentava di azzerare la componente genetica addittiva e dell’ambiente idiosincratico, hanno evidenziato un significativo deterioramento del fit, test del X²<0.05. Questi risultati sono coerenti con i valori delle correlazioni, che risultano essere più alti nei MZ che nei DZ.

Per ciò che concerne lo SCT, le analisi genetiche hanno evidenziato come i fattori genetici spieghino il 31% della varianza, mentre la restante parte viene spiegata da E (ambiente unico + errore di misurazione). La componente genetica è risultata essere più cospicua per la scala “problemi di ADHD” e per la scala relativa alle competenze scolastiche, rispettivamente 56% e 62% della varianza.

Analisi genetica multivariata

Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky (Figura2) presenta un migliore adattamento rispetto agli altri modelli messi a confronto, ovvero rispetto all’Independent Pathway Model ed al Common Pathway Model (Cholesky: AIC=-3342.64; Independent: AIC=-3319.91; Common: AIC=-3323.82).

Appurato che il modello multivariato di Cholesky è il modello che spiega meglio i dati, il modello completo è stato confrontato con una serie di sottomodelli alternativi ottenuti azzerando, di volta in volta, ciascuno dei parametri. In particolare sono stati testati tre modelli in cui sono stati azzerati, uno alla volta, solo i contributi comuni (ac, cc, ec). E’ stato infine testato un quarto modello dal quale è stato forzato a zero l’intero effetto di C, sia quello specifico per ciascun fenotipo, sia quello comune ai tre fenotipi (cs, cc).

Dal confronto tra gli indici di fit è emerso che all’interno del Modello di Cholesky, il modello che presenta una migliore bontà di adattamento ai dati è il quarto modello descritto. Si tratta di un modello AE con Cc=0 e Cs=0 (Figura2).

Da ciò si deduce che ciascuno dei tre fenotipi è influenzato da due fattori, l’uno genetico (A), l’altro ambientale unico (E), che attraverso path di regressione specifici ne influenzano la varianza, d’altra parte ciascuna delle variabili latenti relative ad un fenotipo presenta dei path di regressione anche sugli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazione. La covariazione tra i fenotipi sotto studio è largamente mediata da fattori genetici ed ambientali unici, laddove l’effetto dell’ambiente condiviso è risultato trascurabile.

Infine, l’analisi delle componenti di covarianza standardizzata, mostrano come la covariazione tra i tre fenotipi sia largamente mediata da fattori genetici comuni, infatti per tutti i tre fenotipi le stime relative ai fattori genetici additivi risultano essere maggiori rispetto a quelle relative ai fattori ambientali idiosincrasici.

DISCUSSIONE

Lo scopo principale dello studio era quello di indagare la relazione esistente tra l’ADHD, lo SCT e la compromissione delle competenze scolastiche. L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, era che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresentasse un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche.

Dopo aver confermato la presenza dell’effetto di mediazione mediante il test di Sobel, il secondo scopo dello studio era quello di chiarire quali fossero le cause – genetiche ed ambientali – sottostanti la covariazione tra i tre fenotipi.

Nel nostro campione non sono state rilevate differenze significative tra maschi e femmine per quanto riguarda lo SCT. Coerentemente ad uno studio recente (Garner et al., 2010) in cui non sono emerse differenze significative tra i due sessi per questo fenotipo, quando questo veniva valutato dai genitori. D’altra parte, quando le valutazioni erano condotte dagli insegnanti, i maschi mostravano punteggi significativamente più elevati rispetto a quelli delle femmine. Nel nostro studio la misurazione dei fenotipi è avvenuta mediante un questionario compilato dai genitori, pertanto, i nostri risultati confermano quanto emerso dallo studio di Garner. Non possediamo dati relativi a valutazioni condotte da parte degli insegnanti che ci permettano di commentare il secondo risultato riportato dall’autore.

I punteggi dei maschi sono risultati significativamente maggiori rispetto a quelli delle femmine per la scala “problemi di ADHD”, questo dato replica quanto già rilevato in altri studi che hanno utilizzato la CBCL (Frigerio et al., 2004; Liu et al., 2001; Derks et al., 2004; Vierikko et al., 2003). I punteggi delle femmine, relativamente alle competenze scolastiche, sono risultati significativamente maggiori rispetto a quelli dei maschi. Questo dato risulta congruo con i risultati di un recente studio condotto da Yousefi e colleghi (2010) su un campione di 400 studenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni, in cui le competenze scolastiche erano valutate attraverso i range delle abilità scolastiche (GPA) raccomandati dal Ministero dell’Istruzione Iraniana, ma non con quanto emerso da alcuni studi precedenti (Bartels et al., 2002; Kovas et al., 2007).

Sebbene la letteratura riporti la diminuzione dei sintomi dell’ADHD all’aumentare dell’età (Frigerio et al.,2004; Liu et al., 2001; Costello et al., 1996), questo dato non è stato replicato nel nostro campione, pertanto l’età non sembra essere predittiva di differenze relativamente all’ADHD.

Infine, la media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18); questo dato è in controtendenza rispetto a quanto emerso da un recente studio (Yousefi et al., 2010), secondo il quale le abilità scolastiche migliorerebbero all’aumentare dell’età. D’altra parte, questi risultati contrastanti potrebbero essere attribuibili al fatto che i due studi valutino due diverse fasce d’età (nello studio di Yousefi: 15-16; 17-18; 19).

Nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati diversi studi circa la relazione tra lo SCT e l’ADHD (Hartman et., 2004; Garner et al., 2010; Harrington & Waldman, 2010; Todd et al., 2004), così come sono molteplici i dati di letteratura che confermano l’associazione tra l’ADHD e i problemi scolastici (Barry et al., 2002; Loe & Feldman, 2007; Pesenti-Gritti et al., 2010; Polderman et al., 2010), nessuno studio aveva indagato la relazione esistente tra i tre fenotipi.

Soltanto Rapport e colleghi (1999) avevano ipotizzato che la relazione tra l’ADHD e i problemi scolastici potesse essere almeno in parte spiegata dall’indebolimento cognitivo caratteristico del disturbo. Essi avevano concluso che la relazione osservata tra i due fenotipi potesse essere mediata dalle ridotte capacità di vigilanza e di memoria osservate nei bambini ADHD. D’altra parte nessuno studio aveva mai indagato in modo specifico lo SCT come possibile mediatore.

Le analisi hanno permesso di confermare la presenza di un effetto di mediazione, è emerso quindi che, nel nostro campione, lo SCT rappresenta un mediatore della relazione esistente tra l’ADHD e le competenze scolastiche. L’effetto di mediazione è risultato significativo ma parziale, in quanto l’effetto diretto dell’ADHD sulle competenze scolastiche dopo aver controllato per lo SCT, nonostante risulti ridotto, rimane significativamente diverso da 0.

Dalle analisi genetiche univariate è emerso che la varianza relativa allo SCT è spiegata al 31% da fattori genetici, laddove la restante quota della varianza è spiegata da fattori ambientali idiosincrasici (Best fitting model: AE). Questi dati non sono confrontabili con altri presenti in letteratura, in quanto non risulta che siano state condotte analisi di genetica quantitativa su questo fenotipo prima d’ora.

Le analisi genetiche univariate relative al fenotipo dell’ADHD hanno mostrato dati consistenti con la letteratura. E’emerso infatti che nel nostro campione la varianza relativa all’ADHD è spiegata dai fattori genetici per il 56% e per il restante 44% dai fattori ambientali idiosincrasici (Best fitting model: AE), laddove studi condotti in passato hanno dimostrato che le influenze genetiche spiegano tra il 55 e l’89% della varianza nella diagnosi di ADHD (Faraone et al., 2001; Martin et al.,2006; Spatola et al., 2007).

Sono pochi gli studi di genetica quantitativa relativi alle competenze scolastiche, Bartels e colleghi (2002a) hanno riportato un’ereditabilità del 60% per le abilità scolastiche in un campione di gemelli olandesi di 12 anni, mentre è stata stimata una ereditabilità del 70% in un campione australiano di gemelli di età compresa tra i 15 e i 18 anni (Wainwright et al., 2005). Quest’ultimo dato riflette i risultati del nostro studio, infatti abbiamo stimato un’ereditabilità del 68% per le competenze scolastiche, laddove la restante parte della varianza è spiegata da fattori ambientali unici (Best fitting model: AE). Altri studi hanno stimato una ereditabilità che va dal 19% al 65% in campioni di bambini in età scolare (Kovas et al., 2007a; Kovas et al., 2007b; Wadsworth et al., 2001; Davis et al., 2008; Hart et al. 2010). E’ stata stimata, infine, una ereditabilità del 90% in un campione di gemelli adolescenti (Markowitz et al., 2005).

E’ plausibile ritenere che queste differenze nelle stime di ereditabilità siano riconducibili alle differenze di età nei diversi campioni presi in esame, oltre che all’uso di strumenti di misura diversi, quali test sul web (Davis et al., 2008), valutazioni da parte degli insegnanti (Kovas et al., 2007a), valutazioni da parte della madre (Markowitz et al., 2005) e valutazione dei risultati scolastici (Hart et al. 2010).

Dopo aver valutato quali fossero le sorgenti causali sottostanti ciascun fenotipo, abbiamo applicato modelli gemellari multivariati per poter comprendere le cause della covariazione tra i tre fenotipi. Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky presenta una migliore bontà di adattamento (misurata tramite l’AIC che nel Cholesky è il più basso) rispetto agli altri modelli messi a confronto, ovvero rispetto all’Independent Pathway Model ed al Common Pathway Model. Non essendo disponibili studi multivariati sui tre fenotipi in esame, i risultati ottenuti non sono confrontabili con altri dati pubblicati in letteratura. Lo studio delle cause della covariazione è interessante, soprattutto per approfondire le conoscenze applicabili in ambito clinico. Le analisi genetiche multivariate hanno evidenziato che la covariazione tra i tre fenotipi può essere spiegata da una comune suscettibilità di natura in parte genetica, in parte ambientale unica (Best fitting model: AE), il contributo dell’ambiente condiviso, risultato trascurabile in tutte le uni variate, lo è ovviamente anche per quelle multivariate.

Concludendo, i risultati del presente studio offrono interessanti spunti per la ricerca futura. In modo particolare, sarebbe interessante comprendere in maniera più approfondita quali siano le caratteristiche cliniche dell’indebolimento cognitivo dello SCT, soprattutto per le implicazioni che ciò potrebbe avere in ambito di intervento clinico. E’ inoltre opportuno che l’ipotesi di mediazione, testata nel presente studio, venga sottoposta ad ulteriori verifiche empiriche.

Dal nostro studio è emerso che lo SCT rappresenta un mediatore della relazione osservata tra ADHD e competenze scolastiche. In particolare, è stato rilevato un effetto di mediazione parziale. Da quanto riportato in letteratura, lo SCT correla in modo specifico con il sottotipo inattentivo, ma non con quello iperattivo dell’ADHD (Hartman et., 2004; Garner et al., 2010; Harrington & Waldman, 2010; Todd et al., 2004). Tuttavia, nel nostro studio l’ADHD è stato trattato come un fenotipo unitario, non è stato scomposto nei suoi diversi sottotipi. Sarebbe quindi interessante testare il medesimo effetto di mediazione utilizzando una scala che misuri in modo specifico i sintomi di inattenzione ed escluda quelli di iperattività/impulsività. Infatti, è possibile ipotizzare che, dopo aver escluso i sintomi di iperattività/impulsività, emerga un effetto di mediazione dello SCT più cospicuo di quello stimato nel presente studio.

 

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Tabella 1: Correlazioni cross-twin within-trait e cross-twin cross-trait

Tabella 1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le correlazioni cross-twin within-trait e cross-twin cross-trait sono state calcolate nel campione suddiviso per coppie

 

Correlazioni significative al livello 0.05 (2 code).

SCT: Sluggish Cognitive Tempo; Comp_scol: competenze scolastiche; ADHD: problemi di ADHD

 

 

Figura 1: Test di Sobel

Figura 1

 

 

 

 

 

 

 

(Path a: xM; Path b: My; Path c: effetto totale (diretto+indiretto) di xy; Path c’: effetto diretto di xy dopo aver controllato per M).

 

 

Figura 2: Best fitting model, multivariato di Cholesky:

Figura 2

 

 

 

 

 

 

 

Ciascuno dei tre fenotipi è influenzato da due fattori, l’uno genetico (A), l’altro ambientale unico (E), che attraverso path di regressione specifici ne influenzano la varianza, ciascuna delle variabili latenti relative ad un fenotipo presenta dei path di regressione anche sugli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazion.

 

 

AUTORE: 

Giuseppina Ferrer. PhD student presso Università degli studi di Milano-Bicocca, Milano

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

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Heroic Imagination Project – Addestriamoci ad essere eroi!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il progetto Heroic Imagination Project – HIP si focalizza sulla comprensione delle forme di eroismo di tutti i giorni e su come utilizzarle nella pratica quotidiana.

L’“effetto passante” è la tendenza a non agire in situazioni pericolose quando altre persone sono presenti e si basa sul fenomeno psicologico di “diffusione della responsabilità” considerato una forma di attribuzione per cui una persona ha minori possibilità di assumersi una responsabilità per un’azione quando altri sono presenti.

Kris Leppien-Christensen, docente di Psicologia nel college di Saddleback in Mission Viejo (California) è stato protagonista di un episodio che si riallaccia a questo fenomeno, nel momento in cui si è imbattuto in un ciclista steso sul ciglio di una strada in una zona losca della città, in piena notte.

Quale sarebbe la prima reazione di fronte a questa situazione? Probabilmente di continuare sul proprio cammino  essendo troppo diffidente per fermarsi a prestare soccorso. Invece Leppien-Christensen ha deciso di fermare la propria auto e chiedere al ciclista se fosse tutto ok.  L’uomo in questione, non a caso, è docente di un innovativo programma educativo  (Heroic Imagination Project – HIP) volto ad offrire agli studenti strumenti da poter utilizzare nella vita di tutti i giorni  per trasformare situazioni negative ed incoraggiare un comportamento efficace e coraggioso in situazioni difficili.

Il progetto, ideato da Philip G. Zimbardo, professore di Psicologia presso l’università di Stanford ed attualmente all’università  di Palo Alto, si basa su ricerche in psicologia sociale su temi di conformità, obbedienza ed altre potenziali influenze sociali negative e si focalizza sulla comprensione delle forme di eroismo di tutti i giorni e a come utilizzarle nella pratica quotidiana.

L’obiettivo? Quello di “creare” quelli che Zimbardo definisce gli “eroi di tutti i giorni”, cioè coloro che si offrono ad aiutare gli altri o a difendere cause morali nonostante i possibili rischi. “Se le brave persone possono essere indotte a comportarsi male, le persone comuni possono essere addestrate a gesti eroici?”: è questa la sfida che propone Zimbardo.

La missione è quella di insegnare ai giovani a comportarsi in modo coraggioso in situazioni difficili, superando la tendenza al dislocamento della responsabilità in grado di bloccare gli interventi di soccorso. Il progetto è costituito da 8 lezioni principali e combina un contenuto didattico proveniente dalle basi della psicologia sociale e lezioni interattive e pratiche. Le aree considerate si rifanno a temi di pressione sociale, pregiudizio, conflitto nel gruppo, dialogo interiore positivo nelle situazioni difficili ed è indirizzato a studenti del liceo, del college e a giovani professionisti.

Inizialmente gli allievi si interrogano sul loro comportamento abituale di fronte a situazioni difficili o rischiose, successivamente osservano video o immagini in cui vengono presentati i processi psicologici che promuovono od ostacolano comportamenti di aiuto con l’obiettivo di migliorare le proprie abilità comportamentali.Infine i partecipanti sviluppano un modello caratterizzato da una serie di strategie d’azione da mettere in pratica in situazioni pericolose.

Il team sottolinea l’elemento innovativo del programma: le persone sono addestrate a sviluppare la propria consapevolezza nelle circostanze quotidiane e a rendersi conto di quali situazioni ci aiutano e quali invece sono contrarie ai nostri interessi.

Il programma è stato proposto anche in un college della California (Irvin Valley College) e si sta sviluppando largamente tra gli studenti. È interessante il dato per cui il progetto si sta diffondendo tra gli studenti tanto da poter diventare un fenomeno sociale su cui interrogarsi.

Secondo Zimbardo, l’obiettivo è quello di spingere il programma oltre i confini americani, promuovendo work-shop, ad esempio, ad Hong Kong, in Svezia ed in Polonia, e magari nel nostro Paese. “Ognuno è un potenziale eroe attraverso il coinvolgimento in abitudini quotidiane tese a promuovere il bene comune”, afferma infine Zimbardo.

La tendenza umana a fidarsi degli altri per interpretare una situazione e la ricerca dell’accettazione sociale può indurre le persone a fermarsi di fronte ad un problema anziché risolverlo. Questo programma educativo offre così un valido strumento per lo sviluppo di adeguate abilità comportamentali utilizzabili nel nostro quotidiano.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA SOCIALE – ETICA E MORALESOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Capitale Umano: ritratto femminista di una società in decadenza

Il Capitale Umano (2014)

di Paolo Virzì

Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Il capitale umano - locandinaEcco che in un ritratto a tinte fosche, Virzì riscopre i valori femminili: i sogni, le passioni, i desideri, le relazioni, sono questi i motori delle donne. E forse con essi l’autore ha voluto dare un barlume di speranza ad una società altrimenti destinata a perire nelle mani di uomini-burattinai, che sembrano aver perduto ogni senno. Perché forse l’uomo e la donna sono ben più di un capitale.

Tra polemiche e malcontenti brianzoli, il nuovo film di Virzì vince la complessa sfida di rappresentare la società attuale, dove tutto è regolato dal profitto e nulla ha più valore del denaro. 

Ma se da un lato vi sono rappresentati uomini scaltri e sfrontati, disposti a tutto pur di avanzare nell’ascesa sociale; dall’altro emerge un’immagine femminile, che seppur ingenua, è portatrice di quei valori che gli uomini sembrano aver ormai dimenticato.

La famiglia, le relazioni, l’amore: valori intrinsecamente femminili che addolciscono la pillola amara che, vedendo il suo film, il regista ci costringe ad inghiottire.

Roberta, psicologa appassionata, che accoglie con calore Luca, giovane paziente dai trascorsi tumultuosi, che finirà col mettersi ancora una volta nei guai. Roberta è una donna semplice ma allo stesso tempo forte e determinata, svolge il suo lavoro con passione, cerca di essere mamma – e non matrigna – di un’adolescente che la respinge, e si prodiga per lei, proteggendola dal dolore che sta per provare nel vedere Luca, suo amato, in una pozza di sangue. Roberta si emoziona alla scoperta di una gravidanza attesa e inaspettata e, ingenuamente, spera che anche il suo uomo possa condividere quelle stesse emozioni. Sembra quasi non accorgersi di essere completamente sola, nel vivere uno dei momenti più importanti della sua vita.

Diversamente Carla della sua solitudine è ben consapevole, la vive ogni giorno nella maestosità di una casa tanto grande quanto fredda. Compagna di un uomo di potere, avvenente e scaltro, trascorre la sua vita in compagnia di sé stessa. E’ di tanto in tanto compagna di letto di un marito con il quale la relazione è finita da anni, o forse non è mai esistita.

In cotanta decadenza morale e relazionale, il tradimento appare quasi come un tentativo maldestro e disperato di vivere una vita altrimenti priva di colori. 

Carla vive aggrappata ad un sogno forse irrealizzabile: ridare luce allo storico teatro cittadino, prima che venga trasformato in un supermercato. Un sogno che suo marito manderà in frantumi, perché la logica del profitto non può e non vuole tener conto dell’arte e degli “stupidi” sogni di una donna.

Infine c’è Serena, riduttivo definirla un’adolescente; Serena è una donna che, scoperto il vero amore ama, sogna e si dispera. Insegue un amore scomodo, che chiunque disapproverebbe.

Serena sfugge all’opulenza della relazione “perfetta” con il ragazzo “perfetto”, rampollo di una famiglia vincente. Serena rinuncia alla ricchezza per seguire Luca, un perdente. E per lui si renderà complice di un delitto.

Ecco che in un ritratto a tinte fosche, Virzì riscopre i valori femminili: i sogni, le passioni, i desideri, le relazioni, sono questi i motori delle donne. E forse con essi l’autore ha voluto dare un barlume di speranza ad una società altrimenti destinata a perire nelle mani di uomini-burattinai, che sembrano aver perduto ogni senno. Perché forse l’uomo e la donna sono ben più di un capitale.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA CINEMAAMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – RECENSIONI 

Dialectical Behavioral therapy (DBT): Skills Training – Report

 

DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY (DBT)

Reportage del primo training intensivo sulla DBT

Vicenza – 17, 18, 19 gennaio 2014

 

Dialectical Behavioral therapy: Skills Training - LocandinaUna parte sostanziale del training è stata dedicata all’approfondimento del significato ed applicazione con il paziente delle tre strategie “core” della DBT, tra cui la Validazione.

Validazione come capacità di restituire al paziente la sua storia di vita di costante invalidazione emotiva come contenitore entro cui la sua sofferenza acquisisce un senso.

Si è concluso il primo dei tre Training intensivo sulla Dialectical Behavioral Terapy (DBT) che ha avuto luogo a Vicenza dal 17 al 19 Gennaio 2014. Per chi ha avuto modo di partecipare è stata una esperienza intensa, faticosa ma allo stesso tempo arricchente e stimolante dal punto di vista professionale, che ha fornito molteplici spunti di riflessione e competenze pratiche di immediato ed efficace utilizzo nell’ambito del lavoro clinico con i nostri pazienti.

La DBT è una terapia evidence-based originariamente pensata e concettualizzata negli anni ‘70 da Marsha Linehan, a partire dal Modello Cognitivo-Comportamentale Classico, per il trattamento dei pazienti gravemente suicidari e affetti da Disturbo Borderline di personalità.

Dalla sua applicazione originaria grazie anche al contributo di altri autori e della stessa fondatrice, il modello è stato implementato, ed è attualmente applicato nel trattamento di una varietà di popolazioni cliniche, tra cui pazienti affetti da abuso/dipendenza da sostanze, Disturbi Alimentari, PTSD, Disturbi Dissociativi e Disturbo Antisociale.

Inoltre sono stati sviluppati protocolli specifici per adolescenti, adulti, famiglie e anziani. Nonostante le diverse applicazioni del modello esso mantiene il suo “core” di intervento, ovvero il trattamento della disregolazione emotiva e del discontrollo degli impulsi.

Questo training intensivo sulla DBT, suddiviso in tre moduli ed organizzato dalla PDFRI (Personality Disorders – Formazione e Ricerca Italiana) in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, vede la sua forza nel suo conduttore, il Professor Charles R. Swenson, uno dei massimi esperti di DBT a livello internazionale.

Psichiatra e Professore Associato presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Massachusetts, il Professor Swenson ha diretto il programma di ospedalizzazione a lungo termine per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità del Prof. Otto Kernberg a New York, e successivamente si è formato con Marsha Linehan sulla DBT ed ha sviluppato un adattamento ospedaliero della stessa, dirigendo il primo programma DBT al di fuori della clinica della sua fondatrice.

In seguito ha sviluppato un programma DBT ambulatoriale, per poi dedicare la sua attività di formatore e consulente all’implementazione del modello DBT in diversi setting clinici. Psicoanalista di nascita e terapeuta DBT di adozione, oggi Swenson è uno dei più esperti clinici, trainer e formatori DBT, uno dei fondatori della Società Internazionale per il miglioramento e Insegnamento della DBT (ISITDBT), vincitore del premio per l’insegnamento della tecnica e ricercatore esperto nell’ambito del Disturbo Borderline di Personalità e dell’applicazione della DBT.

Questo il suo curriculum, ma di persona il Professor Swenson è molto di più. Uomo di ampia cultura, clinico attento e dalle brillanti intuizioni ma anche esperto e competente nel lavoro con i pazienti, è stato capace, grazie ad un’ottima oratoria, di coinvolgere il pubblico, di insegnare le skills DBT con precisione ma allo stesso tempo trasmettendo la sua passione per la clinica, la sua professionalità ed attenzione per il paziente e il suo entusiasmo per un modello di cui la ricerca scientifica sta dimostrando con sempre più forza l’efficacia.

Grazie all’uso di esperienze di vita personali, racconti di momenti significativi del trattamento con i suoi pazienti, casi clinici, simulate e materiale video Swenson ha dedicato questi primi tre giorni intensivi a fornire una dettagliata panoramica della DBT, includendo storia ed evoluzione del modello, sua applicazione e dati di efficacia. Sono stati quindi presentati e discussi i principi generali del modello e la struttura del trattamento, con particolare attenzione sia alla sua declinazione all’interno dei gruppi (come da modello originario) sia fornendo indicazioni e suggerimenti utili all’interno di un setting di terapia individuale.

I partecipanti hanno potuto così acquisire una buona conoscenza della Teoria Bio-Sociale che, nel modello DBT, spiega lo sviluppo del Disturbo Borderline di personalità, ed hanno potuto apprendere le tecniche di utilizzo in seduta dell’ Analisi della Catena Comportamentale, lo strumento di assessment principale in DBT, efficace nell’individuazione dei pattern comportamentali problematici, dei loro antecedenti in termini di fattori di vulnerabilità e conseguenze.

Esercitazioni pratiche e simulate hanno inoltre permesso di declinare nella pratica la teoria e di riflettere sulle problematiche e sulle strategie di gestione delle stesse che possono incorrere nell’applicazione della tecnica durante il colloquio.

Una parte sostanziale del training è stata dedicata all’approfondimento del significato ed applicazione con il paziente delle tre strategie “core” della DBT, ovvero la Validazione, che si rifà e attinge dal repertorio della Mindfulness, il Problem-solving, eredità del modello Cognitivo-Comportamentale classico e la Dialettica, introdotta originariamente da Marsha Linehan come specifica modalità di dialogo tra paziente e terapeuta utile al fine di gestire il conflitto e superare i momenti di impasse.

Validazione non solo come empatia, ma come la capacità del terapeuta di riconoscere e prendere atto di come le reazioni emotive, cognitive e comportamentali del paziente abbiano un significato comprensibile se contestualizzate all’interno (e sulla base) del contesto, degli antecedenti, della storia del paziente.

Validazione come capacità di restituire al paziente la sua storia di vita di costante invalidazione emotiva come contenitore entro cui la sua sofferenza acquisisce un senso.

Validazione come autenticazione dell’altro, vicinanza emotiva, comprensione e possibilità per il paziente di sentirsi compreso, accolto, validato all’interno della relazione terapeutica.

Quindi Problem-solving, così caro a noi cognitivisti, il nostro “cavallo di battaglia”, lo strumento di cambiamento, il “pushing della terapia”.  Ciò che nel modello  DBT sarebbe inefficace, una “pillola amara” da digerire per i pazienti se non fosse preceduto dalla validazione, che riprendendo le parole di Swenson “è ciò che ci consente di andare all’Inferno con i nostri pazienti per poi tornare indietro e lavorare insieme con la CBT”.

Questa quindi la grande ricchezza e difficoltà della DBT, che è come una danza tra due persone, dove si alternano in maniera armonica validazione, pushing e confronto dialettico.

Infine ampio spazio è stato dedicato all’insegnamento delle skills della DBT, gli “strumenti del mestiere” che il terapeuta ha a disposizione per lavorare con il paziente sulle quattro aree della consapevolezza, della gestione dell’impulsività, della regolazione emotiva e dell’efficacia interpersonale.

I partecipanti hanno quindi avuto modo di apprendere le diverse tecniche a partire dalla comprensione del loro razionale, delle modalità con cui esse devono essere insegnate ai nostri pazienti, dei criteri attraverso cui il clinico valuta quale sia il momento più adeguato per il loro utilizzo e delle modalità di valutazione dell’efficacia della tecnica.  Questo lavoro ha permesso di addentrarsi nel mondo della Mindfulness, non solo presentata da Swenson come insieme di skills utili ai pazienti per recuperare contatto con i loro affetti, pensieri e sensazioni, ma prima ancora vera e propria forma mentis del terapeuta DBT, modo di essere in costante contatto con la propria “mente saggia”. Mindfulness non solo raccontata ma anche sperimentata attraverso esercizi guidati nel corso dei tre giorni di training.

Dopo tre giorni intensi e stimolanti l’appuntamento è ora per la seconda tappa di questo percorso nel mondo DBT, che avrà luogo dal 16 al 18 Maggio 2014 e nel corso del quale il Prof. Swenson approfondirà le tecniche e modalità di applicazione della DBT nel setting di terapia individuale e formerà i partecipanti sul tema della conduzione dei gruppi di formazione delle competenze.

Appuntamento quindi a Maggio per una nuova avventura nel mondo della DBT!

SULLO STESSO EVENTO, LEGGI ANCHE IL REPORTAGE:

Terapia dialettico comportamentale (DBT): Incontro di formazione – Report

ARGOMENTI CONSIGLIATI:

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY – DBT

 

GALLERY:

Psicoterapia Cognitiva – Intervista a Gianni Liotti

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Gianni Liotti

Psichiatra e Psicoterapeuta. Socio Fondatore della SITCC
Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva

 

State of Mind intervista Gianni Liotti, Psichiatra e Psicoterapeuta. Socio Fondatore della SITCC, Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA – VEDI IL PROFILO DI GIANNI LIOTTI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Intervista a John Bowlby. Londra 1990 (A cura del Prof Leonardo Tondo)

L’età dei genitori influenzerebbe lo sviluppo del nascituro

Viviana Spandri

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati di questo studio osservazionale hanno mostrato che il rischio globale di sviluppare disturbi mentali era aumentato tra i nati da genitori con un età superiore a 29 anni o giovanissimi, rispetto invece a genitori con un’età compresa tra 25 e 29 anni.

Tutti sanno che l’età della donna al momento concepimento può influenzare la salute mentale del nascituro, tanto che, nella pratica clinica quotidiana, le donne in gravidanza con un’età superiore ai 40 anni sono invitate a sottoporsi gratuitamente ad esami di screening volti ad attestare l’andamento normale dello sviluppo fetale. La maggior parte di noi non sa però che anche l’uomo subisce delle mutazioni genetiche con l’invecchiamento che possono influenzare il normale sviluppo psico-motorio del figlio.

Per questo motivo John McGrath, a capo di un gruppo di ricerca del Queensland Grain Institute’s (QBI), ha analizzato il Danish Psychiatric Central Research Register a partire dal 1 Gennaio 1995 e fino al 31 Dicembre 2011 per analizzare l’età materna e paterna di 2894699 bambini alla nascita, e ha trovato che i bambini che hanno padri di età più avanzata sono più suscettibili a disturbi mentali.

Nello specifico, in questo studio, è stata studiata un’ampia popolazione (nati dal 1 Gennaio 1955 al 31 Dicembre 2006) affetta da svariati disturbi mentali, classificati secondo il manuale ICD (International Classification of Diseases) tra cui schizofrenia, disturbi dell’umore, nevroticismo, disturbi stress-correlati, disturbi dell’alimentazione, disturbi di personalità, disturbi da abuso di sostanze, disturbi somatoformi e un ampio range di disturbi neuropsichiatrici dello sviluppo e dell’infanzia.

I risultati di questo studio osservazionale hanno mostrato che il rischio globale di sviluppare disturbi mentali era aumentato tra i nati da genitori con un età superiore a 29 anni o giovanissimi, rispetto invece a genitori con un’età compresa tra 25 e 29 anni. Analizzando invece la correlazione tra età dei genitori e rischio di sviluppare alcuni disturbi mentali tra cui schizofrenia, ritardo mentale e disturbi dello spettro autistico, è stato osservato che il rischio aumentava per i nati con padri di età superiore ai 29 anni.

Le mutazioni de novo, che si verificano negli spermatozoi durante lo sviluppo cellulare, possono contribuire un aumentato rischio di sviluppare tutte queste patologie dell’area della salute mentale nel nacituro (tra cui appunto schizofrenia, autismo e ritardo mentale). Studi genetici recenti hanno osservato che queste mutazioni de novo sono più frequenti nei neonati con padri più avanti con l’età. E quindi, in linea con quanto osservato dai ricercatori dell’università di Queensland, le mutazioni genetiche età-correlate del padre avrebbero poi un impatto sulla salute mentale nel nascituro.

Le analisi di questi dati hanno riscontrato inoltre che esiste una correlazione tra l’essere nati da madri più giovani e lo sviluppo successivo di un disturbo da abuso di sostanze, disturbi ipercinetici e ritardo mentale. In aggiunta, l’essere nati da madri adolescenti, predisporrebbe ad un aumentato rischio di sviluppare disturbi mentali appartenenti all’area del nevroticismo e dei disturbi stress-correlati.  

In sintesi questo studio osservazionale, avendo considerato un’ampia popolazione, ha permesso di osservare che la correlazione tra età biologica del padre e della madre e rischio che il figlio sviluppi un disturbo mentale, non è così lineare, ma al contrario appare complessa e influenzata da svariate variabili che influenzano lo sviluppo del bambino.

LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Stop & go. Una vittoria sportiva ma non troppo. (2013)

 

Stop & go.

Una vittoria sportiva ma non troppo

di Margherita Sassi (2013)

 

Un millepiedi viveva sereno e tranquillo. Finché un giorno un rospo non disse per scherzo: “In che ordine metti i piedi l’uno dietro l’altro?”. Il millepiedi incominciò a lambiccarsi il cervello e a fare innumerevoli prove. Il risultato fu che da quel momento non riuscì più a muoversi …

 

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Stop & Go. Una vittoria sportiva ma non troppo - Immagine: © STOP&GOStop & go. Una vittoria sportiva ma non troppo. E’ un divertente libro scritto da Margherita Sassi ed illustrato da Chiara Colagrande, una piacevole scoperta attraverso la quale è possibile rivivere pezzi di se stessi trovando e anelando la voglia di ripartire. E allora: GO! …Vittoria!

Ed ecco a voi la storia di Vittoria, una diciassettenne come tante, che ad un certo punto della sua vita si trova ad affrontare una serie di difficoltà fino al punto di dire: STOP. Si tratta di uno STOP emotivo dovuto ad una serie di avversità incontrate nella vita quotidiana e nella adorata pratica sportiva, Vittoria è anche una pallavolista.

Da quel momento in poi la giovane Vittoria si vede coinvolta in un turbinio di pensieri e processi emotivi dai quali fatica ad uscirne illesa, inteso in termini di costi psicologici. E’ una talentuosa sportiva che ad un tratto perde il controllo su se stessa e sulle situazioni, così le certezze cedono il posto alle paure che diventano sempre più galoppanti e incombenti, al punto da determinare uno STOP emotivo, esistenziale.

L’ansia di sbagliare, di non farcela, di deludere le aspettative altrui, la rabbia dettata dall’indifferenza sono tutti scogli difficili da superare che le impediscono di godere a pieno delle sue capacità e dell’entusiasmo che anima la sua giornata. Il rimuginio ricorsivo e ripetitivo dettato dalle sue paure e dal non sentirsi riconosciuta le tarpano le ali, e lì scatta l’insight, comincia a vedere una luce in fondo al tunnel: individuare un proprio spazio, definire il proprio lebensraum, guardando oltre le paure, cercando una alternativa di vita partendo dalle piccole cose e tralasciando le zavorre. Vittoria vorrebbe raggiungere la sua vittoria!

Così inizia un divertente e avvincente scambio epistolare con la sua ex professoressa di educazione fisica, individuata come persona in grado di darle una mano perché in passato da lei si era sentita riconosciuta ad apprezzata.

Il libro si struttura in uno scambio di mail avvincenti e rilassanti. Infatti, la giovane Vittoria riesce a rigenerarsi attraverso questa corrispondenza, poiché funge da regolatore emotivo e comportamentale. Uno scambio continuo e regolare che strategicamente tiene a bada il tumulto di emozioni e la disfunzionalità dei pensieri ricorsivi che sembrano sempre più incombenti.
Vittoria pian piano cambia e matura, acquistando consapevolezza e coraggio, e la stampella, prof di educazione fisica, diviene una guida interiorizzata che le permette di credere in sé e di decidere per se stessa, trascurando il resto.

Nel libro lo STOP costituisce la partenza per determinare e raggiungere il traguardo della vita di Vittoria e con vittoria.

Questo particolare e divertente libro è scritto da Margherita Sassi ed illustrato da Chiara Colagrande, è una piacevole scoperta attraverso la quale è possibile rivivere pezzi di se stessi trovando e anelando la voglia di ripartire. E allora: GO! …Vittoria!

Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme con il resto della società, ma l’adolescenza è solo il tempo in cui si sia imparato qualcosa (Proust, 1986).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

 

Città specchio.

Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

di Francesco Capello

 

 

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Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e BoineFrancesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna.

È un piacere poter recensire un libro che oscilla tra psicologia e letteratura italiana, e una letteratura oggi poco frequentata come quella dell’avanguardia dell’inizio novecento tra futurismo, crepuscolarismo e l’ambiente de ‘La Voce’, la rivista diretta da Papini e Prezzolini.

Francesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna. Nell’Italia dell’inizio novecento comparivano i primi esempi di paesaggio urbano moderno.

Non era certo il paesaggio tentacolare e disumano delle sterminate metropoli di oggi. E non era nemmeno il labirinto proletario e malfamato della Londra di Dickens. Però, nella Roma di D’Annunzio il paesaggio delle rovine si mescolava con una misura di modernità disumana che era già metropolitana. L’Italia agricola che durava dai tempi di Virgilio ed era arrivata fino a Verga si espandeva, e lo stesso Verga aveva pubblicato una raccolta di novelle milanesi intitolata ‘Per le vie’, in cui aveva tentato di descrivere non solo la campagna siciliana ma anche la realtà urbana.

Con Palazzeschi, Govoni e Boine siamo in un’atmosfera e un’epoca ancora più moderne. Capello utilizza la teoria psicoanalitica kleiniana per analizzare i testi dei tre autori. Una teoria particolarmente adatta a scandagliare le atmosfere cupe e irreali della città moderna. L’alienazione, il distacco emotivo, il senso di pericolo, di estraneità e di fredda aggressività legate all’esperienza urbana sono anche il colore emotivo della psicologia di Melanie Klein.

I sentimenti descritti dalla Klein per descrivere la vita mentale del bambino, sentimenti di avidità per le gratificazioni affettive e nutritive che il bambino si aspetta dalla madre, e poi di invidia e irrimediabile insoddisfazione per un nutrimento giudicato sempre insufficiente, sono utilizzati da Capello per descrivere gli stati emotivi dell’abitante della città moderna negli scritti di Palazzeschi, Govoni e Boine.

Colui che abita nella città moderna diventa un bambino kleiniano, un bambino incupito dal desiderio insoddisfatto e dal rancore verso questa madre cattiva che è la metropoli urbana fredda e inaccessibile, priva dell’umanità e del calore delle civiltà pre-moderne. Non basta. La città italiana offre una doppia alienazione, un doppio ripudio. Nella città italiana non solo la modernità pragmatica e utilitaristica maltrattano l’uomo, ma anche il peso del passato e della tradizione.

Gli italiani di Palazzeschi, Govoni e Boine non solo sono ”condannati all’esilio dalla civiltà dell’Utile, ma anche quella (di volta in volta) della Tradizione, del passato, della totalità, del Sublime, del divino” (Capello, 2013, p. 14).

Capello riesce a usare questi occhiali klieniani anche per descrivere le differenze tra i tre autori. La maschera ridente di Palazzeschi, il suo gusto per l’esperimento verbale sono un tentativo di esorcizzare la mostruosità tirannica della città, luogo terreno incapace di riconoscere l’umanità nella sua leggerezza infantile.

A lei il mio ultimo pensiero, a lei che neppure capì quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero” scrive Palazzeschi nel romanzo ‘Il Codice di Perelà’ (Palazzeschi, 1911). E commenta Capello: “La città viene quindi accusata di non essere stata in grado di riconoscere Perelà per ciò che era, accogliendo senza distorcerla la sua diversa specificità” (Capello, 2013, p. 43). Così come nella ‘Passeggiata’ -la poesia più celebre di Palazzeschi-il brulicare degli stimoli della città (gli incontri, le insegne, i richiami pubblicitari, le voci) sortiscono “ un effetto claustrofobico di oppressione” (Capello, 2013, p.45). Questa oppressione, però, per Capello –da buon kleiniano- deve essere riconosciuta come interiore per essere elaborata. E questo accade nelle ultime poesie di Palazzeschi: ‘L’Ospite’, ‘I Fiori’ e ‘Una Casina di Cristallo (Congedo)’.

Insomma “L’odio, in altre parole, non deve più necessariamente essere scisso e vomitato sull’altro ma è ospite regolare dell’Io al pari dell’amore” (Capello, 2013, p. 48).

In Corrado Govoni la città è profanazione, profanazione della città antica in cui natura e cultura si avvinghiavano a vicenda come edera e muro. Le bonifiche delle paludi che allagavano la Roma papale promosse dai governi dell’Italia unita appaiono a Govoni delle profanazioni di uno spazio sacro, e gli creano un senso di vuoto che è al centro della sua poesia, “un’assenza primordiale che viene a fasi alterne e disperatamente negata e brandita” (Capello, 2013, p. 56) e che non è mai davvero risolta: “Una configurazione che, a differenza di quella palazzeschiana, non dischiude in nessuna sua fase un orizzonte autenticamente liberatorio” (Capello, 2013, p. 56).

In Govoni l’identificazione tra città profanata dalla modernità e la donna perduta è esplicita e continua, e questa identificazione conferma l’utilità dell’interpretazione kleiniana. Così come kleiniana è l’interpretazione che Capello dà di uno dei tratti stilistici più tipici della poesia di Govoni, il passaggio improvviso da toni crepuscolari, grigi e silenziosi, a esplosioni di modernità futuristica. Si tratta di una vera e propria scissione tra senso di vuoto ed “eccitazione compensativa in cui prevale nettamente lo scatto iperattivo/aggressivo (Capello, 2013, p. 87). Simili rappresentazioni scisse userà Govoni anche per poetare su Milano, Ferrara e Venezia.

L’ultimo ritratto psicologico e letterario è quello di Giovanni Boine. Probabilmente è l’autore meno noto ai lettori contemporanei. Ma è anche l’autore a cui Capello dedica più pagine e più sforzi. Giovanni Boine morì in giovane età, a soli 30 anni nel 1917 e fu autore assiduo della rivista ‘La Voce’. In Boine Capello vede una particolare complessità, una mistura d’irrazionalismo e senso di disfacimento unite a un’aspirazione spirituale e religiosa non sempre frequente nella sensibilità italiana.

Queste tensioni irrisolte sono un banchetto per Capello, che può sfogare su questa figura complessa la passione kleiniana per la scissione e la lacerazione.

Cito direttamente il libro che sto recensendo: “In prima battuta l’inesausta sete, che rinvia alla costante percezione di una carenza al proprio interno; poi la presenza altrettanto continua di un oggetto onnipotente idealizzato ma implicitamente anche persecutorio (il Dio che potrebbe placare ogni sete e che tuttavia non si fa trovare); l’impulso a fondersi o perdersi in questo oggetto (la sete di Dio è infatti anche «desiderio di mondi senza fine in cui gettarsi e vagare»); la conseguente sovrapposizione e/o reversibilità tra soggetto e oggetto (nella «complessità simultanea», per la quale «non v’è cosa a cui lo spirito mio non possa aderire», Giuditta equivale a Oloferne); la percezione di una frammentazione interna («non come organizzata persona, ma […] come rotta, commossa materia») vissuta in forma di conflitto e contraddittorietà («contraddittoria materia»); il rapporto diretto che lega la ricerca del contatto assoluto con Dio (o un «essenziale» idealizzato) alla fuga da quello con gli uomini; la concomitante svalutazione della realtà fisica e sociale, presentata come «resto» che «non […] interessa» o come «trama di carne», frustrante impedimento spoglio di senso e ridotto al grado zero della pura esistenza organica” (Capello, 2013, p. 119).

Insomma, per Capello Boine è uno scrittore difficile che vive la modernità in termini più complessi rispetto agli altri due autori. Forse è la sua tensione spirituale che gli permette accenti differenti rispetto ad altri letterati italiani che, di fronte all’alienazione moderna, rispondono con un attaccamento laico alla realtà naturale che però ha i suoi limiti, soprattutto psicologici, rischiando di ridursi a una sensualità superficiale quando non si possegga la maestria di un D’Annunzio, signore del verso italiano.

Boine, invece, riesce a visitare regioni più imprevedibili che vanno oltre la rappresentazione meramente sensuale di un passato perduto e sono prossime alla complessità del simbolismo e dello scavo interiore, o almeno a percepirle e additarle. Non si limita a un contrasto tra città e mondo pre-moderno, ma intravede una Gerusalemme Celeste dove Vita e Fede si combinano.

Certo, tutto questo resta un’aspirazione irrisolta, anche sul piano della qualità letteraria, che non raggiunge il picco dell’eccellenza assoluta.

Capello ci accompagna nella riscoperta di questo scrittore non grande, ma che possedeva in sé un’ipotesi di grandezza abbattuta dalla morte precoce.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Relazioni cooperative? Ecco gli ingredienti: cibo & ossitocina!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ molto potente per la creazione e il mantenimento dei legami sociali – almeno nella comunità dei primati non umani- donare e ricevere nutrimento e cibo, e il tutto viene biologicamente sancito dai maggiori livelli di ossitocina.

La capacità di formare relazioni cooperative a lungo termine è una delle premesse fondamentali per l’evoluzione dell’uomo in cui è in gioco l’ormone dell’ossitocina.

Alcuni ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig in Germania hanno studiato questa capacità nei primati non umani (scimpanzè).

I protagonisti dello studio circa 26 scimpanzè della Budongo Forest in Uganda.

In particolare è stato misurato il livello di ossitocina nell’urina degli scimpanzè a seguito di comportamenti di condivisione del cibo.

I risultati evidenziano elevati livelli di ossitocina negli individui alle prese con la condivisione di cibo rispetto a scimpanzè coinvolti in altre attività sociali. Per esempio, si è riscontrato un livello maggiore di ossitocina durante l’attività della condivisione di cibo rispetto a comportamenti di grooming, l’attività di reciproco spulciamento tra consimili.

In altre partole è come se donare e ricevere cibo fosse evolutivamente più saliente rispetto al grooming; basti pensare anche alle evidenze dei meccanismi neurobiologici per cui l’ossitocina regola la relazione umana madre – neonato durante l’allattamento.

In altre parole è molto più potente per la creazione e il mantenimento dei legami sociali – almeno nella comunità dei primati non umani- donare e ricevere nutrimento e cibo, e il tutto viene biologicamente sancito dai maggiori livelli di ossitocina.

D’altro canto l’etimologia latina della parola compagno non lascia dubbi: “com” – “panis”; chissà se lo stesso accade nelle nostre più che umane occasioni conviviali.

LEGGI:

RAPPORTI INTERPERSONALI ALIMENTAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Perché riteniamo che sia OK rubare e imbrogliare (qualche volta)

 

 

Dan Ariely, Professore di psicologia ed economia comportamentale, illustra alcuni esperimenti divertenti che mostrano i fattori che spingono o trattengono le persone dal truffare gli altri. Scopriamo così che in molte occasioni non si tratta di poche persone che rubano molto, ma di molte persone che rubano poco. Ecco il perché:

 

VIDEO E TESTI RIPRODOTTI SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – TED.COM – AUTORE: DAN ARIELY

ARGOMENTI CORRELATI

PSICOECONOMIAFINANZA COMPORTAMENTALE

 

TRASCRIZIONE DEL TESTO 

Traduzione di Paolo Giusti – Revisione di Giacomo Boschi

Oggi vi voglio parlare un po’ di irrazionalità prevedibile. Il mio interesse nel comportamento irrazionale cominciò diversi anni fa in ospedale. Ero gravemente ustionato. Se passate molto tempo in ospedale, potrete accorgervi di molti tipi di irrazionalità. Ma quello che maggiormente mi irritava al centro ustionati era il metodo col quale le infermiere mi toglievano i bendaggi. Sicuramente vi sarà capitato di dovervi togliere un cerotto, e vi sarete chiesti quale potrebbe essere il metodo migliore. Lo strappate di scatto, breve durata ma alta intensità, o lo togliete lentamente, vi prendete più tempo, ma ogni secondo è un poco meno doloroso, quale è il metodo giusto?

Le infermiere nel mio reparto pensavano che il metodo giusto fosse quello veloce, afferrandolo stretto e strappandolo via, prenderlo stretto e tirando con forza. Dato che ero ustionato al 70%, anche così ci voleva quasi un ora. Come potete immaginare, odiavo con incredibile intensità il momento dello strappo. Provai a ragionare con loro, dicendo: “Perché non proviamo un metodo diverso? Perché non ce la prendiamo con più calma, magari ci prendiamo un paio d’ ore invece di una sola, e non soffro con questa intensità?” Le infermiere mi dissero due cose. Mi dissero di avere l’approccio corretto al paziente, che sapevano quale era il modo migliore per minimizzare il dolore. Mi dissero anche che la parola ‘paziente’ non significa dare suggerimenti od interferire o … E per inciso questo non solo in Ebraico. È presente in ogni lingua che conosco.

E così, sapete, non c’è molto, non c’era molto che potessi fare, e continuarono a fare come sempre avevano fatto. Circa tre anni dopo, quando mi dimisero, cominciai a studiare all’università. Una delle lezioni più interessanti che ho imparato è che esiste un metodo sperimentale che permette, dato un quesito, di replicarlo in una forma astratta, così che si può provare ad esaminarlo, e magari imparare qualcosa.

Ed è ciò che feci. Ero ancora interessato al metodo di come togliere i bendaggi ai pazienti ustionati. Così, all’inizio non avevo molti soldi, andai in una ferramenta e comprai una morsa. Portavo la gente al laboratorio, gli mettevo un dito nella morsa, e glielo stringevo un po’.

(Risate)

Lo stringevo per molto tempo e per poco tempo, col dolore che saliva e scendeva, con pause e senza pause, tutti i tipi di dolore. Una volta finito di fare male ai soggetti, gli chiedevo: “Allora, come è stato doloroso? Quanto ti ha fatto male?” Oppure: “potendo scegliere fra gli ultimi due, quale avresti scelto?”

(Risate)

Continuai a farlo per un po’.

(Risate)

Dopodiché, come ogni buon progetto accademico, ricevetti più fondi. Cominciai coi suoni, con l’elettroshock. Avevo addirittura una tuta che poteva causare molto più dolore alle persone.

Alla fine del processo, ho imparato che le infermiere si sbagliavano. Ecco che splendide persone con ottime intenzioni con tanta esperienza, nonostante tutto commettono errori prevedibili tutte le volte. Ho scoperto che siccome non codifichiamo la durata allo stesso modo in cui codifichiamo l’ intensità, avrei patito meno dolore se fosse durato più a lungoma con una intensità minore. Ho scoperto che sarebbe stato meglio cominciare dal viso,che era il più doloroso, per poi scendere alle gambe, dandomi la sensazione di migliorare col tempo sarebbe stato meno doloroso. Ho anche scoperto che sarebbe stato megliolasciarmi qualche pausa a metà per recuperare in qualche modo dal dolore. Tutte queste sarebbero state ottime cose da fare, ma le infermiere non ne avevano idea.

Da allora ho cominciato a pensare: “e se non fossero solo le infermiere a fare le cose malein una particolare decisione, e se fosse un caso più generale?” Ho scoperto che è un caso più generale. Ci sono un sacco di errori che facciamo. Vi farò un esempio di una di queste irrazionalità, vi parlerò dell’imbrogliare. Il motivo per cui ho scelto l’imbroglio è perché è interessante, ma ci racconta anche qualcosa, credo, riguardo alla situazione finanziaria attuale. Allora, il mio interesse per la truffa cominciò quando all’improvviso scoppiò il caso Enron. Cominciai a pensare a quello che stava succedendo. Poteva essere il caso nel quale c’erano alcune mele marce capaci di fare queste cose, o stiamo parlando di una situazione più endemica, nella quale molta gente è effettivamente capace di comportarsi in questo modo?

Così, come al solito, ho deciso di fare un semplice esperimento. Ecco come andò. Se foste stati nell’esperimento, vi avrei dato un foglio di carta con 20 semplici problemi matematici che chiunque sarebbe in grado di risolvere, ma non vi avrei dato abbastanza tempo. Passati 5 minuti, avrei detto: “Ridatemi i fogli, vi pagherò un dollaro per problema.”Ed è quel che fecero. Avrei pagato 4 dollari per il lavoro, mediamente si potevano risolvere 4 problemi. Altre persone le avrei indotte ad imbrogliare. Avrei dato il foglio. Passati i 5 minuti, avrei detto: “Per favore, strappate il foglio. Mettetevi i pezzi in tasca o nello zaino, e ditemi quanti problemi avete risolto.” Adesso la media dei problemi risolti era 7. Ora, non è che c’erano poche mele marce, una minoranza che ha imbrogliato molto. Invece ci siamo accorti che molte persone hanno imbrogliato giusto un pochino.

Nella teoria economica, imbrogliare è semplicemente una facile analisi costo-beneficio. Vi chiedete: “qual è la probabilità di essere scoperto? Quanto posso aspettarmi di guadagnare imbrogliando? E quale sarebbe la pena se venissi scoperto?” Soppesate questi parametri,fate una semplice analisi dei costi e dei benefici, e decidete se vale la pena commettere il crimine o no. Così lo abbiamo testato. Per alcune persone abbiamo cambiato il valore che avrebbero guadagnato, quanti soldi avrebbero potuto rubare. Li abbiamo pagati 10 cents ogni risposta esatta, 50 cents, un dollaro, 5 dollari, 10 dollari per risposta esatta.

Ci si potrebbe aspettare che man mano che il valore aumenta, aumentino anche gli imbrogli, ma in effetti non è così. Abbiamo avuto molti imbroglioni che hanno rubato solo un poco. E riguardo alla possibilità di essere scoperto? Alcune persone hanno strappato il foglio a metà, in questo modo qualche prova rimaneva. Altri hanno strappato completamente il foglio. Altri ancora dopo aver strappato tutto sono usciti e si sono presi da soli i soldi dalla cassa dove c’ erano più di 100 dollari. Vi potreste aspettare che al calare della possibilità di essere presi, i soggetti avrebbero imbrogliato di più, ma non è così.Ancora, la maggior parte ha truffato solo di poco, rimanendo insensibili agli incentivi economici.

Così ci siamo chiesti: “Se le persone non sono sensibili alle spiegazioni della teoria economica razionale, a queste forze, cosa sta succedendo?” Abbiamo pensato che forse quel che succede è che ci sono due forze. Da una parte, tutti noi vogliamo guardarci allo specchio e sentirci bene con noi stessi, quindi non vogliamo barare. D’altro canto, possiamo imbrogliare giusto un po’, e continuare a sentirci bene con noi stessi. Quindi, quello che succede forse è che esiste un livello che non possiamo oltrepassare, ma possiamo ancora approfittare truffando ad un livello basso, fino a che questo non modifica l’ impressione che abbiamo di noi stessi. Lo chiamiamo fattore di truffa individuale.

Bene, come si può testare il livello di truffa individuale? All’inizio ci siamo chiesti: “come possiamo ridurlo?” Abbiamo raccolto i soggetti al laboratorio e abbiamo detto: “Ci sono due compiti per voi oggi.” Primo, alla metà delle persone abbiamo chiesto di ricordare o 10 libri letti alle superiori, o di ricordare i 10 Comandamenti, e li abbiamo invogliati ad imbrogliare. Il risultato è che chi ha cercato di ricordare i 10 Comandamenti, e nel nostro campione nessuno è riuscito a ricordare tutti i 10 Comandamenti, ma costoro che hanno provato a ricordare i 10 Comandamenti, avendo la possibilità di barare, non hanno imbrogliato affatto.Non era che le persone più religiose, coloro che ricordavano meglio i 10 Comandamenti,abbiano imbrogliato meno, e i meno religiosi, quelli che quasi non ne ricordavano neanche uno, abbiano invece truffato di più. Nel momento in cui le persone cercavano di ricordare i 10 Comandamenti, hanno smesso di barare. Infatti, anche quando abbiamo dato ad atei dichiarati il compito di giurare sulla Bibbia e dandogli la possibilità di barare, non hanno imbrogliato per niente. Ora, i 10 Comandamenti è qualcosa che è difficile da integrare nel sistema educativo, così ci siamo detti: “Perché non li facciamo giurare sul codice d’onore?”Abbiamo fatto firmare: “Comprendo che questa indagine ricade all’interno del codice d’onore del MIT.” Poi lo hanno strappato. Ancora nessun imbroglio. Questo è particolarmente interessante, dato che il MIT non ha un codice d’onore. (Risate)

Quindi, tutto questo riguardava il diminuire il fattore di truffa. E per aumentarlo? Il primo esperimento. Sono andato in giro per il MIT distribuendo pacchi da 6 lattine di Coca nei frigo, ci sono frigoriferi comuni per gli studenti. Poi sono tornato per misurare quello che tecnicamente chiamo l’aspettativa di vita della Coca-Cola: per quanto dura nei frigo? Come potete immaginare non è durata a lungo. Se le sono prese tutte. Al contrario, ho preso un piatto con sei pezzi da un dollaro, e l’ho lasciato negli stessi frigo. Nessuna banconota è mai scomparsa.

Ok, non è un esperimento sociologico fatto bene, e per farlo meglio ho fatto lo stesso esperimento che vi ho descritto prima. Ad un terzo delle persone abbiamo dato il foglio, e ce l’hanno restituito. Ad un terzo lo abbiamo dato, l’hanno stracciato, sono venuti da noi dicendo: “Sig. Sperimentatore, ho risolto x problemi. Dammi x dollari.” Ad un terzo, finito di stracciare il foglio, sono venuti da noi dicendo: “Sig. Sperimentatore, ho risolto x problemi. Dammi x gettoni.” Non li abbiamo pagati in dollari. Gli abbiamo dato qualcos’altro Hanno preso questo qualcos’altro, si sono allontanati di qualche metro, e l’hanno scambiato con dollari veri.

Pensate alla seguente intuizione. Quanto vi sentireste male a prendere una penna dal lavoro per portarla a casa in confronto a quanto vi sentireste male prendendo 10 cents da una piccola cassa? Sono cose che si sentono molto diverse. Allontanare di un passo il denaro vero per pochi secondi ed essere pagati in gettoni potrebbe fare la differenza? I nostri soggetti hanno duplicato le truffe. Vi dirò quello che penso di questo e della situazione borsistica fra un attimo. Ma tutto ciò non risolveva ancora il grosso problema che avevo con la Enron perché nel caso Enron c’è anche un elemento sociale. Le persone vedono il comportamento altrui. In effetti, tutti i giorni leggendo il giornale vediamo esempi di truffatori. E questo cosa ci causa?

Così abbiamo fatto un altro esperimento. Abbiamo messo nell’esperimento un grosso gruppo di studenti e li abbiamo pagati in anticipo. Allora, tutti avevano la loro busta con tutto il denaro e gli abbiamo detto che alla fine ci avrebbero dovuto restituire il denaro non guadagnato. OK? È successa la stessa cosa. Quando diamo alle persone la possibilità di imbrogliare lo fanno. Giusto un poco, ma lo fanno. Ma in questo test abbiamo anche messo un nostro complice. Lo studente attore dopo 30 secondi si è alzato ed ha detto: “Ho finito, risolto tutto. Che faccio ora?” Lo sperimentatore ha detto: “Se hai finito tutto, vai a casa.” Il compito è finito. Allora, avevamo uno studente, un attore che era parte del gruppo.Nessuno sapeva che era nostro complice. Ed ha chiaramente imbrogliato in un modo molto, ma molto grave. Cosa avrebbero fatto gli altri? Avrebbero barato di più o di meno?

Ecco quel che successe. Quel che succede è che dipende dalla maglietta indossata. Ecco come. Il test l’abbiamo fatto al Carnegie Mellon e a Pittsburgh. A Pittsburgh ci sono due grosse università, Carnegie Mellon e l’Università di Pittsburgh. Tutti i soggetti dell’esperimento erano studenti del Carnegie Mellon. Quando il nostro complice era anche lui uno studente del Carnegie Mellon, effettivamente era uno studente del Carnegie Mellon,era parte del loro gruppo, le truffe salivano. Ma quando indossava la maglietta dell’Università di Pittsburgh, le truffe scendevano.

(Risate)

Ora, questo è importante perché ricordate che nel momento in cui l’attore si alzava rendeva chiaro a tutti che chiunque avrebbe potuto barare, dato che lo sperimentatore aveva detto:”Hai finito tutto. Vai a casa.” E se ne andava coi soldi. Quindi ancora, non è tanto la possibilità di essere preso. Riguarda le regole del barare. Se qualcuno del nostro gruppo imbroglia e lo vediamo sentiamo che è più fattibile, come gruppo, e ci comportiamo di conseguenza. Ma se è qualcuno di un altro gruppo, queste persone orribili, cioè non orribili in questo, ma qualcuno col quale non vogliamo avere a che fare, di un’altra università, di un altro gruppo, improvvisamente la consapevolezza dell’onestà della gente cresce. Un po’ come nell’esperimento dei 10 Comandamenti. E le persone barano addirittura meno.

Allora, cosa ci insegna tutto questo a proposito dell’imbrogliare? Abbiamo imparato che molte persone truffano. Solo un po’, un pochino. Quando gli ricordiamo la moralità, truffano meno. Quando distanziamo la truffa dall’oggetto del denaro, ad esempio, barano di più. E se vediamo imbrogliare intorno a noi, soprattutto se a farlo è uno del nostro gruppo, le truffe salgono. Ora, se pensiamo a tutto ciò riflesso sul mercato, pensate a cosa succede.Pensate a cosa succede in una situazione in cui create qualcosa dove pagate alla gente un sacco di soldi, per vedere la realtà in una forma leggermente distorta? Non potrebbero vederla in questo modo? Certo che lo farebbero. Che succede quando si fanno altre cose,tipo allontanare le cose dal denaro? Le chiamiamo riserve, o azioni, o derivati titoli garantiti da ipoteca. Potrebbe essere che con queste cose ancora più distanti, che non è un gettone per un secondo, è qualcosa che è molto lontano dal denaro, per un periodo di tempo molto più lungo, non potrebbe essere che la gente truffa ancora di più? E che succede con l’ambiente sociale quando le persone vedono come si comporta il prossimo? Credo che tutte queste forze lavorino in un modo molto negativo nella borsa.

Più in generale, vi voglio dire una cosa a proposito di economia comportamentale. Abbiamo molte convinzioni durante la nostra vita ed il punto è che molte di queste sono sbagliate. La domanda è: “vogliamo testare queste convinzioni?” Possiamo pensare a come testarlenella nostra vita privata, nel nostro lavoro e soprattutto in politica, quando pensiamo a cose tipo No Child Left Behind, quando creiamo nuovi mercati azionari, quando creiamo nuove politiche, tasse, assistenza sanitaria eccetera. La difficoltà di testare le nostre convinzioniè stata la grande lezione che ho imparato quando sono tornato a parlare con le infermiere.

Sono ritornato a parlare con loro raccontandogli delle mie scoperte riguardo al togliere le bende. Ed ho imparato due cose interessanti. Una è che la mia infermiera preferita, Ettie,mi ha detto che non avevo preso in considerazione il suo dolore. Ha detto: “Naturale, sai com’è, era molto doloroso per te. Ma pensa a me come infermiera, dover togliere le bende a qualcuno che mi piaceva, e doverlo fare ripetutamente per molto tempo. Causare tanto dolore non era bello neanche per me.” E disse che forse è parte del motivo per cui era difficile per lei. Ma in effetti era anche più interessante perché disse: “Non credevo che la tua convinzione fosse giusta. Credevo che fosse corretta la mia.” Quindi, se pensate a tutte le vostre convinzioni, è molto difficile pensare che siano errate. Lei ha detto: “dato che pensavo che la mia convinzione fosse corretta…” lei pensava lo fosse, era molto dura accettare di fare un esperimento difficile, cioè provare, testare se per caso non fosse sbagliata.

Ma in effetti, siamo in questa situazione continuamente. Abbiamo forti convinzioni riguardo ad un sacco di cose, le nostre proprie capacità, come lavora l’economia, come dovremmo pagare gli insegnanti. Ma fintanto che non cominceremo a testare queste convinzioni, non miglioreremo mai. Pensate solo quanto sarebbe stata migliore la mia vita se le infermiere avessero voluto testare le loro convinzioni, e come tutto potrebbe essere migliore se solo cominciassimo sistematicamente a sperimentare le nostre convinzioni.

Molte grazie.

Il pensiero desiderante come predittore del gioco d’azzardo patologico – Gambling

 

 

Il problema non sono i desideri. Il problema è come reagiamo mentalmente quando i desideri balzano alla nostra coscienza. Alcuni discriminano rapidamente i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, il ché significa:

(1) immaginare le sensazioni che si provano ad esaudirli, (2) pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli, (3) identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli.

Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Questo processo cognitivo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività. Molti studi recenti del gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (es. Caselli & Spada, 2011), hanno evidenziato il ruolo di questo processo nel sostenere il desiderio di tornare a bere in pazienti con problemi da uso di alcool.

Ora un recente studio mostra che questo impatto si estende anche oltre le sostanze psicoattive verso attività come il gioco d’azzardo che possono generare una dipendenza di rilievo clinico. Questo primo passo lascia presagire che la dipendenza dai propri desideri non dipende esclusivamente dall’effetto fisiologico di sostanze psicoattive, ma soprattutto che potrebbe nascondere lo stesso meccanismo, alla base del pensiero desiderante, indipendentemente dall’oggetto del desiderio.


Desire Thinking as a Predictor of Gambling

Bruce A. Fernieab, Gabriele Casellic, Lucia Giustinad, Gilda Donatoc, Antonella Marcotriggianic, Marcantonio M. Spadae,

a King’s College London, Institute of Psychiatry, Department of Psychology, London, UK
b CASCAID, South London & Maudsley NHS Foundation Trust, UK
c Studi Cognitivi, Italy
d Servizio Tossicodipendendenze, AUSL, Parma, Italy
e London South Bank University, UK

Abstract

Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. A desired target can relate to an object, an internal state or an activity, such as gambling. This study investigated the role of desire thinking in gambling in a cohort of participants recruited from community and clinical settings. Ninety five individuals completed a battery of self-report measures consisting of the Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), the Gambling Craving Scale (GCS), the Desire Thinking Questionnaire (DTQ) and the South Oaks Gambling Screen (SOGS). Correlation analyses revealed that gender, educational level, recruitment source, anxiety and depression, craving and desire thinking were correlated with gambling. A hierarchical multiple regression analysis revealed that both recruitment source and desire thinking were the only independent predictors of gambling when controlling for all other study variables, including craving. These findings are discussed in the light of Metacognitive Therapy (MCT).

 

Desire Thinking as a Predictor of GamblingConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. (…)

 

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Segreti e bugie (1996) di Mike Leigh – Recensione – Cinema & psicologia

 

 

 

Segreti e bugie

 di Mike Leigh (1996)

 

 

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Segreti e bugie di Mike LeighSegreti e bugie ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

Hortense, una giovane donna di colore, è stata data in adozione subito dopo la nascita. Dopo la morte dei genitori adottivi decide di cercare la madre naturale. Riesce a rintracciarla e, con sua grande sorpresa, scopre che si tratta di una donna bianca, Cynthia, che vive in un quartiere alla periferia di Londra. Le due donne si incontrano e, superato un iniziale momento di reciproco imbarazzo e smarrimento, cominciano conoscersi e a frequentarsi, ponendo le premesse per costruire un legame affettivo.

Hortense è stata allevata da una famiglia benestante, che le ha dato la possibilità di studiare, e lavora come optometrista. Cynthia, invece, versa in condizioni economiche disagiate ed è una persona vulnerabile, dalla vita complicata; ha avuto da una relazione occasionale un’altra figlia, Roxanne, una ragazza ventenne irruente ed arrabbiata con la vita. Cynthia ha anche un fratello, Maurice, che lavora come fotografo; i due si vedono raramente, anche perché Cynthia non è in buoni rapporti con Monica, la moglie di Maurice.

In occasione del ventunesimo compleanno di Roxanne, Maurice decide di organizzare una festa, per cercare di recuperare il rapporto con la nipote e con la sorella; Cynthia decide di invitare anche Hortense, la figlia ritrovata, presentandola ai familiari come una collega di lavoro. Nel corso della festa il clima, apparentemente sereno, si fa via via sempre più teso; il nervosismo serpeggia, le questioni irrisolte ritornano a galla, fino ad arrivare, quando la tensione raggiunge il culmine, all’esplosione di una serie di rivelazioni shock che riguardano tutti i membri della famiglia.

Il film ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia (da qui il titolo del film “Segreti e bugie”) nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

In questo senso, la scena della festa rappresenta, pur nella sua estrema drammaticità, un momento catartico, in cui tutti possono spogliarsi della propria corazza di difese, esprimere liberamente i pesi che hanno nel cuore e ricevere dagli altri il riconoscimento e il conforto di cui hanno profondamente bisogno.

Il finale del film rappresenta un invito alla speranza e alla possibilità di potersi mostrare agli altri con maggiore autenticità; questo permette di convivere più serenamente con i “lati oscuri” della propria esistenza, riappacificandosi con la propria vulnerabilità e dando alle ferite che la vita infligge la possibilità di cicatrizzare, in modo da poter andare incontro al futuro con maggiore leggerezza, un po’ più liberi dalle zavorre del passato.

 

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CINEMA – GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

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Psicoanalisi, Identità e Internet di A. Marzi (2013)- Recensione

 

 

Psicoanalisi, Identità e Internet

Esplorazioni nel Cyberspace

A. Marzi (2013) – Franco Angeli

 

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Psicoanalisi Identita e internet. Esplorazioni nel cyberspace. Franco Angeli (2013)Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale.

La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Che cosa avrà mai a che fare la psicoanalisi con la realtà virtuale e con le Nuove Tecnologie? Apparentemente potrebbe sembrare nulla e, invece, anche grazie a questo bel testo che raccoglie contributi da voci ed angolature differenti, la risposta potrebbe stupirci. Potremmo, infatti, scoprire che la psicoanalisi non è (e non è mai stata) semplicemente racchiusa nella stanza di analisi, con un lettino, un taccuino e una matita, ma che raccoglie – come ha sempre fatto – spunti e modalità che afferiscono al clima storico, sociale e culturale del momento. 

Ed è quindi capace di adattarsi, naturalmente con i propri limiti, anche alla modernità. Modernità caratterizzata, come lo stesso Zygmunt Bauman (2000) ci ricorda, da una liquidità di rapporti e di identità, in cui lo spazio per pensare ed essere sembra molto risicato, dando adito così a modalità comunicative nuove, ma anche a patologie o disturbi nuovi. Non si può, naturalmente, pensare che i cambiamenti, anche in analisi, avvengano dall’oggi al domani e che quindi un intero metodo o un’intera teoria modifichi il proprio“assetto” in un batter d’occhio (o, per meglio dire, in un batter di tweet).

Ciò che però trovo interessante di questo testo è la possibilità e la capacità di mettersi in gioco e di riflettere davvero sull’opportunità di aprire un metodo, una teoria e uno strumento di cura anche al nuovo.

Aprirsi significa riflettere nuovamente e mettere a punto strumenti migliori che forse, in fondo, non sono poi così lontani da quelli sinora utilizzati. Sono solo diversi.

Mi viene infatti da pensare al concetto di terapeuta e di setting, e alla fatidica domanda: cosa rende efficace e quindi utile ai fini terapeutici un setting? Forse, più che quello esterno (formato da elementi concreti come il luogo in cui si svolge la seduta, l’orario – tendenzialmente stabile e ripetitivo, quanto meno nel classico setting analitico – etc), conta l’assetto terapeutico, il famoso setting interno, ossia l’assetto mentale e la capacità del terapeuta o di essere con il paziente, di sentire e utilizzare gli strumenti a disposizione per il meglio, di essere in grado di entrare in relazione empatica con le angosce, sentimenti e fantasie della persona che ha davanti.

Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale. Ecco perché tale concetto non sembra, a Marzi, il curatore del libro, così lontano all’approccio analitico. La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Ciò significa che anche le immagini mentali o i sogni possono essere considerati in qualche modo realtà virtuale. Potremmo dunque azzardarci ad ipotizzare che in fondo la psicoanalisi (e gli approcci psicoterapeutici più in generale) da sempre ha a che vedere con una realtà virtuale, quella cioè che il paziente porta nella seduta, e che difficilmente corrisponde o può essere ridotta ad una realtà “oggettiva”.

Mi piace molto il paragone tra il cyberspace (luogo nel quale vengono ospitati siti internet, per dirne una) e la mente. Entrambi, infatti, sono luoghi-non luoghi: sono realtà che pur avendo una base fisica e materiale (l’hardware per il cyberspace e il cervello per la mente), risultano in realtà smaterializzati.

Non hanno poi confini, o per meglio dire: la loro esistenza supera i confini materiali. E’ un luogo-metafora che continua ad essere definito comunque da coordinate quali lo spazio e il tempo, ma in realtà non può essere ridotto a nessuna delle due. Allo stesso modo la seduta analitica è scandita dalle variabili di spazio e di tempo, ma non può essere ridotta ad una chiacchierata in una stanza. Stati d’animo, fantasie, angosce, sentimenti si scambiano all’interno della seduta, si intrecciano e possono dare vita a qualcosa di nuovo, ad un germoglio che impiegherà chissà quanto tempo a sbocciare (i risultati di un’analisi o di una terapia, la risoluzione di un sintomo etc.).

Un ulteriore punto di contatto e paragone tra la mente e il cyberspace è la possibilità di utilizzare in entrambi giochi di  proiezioni e di poter mettere alla prova aspetti di sé che altrimenti potrebbero non vedere mai la luce nella realtà “concreta” che, a differenza di quella virtuale, è legata alle due variabili spazio tempo. E’ possibile, infatti, fantasticare e sognare ad occhi aperti di essere come non siamo o ciò che non saremo mai; nel mondo virtuale questa fantasia può assumere la forma di un avatar, di un gioco di ruolo, di un gioco di finzione.

E’ quindi anche concreto e reale il rischio per determinati soggetti (forse in particolar modo gli adolescenti, o i più giovani) di perdersi all’interno di questa voragine virtuale, in cui i confini – lo ripetiamo – non sono poi così netti né definiti e dove quasi risulta un imperativo e non una scelta esserci. Risulta anche difficile, forse, difendersi da un bombardamento sensoriale continuo, da un non poter mai scollegarsi, che può spingere la persona ad essere letteralmente consumata dallo strumento e dal mezzo e non essere più un consumatore o un fruitore del mezzo.

E’ facile perdere il senso della misura e il senso dei confini. Come fanno notare Ardovino e Ferraris (2012): “E’ tutto lì dentro, il mondo è in mano a noi. Quello che però non ti viene detto è che anche tu sei in mano al mondo”.

Ed è altrettanto semplice considerare il computer o lo spazio virtuale come un’estensione della propria mente, uno spazio che riflette gusti, atteggiamenti e modi di essere. Se ci riferiamo a Jeammet (1980) e alla considerazione che l’adolescente sviluppa il proprio Sé anche grazie allo spazio psichico allargato (il mondo della scuola, dei pari, della famiglia), capiamo come il web e le nuove tecnologie possano rappresentare un banco di prova altrettanto importante.

Per i giovani, soprattutto, il web sembra rappresentare una fonte infinita di stimoli, che li raggiungono senza interruzione, rischiando così di creare dei “bulimici sensoriali” che non sono in grado di scollegarsi, pena la perdita della propria identità.

La socialità sembra essersi spostata sulle nuove tecnologie: un po’ forse questo può rappresentare, come gli autori del libro sottolineano, una difesa fobica dal contatto reale, ma anche – semplicemente – un cambiamento nella modalità di fruire le relazioni.

Gli autori sottolineano anche come la dimensione del web metta in risalto soprattutto la dimensione gruppale, del network, della platea e del pubblico, nel quale alcuni soggetti, forse più fragili di altri, potrebbero perdere i propri confini identitari. Questo sembra essere il contraltare della perdita dei così detti garanti meta psichici e meta sociali (Kaes, 2010), le grandi istituzioni (partiti, chiesa, famiglia) che hanno costituito i binari sui quali si sono fondate le identità delle generazioni precedenti.

In mancanza quindi di una socialità articolata, il web potrebbe rappresentare un sostituto nel quale è più semplice mascherare e annullare e non sentire il dolore psichico. Poterlo sopportare e gestire rappresenta, secondo gli autori, l’ingresso nella vita adulta.

Al di là delle possibili ricadute psicopatologiche che la Rete (come qualunque altro mezzo, mi verrebbe da dire) nasconde, a mio avviso il valore di questo testo completo e ben argomentato è il fatto di aver avvicinato la psicoanalisi al mondo del web 2.0, spiegando – forse con un linguaggio un po’ troppo artificioso e tecnico, che potrebbe risultare ostico e noioso ai non addetti ai lavori – come in realtà la fantasia, l’inconscio, e il mondo immaginato e sognato nella stanza d’analisi abbiano molti più punti in comune con il cyberspace di quanto potessimo mai immaginare.

 

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PSICOANALISI RECENSIONIPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA PSICOLOGIA & TECNOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Amici di diverse culture accrescono il nostro benessere psicologico!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Avere amici di diverse culture, appartenenti a diversi gruppi etnici è di beneficio, oltre che salutare secondo il British Journal of Developmental Psychology.

In uno studio da poco pubblicato su questa rivista gli studiosi hanno voluto indagare l’effetto di amicizie multiculturali sulla percezione di discriminazione etnica (perceived ethnic discrimination – PED)  e sul benessere in individui biculturali anglo-asiatici.

Nella ricerca sono stati coinvolti e sottoposti a interviste semi-strutturate e questionari circa 200 ragazzini anglo-asiatici dell’età di 11 anni.

Dai risultati è emerso che la qualità dei legami amicali- e non la quantità- con ragazzi di altre etnie sarebbe correlata positivamente con un maggior benessere psicologico e maggiori livelli di resilienza; invece proprio la quantità delle amicizie cross-culturali sarebbe un fattore moderatore degli effetti negativi del PED sul benessere psicologico e sulla resilienza.

Quindi, qui ne abbiamo la prova scientifica, l’amicizia cross-culturale può svolgere da fattore protettivo in relazione al benessere psicologico dei ragazzi biculturali. E perché no, ma ancora da dimostrare, anche dei ragazzi monoculturali.

ARGOMENTI CORRELATI:

RAPPORTI INTERPERSONALI PSICOLOGIA CROSSCULTURALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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