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Mind Wandering: I sogni segreti di Walter Mitty (2013), di Ben Stiller

I sogni segreti di Walter Mitty

di Ben Stiller (2013)

 

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I sogni segreti di Walter MittyI sogni segreti di Walter Mitty: Walter Mitty lavora da molti anni come archivista di pellicole per la più importante rivista fotografica americana, Life. E’ un lavoratore appassionato, umile e silenzioso, molto responsabile e attento.

Lavora nel piano terra di una grande edificio, lontano dai piani alti in cui sfrecciano eccentrici creativi, esperti della comunicazione, manager arrivisti e giovani headhunters con poche idee e molto narcisismo da sfoggiare.

Walter vive nell’ombra, ma il suo ruolo è fondamentale: conservare tutti i preziosi negativi che da circa 20 anni sono passati tra le sue mani e che sono il simbolo e la forza di quella rivista. Inconsapevole della centralità del suo lavoro, vive indisturbato in una piatta ma tranquilla quotidianità. E’ single, segretamente innamorato di una sua collega che cerca di contattare tramite un sito di incontri pur incontrandola tutti i giorni a lavoro, si occupa della madre e della sorella con affetto e grande senso del dovere e sopporta con stoica determinazione ed autocontrollo le sbruffonate dei suoi colleghi.

Come riesce a non esplodere??

Fantastica di volare tra un palazzo e l’altro per salvare la sua bella , di rispondere con battute sarcastiche e taglienti all’ennesimo sopruso subito, di ricevere dichiarazioni d’amore plateali mentre compie imprese titaniche. Nei momenti in cui immagina tali scenari, gli capita tuttavia di perdere il senso del tempo, appare “assopito” e questo alimenta la derisione dei colleghi, il suo essere bizzarro agli occhi degli altri, diverso.

Se solo gli altri potessero vedere il contenuto dei suoi sogni, capirebbero che proprio quel vagare della mente è per Walter linfa vitale, energia pura, necessaria a ricaricarsi per andare avanti.

La rottura della routine arriva con l’annuncio della chiusura della rivista e della sua trasformazione in una testata online, così la copertina dell’ultimo numero di Life sarà al centro del bizzarro viaggio di formazione che condurrà Walter a scoprirsi protagonista del proprio destino.

Tra immagini visionarie, situazioni drammatiche e un’assurda comicità, Ben Stiller riesce a creare momenti di grande condivisione con Walter, che conducono lentamente il pubblico quasi a fare il tifo per lui a mano a mano che la sua impresa va avanti e assume, non a caso, connotati epici da supereroe!

Alla regia, più che alla storia in sé, va forse il merito più grande, ma lascerei le analisi ai cineasti.

Dal punto di vista psicologico risulta invece eccellente e ricchissima la rappresentazione di Walter, dei suoi modi di combattere un profondo senso di inadeguatezza e di muoversi nel “mantello di invisibilità” che si è costruito con estrema dedizione.

Walter è un evitante, preferisce non affrontare i conflitti e in generale il confronto con gli altri, non si sente parte delle situazioni in cui si muove e non riesce a vivere una reale intimità nelle relazioni. Fatica nel riconoscersi meriti e qualità, mentre nutre la sua fragile autostima con lunghi momenti di wandering, di sogni ad occhi aperti.

La lettura che offre Stiller è tuttavia diversa da quella di tanti altri personaggi evitanti e sognatori: l’immaginazione non è soltanto fuga dalla realtà, ma diventa fonte di inspirazione per modificare l’agire nella vita vera, proprio come se nel sogno si potessero sperimentare ed allenare alcune parti di sé che – effetti speciali a parte – potranno trovare spazio per apparire nella vita quotidiana. Il wandering non è un sintomo, non è cioè espressione di una patologia, ma sembra avere le caratteristiche di un vera e propria mastery adattiva e funzionale a tollerare emozioni di vergogna, di paura, di impotenza e di rabbia.

Sognare ad occhi aperti non gli impedisce insomma di vivere, come succede ad Amelie (ne Il meraviglioso mondo di Amelie), ma al contrario gli permette di prendersi la sua rivincita, di trovare soluzioni e azioni utili a perseguire i suoi obiettivi, di sperimentarsi finalmente coraggioso e determinato. La lettura del regista sembra quindi allinearsi, forse inconsapevolmente, ai più recenti contributi delle neuroscienze sul wandering e sul suo ruolo nel funzionamento cognitivo generale e sulle capacità di elaborare informazioni emotive determinanti per la nostra vita.

Il confine tra realtà e immaginazione si assottiglia lentamente nel corso del viaggio, il contenuto del wandering diventa più realistico, più vicino all’effettivo potere d’azione di Walter, senza mai sovrapporsi completamente alla realtà, mentre a poco a poco l’immagine che Walter ha di sé cambia, in uno scenario surreale e fantastico da tenere fino alla fine lo spettatore nell’incertezza di come andrà a finire ….

Certo, qualche pezzo di realtà si perde nei lunghi secondi di “assenza” e forse la sua interpretazione rischia di essere talvolta distorta, ma del resto senza la capacità di sognare ad occhi aperti quei pezzi sarebbero forse persi per sempre. Lunga vita ai sognatori, bravo Ben Stiller!

 

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Mappare le emozioni: l’amore scalda tutto il corpo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dove sentiamo l’amore? Alcuni parlano di “farfalle nello stomaco”, altri di palpitazioni. Ma il modo in cui le sensazioni si manifestano nel nostro corpo è universale? Secondo un gruppo di ricercatori finlandesi si.

Mappando l’attivazione del corpo di diversi soggetti , i ricercatori hanno osservato che quando siamo felici o innamorati, il nostro corpo sembra attivarsi completamente dalla testa ai piedi, mentre la depressione tende a “disattivare” gambe, braccia e testa.

Ancora, paura e pericolo sembrano scatenare una forte attivazione nella zona toracica, mentre la rabbia è una delle poche che porta all’attivazione delle braccia. I ricercatori hanno mappato sei emozioni basiche (rabbia, paura, disgusto, felicità, tristezza, sorpresa) e sette emozioni non basiche (“complesse”) ( ansia, amore, depressione, disprezzo, orgoglio, vergogna e invidia) usando una tecnica chiamata emBODY, (una sorta di tomografia self-report), in cui ai soggetti veniva chiesto di indicare per ogni emozione, quali aree del corpo sentivano come più attive e quali come meno attive.

In seguito, per verificare l’ipotesi iniziale, ovvero se le emozioni conducono alle medesime sensazioni corporee indipendentemente dalla cultura di appartenenza, hanno confrontato i risultati ottenuti con il campione originario (composto da soggetti nativi dell’Europa dell’est) con soggetti est-asiatici.

Confrontando i due gruppi, hanno trovato una correlazione dello 0.70 tra le emozioni basiche con attivazione corporea simile. Infine, per assicurarsi che le aree indicate come attive/non attive non fossero influenzate da semplici stereotipi, il gruppo di ricerca è ricorso a delle tecniche di immaginazione guidata per indurre i soggetti a provare una specifica sensazione, per poi fornire una descrizione immediata.

Sebbene Nummenmaa e colleghi non possano affermare con sicurezza che le sensazioni riportate corrispondano a delle reali attivazioni fisiologiche, i risultati portano a evidenziare una universalità delle emozioni corporee riferite.

E se si considerano i risultati di studi precedenti, sembrano esserci buone possibilità di riuscire, un giorno, a usare la mappatura del corpo come strumento aggiuntivo nella diagnosi dei disturbi dell’umore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La Ricerca Scientifica in Italia: 2 bilanci per una panoramica realistica (e non catastrofista)

 

 

 

ricerca scientifica in italia - Immagine: © Noigiovani.it Fare bilanci non è facile, e forse nemmeno utile. Di fronte all’ennesimo scenario l’informazione che ne ricaviamo può risuonare scontata, e l’impressione può essere di futilità. Per esempio, la ricerca scientifica in Italia. Parlarne significa intonare un già previsto lamento funebre, la solita processione che accompagna il cadavere nella bara al cimitero. Senza che poi si arrivi mai a questo cimitero, senza che mai si riesca a seppellire il morto.

Abbiamo trovato online un paio di resoconti, uno un po’ meno catastrofico del solito, l’altro più negativo e propenso al lamento disperato, ma più nei toni che nei risultati riportati. Leggendo Giuseppe De Nicolao (2013) sulla rivista online Roars (acronimo un po’ misterioso e ruggente che sta per: Return On Academic Research) impariamo che le critiche che si accumulano sul corpo sempre da seppellire dell’attività scientifica dell’Università Italiana sono infinite, ma anche contraddittorie e non sempre fondate. Si va dal rimprovero che ci sono troppi atenei (per poi scoprire che invece i numeri dicono il contrario) o che il rapporto alunni/professori è troppo elevato (e anche qui i numeri smentiscono) o che solo in Italia ci sono i fuoricorso (ce ne sono di più in USA).

Si dice che l’Università italiana abbia una produzione scientifica risibile, ma i dati smentiscono anche questo: un’elaborazione SCImago su dati Scopus 1996-2012 rivela che l’Italia mantiene stabilmente la sua dignitosa ottava posizione nella classifica dei paesi produttori di articoli scientifici, con un leggero incremento del la percentuale di ricerca mondiale prodotta in Italia, passata dal 3,3% al 3,5% dal 1996 al 2012. E così via, con altri dati.

Un articolo banalmente ottimistico, quello di De Nicolao? Può darsi. Non è facile rendere interessanti  testi che non profetano l’apocalisse, si rischia la noia. E probabilmente molto del successo dell’ultimo libro della Bibbia deriva proprio dal suo tono terrificante. Però anche l’Ecclesiaste, quando ammonisce che nulla mai cambia sotto il sole, ci incoraggia a non esagerare in nessuna direzione, nemmeno in quella negativa.

Se però tutto questo non ci convince, possiamo tornare a lamentarci e a vestirci di scuro insieme a Marco Cattaneo, che usa ampie pennellate di nero per distoglierci dalla carezza consolatoria di De Nicolao. Cattaneo, come un nuovo Catone, tuona di rabbia e orgoglio (interessante questa allusione a Oriana Fallaci e alla catastrofe dell’11 settembre) e ci presenta il ben noto quadro -ormai stucchevole- del ricercatore italiano che riesce, nonostante tutto e in mezzo a inimmaginabili difficoltà, a fare della buona ricerca. Apprendiamo così che l’Italia ha conquistato 46 fondi ricerca (ovvero, grant) su 312 bandi proposti nel 2013. Il 15%.

Ci sarebbe di che essere orgogliosi, dice Cattaneo. Ma non possiamo. Questo perché di questi 46 grant ben 26 sono andati a ricercatori italiani che lavorano all’estero, mentre solo 20 davvero rimangono in Italia. Questa non sembra essere una gran notizia, siamo d’accordo con Cattaneo. Però anche con questa mutilazione la prestazione dell’Italia rimane accettabile, sia in assoluto che in rapporto agli altri paesi citati. Anche la Germania soffre di una simile emorragia: 15 grant tedeschi “fuggiti” contro 33 rimasti in patria. Diverso il comportamento dei ricercatori inglesi e francesi, tutti ferreamente rimasti attaccati al paese di origine.

Da parte nostra, non sosteniamo che non si possa fare meglio e che non ci siano cose da migliorare. Un dato sicuramente negativo tra quelli riportati da Cattaneo c’é: l’assenza di ricercatori che vengano in Italia  a fare ricerca. L’Italia, e gli italiani, hanno un problema di comunicazione con il resto d’Europa. Non sempre siamo capaci di capire e di farci capire. Non ripeteremo le solite cose: dobbiamo migliorare il nostro inglese, l’efficienza delle nostre infrastruttura, l’amichevolezza della nostra burocrazia. Aggiungiamo che forse dobbiamo diventare un po’ più sciolti, meno ossessionati dalla nostra -a volte supposta e a volte reale- cialtronaggine. Che esiste, ma non si risolve rimuginandoci su.

Rimane il fatto che anche nelle informazioni trovate da Cattaneo l’Italia esce fuori come un paese in grado di dare il suo significativo contributo alla ricerca scientifica. Per questo ci pare che lo stile di Cattaneo sia eccessivo. Egli adotta il noto repertorio, con qualche interessante novità pop: così il paese muore, e poi la “rabbia, e l’orgoglio“, e l’ “incazzatura che arriverebbe a vette inesplorate“, e “vado a misurarmi la pressione“, e la cialtronaggine, e così via. Uno schiumante frasario sull’Italia che eternamente delude i sogni di gloria e non è all’altezza delle sue potenzialità.  I sogni devono esserci,  non devono diventare un incubo, e ciascuno di noi deve fare il meglio che riesce a immaginare, in creatività e serietà e pazienza. Diciamo che a fronte dei dati, misti, un po’ buoni un po’ tristi, la ruminazione depressiva non aiuta anzi, a circolo vizioso, aggrava il problema.

 

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PREMIO STATE OF MIND PER LA RICERCA IN PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Story Editing – Le nostre preoccupazioni possono avere un lieto fine

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Non sempre è necessaria una psicoterapia per mettere in atto un cambiamento nella nostra storia o risolvere una preoccupazione. Il dott. Timothy D. Wilson, professore di Psicologia presso l’Università della Virginia, infatti ha studiato come applicare dei piccoli cambiamenti alle storie di vita o ai ricordi possa aiutare emotivamente. Questo processo è stato chiamato da lui Story Editing.

Ad esempio ha provato ad applicare questo processo con degli studenti del college che erano bloccati nel proseguimento degli studi.  Ha visto come cambiando la “loro storia” potesse portare maggior beneficio a livello psicologico nell’affrontare il loro percorso di studi. In particolare è andato a modificare la loro credenza (belief) che mai avrebbero ottenuto buoni risultati, con un pensiero più positivo ad esempio  “a chiunque può capitare di non riuscire in un primo momento“.

Il processo è molto simile a quello che avviene in psicoterapia, si introduce un pensiero/prospettiva o punto di vista diverso e ci si lavora per 45 minuti, così ad esempio ha fatto nel caso dei ragazzi del college, gli ha fatto leggere per 45 minuti account di ragazzi che avevano avuto un percorso simile ma con un risvolto positivo.

Il senso è proprio quello di cambiare il finale agendo su dei punti “critici” della storia, così una persona che ha un piccolo problema o preoccupazione  può ogni giorno scrivere per 15 minuti cosa lo preoccupa e vedere magari che guardandosi indietro forse non era così preoccupante.

Wilson ancora non si spiega perchè questa metodica funzioni, ma sicuramente sottolinea come questo metodo possa permettere alle persone di sbloccarsi e di guardare avanti modificando quello che credevano doloroso o difficoltoso nel passato.
Sicuramente non è paragonabile a una psicoterapia, ma può essere un utile input per vedere quali sono le difficoltà.

E forse può anche essere interessante vedere come cambiare personaggio della storia alle volte può essere utile per avere un punto di vista più funzionale.

 

Editing Your Life\’s Stories Can Create Happier EndingsConsigliato dalla Redazione

Writing about a troubling event and revising the story in a more positive light can improve life. (…)

Tratto da: NPR.org

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell’intervento psicologico. Premio State of Mind 2013

Chiara Scarampi.

 

Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell’intervento psicologico.

Studio sull’alleanza terapeutica e sulla coesione di gruppo.

 

PREMIO STATE OF MIND 2013

Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell'intervento psicologico. - Immagine: ©-pressmaster-Fotolia.com-.jpgIl seguente elaborato analizza l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo, fattori che contribuiscono fortemente al miglioramento dei pazienti e rappresentano le più importanti variabili di processo, correlate all’esito della psicoterapia di gruppo.

La ricerca presentata ha voluto esaminare la capacità predittiva che i due costrutti possono avere sugli esiti di un intervento psicologico, ad orientamento cognitivo. Lo studio ha previsto l’utilizzo di videoregistrazioni di incontri di Mental Fitness, organizzati tra il 2009 e il 2011, nell’ambito della psicocardiologia e nell’ambito della formazione di studenti iscritti alla scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Torino. Gli strumenti utilizzati per valutare l’alleanza e la coesione sono stati rispettivamente il Working Alliance Inventory (WAI) e la Group Cohesiveness Scale (GCS).

I risultati evidenziano un andamento crescente dei due costrutti tra la prima e la quarta seduta, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni. Inoltre emerge la connessione tra i due costrutti, anche se essi rappresentano due differenti aspetti del processo terapeutico di gruppo.

Dalle analisi effettuate si evince che l’alleanza e la coesione, valutate alla quarta seduta, influiscono positivamente su aspetti quali: la percezione della qualità della vita (in particolare nelle relazioni sociali e nell’ambiente di vita), la prevenzione di un pensiero orientato all’esterno, la capacità a identificare le emozioni, le capacità di coping focalizzate sulle emozioni e sul problema e la compliance alle indicazioni terapeutiche. Inoltre si evidenzia un’associazione significativa con la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionali.

Questi risultati confermano quanto è emerso da altri studi, che hanno rilevato l’importanza dei due costrutti come fattori curativi presenti nell’intervento psicologico di gruppo.

Abstract. The following paper examines therapeutic alliance and group cohesion, which constitute important mechanisms of change in group intervention and are predictive of successful goal attainment. They have been found to be the major variables in predicting treatment outcome across a range of patient populations in varied settings.

The aim of the current study was to conduct an analysis of the contribution to outcome of therapeutic alliance and group cohesion in a cognitive treatment. We used videotaped group sessions of a cognitive intervention called Mental Fitness, organized between 2009 and 2011 within a psychocardiology program and a training for some students of the Superordinate School of Cognitive Psychotherapy in Turin.

The alliance was assessed using the observer version of the Working Alliance Inventory (WAI), while cohesion ratings were made using the Harvard Health Plan Group Cohesiveness Scale (GCS).

The results highlighted an increasing trend of the two variables among the first and the last session, with a statistically significant difference between the two measurements. Moreover, the results showed that cohesion and alliance were related concepts, even though they represented two different aspects of the group therapeutic process.

Both therapeutic alliance and group cohesion were found to have a significant effect on many clinical outcome such as: perception of life quality (especially in social relationships and life environment), prevention of an external oriented thinking, ability in identifying emotions, coping abilities focused on emotions and problems, and compliance with therapeutic indications. In addition, the research showed a significant association with a reduction in the use of dysfunctional coping strategies.

These results confirmed findings from others studies, pointing out the importance of the two constructs as curative factors in the psychological group intervention.

 

Parole-chiave: alleanza terapeutica; coesione di gruppo; relazione terapeutica; efficacia clinica; processi di gruppo

Keywords: therapeutic alliance; group cohesion; therapeutic relationship; clinical effectiveness; group processes

 

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ARTICOLI SU: RELAZIONE TERAPEUTICA

 

INTRODUZIONE

 

Nel corso degli anni, molti studi hanno evidenziato l’importanza e l’efficacia nella psicoterapia dei fattori “aspecifici”, trasversali ai modelli terapeutici, individuando come fattore aspecifico per eccellenza la qualità della relazione terapeutica, intesa come la capacità del paziente e del terapeuta di costruire un’alleanza, ossia promuovere sforzi congiunti per raggiungere obiettivi comuni, nel contesto di una relazione che abbia caratteristiche di sicurezza e fiducia.

Ultimamente l’interesse dei ricercatori si è spostato verso le forti potenzialità della terapia di gruppo. Le ricerche finora compiute hanno ampiamente confermato che questo tipo di trattamento è efficace tanto quanto quello individuale (MacKenzie & Livesley, 1986; Burlingame, MacKenzie & Strauss, 2004). Tuttavia, anche se questi due tipi di intervento possono vantare valutazioni comparabili in termini di efficacia, i meccanismi con cui si raggiungono il cambiamento e il successo sono innegabilmente differenti (Johnson, Pulsipher, Ferrin, Burlingame, Davies & Gleave, 2006).

La processualità di un gruppo terapeutico è difficilmente riconducibile a quella della psicoterapia individuale. Mentre il processo terapeutico individuale si fonda sull’unica relazione diadica paziente-terapeuta e sugli interventi di quest’ultimo, lo scenario in cui si svolgono le terapie di gruppo è notevolmente più complesso. In tale contesto si viene a creare un universo relazionale (costituito dall’insieme delle interazioni che si svolgono tra pazienti del gruppo, tra pazienti e terapeuta e tra pazienti e il gruppo nel suo complesso) di uguale, se non maggiore beneficio rispetto alla singola relazione con il terapeuta (Holmes & Kivlighan, 2000) e un’atmosfera emozionale caratteristica del “qui ed ora” che contraddistingue quello specifico gruppo.

L’intreccio tra le innumerevoli variabili che concorrono ad influenzare l’andamento di una psicoterapia di gruppo fa sì che alcune questioni sorgano fin dalla operazionalizzazione dei costrutti presi in considerazione (Strauss, Burlingame & Bormann, 2008; Lo Coco, Prestano & Lo Verso, 2008). Le misure disponibili si possono collocare a livelli differenti di astrazione rispetto a un determinato aspetto (o più aspetti) del processo terapeutico. A conferma di quanto detto si può far riferimento alla coesione di gruppo e all’alleanza terapeutica in quanto i loro punti di sovrapposizione implicano il riferimento congiunto ai due costrutti (Gargano, Lenzo, Salanitro, Camizzi, & Lo Verso, 2010). La coesione di gruppo e l’alleanza terapeutica sono due elementi che contribuiscono fortemente al miglioramento dei pazienti.

Gli studiosi sono concordi nel definire l’alleanza terapeutica come la parte collaborativa della relazione diadica tra paziente e terapeuta (Bordin, 1979). Essa è una delle variabili maggiormente predittive di esito positivo del trattamento di gruppo, indipendentemente dai modelli teorici di riferimento del terapeuta (Horvath, 1994; Martin, Garske & Davis, 2000). È stata studiata approfonditamente negli ultimi anni, tuttavia in misura minore rispetto alle terapie duali e spesso trascurando le alleanze incrociate che si verificano in gruppo e che sono parte integrante del processo di cura. Inoltre, gli strumenti attualmente più usati in psicoterapia di gruppo, per la sua valutazione, sono insufficienti a spiegarne le caratteristiche in quanto valutano solamente il legame tra terapeuta e paziente e il loro accordo sugli obiettivi della terapia. Vengono trascurate, ancora una volta, le relazioni e le molteplici alleanze presenti nel gruppo.

La coesione invece è comunemente definita come un’atmosfera positiva che si viene a creare all’interno del gruppo (Dion, 2000). Essa attiene al senso di appartenenza, di fiducia, di sicurezza che sperimentano i pazienti di un gruppo (Mc Callum, Piper, Ogrodniczuk & Joyce, 2002). È stato mostrato come essa sia in relazione con il miglioramento dei pazienti (MacKenzie & Tschuschke, 1993), anche se altri autori (Bednar & Kaul, 1994) evidenziano come non vi sia ancora consenso rispetto al significato del termine, sia sul piano teorico, sia su quello operazionale (prova ne è la moltitudine di strumenti utilizzati per studiarla). Risulta pertanto difficile generalizzare queste conclusioni. Tuttavia, la coesione è uno dei fattori terapeutici di gruppo (Yalom & Lesczc, 1995) più studiati poiché se ne riconosce l’importanza clinica ed è dimostrato che la coesione è particolarmente correlata all’alleanza terapeutica (Budman, Soldz, Demby, Feldstein, Springer & Davis, 1989; Gillaspy, Wright, Campbell, Stokes & Adinoff, 2002; Marziali, Monroe–Blum & McCleary, 1997).

 

Teoricamente, molti autori sostengono che la coesione e l’alleanza sono concetti equivalenti e sovrapponibili (Fuhriman & Burlingame, 1990) in quanto la coesione può essere vista come l’insieme delle possibili alleanze che si instaurano tra i vari tipi di relazione (membro-membro, membro-leader, membro-gruppo) (Burlingame, Fuhriman & Johnson, 2002). Altri studiosi ritengono invece che essi rappresentano processi differenti, in quanto la coesione è un concetto più complesso rispetto all’alleanza (Joyce, Piper & Ogrodniczuk, 2007; Marziali et al., 1997).

Marrone (2001) suggerisce di considerare tali fattori come interdipendenti in quanto hanno confini molto sfumati e si manifestano con diversa intensità nei vari gruppi, ma anche all’interno di uno stesso gruppo, nelle persone o nei diversi momenti delle sedute.

 

L’alleanza e la coesione vengono considerate le variabili più importanti che descrivono i processi positivi nella terapia di gruppo (Bernard et al., 2008). Tuttavia, molte questioni che concernono le relazioni teoriche ed empiriche tra questi due processi necessitano ulteriori studi poiché emerge una discordanza tra i risultati delle ricerche finora effettuate (Bakali, Baldwin & Lorentzen, 2009; Johnson, 2007).

Il loro approfondimento è particolarmente difficile e richiede la costruzione di un complesso disegno di ricerca. Allo stesso tempo, si tratta di una tipologia di ricerca molto vicina alla clinica che consente di pensare, capire e approfondire le pratiche terapeutiche. Essa permette di migliorare la conoscenza, la qualità e l’efficacia rispetto a ciò che realmente avviene nel contesto terapeutico, non limitandosi a considerare esclusivamente i modelli teorici adottati (Lo Verso & Ruvolo, 2010).

 

A partire da queste premesse si è proceduto a realizzare una ricerca che perseguisse i seguenti obiettivi:

Monitorare l’andamento della coesione e dell’alleanza nel corso delle sedute;

Verificare in quale misura i fattori di alleanza e coesione siano legati all’esito della terapia;

Verificare la riduzione sintomatica a circa sei mesi dal termine del trattamento;

Studiare la relazione tra l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo per verificare se rappresentano aspetti distinti del processo di gruppo.

METODO

 

Partecipanti

 

La ricerca ha coinvolto un totale di 63 persone appartenenti a due campioni differenti: un gruppo di pazienti seguiti dal reparto di Cardiologia dell’ospedale Molinette di Torino e un gruppo di studenti della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Torino.

Il primo campione era composto da 28 persone (4 F, 24 M) di età compresa tra i 43 e i 70 anni (età media 58,6 ± 8,3 ) che a seconda del locus of control per la salute (64,3% con locus of control interno e 35,7% locus of control esterno) sono state suddivise in 8 gruppi (numero medio di partecipanti per gruppo 3,5 ± 0,76). Tutti i partecipanti erano accomunati da un precedente evento cardiaco (82,1% infarto, 17,9% angina).

Il secondo campione era costituito da 35 studenti specializzandi (30 F, 5 M) di età compresa tra i 26 e i 51 anni (età media 31 ± 5,9) che a seconda del locus of control per la salute (71,4% con locus of control interno e 28,6% con locus of control esterno) sono stati suddivisi in 7 gruppi (numero medio di partecipanti per gruppo 5,29 ± 0,95).

 

Al fine di valutare l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo sono state utilizzate videoregistrazioni di incontri di Mental Fitness, organizzati con i due campioni.

Mental Fitness è un protocollo di intervento ideato dal gruppo di ricerca del Professor Bara dell’Università di Torino, in relazione a un progetto di psicocardiologia orientato a migliorare la qualità della vita e l’aderenza alle prescrizioni mediche di pazienti infartuati.

 

Inizialmente, in base ai risultati ottenuti attraverso la compilazione della Multidimensional Health Locus of Control scale (MHLC) (Wallston, Wallston & DeVellis, 1978), i partecipanti sono stati organizzati in piccoli gruppi (da 3 a 6 membri), alcuni composti da soggetti con locus of control per la salute interno e altri formati da individui con locus of control per la salute esterno.

Sono stati previsti quattro incontri settimanali della durata di 90 minuti l’uno, con obiettivi differenti a seconda del Locus of Control dei componenti di ogni gruppo.

Ad ogni incontro erano presenti un conduttore e un co-conduttore, psicologi ad orientamento cognitivista, adeguatamente formati per la conduzione di tali gruppi. In totale hanno preso parte al progetto di ricerca 4 psicologi che hanno condotto dai 2 ai 5 gruppi ciascuno e 6 co-conduttori.

 

 

Strumenti

 

La scelta degli strumenti è stata preceduta da un approfondito esame della recente letteratura relativa alla tematica studiata, al fine di valutare i risultati ottenuti dalle ricerche finora effettuate e gli strumenti più frequentemente utilizzati e validati. Si è poi proceduto a contattare i creatori delle scale per procurare il materiale necessario e ottenere la licenza per il loro utilizzo.

 

L’alleanza terapeutica

 

Per valutare l’alleanza terapeutica è stato utilizzato il Working Alliance Inventory-Observer Rated (WAI-O) (Horvath & Greenberg, 1981, 1982). Si tratta di uno strumento basato sul modello panteorico di Bordin e creato per studiare l’alleanza come fattore terapeutico comune a tutti i tipi di trattamento, tramite una definizione basata su un modello generale di terapia. Esso considera l’alleanza come rapporto collaborativo e interattivo tra paziente e terapeuta, in grado di indurre un cambiamento.

Lo strumento è costituito da un fattore generale di alleanza e tre fattori specifici di ordine inferiore corrispondenti alle tre componenti individuate da Bordin (Legame, Accordi sui Metodi, Accordo sugli Obiettivi). Il legame è costituito da relazioni interpersonali positive tra paziente e terapeuta, quali confidenza, accettazione e fiducia reciproca. I metodi sono le attività terapeutiche alla base del processo terapeutico. Gli obiettivi rappresentano gli scopi da raggiungere tramite il processo terapeutico.

Nell’indagine qui presentata è stata utilizzata la versione per l’osservatore esterno (WAI-O) di Raue, Goldfried e Barkham (1997), composta da 36 item misurati su una scala di tipo Likert a 7 punti.

La scelta dello strumento di valutazione è ricaduta sul WAI-O in quanto fa riferimento a una visione panteorica del concetto di alleanza che trascende i vari modelli di analisi ed integra i diversi contributi e le precedenti formulazioni di questo costrutto in una definizione operativa e consensuale. Esso considera l’alleanza come fattore relazionale comune che agisce in ogni processo terapeutico di cambiamento e, pertanto, è applicabile anche nell’ambito degli interventi di Mental Fitness.

La coesione di gruppo

 

Per valutare la coesione di gruppo è stata utilizzata la seconda versione dell’Harvard Community Health Plan Group Cohesiveness Scale (GCS) (Budman, Demby, Koppenaal, Sabin-Daley, Scherz, Hunter, … & Feldstein, 1982; Budman et al.,1989), strumento che considera la coesione come caratteristica osservabile del funzionamento del gruppo e valutabile da osservatori partecipanti (terapeuta) o non partecipanti (giudici che visionano le videoregistrazioni delle sedute). Questo fenomeno viene definito come “group connectedness, demonstrated by working together toward a common therapeutic goal, constructive engagement around common themes, and openness to sharing personal material” (Soldz et al., 1987).

La GCS è stata disegnata per segmenti di 30 minuti ricavati da sedute di gruppo di 90 minuti. Le valutazioni vengono effettuate da giudici indipendenti su una scala Likert a 9 punti e riguardano le seguenti dimensioni:

Global Cohesiveness: misura il senso globale di coesione dimostrata nella seduta ed evidenzia la necessità di non fornire giudizi basati esclusivamente sulla media o sulla somma dei punteggi delle sottoscale;

Focus: misura il grado in cui le discussioni riflettono un ordine del giorno con coerenza tematica;

Interest/Involvement: misura il grado in cui i membri dimostrano interesse e coinvolgimento verbale e non verbale verso le discussioni del gruppo;

Trust: misura il grado in cui i membri sono disponibili a condividere esperienze personali;

Facilitative Behavior: misura il grado in cui i componenti del gruppo si impegnano in comportamenti volti a promuovere una costruttiva esplorazione affettiva e la crescita personale negli altri membri;

Bonding: valuta in quale misura i membri appaiono connessi l’uno all’altro, sulla base dell’attrazione e del calore reciproci;

Global Quality: misura quanto il segmento valutato è indicativo di una seduta terapeutica di gruppo, ovvero quanto si avvicina all’ideale del processo terapeutico secondo il giudice;

Affective Intensity: valuta la forza delle tonalità emotive manifestate in gruppo, includendo sia gli affetti positivi, sia quelli negativi;

Conflict: misura i comportamenti di disaccordo e di sfida che comportano tensioni crescenti.

 

La scelta dello strumento per valutare la coesione è stata più difficile rispetto alla decisione presa in merito all’utilizzo del WAI. Sono stati individuati pochi strumenti in grado di valutare la coesione dal punto di vista di un osservatore esterno e sono state notevoli le difficoltà a reperirli. La scelta è dunque ricaduta sulla GCS-II dopo averne verificato l’attendibilità e aver riscontrato il suo utilizzo in altri studi recenti. Inoltre è sembrato interessante in quanto il costrutto prende in considerazione le dinamiche del gruppo nel suo insieme e non solo le relazioni tra i singoli partecipanti.

 

Le misure degli outcome

 

Al fine di confrontare l’alleanza e la coesione in relazione agli esiti del trattamento sono stati utilizzati alcuni dati relativi alla ricerca sull’efficacia dell’intervento di Mental Fitness che prevedevano, per la valutazione psicologica, i seguenti strumenti:

Multidimensional Health Locus of Control scale (MHLC) (Wallston et al., 1978; Wallston et al., 1999): si tratta di una scala disegnata per valutare le credenze di una persona in relazione alle cause che determinano il proprio stato di salute: le azioni individuali oppure le azioni di altre persone, del fato, della fortuna, ecc. È possibile distinguere il locus of control per la salute interno e il locus of control per la salute esterno.

Twenty-Item Toronto Alexithymia Scale (TAS-20) (Bagby, Parker & Taylor, 1994): è il test attualmente più diffuso e affidabile per la diagnosi dell’alessitimia. Nella valutazione dei dati, oltre alle informazioni relative alla somma totale dei singoli punteggi di ogni item, è possibile calcolare i punteggi che valutano tre caratteristiche del disturbo: la difficoltà nell’identificare i sentimenti, la difficoltà nel comunicare e descrivere i sentimenti agli altri e il pensiero orientato all’esterno e raramente verso i propri processi endopsichici.

Brief Cope (Carver, 1997): si tratta di uno strumento utilizzato per misurare la capacità di coping sia in situazioni di normalità sia in situazioni stressanti. Vengono valutate strategie di coping mirate alla soluzione del problema che genera stress, strategie focalizzate sugli aspetti emotivi connessi all’evento stressante e strategie disfunzionali.

World Health Organization Quality of Life (WHOQOL) (World Health Organization [WHO], 1998): è un questionario che analizza e registra la qualità della vita percepita dal soggetto in riferimento a quattro specifici ambiti: la salute fisica, la salute psicologica, le relazioni sociali e le condizioni ambientali.

 

Per il campione composto da pazienti seguiti dal reparto di Cardiologia dell’ospedale Molinette di Torino è stata inoltre effettuata una valutazione medica che ha esaminato outcome primari (mortalità e morbilità) e outcome secondari (funzionamento cardiaco, stato di guarigione misurato attraverso il diabete, il fumo, la pressione arteriosa, il colesterolo e l’aderenza al trattamento).

 

RISULTATI

 

L’attendibilità dei dati

 

Per valutare l’attendibilità dei dati ottenuti e il grado di omogeneità tra le osservazioni dei due valutatori (interjudge reliability) è stato calcolato il coefficiente di correlazione intraclasse (ICC).

Per il campione di pazienti i punteggio di correlazione intraclasse totali ottenuti indicano che i giudici hanno stabilito rispettivamente l’85% e il 78% di accordo sulla loro valutazione della coesione e dell’alleanza. Per il campione composto da studenti i valori indicano invece un accordo del 99,9% per la valutazione della coesione e del 93% per l’alleanza.

 

L’andamento delle variabili nel corso del tempo

 

A partire dalle osservazioni effettuate si sono volute analizzare, da un punto di vista inferenziale, le eventuali differenze osservabili tra le medie campionarie dei punteggi. A tale scopo è stato utilizzato il t-test tra le valutazioni relative alla prima e alla quarta seduta. Inoltre sono stati costruiti alcuni grafici per verificare visibilmente l’andamento delle due variabili nel corso delle quattro sedute.

Per entrambi i campioni l’alleanza con il conduttore e la coesione del gruppo sono sempre aumentate con il procedere degli incontri, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni.

 

La relazione con gli outcome fisici e psicologici dell’intervento

 

Per verificare l’esistenza di una correlazione delle due variabili con gli esiti del trattamento è stato calcolato l’indice di correlazione di Pearson tra la media dei punteggi in quarta seduta, forniti dai due valutatori, e i residui standardizzati, calcolati sui dati relativi agli outcome psicologici e medici che, per la ricerca sull’efficacia del Mental Fitness, sono stati misurati precedentemente e successivamente all’intervento. Per calcolare i residui standardizzati è stata calcolata una regressione lineare, ponendo come variabili indipendenti le misure degli outcome prima dell’intervento di Mental Fitness e come variabili dipendenti i dati relativi agli outcome valutati successivamente all’intervento.

 

1. Correlazione tra alleanza terapeutica e outcome nel campione di pazienti cardiopatici

I risultati significativi ottenuti dalla correlazione tra alleanza terapeutica e outcome fisici e psicologi sono presentati sulla tabella 1. riportata in appendice.

La correlazione negativa tra l’alleanza e la sottoscala “Externally oriented thinking” della TAS indica la capacità del costrutto di influire sulla riduzione dell’utilizzo di un pensiero orientato all’esterno. Questo risultato può essere attribuito a uno dei focus caratteristici dell’intervento di Mental Fitness, volto ad approfondire e ad aumentare il grado di attenzione verso il proprio mondo interno ed emozionale.

Un altro importante risultato emerso è riferito all’influenza che l’alleanza esercita sul miglioramento della qualità della vita, dimostrata dalla correlazione tra diverse sottoscale del WHOQoL e tutte le misure del WAI. In particolare, si evince come la costruzione di una buona alleanza con il conduttore correli positivamente con il miglioramento delle relazioni sociali.

La sottoscala “Bond” del WAI ha mostrato una forte correlazione con la misura delle strategie di coping centrate sul problema che evidenzia la capacità dell’alleanza di incrementare il loro utilizzo da parte dei pazienti cardiopatici. Questo dato potrebbe essere spiegato dall’attenzione che il gruppo ha rivolto al riconoscimento e all’accettazione dei pensieri e delle emozioni nel qui e ora. Tale lavoro potrebbe aver aumentato la capacità dei partecipanti di reagire agli stimoli, di attribuire loro un significato e di ridurre la propria dipendenza dalle situazioni di vita incontrate.

Infine sono emerse correlazioni significative tra la misura della glicemia, la sottoscala dell’alleanza relativa all’accordo sui metodi e la sua misurazione totale. Esse indicano che l’alleanza terapeutica incide sul controllo della glicemia. La relazione tra le due variabili potrebbe essere dovuta al lavoro effettuato durante l’intervento di Mental Fitness, che ha previsto la discussione su tematiche fortemente sentite dai pazienti, quali: la patologia cardiaca, l’evento critico e l’esperienza personale vissuta a tal riguardo. Il confronto con altre persone, caratterizzate dalle stesse problematiche, potrebbe aver aumentato la compliance verso le indicazioni mediche e, di conseguenza, aver favorito l’osservanza di prescrizioni e consigli relativi alle abitudini alimentari e di conseguenza alla glicemia.

2. Correlazione tra alleanza terapeutica e outcome nel campione di studenti specializzandi

I risultati ottenuti per il campione costituito da studenti specializzandi confermano, per quanto riguarda le correlazioni negative tra l’alleanza e la sottoscala “Externally oriented thinking” della TAS e tra l’alleanza e la sottoscala “Problem focused” del Bcope, quelli ottenuti per i pazienti. L’associazione negativa tra il pensiero orientato all’esterno e l’alleanza con il conduttore del gruppo può essere attribuita all’obiettivo di rivolgere maggiore attenzione al proprio mondo interno, caratterizzante l’intervento di Mental Fitness, mentre il miglioramento nelle relazioni sociali può essere stato influenzato dai processi che si sono attivati durante gli incontri.

Inoltre è emersa una correlazione tra la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping focalizzate sul problema e le sottoscale del WAI, relative all’accordo sui metodi e sugli obiettivi dell’intervento. Questo risultato va in direzione opposta alle nostre aspettative. Una possibile spiegazione potrebbe essere legata all’attenzione dei partecipanti, più rivolta all’espressione emotiva e al riconoscimento dell’importanza delle emozioni nell’affrontare nuove strategie comportamentali di padroneggiamento delle situazioni problematiche.

Infine è emersa l’influenza positiva dell’alleanza sulla riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionale. Essa può essere interpretata come un esito legato alla focalizzazione delle sedute di Mental Fitness sulla consapevolezza dei propri stati mentali. Tale presa di coscienza potrebbe aver fornito ai partecipanti la possibilità di sperimentare nuove modalità atte a saper utilizzare i vissuti personali per affrontare in modo alternativo situazioni diverse.

 

3. Correlazione tra coesione di gruppo e outcome nel campione di pazienti cardiopatici

Come si evince dai dati riportati in appendice sulla tabella 2., dalla correlazione tra la coesione di gruppo e gli esiti del trattamento sono emersi alcuni risultati inaspettati: la correlazione positiva tra la coesione e la difficoltà a identificare i sentimenti e tra la coesione e l’indice di massa corporea, nonché l’associazione negativa tra la coesione e la percezione della qualità dell’ambiente di vita. Questi risultati possono essere giustificati da alcuni limiti metodologici, riscontrati nell’utilizzo della GCS, primo tra i quali la difficoltà dei giudici a interpretare con gli stessi criteri alcuni costrutti.

È emersa una buona capacità predittiva sul miglioramento della percezione della qualità della vita. La costruzione di una buona coesione tra i membri del gruppo e i comportamenti volti a promuovere negli altri la crescita personale correlano positivamente con il miglioramento delle relazioni sociali. È inoltre possibile osservare una forte correlazione tra la presenza di conflittualità durante le sedute e una diminuzione nella qualità di vita generale percepita. Si può pensare che l’incapacità dei membri del gruppo a cooperare per il raggiungimento di obiettivi comuni influisca negativamente sul benessere percepito in relazione alla propria vita in generale.

Un altro importante risultato riguarda la correlazione tra fiducia tra i membri del gruppo e maggiore utilizzo di strategie di coping centrate sul problema e sulle emozioni, che va nella direzione di una maggiore efficacia dell’intervento psicologico quando la fiducia tra i membri del gruppo è più forte.

 

4. Correlazione tra coesione di gruppo e outcome nel campione di studenti specializzandi

Anche dalla correlazione tra la coesione di gruppo e gli esiti del trattamento per gli studenti sono emersi due risultati inaspettati (Tabella 2.) che riguardano la correlazione negativa tra la coesione e la percezione della qualità dell’ambiente di vita e l’associazione positiva tra la coesione e l’utilizzo di strategie di coping disfunzionali. Questi risultati possono essere giustificati da alcuni limiti riscontrati nell’utilizzo della GCS, soprattutto dalla difficoltà riscontrata dai giudici nell’interpretare alcuni costrutti secondo modalità condivise.

Si potrebbe anche ipotizzare che il percepire un ambiente di vita più ostile comporti una tendenza ad aumentare la vicinanza ad un gruppo di persone con caratteristiche simili.

 

Il confronto tra l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo

 

L’ultima analisi effettuata ha previsto la verifica dell’esistenza di una correlazione tra i due costrutti indagati. A tal proposito è stato calcolato l’indice di correlazione di Pearson tra la media dei punteggi, forniti dai due valutatori, in relazione all’alleanza terapeutica e alla coesione di gruppo. I risultati significativi sono presentati sulla tabella 3. in appendice.

Per il calcolo della correlazione si è fatto riferimento ai punteggi del WAI e della GCS relativi al primo e all’ultimo incontro dell’intervento di Mental Fitness.

 

I risultati ottenuti per il campione di pazienti fanno pensare che la scala relativa all’alleanza e la scala relativa alla coesione misurino aspetti differenti dei processi che si attivano nell’intervento di gruppo.

Per gli studenti, invece, alcune sottoscale, volte a rilevare rispettivamente l’alleanza e la coesione, sono risultate significativamente correlate. Questo risultato può indicare che i due costrutti sono altamente connessi tra loro. Tale associazione conferma i dati ottenuti in altri studi presenti in letteratura (Budman et al., 1989; Gillaspy et al., 2002).

Una possibile interpretazione potrebbe attribuire la correlazione agli aspetti simili che caratterizzano l’alleanza e la coesione di gruppo dal punto di vista teorico. Entrambi i concetti vengono definiti in funzione del legame creato e del lavoro svolto nel gruppo. Clinicamente, si può pensare che il rapporto e l’impegno nei confronti degli altri (coesione) si manifestino quando i membri del gruppo e il conduttore sono d’accordo e lavorano insieme per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Allo stesso modo, la fiducia, il rispetto e la sensibilità verso il gruppo sembrano rappresentare i prerequisiti per essere reciprocamente supportivi e spontanei.

Tuttavia, l’assenza di associazioni positive tra alleanza e coesione, riscontrabili in entrambe le sedute, valutate per il campione di pazienti e nell’ultima seduta per gli studenti, potrebbe indicare l’esistenza di possibili differenze tra i due costrutti.

 

DISCUSSIONE

 

Lo scopo dell’indagine qui descritta è stato quello di studiare la costruzione dell’alleanza terapeutica e della coesione di gruppo con un campione di pazienti cardiopatici e un campione di studenti specializzandi in un intervento psicologico ad orientamento cognitivo. Gli obiettivi principali che hanno guidato la ricerca sono stati tre:

monitorare l’andamento delle due variabili nel corso delle quattro sedute previste per il Mental Fitness;

indagare la correlazione tra le due variabili e gli esiti dell’intervento;

studiare la relazione tra l’alleanza e la coesione per verificare se rappresentano aspetti differenti riscontrabili nel processo terapeutico di gruppo.

 

1. Per quanto riguarda il primo obiettivo, è stato osservato l’andamento di alleanza terapeutica e coesione di gruppo per studiarne l’evoluzione nel tempo. Dai risultati emergono concordanze con altri studi, già presenti in letteratura, che evidenziano un andamento crescente delle due variabili con il procedere degli incontri. Durante l’intervento di Mental Fitness la coesione del gruppo e l’alleanza tra i singoli membri e il conduttore sono sempre aumentate tra la prima e la quarta seduta, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni.

Una possibile spiegazione per l’andamento seguito dalle due variabili potrebbe essere attribuita ai processi di socializzazione e interazione attivati dai membri dei gruppi con il procedere degli incontri. Essi potrebbero aver stimolato nei partecipanti l’acquisizione di una maggiore capacità di apertura e confronto, la nascita di un legame con gli altri membri e il conduttore, la crescita della fiducia verso gli obiettivi dell’intervento, la consapevolezza della sua utilità, lo stimolo ad impegnarsi nell’ottica del cambiamento e, di conseguenza, la formazione graduale dell’alleanza e della coesione.

 

2. Per quanto riguarda il secondo obiettivo è stata valutata l’alleanza di ogni membro con il conduttore del gruppo e non l’alleanza del gruppo nel suo insieme. Nel valutare la coesione i giudici hanno invece avuto il compito di giudicare il funzionamento del gruppo e non semplicemente quello dei singoli partecipanti.

L’alleanza è risultata essere un buon predittore del miglioramento dei seguenti aspetti: la prevenzione di un pensiero orientato all’esterno, la qualità della vita (in particolare nelle relazioni sociali), le capacità di coping focalizzate sul problema e il controllo della glicemia. È inoltre emersa un’associazione significativa con la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionali.

Questi risultati confermano quanto è emerso da altri studi effettuati nel setting terapeutico di gruppo, che hanno evidenziato come l’alleanza sia un attendibile predittore degli outcome (Marziali et al., 1997; Brown & O’Leary, 2000; Taft, Murphy, King, Musser & DeDeyn, 2003; van Andel, Erdman, Karsdorp, Appels & Trijsburg, 2003).

 

Anche la coesione di gruppo ha un buon potere predittivo su alcune misure d’esito. In particolare è stata verificata l’influenza che il costrutto può avere rispetto ai seguenti aspetti: il miglioramento della qualità della vita percepita, in particolare delle relazioni sociali, le capacità di coping focalizzate sull’emozione e quelle basate sul pensiero.

Questi risultati possono essere una conferma di quanto sostenuto da diversi ricercatori (Tschuschke & Dies, 1994, Yalom & Lesczc, 2005; Burlingame, McClendon & Alonso, 2011; Hornsey, Olsen, Barlow & Oei, 2011) circa il potere predittivo della coesione di gruppo sul miglioramento dei pazienti nell’ambito di diversi tipologie di trattamento, rivolte a molteplici problematiche.

 

Da quanto emerso si può affermare che l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo rappresentano due fattori curativi (sia direttamente, sia come mediatori) presenti nell’intervento psicologico di gruppo.

 

3. Per quanto riguarda il terzo obiettivo il risultato che alcune sottoscale del WAI e della GCS-II siano significativamente correlate può indicare che i due costrutti sono connessi tra loro. Tale associazione conferma i dati ottenuti in altri studi (Budman et al., 1989; Gillaspy et al., 2002). Tuttavia, essi rappresentano due differenti aspetti del processo terapeutico di gruppo, in particolare la coesione di gruppo si focalizza sulle transazioni membro-membro, mentre l’alleanza si riferisce alle interazioni membro-terapeuta. Si può pensare che la collaborazione nello svolgimento dei compiti volti al raggiungimento degli obiettivi terapeutici sia una delle componenti principali dell’alleanza (Bordin, 1979), mentre l’impegno, l’accettazione e i sentimenti verso l’altro siano aspetti che caratterizzano maggiormente la coesione (Crouch, Bloch & Wanlass, 1994; Yalom & Lesczc, 1995).

 

Potenzialità e limiti della ricerca

 

Lo studio si propone come una conferma dei risultati più importanti finora ottenuti dalle ricerche rivolte all’indagine dei processi terapeutici di gruppo.

Si può sostenere che la scelta degli strumenti (il WAI per lo studio della relazione tra soggetto e conduttore e la GCS per l’indagine della coesione tra i membri del gruppo) può aver avuto il merito di approfondire aspetti diversi che caratterizzano i processi che si attivano in un gruppo terapeutico.

Un punto di forza relativo alla metodologia della ricerca riguarda l’utilizzo di valutazioni fornite da osservatori esterni che hanno permesso di evitare le problematiche relative all’utilizzo di scale self-report, quali: l’eventuale mal interpretazione degli item, la scarsa attenzione nella compilazione del test e la possibilità che nella compilazione degli item i soggetti mettano in atto un atteggiamento difensivo, in modo da trasmettere un’immagine positiva di sé conforme alla desiderabilità sociale.

 

Oltre alle positività sopraelencate lo studio qui presentato ha anche riscontrato alcuni limiti.

L’esiguo numero di partecipanti ha permesso di raccogliere un ridotto numero di dati. Poiché ogni gruppo contava pochi componenti, le dinamiche sono emerse in modo sottile e difficilmente riconoscibile. Inoltre, è stato utilizzato un “campione di comodo” che ha fatto riferimento ad altri due progetti di ricerca già terminati. Lo studio si è pertanto potuto basare esclusivamente su valutazioni fornite da osservatori esterni e non ha potuto verificare le potenziali differenze con le prospettive offerte dal terapeuta e dai partecipanti agli incontri.

La breve durata del Mental Fitness non ha permesso di verificare le possibili fluttuazioni nelle variabili studiate, secondo l’ipotesi che la coesione e l’alleanza sono fenomeni dinamici e non statici. Un ulteriore follow-up oltre a quello effettuato avrebbe consentito di valutare gli effetti delle due variabili anche più a lungo termine.

Un ulteriore limite è messo in evidenza dagli studi sugli errori nella metodologia di ricerca i quali indicano che anche costrutti non correlati spesso sono altamente correlati se misurati con lo stesso metodo (Allen & Yen, 1979). Poiché nella presente indagine tutti i costrutti sono stati misurati con questionari rivolti a osservatori esterni, i risultati positivi, relativi alla correlazione tra le sottoscale, potrebbero riflettere, in qualche misura, gli effetti del metodo, anziché correlazioni tra i costrutti che i questionari intendono misurare (Johnson, Burlingame, Olsen, Davies & Gleave, 2005).

 

Note sull’applicazione degli strumenti

 

Da parte dei giudici che hanno fornito le valutazioni è stata riscontrata una forte difficoltà a rispondere ad alcune domande dei questionari a causa della struttura dell’intervento di Mental Fitness. Soprattutto per il WAI, nonostante sia uno strumento costruito su un modello panteorico di alleanza è stato difficile riscontrare, nelle sedute dell’intervento, alcuni elementi e alcune dinamiche indagate dal questionario.

Alcuni item, inoltre, sembrano più adatti a interventi meno strutturati e di maggior durata rispetto al Mental Fitness, a interventi che permettano di approfondire la percezione dei singoli partecipanti rispetto a ciò su cui si focalizza l’attenzione nel gruppo e a interventi che lascino maggior spazio all’esposizione delle problematiche e dei punti di vista dei pazienti.

Anche per la GCS è stato difficile individuare alcune variabili da indagare e attribuire la giusta importanza agli elementi apparentemente significativi e spesso poco evidenti. Inoltre, alcuni costrutti potevano essere interpretati secondo modalità personali ed è stato difficoltoso per i due giudici riuscire a individuare indicatori di riferimento sui quali basare le valutazioni.

 

Suggerimenti per ricerche e studi futuri

 

I limiti sopra elencati non permettono di generalizzare i risultati ottenuti, ma offrono uno spunto di riflessione per ulteriori ricerche.

Sarebbe interessante compiere uno studio con un campione più ampio, che preveda un numero maggiore di partecipanti per ogni gruppo e che confronti le valutazioni dell’alleanza e della coesione fornite dalle diverse fonti possibili (paziente, terapeuta e osservatore esterno).

Occorre approfondire maggiormente come alcune variabili quali: le caratteristiche sociodemografiche, il modello teorico del terapeuta e la popolazione dei pazienti influiscono sulla forza e sulla struttura dei fattori della relazione.

Ulteriori studi potrebbero indagare maggiormente la sovrapposizione tra i costrutti della relazione nella terapia individuale e di gruppo e valutare quali misure, disegnate per la terapia individuale, hanno proprietà psicometriche adeguate e significati simili se applicate al contesto della terapia di gruppo. Si potrebbero indagare maggiormente la validità e l’affidabilità degli strumenti, soprattutto per il loro utilizzo combinato negli studi sulla relazione tra processo ed esito nella psicoterapia di gruppo.

L’approfondimento delle variabili moderatrici e l’attenzione per le questioni metodologiche aumenterebbero la chiarezza sulla loro concettualizzazione e operazionalizzazione.

Se la ricerca realizzasse progetti che integrino i diversi livelli in gioco nel campo terapeutico, fornirebbe un grosso contributo anche alla clinica. Le reti di ricerca sulla valutazione delle psicoterapie, fondate su una cultura dello scambio e del confronto tra ricercatori e clinici consentirebbero di avviare circuiti virtuosi per una migliore comprensione di ciò che avviene nel percorso di cura, al di là del modello teorico di riferimento.

 

 

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  • Martin, D.J., Garske, J.P., & Davis, M.K. (2000). Relation of the therapeutic alliance with outcome and other variables: a meta-analytic review. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68:3, 438-450.
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  • Strauss, B., Burlingame, G.M., & Bormann, B. (2008). Ricerca sul processo della psicoterapia di gruppo. In G. Lo Coco G., C. Prestano & G. Lo Verso (Eds.) L’efficacia clinica delle psicoterapie di gruppo. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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APPENDICE A

Tabelle illustrative

 

 

Tabella 1. Correlazione di Pearson tra le sottoscale del WAI e i residui standardizzati delle misure d’esito

 

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

Tabella 2. Correlazione di Pearsion tra le sottoscale della GCS e i residui standardizzati delle misure d’esito

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

Tabella 3. Coefficiente di correlazione di Pearson tra le sottoscale del WAI e le sottoscale della GCS in ultima seduta per i pazienti e alla prima seduta

per il campione di specializzandi

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

 SCARICA TABELLE 

 

AUTORE: 

Chiara Scarampi. Questo articolo è un estratto della tesi di laurea magistrale discussa in data 07/11/2012 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino – Corso di Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità

Anno accademico 2011 – 2012 . Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

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Il senso della vita in Still life (2013) di Uberto Pasolini – Cinema & Psicologia

 Still life

di Uberto Pasolini (2013)

RECENSIONI DI STATE OF MIND

Still-Life-film-2013. - immagine: Locandina

E ci si chiede, è questo il senso? È questo il senso tragico della vita che non ha ricompensa ma trova la risposta ogni momento nella moralità di ogni gesto?

Guardando il film “still life”, film bellissimo di uberto pasolini che non si può perdere,  colpisce fin quasi dalla prima scena l’ossessività e la ripetitività dei riti quotidiani del protagonista, come  appende il suo cappotto, come sistema le penne sulla scrivania, come risponde a ogni telefonata.

John May è un piccolo impiegato comunale che ha il compito di rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine tentando di coinvolgerli per seguire il funerale. Quando non li trova o quando i parenti si rendono irreperibili o non desiderano essere coinvolti, (le persone che muoiono sole spesso avevamo dei terribili caratteracci) John May ha il compito di seppellire dignitosamente le persone sole. E John lo fa in modo serio scrupoloso, ossessivo per ciascuno, cerca la religione, le preferenze musicali per l’ultima cerimonia, e appoggia gli oggetti preferiti dentro la tomba delle persone scomparse. 

A John May che parla pochissimo, questo lavoro piace, è come se rispondesse al suo bisogno di mettere in ordine il mondo, non solo da un punto di vista estetico, ma soprattutto morale. John May è uno Giusto che pensa che ogni persona abbia valore e ogni morte sia degna di essere ricordata. Il film è la descrizione della fine di questo mondo e della sua uscita dal lavoro.

Il municipio si modernizza, le tecnologie cambiano, e lui, si lui è un po’ lento. In questa promessa di fine John May ha  un ultimo caso, quello di Billy Stoke, un rissoso,  violento, anche se a tratti eroico personaggio, che è morto completamente solo e separato dal mondo.  Alcolista, incapace di mantenere gli affetti importanti,  è stato anche mendicante, paracadutista e probabilmente pessimo padre.

In uscita dal lavoro John chiede alcuni giorni al suo municipio per completare il suo ultimo caso, e lentamente ricostruisce la trama affettiva di questa vita perduta, un vecchio amico paracadutista, la figlia offesa e ferita, una vecchia amante. Questo peregrinare ha nel film il colore solenne e sublime della giustizia, della responsabilità umana, del ringraziamento alla vita.  Lui percorre tutta la strada fino alla fine brusca e inaspettata della sua stessa vita.

E ci si chiede, è questo il senso? È questo il senso tragico della vita che non ha ricompensa ma trova la risposta ogni momento nella moralità di ogni gesto?

Pasolini in realtà chiude il film con una scena che non serve. Ma questo è a volte il problema della letteratura e del cinema, e forse della nostra stessa vita, la difficoltà ad accettare una fine talmente tragica e l’idea che la speranza occorra per dare un senso finale alle nostre esistenze.

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Come rappresentiamo il tempo? Il passato…è a sinistra!

 

 

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Per rappresentare e spiegare a noi stessi il tempo costruiamo mentalmente sequenze di eventi correlati tra loro e organizzati in modo cronologico lungo una linea temporale; per questo motivo molte persone in Occidente pensano al passato come a sinistra e al futuro come a destra.

Traccia una linea verticale su una pagina, scrivi quello che hai mangiato per cena ieri e quello che hai intenzione di mangiare domani. Se sei europeo senza dubbio hai scritto il menu della cena di ieri a sinistra di quello della cena di domani.

Questo succede perché per rappresentare e spiegare a noi stessi il tempo costruiamo mentalmente sequenze di eventi correlati tra loro e organizzati in modo cronologico lungo una linea temporale; per questo motivo molte persone in Occidente pensano al passato come a sinistra e al futuro come a destra.

Un team di ricercatori dell’Università di Ginevra si sono chiesti se la capacità di evocare mentalmente una linea del tempo sia una parte necessaria del ragionamento su eventi cronologici.

Hanno reclutato sette soggetti europei con con neglect dell’emisfero sinistro, cioè persone che a causa di lesioni cerebrali unilaterali all’emisfero destro hanno difficoltà ad esplorare lo spazio controlaterale alla lesione (cioè quello sinistro) e non sono  consapevoli degli stimoli presenti in quella porzione di spazio esterno o corporeo e dei relativi disordini funzionali; ad esempio possono mangiare solo dal lato destro del piatto, radere solo la parte destra del viso e ignorare i numeri sul lato sinistro di un orologio .

Il team ha reclutato anche sette volontari che hanno subito danni al lato destro del cervello ma non presentavano neglect emisferico, e sette persone prive di danni cerebrali.

Tutti i volontari hanno preso parte a una serie di test di memoria. In primo luogo hanno imparato un po’ di cose su un personaggio immaginario chiamato David, gli sono state poi mostrate le immagini di quello che a David piaceva mangiare 10 anni fa e di quello che avrebbe potuto piacergli nell’arco dei prossimi 10 anni. I partecipanti sono stati poi mostrati i disegni di 10 dei cibi preferiti di David , più quattro alimenti che non avevano mai visto prima . I partecipanti dovevano dire se era un cibo che a David era piaciuto in passato o se avrebbe potuto piacerli in futuro. Il test sono stati ripetuti con oggetti nell’appartamento di David e con i suoi vestiti preferiti.

Le persone con neglect emisferico riuscivano a ricordare solo alcuni, pochi, dei cibi e degli oggetti, in particolare il ricordo degli elementi del passato di David era più scarso di quello degli elementi relativi al futuro e commettevano anche più errori quando gli elementi si riferivano al passato. In pratica le persone con neglect emisferico avevano difficoltà a immaginare il lato sinistro della loro sequenza temporale.

Questi risultati suggeriscono che i concetti di tempo e spazio hanno una base neurale nel cervello e la capacità di rappresentare visivamente lo spazio della mente è fondamentale per la nostra capacità di ricordare e ragionare sugli eventi che si verificano cronologicamente.

Sarebbe interessante vedere se le persone con neglect dello spazio destro hanno problemi con eventi che dovrebbero verificarsi nel futuro, dicono i ricercatori, ma questi tipi di sintomi sono rari poiché le aree cerebrali che rappresentano lo spazio si trovano prevalentemente nell’emisfero destro.

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Psicoanalisi: intervista con Lucio Sarno – I Grandi Clinici Italiani

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Lucio Sarno

Psicoanalista, Didatta della Società Psicoanalista Italiana (SPI)

State of Mind  intervista Lucio Sarno, Psicoanalista e Didatta della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Professore Ordinario di Psicologia Clinica e Psicoterapia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

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La formazione in psicoterapia. Quale scuola scegliere dopo la laurea? – Recensione

La formazione in psicoterapia - RecensioneLa formazione in psicoterapia: “Quale scuola scegliere dopo la laurea?”. E’ questo il quesito su cui noi psicologi ci interroghiamo dopo aver conseguito il diploma di laurea in vista di un futuro da psicoterapeuta.

Quale sarà l’orientamento e, quindi, la scuola che ci permetterà di diventare dei terapeuti? Il manuale La formazione in psicoterapia – Quale scuola scegliere dopo la laurea?, a cura di Alberto Zucconi ed edito da Alpes, offre un valido strumento per orientarsi nella scelta della scuola di specializzazione all’interno di un panorama costellato da approcci psicoterapeutici differenti per origine, base teorica, tecniche psicoterapeutiche.

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Il testo comprende 10 capitoli relativi alla storia della psicoterapia internazionale, agli aspetti qualitativi della formazione e alla figura dello psicoterapeuta, più una parte conclusiva che raccoglie un elenco di tutte le Scuole di specializzazione presenti in Italia. La parte iniziale propone una classificazione storica e descrittiva delle psicoterapie e delle varie correnti psicologiche, dalla psicoanalisi al movimento cognitivo-comportamentale fino agli approcci più recenti, tra cui l’approccio umanistico che, intorno alla metà degli anni ’50, si propone come “terza via” rispetto alla psicoanalisi e al movimento comportamentale, con l’obiettivo di assumere una prospettiva sociale nell’ambito del pensiero psicologico.

Tale classificazione ha lo scopo di esplorare sinteticamente le diversità dei paradigmi e come questi si sono sviluppati nel corso degli anni. Punto focale del manuale, su cui si concentra buona parte della riflessione dell’autore, riguarda i processi che assicurano la qualità interna ed esterna dei corsi di studio terziari (universitari e post secondari) di fondamentale importanza all’interno del processo di qualificazione delle Scuole. In Italia questo aspetto è garantito dal Coordinamento Nazionale Scuole private di Psicoterapia (CNSP), un’associazione fondata nel 1989 senza fini di lucro che “opera per promuovere la qualità e la trasparenza nella formazione e difendere i legittimi diritti delle scuole afferenti a tutti i vari approcci psicoterapeutici”.

Insieme alla Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP), questa Istituzione dà voce ai maggiori rappresentanti della psicoterapia in Italia. Una prima parte del libro, quindi, è incentrata soprattutto sulle Istituzioni e sui processi che hanno lo scopo di garantire la qualità nella formazione post-lauream. Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che nel mondo circa 450 milioni di persone soffre di disturbi mentali e che la richiesta di trattamento di queste malattie attualmente eccede l’offerta di accesso della popolazione.

Questo allarme porta con sé la necessità di garantire sia la qualità delle cure psicologiche offerte che quella della formazione psicoterapeutica. L’autore sottolinea l’esigenza di migliorare l’efficacia dei corsi di formazione in psicoterapia e dei servizi erogati dai diversi approcci attraverso la promozione sistematica della ricerca all’interno di ogni scuola, in vista di un miglioramento nella pratica clinica.

Successivamente il testo si focalizza sulla figura dello psicoterapeuta e sulla definizione delle competenze professionali implicate in questa professione. Chi è lo psicoterapeuta e quali capacità mette a disposizione in ambito clinico? La definizione di queste competenze delinea l’identità di questo specialista ed è utile per definire ulteriormente i percorsi formativi in questo settore, per chiarire l’identità della professione, il suo operato e il processo di costruzione della figura dello psicoterapeuta.

L’ultima parte del libro raccoglie informazioni descrittive di tutti gli Istituti di Psicoterapia abilitati in Italia e delle Scuole di specializzazione in ambito psicoterapeutico. Per ogni Scuola di formazione si presenta il modello teorico di riferimento, i fondatori, la storia, indirizzi e contatti utili, docenti, affiliazioni con organismi scientifici nazionali ed internazionali, pubblicazioni, attività culturali svolte, orari e costi del corso. 200 pagine di informazioni utili presentate in modo chiaro e dettagliato, da offrire agli studenti come strumento per muoversi più abilmente nella ricerca della scuola.

Questa raccolta, infatti, chiarisce approfonditamente il panorama attuale delle Scuole di psicoterapia in Italia, in un formato comodo e facilmente accessibile allo studente.

Questo testo rappresenta uno scritto utile e ben strutturato ed offre un quadro esaustivo dell’attuale situazione della psicoterapia nel nostro Paese, dello sviluppo storico dei paradigmi, dei processi che garantiscono la qualità della formazione e soprattutto un elenco completo degli Istituti di Psicoterapia abilitati e delle Scuole di Psicoterapia nel nostro Paese, da sfogliare e consultare nel momento in cui ci si affaccia al mondo della formazione post-universitaria.

 

Scopri le Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale in Italia del network Studi Cognitivi

Guardare altrove: Blue Jasmine, di Woody Allen (2013) – Recensione

 

 

Guardare altrove

Recensione

Blue Jasmine (2013)

di Woody Allen.

 

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Blue Jasmine di Woody Allen - RecensioneBlue Jasmine: il bel film di Woody Allen racconta la fine dell’epoca garrula e chiacchierona, ricca e cinica dell’America precrisi. E la racconta con una storia emblematica.

La storia la sapete, e questa non è una recensione cinematografica ma vuole essere una notazione su alcune cose di area psicologica che mi hanno colpito nel film.

Un aspetto importante, di tipo sociale, è il racconto degli aspetti dolorosamente irrealistici, narcisistici al limite dell’antisocialità di una certa forma di successo economico dell’America dei fondi e dei prodotti di investimento non convenzionali (Madoff insegna).

Dove il lusso esagerato ostentato senza scrupolo alcuno nell’accumulo disordinato di oggetti di status è l’unico piano che delinea una vita degna di essere vissuta. “L’avidità è un istinto naturale e la dipendenza dai soldi è molto simile a quella per la droga. È difficile essere equilibrati” (da Di Caprio che commenta il suo ultimo film: The Wolf of Wall Street).

Questo film è come se fosse concentrato tutto sul marito di Jasmine. Mentre Blue Jasmine è concentrato sulle donne che guardano altrove, The Wolf of Wall Street è concentrato sulla follia avida che genera il denaro in alcuni uomini.

E’ molto bella la descrizione di questa coppia, Hal e Jasmine, che vivono tra New York e Martha’s Vineyard, e si vede la loro confusione, il vuoto, la fragilità della coppia, si vede anche la loro solitudine. Tra amici, cene e braccialetti di Tiffany, la relazione tra i due è una delle cose dolorose del film. Quella donna poteva trovare un uomo che la costringesse a una relazione di intimità autentica? No, e quando lo trova, lo perde perché una vicinanza autentica lei non sa cosa sia.

La storia è quella di Jasmine bella donna di 40 anni, che si trova a affrontare il trauma della perdita di tutto ciò che era la sua vita precedente. E arriva nella casa di sua sorella (da New York a San Francisco,) per cercare un qualche rifugio. Il marito le ha comunicato la volontà di andarsene, con un’altra donna. Poi è stato incarcerato, poi lei ha perso ogni cosa, poi lui è morto. Lei non ha più niente.

Si è detto che è una donna fragile, sì una donna fragile, incapace di affrontare la vita, incapace di guardare veramente ciò che il marito le fa firmare, di rendersi conto della inautenticità del marito e delle sue relazioni, di approfondire, di analizzare e di ragionare. Ha il bisogno di sognare una vita fastosa e senza problemi, leggera e invidiabile.

Jasmine non era in grado di affrontare la realtà prima della disgrazia, preferiva voltarsi altrove e sognare, e ora dopo il tracollo non è in grado di guardare l’errore delle sue scelte, di aver sposato questo marito, di non avere mai deciso di uscire dall’ invenzione di una vita perfetta, di non avere abbastanza studiato, di non essersi abbastanza concentrata e protetta.

Viene da pensare che sia Jasmine che sua sorella Ginger, entrambe adottate, abbiano temi dolorosi, molto dolorosi alle spalle. Per la sorella questo dolore, questo essere quella geneticamente inferiore, meno bionda, meno alta, meno bella, ha voluto dire imparare a volare basso, ad accontentarsi di una vita un po’ sfortunata e faticosa e povera, ma le ha imposto la capacità di essere a volte duramente realista e così salvarsi.

Per Jasmine, che era quella “dai geni buoni”, più bella e più bionda, che ha volato più alto, che si è tenuta più lontana dai temi dolorosi, l’incontro con la realtà, con il fallimento di tutte le sue relazioni, di tutti i suoi progetti di vita, non lascia piani alternativi, è semplicemente impossibile. E come reagisce? Il film lo mostra in modo molto chiaro e insieme delicato.

Jasmine reagisce in modo sempre uguale: usa la dipendenza (da alcool, da pillole), a volte diviene dissociata, si allontana dalla situazione che sta vivendo, straparla, parla da sola, si racconta agli altri non vedendoli, non ascoltandoli mai, inventa una vita diversa. Un altro suo modo di reagire è il disprezzo verso la normalità e tutto quello che sa di “normale”, “squallido” e poco elegante.

Ma a volte, quando viene messa alle strette ha anche crisi di rabbia disregolata, ad esempio urlando a sua sorella, al ragazzo di sua sorella, Chili, uscendo dalla macchina del suo nuovo fidanzato, Dwight, quasi in corsa, quando si accorge di essere stata smascherata, oppure facendo atti impulsivi che qui non svelerò, e con questo decretando sì la fine della carriera (e della vita di suo marito) ma anche la sua stessa rovina.

Jasmine era sola quando era sposata con suo marito, era sola con le sue amiche al bar, era sola nel mondo luccicante della sua vita di prima, ed è sola quando è in casa con la sorella e i nipoti, e infine è sola seduta su quella panchina che dialoga con i fantasmi della sua vecchia vita.

Ma un bravo clinico avrebbe potuto salvarla?

 

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Fumare altera la normale funzionalità del ritmo circadiano

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una recente ricerca pubblicata sul numero di gennaio 2014 di “The FASEB Journal” aggiungerebbe una nuova motivazione a tutti i fumatori  per smettere di fumare. Il fumo, infatti, così come responsabile dell’insorgere di patologie tumorali e cardio-vascolari, distruggerebbe la normale funzionalità del ritmo circadiano sia nei polmoni che nel cervello, causando di conseguenza sia disturbi cognitivi che dell’umore, in particolare depressione e ansia.

Rahman e collaboratori hanno utilizzato due gruppi di topi che erano stati collocati in spazi ricchi di fumo di sigaretta per far si che inalassero tabacco per periodi brevi (3 e 10 giorni) e lunghi (6 mesi).

Uno dei due gruppi veniva esposto solo all’aria pulita e l’altro gruppo era esposto al fumo di più sigarette durante il giorno. I ricercatori hanno poi monitorato i loro pattern di attività giornaliera attraverso la misurazione dell’espressione dei geni responsabili dell’espressione del ritmo circadiano, dei ritmi circadiani dell’attività locomotoria, della funzionalità polmonare e della risposta infiammatoria polmonare.

I risultati hanno mostrato che l’esposizione al fumo di sigaretta altererebbe l’espressione genica e ridurrebbe l’attività locomotoria distruggendo i regolatori del ritmo circadiano sia a livello periferico che a livello centrale e incrementando l’infiammazione polmonare, causando enfisema nei topi.

L’esposizione al fumo a breve e lungo termine in particolare diminuirebbe l’espressione di SIRTUIN1 (SIRT1), molecola anti-aging, e di conseguenza questa riduzione altererebbe il livello della proteina BMAL1 (Brain and Muscle Arnt-like proteine), responsabile della regolazione del ritmo circadiano, sia nei polmoni che nei tessuti cerebrali nel topo. Studi precedenti infatti hanno mostrato che la proteina BMAL1 veniva influenzata da SIRT1, e nello specifico che la diminuzione di SIRT1 danneggiava l’espressione di BMAL1, causando quindi un’alterazione del ciclo del sonno nei topi e nell’uomo, nello specifico nei fumatori e nei pazienti affetti da ostruzione bronco-polmonare cronica (BPCO). È noto inoltre dalla letteratura che pazienti affetti da BPCO mostrano anomalie del ritmo circadiano a livello della funzionalità polmonare.

I ricercatori hanno inoltre osservato che topi carenti di SIRT1 esposti al fumo di tabacco mostravano un drammatico declino nella loro attività mentre questo effetto era attenuato nei topi con una sovra espressione di questa proteina o trattati con un attivatore farmacologico appunto di questa proteina anti-aging SIRT1.

Questo studio ha trovato un circuito comune mediante il quale il fumo di sigaretta influenzerebbe sia la funzionalità polmonare che le funzioni neurofisiologiche. In aggiunta, questi risultati suggeriscono il possibile valore terapeutico dell’identificare composti farmacologici mirati a questo circuito per migliorare sia la funzionalità sia polmonare che cerebrale nei fumatori e siamo speranzosi riguardo agli sviluppi che le nostre scoperte potrebbero fornire al trattamento di questi pazienti affetti da patologie legate appunto al tabagismo”  afferma Irfan Rahman, Ph.D., ricercatore coinvolto in questo lavoro svoltosi all’interno del Department of Environmental Medicine at the University of Rochester Medical Center in Rochester, N.Y.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos – Recensione

Pink Freud.

Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos.

Di Angelo Villa (2013) – Mimesis Editore

 

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Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d'autore

Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos. Immaginiamo un esperto psicanalista lacaniano, grande appassionato di musica, che fa accomodare sul proprio lettino Sua Maestà il rock (ma anche il folk…) e che questo particolare paziente si esprima tramite la forma comunicativa che gli è più congeniale: la canzone.

L’analista lavora per associazioni partendo dalle canzoni, ma anche dalle storie psicologiche di chi le ha scritte. L’autore si è documentato in modo approfondito traendo preziosi dati anamnestici dalle biografie delle rockstar e dei cantautori, che notoriamente spesso assomigliano a delle cartelle cliniche, soprattutto se si tratta di songwriter che hanno vissuto gli anni sessanta e settanta. La lunga seduta psicanalitica parte dai trovatori, i precursori dei cantautori, e da Freud che non amava la musica, ma che riconosceva che “Quando il viandante canta nell’oscurità rinnega la propria apprensione”.

Nella lunga carrellata di personaggi troviamo: le oscillazioni del senso di identità di Bob Dylan; le pulsioni edipiche di Jim Morrison esplicitate nel celeberrimo brano The end; il lutto non elaborato per la perdita del padre di Leonard Cohen; parte della produzione solista di John Lennon, influenzata da un complesso rapporto con la figura materna; l’identificazione di Fabrizio De Andrè con i reietti protagonisti delle sue canzoni e alcune interessanti ipotesi psicodinamiche sulle prostitute che compaiono in tanti brani di Faber; un capitolo sulle cantautrici capitanate dalla martire del rock Janis Joplin.

Le analisi sono interessanti, anche se chiaramente molto dense di teoria psicanalitica. Quindi può capitare di leggere che “la dimensione pulsionale si riflette con forza” nella celeberrima “svolta elettrica” di Bob Dylan, o che “la fantasia di Imagine invoca un mondo materno”. Le interpretazioni sono suggestive, anche se tolgono un po’ di magia alle canzoni, che speso nascono come geniali inafferrabili intuizioni.

Credo che il pregio più grande di questo libro, oltre alla perizia e alla profondità con cui vengono osservati tanti frammenti di cultura pop, sia l’importanza e la dignità che l’autore dedica alle canzoni come forme espressive ricche di significati.

L’autore sottolinea come la canzone nella nostra epoca, si sia in parte sostituita a quello che nei secoli scorsi era il romanzo di formazione. Non mi risulta ci siano tanti psicanalisti che si siano avvicinati all’argomento canzone, mentre abbondano studi e dissertazioni su altre forme espressive come la pittura (si pensi a quanto è stato scritto su Munch e quante volte è stato utilizzato il suo L’urlo) o il cinema (i cineforum con i film di Bergman…).

I cantautori, o i “nuovi trovatori” come li definisce Villa, esprimono cantando i disagi, le aspettative e le contraddizioni della propria generazione e possono riempire il vuoto narrativo del mondo postmoderno. Per questo meritano grande attenzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dislessia: Da KO a OK! Il font ad alta leggibilità EasyReading

Di Massimo Rondi

 

Dislessia- Da KO a OK! - Disturbi specifici dell'apprendimento (DSA). -Immagine:© Fiedels - Fotolia.com Sono dislessico e collaboratore editoriale. Binomio impossibile? Assolutamente no. Le case editrici si sono presto accorte che un collaboratore dislessico è un’opportunità.  Perché quello che va bene per un dislessico va benissimo  per tutti i lettori.

Avete mai pensato che allo specchio le lettere KO diventano esattamente il contrario?

OK

Mi viene in mente che Leonardo da Vinci (mancino e dislessico) era capace di scrivere al contrario, da destra verso sinistra e dall’ultima pagina verso quella iniziale (“Storie di normale dislessia” di Rossella Grenci e Daniele Zanoni).

La scrittura è una convenzione recente per il nostro cervello. Non è intuitiva neppure la “direzione”, da sinistra a destra o da destra a sinistra.

E il modo di leggere “dislessico” potrebbe essere giusto in un altro sistema di scrittura.

Secondo le stime più recenti la dislessia oggi interessa almeno il 10% della popolazione mondiale, ovvero circa 700 milioni di persone. E la dislessia può apparire sotto molte e diverse forme, rendendo difficile la diagnosi quando il problema si manifesta.

Sono dislessico e collaboratore editoriale. Binomio impossibile? Assolutamente no. Le case editrici si sono presto accorte che un collaboratore dislessico è un’opportunità.  Perché quello che va bene per un dislessico va benissimo  per tutti i lettori.

E la mia esperienza di lettore  per professione e per piacere si è sempre scontrata con la grafica della pagina scritta.

Per fortuna, rispetto al passato, tanto si sta muovendo nell’universo dei caratteri agevolanti per le difficoltà di lettura. Altre ricerche (come quella del Centro Risorse – Clinica Formazione e Intervento in Psicologia: Gradimento e prestazione nella lettura in Times New Roman e in EasyReading® di alunni dislessici e normolettori della classe quarta primaria)  perseguono, con risultato affermativo, l’obiettivo di verificare se la preferenza per un carattere sia giustificata da un effettivo aumento in termini di velocità di lettura e correttezza, nei normolettori e nei dislessici.

Come semplice lettore con DSA,  mi piacerebbe iniziare uno scambio di idee tra dislessici adulti sui font in uso: che poi sempre con questi dobbiamo comunque fare i conti, nella realtà, sia cartacea sia elettronica.

Ci sono soluzioni che sembrano miracolose: usiamo il tablet e sconfiggeremo i problemi…

Molto interessanti a questo riguardo le riflessioni e le conclusioni della professoressa Roberta Penge, raccolte da Tina Simonello su Repubblica (19/11). Il titolo dell’articolo così sintetizza: “Dislessia. Se un tablet velocizza la lettura”, ma in realtà il testo ci fa capire una volta di più che non basta l’idea astratta di tablet, perché la scrittura non è un elemento impercettibile, tutt’altro.

Le ricerche di questi ultimi anni hanno evidenziato alcuni dati comuni.

Scrive la professoressa Penge: «Un supporto che permette di modificare l’aspetto del testo funziona molto bene per i dislessici con difficoltà più di tipo visuospaziale, ma rappresenta sicuramente un aiuto valido anche per i cosiddetti dislessici linguistici (la cui difficoltà ha a che vedere più con il linguaggio, con la decodificazione dei segni in suoni)».

Come Edo di Roberta Moriondo (Edo non sa leggere. E’ dislessico. Proprio come Einstein) che scambia Voce e Foce.

L’effetto affollamento è sempre in agguato per noi dislessici: quella foresta, peggio: quel muro senza appigli che può diventare la pagina scritta.

Lo studio di Marco Zorzi, docente di Psicologia e intelligenza artificiale all’università di Padova, in collaborazione con l’istituto Burlo Garofalo di Trieste e l’università di Aix en Provence-Marsiglia, pubblicato sulla rivista Pnas  (vedi: Il Secolo XIX – 19-06-12), ha puntato l’obiettivo sull’affollamento percettivo: aumentando la spaziatura tra lettere di un testo si ottengono migliori performance di lettura. (Leggi: Dislessia e Perceptual Crowding: un App per facilitare la lettura)

Anche altri elementi possono confondere chi ha difficoltà di lettura: «Il tipo di carattere per esempio», il disegno del carattere in sé.
In effetti per me (dislessico compensato) il Times New Roman ha un po’ troppe grazie ma l’Arial è troppo “rotondo”, indifferenziato, soprattutto in alcuni caratteri (dbpq  oppure “u” e “n” rovesciato)..

L’OpenDyslexic del designer Abelardo Gonzales utilizza l’effetto zavorra per ancorare le lettere alla riga e impedire che girino, “capottino” etc. I non dislessici non lo amano, solitamente, e io stesso non mi sento sciolto nella lettura. Bene ha fatto Biancoenero®  “a non accentuare la differenza di questa font con altre in uso nei testi per ragazzi, per non disorientare il lettore”.

Dal video Dislessia & Design un non dislessico può avere un’idea di cosa sia la dislessia. Il Design For All è quello del font ad alta leggibilità EasyReading:

carattere ibrido che si propone di evitare l’effetto affollamento con ampi spazi calibrati (automatici) tra parole, punteggiatura, lettere, righe.

Lo scambio percettivo, possibile con Arial, è evitato o almeno reso difficile dalla “forte caratterizzazione”e dalle grazie dedicate (non troppe come in Times New Roman, solo quelle necessarie).  Anche EasyReading se è “eccellente per i dislessici”, è pure  “ottimo per tutti”.

LEGGI:

DISLESSIA – DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO -DSA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Contenuti virali sulla rete? Devono emozionare – Comunicazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Cosa rende un articolo, un post o un video virale in rete? Il segreto della viralità è nelle emozioni che il contenuto telematico è in grado di evocare in chi lo guarda: un mix di emozioni positive e negative sembra essere la formula perfetta, in grado di superare in potere virale sia i contenuti neutri che quelli che suscitano emozioni prevalentemente negative o positive.

Nello specifico è il livello di arousal a determinare quanti click riceverà un contenuto in rete,  e più alto è l’arousal più virale sarà la diffusione del post. Rabbia e senso dell’umorismo, ad esempio, sono emozioni ad alto arousal, contentezza e tristezza a basso arousal.

Un team di ricercatori della National Science Foundation ha mostrato a 256 individui un video, parte di una collezione di video in grado di abbracciare tutto lo spettro emotivo. Alcuni di loro hanno visto una selezione di clip carini o divertenti che erano stati virali su YouTube, altri hanno visto un video di successo che evocava rabbia o disgusto. Altri ancora hanno visto un video neutro sul basket.

Dopo la visione, ai partecipanti al test è stato chiesto se avrebbero voluto condividere i video. Coloro che avevano visto il video divertente e quelli che avevano visto il video che evocava rabbia o disgusto erano significativamente più propensi alla condivisione di quelli che avevano visto il video neutro sul basket. Un test di follow-up con 163 partecipanti ha trovato lo stesso modello di potenziale virale: sono le emozioni negative e quelle positive le più virali.

Il contagio emotivo, insomma, funziona anche indirettamente, con la condivisione di articoli o video in rete.

Alcuni anni fa, due studenti del Wharton Behavioral Laboratory  hanno analizzato circa 7.000 articoli apparsi sul sito del New York Times per vedere quali avevano ricevuto più condivisioni. Dopo il controllo per fattori, come la rilevanza della pagina e la fama dell’autore, i ricercatori hanno trovato che i pezzi “emotivi” erano di gran lunga più virali di quelli non-emozionali .

All’interno degli articoli virali, i ricercatori hanno studiato le emozioni evocate scoprendo un’ alta frequenza di quelle ad alto arousal (timore, rabbia e ansia, tutte emozioni che che ci spingono ad agire), rispetto a quelle a basso arousal (come ad esempio la tristezza, legate a maggiore passività).

Alla luce di questi risultati Berger, autore nel 2013 del libro “Contagious: Why Things Catch On”, ha condotto uno studio e ha chiesto ai partecipanti di sedersi prima di leggere un articolo neutro, o di fare jogging sul posto per un minuto prima di leggere lo stesso pezzo. Poi ha dato ai partecipanti la possibilità di condividere il pezzo letto con qualcuno: tre quarti dei joggers lo hanno condiviso, contro solo un terzo di quelli che erano rimasti seduti prima della lettura. Questo, secondo Berger, è un segno ulteriore dell’importanza che il livello di arousal riveste nella trasmissione sociale.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Ambientale: gli effetti psicologici dei luoghi che abitiamo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio di Psicologia Ambientale della Newcastle University ha indagato gli effetti della permanenza (anche minima, 45 minuti) di 50 volontari in un quartiere ad alto tasso di criminalità.
E’ bastato un breve tempo per sviluppare un grado di paura e paranoia paragonabile a quello dei residenti.

“We weren’t surprised that the residents of our high-crime neighbourhood were relatively low in trust and high in paranoia”, says lead researcher Professor Daniel Nettle of the Institute of Neuroscience at Newcastle University. “That makes sense. What did surprise us though was that a very short visit to the neighbourhood appeared to have much the same effects on trust and paranoia as long-term residence there.”

The results suggest that people respond in real time to the sights and sounds of a neighbourhood – for example, broken windows, graffiti and litter – and that they use these cues to update their attitudes concerning how other people will behave.

 

The psychological effects of the environment – Press Office – Newcastle UniversityConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Spending as little as 45 minutes in a high-crime, deprived neighbourhood can have measurable effects on people’s trust in others and their feelings of paranoia. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LINK all’articolo scientifico


Articoli di Psicologia Ambientale
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Survey online per indagare quali caratteristiche del benessere psicologico e familiare sono influenzate maggiormente dal cambiamento climatico
È in uscita il nuovo singolo di Psicantria: ECOANSIA!
Il nuovo singolo Ecoansia di Psicantria ci fa a riflettere sul tema del cambiamento climatico e sui suoi effetti sulla salute mentale
Affrontare il cambiamento climatico con intelligenza emotiva
L’intelligenza emotiva può giocare un ruolo per affrontare dal punto di vista psicologico temi complessi come il cambiamento climatico
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L'impatto negativo del cambiamento climatico sulla salute e sul benessere degli individui è sempre più grave e frequente
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La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, di Christopher Bollas – Recensione

Erica Salomone.

 

Recensione

La mente orientale. Psicoanalisi e Cina

Christopher Bollas (2013)

Cortina Editore

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La mente orientale - RecensioneL’ultimo libro di Christopher Bollas, il cui titolo originale è “China on the Mind”, si presenta come un’ampia  ricognizione di natura letteraria e filosofica sulla forma mentis orientale, ricca anche di digressioni di carattere autobiografico; è in corso la sua traduzione in cinese presso l’Università di Pechino.

Bollas, Americano di nascita e inglese d’adozione, con questo testo si sporge verso l’Oriente per individuare passaggi culturali e riflettere sulla pratica clinica, come prima di lui Carl Gustav Jung, Wilfred Bion, Nina Coltart, Masud Khan e molti altri. La prima parte del libro, Preconcezioni, prende in considerazione i tre testi classici della cultura orientale: Il libro delle odi, Il libro dei riti, Il libro dei mutamenti  (“I Ching”: di quest’ultimo se ne occupò ampiamente Jung). La seconda parte, Realizzazioni, prende in considerazione gli autori che interpretano e rappresentano i testi madre nei propri scritti, poi diffusi nella cultura cinese; gli scritti di Lao Tzu, Confucio, Zhuangzi ed altri sono collegati da Bollas al pensiero psicoanalitico contemporaneo, in particolare a Winnicott e a Khan.

La terza parte, Concettualizzazioni, prende in esame la psicologia sociale della mente individuale e di gruppo, indagando in  particolare i possibili nessi tra il pensiero psicoanalitico di Bion sui gruppi ed esamina il fiorente interesse per la psicoanalisi in Cina.

Appartenente alla tradizione psicoanalitica britannica degli “Indipendenti”, ovvero quel gruppo di psicoanalisti che non intendevano schierarsi né con la tradizione Viennese di Anna Freud, né dalla parte di Melanie Klein, Bollas ha introdotto nei suoi primi lavori1, 2  il concetto di “conosciuto non pensato”, ovvero ciò che ci è in qualche modo noto, ma che non possiamo pensare. Conosciute ma non pensate sono le prime esperienze preverbali del bambino, così come l’interazione tra le comunicazioni transferali del paziente e il controtransfert dell’analista.

Ne La mente orientale, il “conosciuto non pensato”  del metodo psicoanalitico viene messo in relazione da Bollas con l’immediatezza dell’essere e del relazionarsi orientali, che non si affidano al linguaggio per spiegare, ma al piu’ per evocare con le immagini della poesia.. Da qui scaturisce la riflessione-avvertimento di Bollas: secondo l’autore la psicoanalisi è, per definizione, in grado di operare un’integrazione tra la struttura della mente occidentale e quella orientale; tuttavia quest’ultima componente, materna e associativa, è stata nel tempo progressivamente rimossa a favore di un causalistico, paterno pensiero occidentale.

Scrive Bollas nell’introduzione: “quando si fa riferimento alla differenza tra modo di pensare orientale e occidentale, non si parla di menti diverse, ma di diverse parti della mente. Storicamente, il pensiero orientale propende per forme di pensiero basate sull’ordine materno, mentre il pensiero occidentale riflette forme di pensiero provenienti dall’ordine paterno” (p. 13).

Oriente come pensiero presentazionale, preverbale, collettivo, correlativo e sincronico; Occidente come pensiero rappresentazionale, verbale, individuale, causale e diacronico. Tale schema non viene introdotto da Bollas come assoluto, ma come chiave di lettura per comprendere come dalla scissione di una mente originaria unica si siano generate due opposte visioni del mondo.

La psicoanalisi, quale filosofia introspettiva occidentale fondata su entrambi gli ordini di pensiero, comprende al suo interno la stessa dinamica di opposti. Se infatti nel pensiero psicanalitico classico è prevalente un’impostazione di pensiero di tipo patriarcale, in quanto il ruolo del padre nella formazione della struttura psichica sembra in Freud marginalizzare la relazione madre-bambino, quest’ultimo aspetto è comunque rappresentato secondo Bollas nell’invenzione stessa del setting, cioè quel processo e nucleo della relazione che sono il cuore della psicanalisi. Gli aspetti legati al “codice materno” che privilegia forme di comunicazione non verbale, la capacità di stare da soli, l’essere piuttosto che il fare sono ancora più evidenti nella tecnica clinica sviluppata successivamente da Donald Winnicott e Masud  Khan in Inghilterra.

La psicoanalisi contemporanea può e deve, secondo Bollas, operare una nuova integrazione interna tra gli aspetti occidentali e quelli orientali, riconciliando Freud con Winnicott. Nel libro Bollas associa la pratica psicoanalitica alle immagini della tradizione poetica orientale: la poesia, infatti, nella quale la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla sua tesi secondo cui “il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale” (p. 27). Bollas trova altri parallelismi tornando all’idea di “idioma”, centrale nel suo pensiero.  L’ “idioma umano”, ovvero  di “quel nucleo unico di ciascuno […] che, in circostanze favorevoli, può svilupparsi e articolarsi” (2, p.226) si costituisce gradualmente a partire dalle prime esperienze del bambino. Il nostro idioma, e l’idioma di chi incontriamo, non sono una forma statica, ma un processo, una serie di trasformazioni che avvengono nel corso della vita. È anche però una struttura integrata dell’essere, una fonte di energia psichica (come il Vero Sé di Winnicott) che protegge l’individuo dall’ambiente. Ripercorrendo i testi classici della cultura cinese, Bollas ritrova questo concetto nella “semplicità del senza nome” e nell’ “insegnamento senza parole” indicati da Lao Tzu nel Tao come ciò che ci può aiutare ad affrontare il nostro percorso individuale (Tao significa “la Via”).

Nell’ultima parte, Bollas si sofferma sulle prescrizioni rituali e convenzionali dell’Oriente: “Possiamo vedere nelle culture di Cina, Corea e Giappone migliaia di anni di sforzi per integrare l’interiorità del sé individuale con la trasparenza del sé sociale” (p.163) e cita il progetto intellettuale di Mao Zedong di creare una mente collettiva integrando Marx e Lenin con Confucio come esempio, “pur grossolano e criticabile”, di mettere in relazione Oriente e Occidente.

Il libro sembra pertanto aprire prospettive sociali e politiche che vanno al di là dell’ambito di interesse strettamente psicologico e psicanalitico.  Tuttavia, nell’epoca della selvaggia globalizzazione dei mercati a scapito dei diritti individuali e della distruzione ambientale in atto a livello planetario, l’auspicio di Bollas di avvicinarsi ad Est si riferisce ad un Oriente antico e ideale e non alle sue manifestazioni storiche concrete (come forse fa trapelare il sottotitolo, qui si parla della Cina che Bollas “ha in mente” e non dell’Oriente di oggi, come ha sottolineato acutamente Vittorio Lingiardi su Il Sole 24 Ore3).

Da un punto di vista clinico invece, Bollas si augura per la psicoanalisi che possa ritrovare gli aspetti materni rimossi e coniugare “l’inclinazione orientale per l’idioma-potenziale della forma con l’interesse occidentale per la parola detta” (p. 164).

Un approccio capace di tale integrazione sarà anche in grado, dice Bollas, di accompagnare l’interesse crescente della Cina per la psicoanalisi.

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

LEGGI ANCHE:

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE – TRANSFERT – SIGMUND FREUD

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORE: 

Erica Salomone Ph.D. Psychologist, Research Officer at Centre for Research in Autism and Education, Institute of Education, University of London

Nonostante tutto… W Peppa Pig! – Bambini & Psicologia

 

 

W Peppa Pig! Nonostante tutto… - Bambini & Psicologia - Immagine: © 2004-2014 Astley Baker Davies
Immagine dalla serie televisiva di animazione Peppa Pig. © Astley Baker Davies

Sì è vero, Peppa è a volte irriverente, prepotente, femminista e occasionalmente crudele ma quale cinquenne non lo è?! Credo che la simpatia che i bambini nutrono nei confronti di Peppa derivi proprio dalla facilità con cui ci si identificano.

Tutti i bambini amano o hanno amato, prima di averne fatto indigestione, Peppa Pig.

Merito della programmazione no stop e del merchandising sconfinato?

Forse… Ma non solo, a mio parere.

Peppa Pig, per chi abbia fatto ritorno sul pianeta Terra solo ieri e non ne avesse mai sentito parlare, è un cartone animato di enorme successo dedicato ai bambini in età prescolare ma apprezzato anche dai più grandicelli.

Narra le vicende di Peppa, graziosa maialina di 5 anni, della sua famiglia e dei suoi amici multietnici, appartenenti cioè a diverse specie animali.

Il mio rapporto, da madre, con Peppa è caratterizzato da una forte ambivalenza: la adoro al calare delle tenebre, quando i miei adorabili figli si trasformano in creature affamate e lamentose e la maialina rosa è l’unica cosa, priva di zuccheri, che li tiene lontani dalla cucina mentre cerco di rimediare in tempi record una cena degna di questo nome. La detesto in ugual misura al sorgere del sole quando il mio apparato uditivo, ancora appagato dalle uniche ore di silenzio a lui concesse, subisce la violenza dei grugniti della famiglia Pig, lo strimpellare di Madame Gazzella o le canzoncine del grammofono di Nonno e Nonna Pig.

Quel che penso, da psicologa, è che si tratti di un buon prodotto da proporre ai bambini, soprattutto se riconosciamo alla televisione lo scopo di intrattenere (con ragionevole moderazione) i nostri figli più che di educarli.

Sì è vero, Peppa è a volte irriverente, prepotente, femminista e occasionalmente crudele ma quale cinquenne non lo è?!

Credo che la simpatia che i bambini nutrono nei confronti di Peppa derivi proprio dalla facilità con cui ci si identificano. La vita della famiglia Pig è su per giù la vita di una famiglia qualsiasi: i bambini vanno all’asilo, giocano al parco con gli amici e vanno a trovare i nonni. Niente di eccezionale direte voi ma per i bambini la quotidianità è ancora qualcosa di straordinario e mi piace che questo cartone rispetti questa visione attraverso la curiosità dimostrata da Peppa nei confronti di qualsiasi cosa la circondi.

Un’altra cosa che apprezzo è che questo mondo rosa si macchi ogni tanto di litigi, incomprensioni, piccole trasgressioni e disobbedienza perchè anche questo fa parte della vita di tutti i giorni. Mamma e Papà Pig danno delle regole ai figli ma permettono loro di verificare gli esiti della loro inosservanza, Peppa litiga con la compagna Suzy Pecora perchè così fanno le amiche del cuore e Papà Pig demolisce mezza casa nel tentativo di appendere un quadro a dimostrazione del fatto che anche i genitori sbagliano. Il lieto fine è comunque sempre garantito dall’epilogo della puntata che vuole tutti i protagonisti scomposti in una sonora e contagiosa risata, dando la possibilità ai giovani telespettatori di osservare le vicende più drammatiche (mi riferisco ad un pancake mal riuscito al massimo) con la rassicurante consapevolezza che tutto si risolverà nel migliore dei modi.

C’è un’altra cosa tanto rassicurante per i piccoli quanto snervante per noi adulti: la ripetitività.

La sigla è semplice e ridondante e dal momento che il più delle volte ad una puntata ne seguono diverse altre, capita di riascoltarla spesso. La programmazione è a dir poco invasiva, permettendo ai fan di gustare l’episodio con rassicurante prevedibilità. La pacata voce narrante supporta i dialoghi ribadendone i contenuti e anticipando i possibili e tipici “perchè” dei bambini di questa età.

In linea con lo sviluppo cognitivo dell’audience sono anche la durata delle puntate (5 minuti), la ridotta complessità dei dialoghi e la struttura lineare della trama, costruita attorno ad un unico tema centrale. Anche le canzoni contenute nel cartone sono di breve durata, i testi semplici e la melodia assolutamente orecchiabile, forse anche troppo visto che mi sono ritrovata a cantarle sotto la doccia.

I disegni sono stilizzati intelligentemente. Predominano forme semplici ed essenziali come il cerchio, gli occhi sono posizionati entrambi sul laterale del viso modello “sogliola” , le case sfidano la gravità sul cucuzzolo di una collina e tutto è vivacemente colorato. Tutto ciò non può non ricordare proprio il tipico disegno infantile e così la maialina non conquista solo i nostri televisori ma invade anche i fogli bianchi dei nostri bambini.

Insomma un prodotto davvero indicato, nonostante anche su peppa Pig siano piovute critiche e teorie complottistiche frutto forse di un atteggiamento genitoriale che tende a giudicare con eccessiva serietà e severità ogni prodotto destinato all’infanzia.

Sarà mica colpa, anche in questo caso, della smania di controllo nei confronti dei nostri figli?!

LEGGI:

BAMBINI TELEVISIONE – TV SERIES

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Facebook: le regole di buona condotta – Psicologia dei New media

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Così come ci sono regole non scritte di lunga data che disciplinano il modo in cui ci comportiamo con gli altri, oggi esistono aspettative su come ci si dovrebbe comportare su Facebook.

Con oltre un miliardo di utenti nel mondo, Facebook è diventato una parte importante della vita sociale . Così come ci sono regole non scritte di lunga data che disciplinano il modo in cui ci comportiamo con gli altri, oggi esistono aspettative su come ci si dovrebbe comportare su Facebook.I ricercatori della Trinity University hanno condotto uno dei primi studi volto a scoprire in cosa consistono queste regole.

Erin Bryant e Jennifer Marmo hanno condotto sei focus group con 44 studenti per gruppo (età 19-24), nei quali hanno chiesto ai partecipanti di fare un brainstorming sulle norme sociali che regolano le interazioni su Facebook. Dai diversi focus group sono emerse un totale di 36 regole.

Successivamente, queste regole sono state mostrate a 593 soggetti di età compresa tra 18-52 anni e gli è stato chiesto di dire quanto rispettavano ciascuna di queste regole nell’interazione abituale con un amico scelto all’interno della cerchia FB.

13 delle regole emerse dai focus group hanno ricevuto l’approvazione da parte dei partecipanti al sondaggio, eccole:

– mi aspetto una risposta da una persona se posto qualcosa sul suo profilo

– non dovrei dire niente di irrispettoso su un amico di FB

– dovrei considerare che ciò che posto sulla pagina di un amico può influenzarlo negativamente 

– se posto qualcosa sulla pagina di un amico e questo rimuove il post non dovrei  pubblicarlo nuovamente

– dovrei comunicare con questa persona anche al di fuori di Facebook

– dovrei presentarmi positivamente ma onestamente agli altri

– la comunicazione via FB con una persona non dovrebbe interferire con ciò che faccio sul lavoro

– non dovrei mettere su FB informazioni che qualcuno in futuro potrebbe usare contro di me 

– dovrei usare il buon senso nell’interagire con gli altri su FB

– dovrei considerare che ciò che posto può influire negativamente sulla carriera di un amico di FB

– dovrei dire a un amico di FB buon compleanno in un modo diverso dal solo uso di FB 

– dovrei proteggere l’immagine di un amico FB quando posto qualcosa sul suo profilo

non dovrei leggere troppo in Facebook le motivazioni di una persona

Una quattordicesima regola che ha quasi raggiunto l’approvazione complessiva dai partecipanti al sondaggio era: devo essere consapevole che ciò che qualcuno posta su di me può avere conseguenze nel mondo reale.

Guardando di nuovo all’intero elenco delle 36 regole, i ricercatori hanno trovato che queste sono raggruppabili in cinque distinte categorie: 

  • i canali di comunicazione (ad esempio, dovrei usare Facebook per chiacchierare con un amico)
  • il controllo e l’inganno (ad esempio, bloccare chi compromette la mia immagine)
  • manutenzione relazionale (ad esempio, dovrei usare Facebook per comunicare buon compleanno a un amico)
  • conseguenze negative per il sè (ad esempio, non postare informazioni che qualcuno potrebbe usare contro di me)
  • conseguenze negative per gli altri (per esempio, dovrei proteggere l’immagine on-line degli amici)

Un altro risultato è stato che le categorie di regole che erano considerate più importanti variavano a seconda del tipo di amico a cui ci si riferiva. Regole di comunicazione e quelle che regolano la protezione degli amici sono considerate tanto più importanti quanto più è importante l’amicizia. Le regole di manutenzione della relazione, invece, sono più importanti quando ci si relaziona con amici e conoscenti occasionali, forse perchè con gli amici più cari c’è una relazione anche al di fuori del canale FB.

Lo studio ha evidenti limiti: il fatto di riferirsi a un campione di studenti statunitensi e anche il fatto che i comportamenti reali su FB non sono stati osservati. Tuttavia questo studio esplorativo può servire come punto di partenza per la ricerca futura per quanto riguarda il tema delle regole di interazione sociale nell’era digitale; secondo i ricercatori, per esempio, sarebbe interessante studiare cosa accade quando queste regole vengono infrante.  

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEPSICOLOGIA DEI NEW MEDIASOCIAL NETWORK

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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