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Prostituzione minorile: quale il ruolo delle famiglie? – Psicologia

Prostituzione minorile. - Immagine: © Superingo - Fotolia.comProstituzione minorile: Baby squillo arrestate! Baby squillo, parlano! Baby squillo, il giro si allarga! Queste sono alcune delle informazioni che leggiamo, di recente, sui quotidiani. Sembrano termini antitetici, contrastanti, eppure succede questo: le ragazzine si prostituiscono! Il solo pensare all’associazione tra ragazzine e squillo fa male, crea sgomento, sconforta.

È difficile riflettere sui bambini e legare a questa parola il termine “prostituzione“, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, non rappresenta mai una libera scelta. Usare, dunque, l’aggettivo prostituiti, rende più chiaro il concetto che dietro ogni bambino prostituito c’è qualcuno che ha voluto esplicitamente ridurlo a merce. Comunque, anche quando un minore offre “volontariamente” servizi sessuali lo fa perché indotto da situazioni oggettive e cogenti, in primis la povertà. Solitamente i minori prostituiti provengono da situazioni di emarginazione e di miseria, non a caso, la maggioranza di essi ha origini umili (Bressan, 1999). Ma al degrado economico e sociale si affianca il deterioramento familiare. Infatti, in tutto il mondo la vulnerabilità dei bambini rispetto allo sfruttamento sessuale risiede innanzitutto nelle condizioni di vita e familiari, sia economiche sia emotive (Ambrosini, 2002).

Quanto accaduto di recente, al contrario di quanto comunemente succede, coinvolge bambini/adolescenti che appartengono ad un ceto medio-alto per i quali la prostituzione può essere considerata una scelta autonoma dettata da una forte ribellione interiore, da un grande bisogno di trasgredire che nasce dalla speranza di attirare l’attenzione, classico adolescenziale, di una famiglia distante e disattenta, e di colmare un vuoto esistenziale attraverso la conquista di una disponibilità economica che consenta un facile acquisto di beni (Brown, 2006). Equivale a dire che l’adolescente afferma se stesso attraverso il denaro facile e per questo si sente un adulto. Si tratta di rispondere a delle esigenze dettate dal consumismo vigente nella società contemporanea dove il denaro può tutto, o piuttosto una questione di breakdown adolescenziale? Forse, una commistione di cause!

Spesso sono minori che appartengono ad ambienti familiari deteriorati, disfunzionali, inesistenti, dove ogni membro è sempre impegnato in qualcos’altro di più importante al punto da non vedere il figlio, non considerarlo e non parlare con lui. Si valutano scontati degli aspetti di vita quotidiana che in realtà non lo sono affatto, e il non detto diventa la copertura e il falso consenso al comportamento inadeguato.

Spesse volte si ha a che fare con famiglie monogenitoriali, dove la madre sola, già vittima di disavventure, ha dovuto gestire come poteva la prole, magari senza risorse cognitive alle quali attingere. Quindi, l’adolescente abbandonato e senza regole, senza confini, non messi per rispondere a delle esigenze di falso amore permettendogli tutto, sopperendo a grosse lacune dettate dall’assenza emotiva, ha potuto superare l’insuperabile: vendere il proprio corpo in cambio di denaro!

La cosa che colpisce è che nessuno accenna mai alla figura del padre. Che ruolo hanno nella crescita delle figlie, che funzione svolgono? Eppure, dati clinici fanno propendere per una funzione determinate nella crescita psico-sociale delle figlie. Ma non esistono, non sono presenti in queste famiglie, sia materialmente che emotivamente. Sono sempre impegnati in altro, diverso da ciò che la famiglia richiede, lavoro, affari, interessi. Sembrano estranei e sconosciuti a dei meccanismi di deterioramento familiare, dove ciò che conta è l’apparire (Rohner, & Veneziano, 2001).

In letteratura si evidenzia come questa assenza determina, spesso, nelle adolescenti l’insorgenza di comportamenti non socialmente condivisibili, e torniamo all’inizio del nostro scritto, alla prostituzione.

Spesso si minimizza l’importanza dei padri nello sviluppo soprattutto della figlia, rispetto alla tanto studiata e dibattuta relazione madre-figlia. Ma la relazione padre-figlia è determinante per la creazione del benessere. Infatti, un rapporto qualitativamente buono tra padre e figlia provoca in quest’ultima maggiore benessere psicologico, definito in termini di autostima, migliore soddisfazione di vita e scarso disagio psicologico (Allgood, Beckert, & Peterson, 2012). Insomma, è la qualità del rapporto che è in grado di trasmettere una sensazione di sostegno, d’amore, e nutrimento per le figlie (Chao, 2011). Quando questa qualità non è presente è possibile si possa ricercarla in fittizie relazioni a pagamento dove attimi di finto amore creano l’illusione di un benessere che non esiste, e i soldi potrebbero rinvigorirlo e portare la ragazzina a pensare di poter affermare se stessa attraverso un comportamento adulto, in cui il materialismo del corpo e dei soldi cedono il posto al benessere psichico (Schwartz, & Finley, 2006).

Ma il corpo giovane porterà le cicatrici dei traumi subiti nel tempo.

 

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BAMBINI E ADOLESCENTIGRAVIDANZA E GENITORIALITA’FAMIGLIA – SESSO – SESSUALITA’

ASPETTARE PER IL PRIMO RAPPORTO SESSUALE? FORSE CONVIENE

 

BIBLIOGRAFIA:

Alimentazione: Le buone abitudini cominciano nella pancia della mamma

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori del Monell Chemical Senses Center , un’organizzazione di ricerca no-profit di Philadelphia, hanno scoperto che una dieta variata durante la gravidanza e l’allattamento favorisce nei futuri nati un maggiore apprezzamento per una vasta gamma di sapori; queste preferenze inoltre si sviluppano nell’infanzia e continuano nell’età adulta.

Sulla base di questi risultati i ricercatori ritengono che le preferenze alimentari che si sviluppano in periodi cruciali nella prima infanzia hanno effetti duraturi per tutta la vita.  Infatti cambiare  le preferenze alimentari dall’infanzia all’età adulta sembra essere estremamente difficile.

I ricercatori hanno identificato diversi periodi sensibili per lo sviluppo del gusto. Uno è prima di tre mesi e mezzo di età , per questo motivo ciò che la madre mangia durante la gravidanza e l’allattamento è così importante .

I neonati esposti a una varietà di sapori nell’infanzia sono più disposti ad accettare una varietà di sapori nell’arco dell’intera vita. Questo è un elemento importante perchè il tipo di alimentazione nella prima infanzia getta potenzialmente le basi per una corretta educazione alimentare anche nell’adulto e si pone come importante elemento di prevenzione nei confronti delle cattive abitudini alimentari e dei diffusi problemi di sovrappeso e obesità, così comuni anche nell’infanzia.

C’è un’altra ragione per cui queste esposizioni hanno un impatto permanente, dicono i ricercatori: “Questa esposizione precoce porta ad un fenomeno simile all’ imprinting, per cui i sapori preferiti veicolano anche un attaccamento emotivo.”

Un altro recente studio condotto presso il centro di ricerca dell’Università di Adelaide ha rilevato che l’esposizione a una “cattiva” dieta materna (cibi che altamente energetici, e con un alto contenuto di grassi e zuccheri) ha indotto nei bambini una preferenza per questi stessi alimenti .

L’esposizione al junk food in utero e attraverso il latte materno porta la prole una desensibilizzazione per cibi dolci e grassi; alla base di questo ci sarebbe l’indebolimento di un percorso di ricompensa, mediato dalla maggiore espressione del gene per un recettore degli oppioidi. Come per una dipendenza da droghe è necessario assumere una maggiore quantità della sostanza, in questo caso grassi e dolci, per ottenere un senso di appagamento.

Altre ricerche hanno evidenziato che i sapori dolci hanno un effetto analgesico sui neonati e i bambini ma che questo effetto è ridotto nei bambini obesi, forse a causa  di qualche perturbazione nel sistema degli oppioidi, per cui i bambini obesi hanno bisogno di maggiori quantità di alimenti dolci per ottenere lo stesso effetto calmante dei bambini normopeso.

Questi studi mettono in discussione l’etica della commercializzazione di alimenti di scarsa qualità per i bambini e lattanti.

LEGGI:

ALIMENTAZIONEBAMBINIGRAVIDANZA E GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La Gelotofobia: la paura di essere derisi. Psicologia – Fobia Sociale

 

La gelatofobia. -Immagine: © Andrey Armyagov - Fotolia.com

La gelotofobia è una paura intensa e irrazionale di essere derisi o di essere oggetto di scherno e può essere concepita come una particolare forma di fobia sociale. 

Avete mai sentito qualcuno dire; “soffro di gelatofobia?”. No?!? Eppure, pare sia una sindrome molto diffusa! Spiacente, non significa avere paura dei gelati ma la gelotofobia è una paura intensa e irrazionale di essere derisi o di essere oggetto di scherno e può essere concepita come una particolare forma di fobia sociale. 
Ognuno di noi è più o meno sensibile alle critiche altrui, ma i gelotofobici esasperano i giudizi ricevuti al punto che qualsiasi intervento umoristico è considerato un attacco personale. Non si tratta solo di essere permalosi, ma di una difficoltà da parte di questi soggetti di interpretare correttamente l’umorismo, che viene pertanto vissuto esclusivamente come fonte di umiliazione. Pare che questi gelotofobici siano assolutamente incapaci di distinguere una risata canzonatoria da una risata sprezzante,  il riso finto da quello sarcastico. Inoltre, pensano spesso che l’oggetto di ogni derisione  siano proprio loro, maleinterpretando il linguaggio non verbale, la mimica facciale, il tono della voce, insomma tutti quegli elementi che possono in qualche modo far intendere quale sia l’oggetto del discorso.

Il gelatofobico, con estrema ingenuità, tende ad autoriferire a se stesso sempre e comunque quello che si sta dicendo. A quel punto, in preda alla rabbia e alla vergogna, sentendosi vittima di umiliazione abbandona malamente la situazione nella quale si trova. 

Anche se in compagnia e stanno trascorrendo una piacevole serata i gelotofobici percepiscono le risate positive come sgradevoli o maligne. E’ possibile che queste persone siano state oggetto di derisione nel loro passato, in maniera precoce, al punto da aver “imprintato” la paura reale o immaginata di essere sempre e comunque l’oggetto di risate e di scherno.
Questi episodi, inoltre, sarebbero stati percepiti con un livello di disagio e sofferenza significativamente più alto rispetto agli altri, che provoca un disagio molto forte da un punto di vista emotivo.

Infatti, l’umiliazione spesso cede il passo alla tristezza che potrebbe diventare patologica.

L’incidenza della gelotofobia è particolarmente alta in Asia dove, tra l’altro,  il tema del “salvare la faccia” è piuttosto condiviso da un punto di vista socio-culturale, quindi il timore del giudizio è vissuto in maniera significativamente più alta rispetto ad altre situazioni sociali.

E tu, sei un gelatofobico?

LEGGI:

ANSIA ANSIA SOCIALE -FOBIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Omogenitorialità – Lo stato dell’arte in letteratura scientifica

Gruppo Psicologi Arcobaleno. ArciGay Torino

 

 

 

Omogenitorialità - Lo stato dell'arte in letteratura scientifica. -Immagine:© redkoala - Fotolia.com

Adulti equilibrati e amorevoli (uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, bisessuali o trans) possono essere ottimi genitori.

Il termine “omogenitorialità” è un neologismo che descrive tutte quelle situazioni familiari in cui almeno un adulto omosessuale è il genitore di almeno un bambino.

L’omogenitorialità si manifesta quindi principalmente in due condizioni:

▪   il desiderio di maternità e di paternità nelle persone gay, lesbiche, bisessuali e trans;

▪   la responsabilità paterna e materna delle persone omosessuali che nelle loro storie precedenti (anche eterosessuali, quindi) hanno avuto figli.

In Italia questo è un tema delicato e complesso in quanto non esiste una regolamentazione giuridica in merito: le persone e le coppie omosessuali rischiano così una specie di clandestinità sociale e si sentono ignorate anche in famiglie già esistenti, dove ad essere coinvolti non sono solo gli adulti stessi, ma a volte anche i loro figli.

Le famiglie omogenitoriali ormai costituiscono una realtà vasta e variegata (è stato stimato che in Italia circa centomila minori crescono con almeno un genitore omosessuale), che merita un riconoscimento sul piano sociale, giuridico e psicologico.

In una società costantemente in evoluzione, non esiste più solo la famiglia-tipo con padre-madre-figli, ma si osservano sempre più diversi modelli di famiglia in cui alcuni pilastri fondamentali sono messi in discussione, in quanto non coincidono più necessariamente i genitori biologici e i genitori sociali (cioè tutte quelle persone che si definiscono “genitore”, ma che non ne hanno il “diritto biologico”).

È il caso per esempio delle famiglie “ricomposte”, dove i figli di un genitore divorziato convivono nella stessa famiglia con il nuovo partner della madre o del padre.

Ed è il caso delle famiglie omogenitoriali.

Falsi miti e pregiudizi sulle famiglie omogenitoriali

Prima di approfondire l’omogenitorialità gay e lesbica crediamo sia utile ricordare quali stereotipi continuano ancora oggi a circolare quando ci riferiamo ad una famiglia composta da due uomini o due donne e i rispettivi figli.

Il pregiudizio più radicato è sicuramente quello relativo al fatto che i figli devono avere una madre e un padre nel senso biologico del termine.

Resistono poi tutti quei pregiudizi legati all’orientamento omosessuale come malattia: le lesbiche e i gay non sono in grado di crescere un figlio, le lesbiche sono meno materne delle altre donne, i gay sono pedofili.

E ancora: le relazioni omosessuali maschili sono promiscue e meno stabili di quelle eterosessuali e quindi non offrono garanzia di continuità familiare, oppure l’idea che i figli di persone omosessuali siano a maggior rischio di problemi psicologici di quelli di persone eterosessuali o che diventino più facilmente omosessuali (anche se in fondo basterebbe pensare che un figlio gay nasce e cresce seguendo il proprio orientamento omosessuale in una famiglia eterosessuale).

Madri lesbiche, padri gay: cosa dice la ricerca scientifica internazionale in psicologia

Negli ultimi anni sono state presentate numerose ricerche scientifiche che evidenziano come l’orientamento sessuale dei genitori non incide sullo sviluppo “sano” ed equilibrato dei loro figli.

Le più grandi e accreditate associazioni americane e inglesi di psicologia e psichiatria, come l’American Psychological Association (APA), l’American Psychiatric Association e la British Psychological Society, dopo più di vent’anni di studi, si sono pubblicamente schierate a favore del diritto al matrimonio e all’adozione per le persone omosessuali.

I risultati delle ricerche internazionali dimostrano che i figli di genitori gay o lesbiche si sviluppano emotivamente, cognitivamente, socialmente e sessualmente esattamente come i bambini che hanno genitori eterosessuali. L’orientamento sessuale dei genitori è molto meno importante dell’avere genitori che li amino e li educhino.

Per esempio l’American Psychological Association ha dichiarato:

«Non esiste alcuna prova scientifica che l’essere dei buoni genitori sia connesso all’orientamento sessuale dei genitori medesimi: genitori dello stesso sesso hanno la stessa probabilità di quelli eterosessuali di fornire ai loro figli un ambiente di crescita sano e favorevole. La ricerca ha dimostrato che la stabilità, lo sviluppo e la salute psicologica dei bambini non ha collegamento con l’orientamento sessuale dei genitori, e che i bambini allevati da coppie gay e lesbiche hanno la stessa probabilità di crescere bene quanto quelli allevati da coppie eterosessuali».

L’American Psychoanalytic Association risponde a chi sostiene che avere genitori omosessuali è contro l’interesse del bambino:

«È nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale».

E anche l’American Association of Child and Adolescent Psychiatry ribadisce l’assenza di rischi neuropsichiatrici nelle famiglie omogenitoriali:

La base su cui devono reggersi tutte le decisioni in tema di custodia dei figli e diritti dei genitori è il migliore interesse del bambino […] Non ci sono prove a sostegno della tesi per cui genitori con orientamento omo o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio, a confronto con orientamento eterosessuale. Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato a una patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo o bisessuali, messi a confronto con genitori eterosessuali, non depongono per un maggior grado di instabilità nella relazione genitori-figli o disturbi evolutivi nei figli“.

In una ricerca condotta su 14.000 madri di bambini nati in un anno in Inghilterra, un campione di 19 famiglie costituite da una coppia lesbica è stato confrontato con un gruppo di 74 famiglie eterosessuali e con 60 madri single. Ebbene, non è stata rilevata nessuna differenza rispetto ai seguenti parametri: coinvolgimento emotivo, soddisfazione materna, frequenza dei conflitti, supervisione dei figli, comportamenti dei bambini osservati dai genitori e dagli insegnanti, autostima e presenza di disordini psichiatrici (Golombok et al., 2003).

Questi risultati sono stati confermati da un’altra indagine effettuata su un campione di soggetti (più di 12.000 adolescenti), grazie alla quale è stato possibile constatare che i ragazzi e le ragazze con due madri unite da un legame matrimoniale non presentavano differenze sistematiche con i loro pari riguardo autostima, depressione, ansia, successo scolastico, integrazione con i vicini e autonomia personale (Wainright, Russell, Patterson, 2004).

Anche l’Ordine nazionale degli psicologi italiani, nel 2012, in occasione della Giornata mondiale contro l’omotransfobia, conferma «la necessità di riconoscere come irrinunciabile e indispensabile la possibilità degli omosessuali di vivere desideri, affetti, progetti di vita e genitorialità senza bisogno di nascondersi o temere o subire discriminazioni e aggressioni».

In Australia, la Melbourne University ha avviato una ricerca nel 2012 che si concluderà nel 2014 e coinvolge 500 minori e 315 genitori gay, lesbiche, bisessuali e queer: anche i primi risultati suggeriscono che i bambini che vivono in questi contesti familiari hanno uno sviluppo normale in termini di benessere fisico, mentale e sociale.

Ha preso posizione anche l’American Academy of Pediatrics a sostegno delle famiglie omogenitoriali e dell’adozione per le coppie gay e lesbiche.

Il 20 marzo 2013 pubblica un importante documento in cui ribadisce le conclusioni di una ricerca pubblicata nel 2006 (Pawelski et al., 2006):

«Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori […] Nonostante le disparità di trattamento economico e legale e la stigmatizzazione sociale, trent’anni di ricerche documentano che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli e che il benessere dei bambini è influenzato dalla qualità delle relazioni con i genitori, dal senso di sicurezza e competenza di questi e dalla presenza di un sostegno sociale ed economico alle famiglie».

Dai risultati della stessa ricerca è emerso che, su 500 bambini studiati, nessuno ha dimostrato evidenze di confusione rispetto alla propria appartenenza di genere, al desiderio di appartenere all’altro sesso né ha avuto comportamenti di travestitismo.

Inoltre, se è vero che bambini che crescono e vivono in famiglie omogenitoriali devono battersi maggiormente contro gli effetti della discriminazione sociale (la stigmatizzazione e l’atteggiamento omofobico possono essere considerati i soli motivi per cui l’orientamento sessuale dei genitori può avere influenza sui figli), i risultati delle ricerche suggeriscono che è il rapporto tra genitori e figli il fattore determinante nel predire la relazione del bambino e dell’adolescente con i pari, piuttosto che variabili strutturali come la composizione della famiglia (Wainright, Patterson, 2008).

In conclusione, adulti equilibrati e amorevoli (uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, bisessuali o trans) possono essere ottimi genitori. I bambini di coppie gay crescono sani e felici se la coppia è formata da adulti responsabili e attenti, crescono con disturbi se i genitori sono poco attenti ai loro bisogni.

Esattamente come accade per una coppia eterosessuale.

LEGGI:

LGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDER SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA BAMBINIADOLESCENTIGRAVIDANZA & GENITORIALITA’FAMIGLIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

GLI AUTORI DELL’ARTICOLO:

Psicologi Arcobaleno – Arcigay Torino “Ottavio Mai”

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I disturbi del sonno e la loro influenza sul disagio psico-sociale

Viviana Spandri.

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio recente condotto dal gruppo di ricerca del Dott. G. Neil Thomas dell’Università di Birmingham (UK), ha dimostrato che la qualità del sonno è fortemente correlata con i disturbi dell’umore e un più basso livello di qualità di vita negli individui affetti da obesità di grado severo.

Per questo studio sono stati arruolati 270 individui con un indice di massa corporea (BMI) di 47.0 kg/m2, che sono stati successivamente presi in carico da un servizio regionale specializzato nella gestione del peso corporeo. I partecipanti avevano un’età media di 43 anni. I disturbi legati alla sfera del sonno, il grado di sonnolenza esperito durante il giorno, i disturbi dell’umore e la qualità di vita sono stati valutati mediante questionari standardizzati.

Andando ad analizzare i risultati di questo studio è emerso che il 74.8% dei partecipanti era caratterizzato da una breve durata del sonno: questi individui infatti riportavano una durata media di 6 ore e 20 minuti di sonno a notte. Il 52% dei partecipanti a questo studio soffriva inoltre di una sintomatologia di tipo ansiosa, mentre il 43% presentava una deflessione del tono dell’umore. Un’accurata analisi statistica ha permesso di concludere che la qualità del sonno e il grado di sonnolenza giornaliera erano significativamente correlati con i disturbi dell’umore e il livello di qualità di vita, dopo aver controllato l’effetto di numerose variabili confondenti tra cui il sesso, l’età, l’ipertensione, il diabete e la sindrome da apnea ostruttiva del sonno, che frequentemente accompagnano l’obesità.

Questo studio enfatizza l’importanza per la sanità di introdurre nella routine strumenti standardizzati di screening per i disturbi legati al sonno, in particolare tra i pazienti obesi. Migliorare la qualità e la quantità di sonno potrebbe incentivare fisicamente, emotivamente e mentalmente questi pazienti, già costretti a fronteggiare i cambiamenti negativi nello stile di vita che l’obesità comporta.

Il ruolo potenziale del sonno sul benessere degli individui con un livello severo di obesità sembrerebbe essere stato quindi, fino ad oggi, sottovalutato. Sebbene il disegno di questo studio sia cross-sectional, e quindi non permetta di indagare il legame di causalità tra le variabili studiate, i risultati emersi potrebbero suggerire che una precoce identificazione dei disturbi legati al sonno potrebbe prevenire potenzialmente lo sviluppo e il perpetuarsi del disagio psicologico presente negli individui con un livello di obesità severo.

Nonostante gli innumerevoli disturbi e problemi che affliggono questi pazienti infatti, nella pratica comune non vengono indagati i disturbi appartenenti alla sfera del sonno e viene spesso anche prestata poca attenzione al disagio psicologo, in quanto ad oggi la routine prevede di focalizzarsi principalmente nel trattamento dell’obesità e delle complicanze mediche ad essa relate, come ad esempio l’impostazione di uno specifico programma alimentare e di esercizio fisico, invece di andare ad analizzare le cause di questa patologia, che potrebbero essere ricondotte a qualche forma di disagio psicologico o allo stress.

Queste scoperte sono importanti per il futuro, in quanto l’obesità colpisce ad oggi il 37.5% degli adulti negli Stati uniti, che ha un indice di massa corporea superiore a 30.

 

LEGGI ANCHE:

 SONNODISTURBI DEL SONNODISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – DCA

INSONNIA CRONICA: ALCUNI ASPETTI COGNITIVI E COMPORTAMENTALI

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La relazione Madre-Bambino: un micro-cosmo diadico

 

 La relazione Madre-Bambino: un micro-cosmo diadico

L’importanza delle interazioni nei primi mesi di vita per lo sviluppo emotivo, sociale e cognitivo del bambino.

 

La relazione madre bambino un micro cosmo diadico. - Immagine: ©-Svetlana-Fedoseeva-Fotolia.comLa diade madre-bambino è un mondo chiuso all’esterno e ricco al suo interno, definito dai confini stessi della diade. Le prime interazioni sono fini a se stesse e il loro unico scopo è quello di interagire: sono due i partecipanti e non esiste altro che le loro espressioni facciali, la loro vocalizzazione, la loro emotività.

È una comunicazione affettiva a scopo interno. Madre e bambino nel loro agire e reagire, costituiscono un luogo all’interno del quale il bambino pone le fondamenta di una delle più sviluppate aree della sua competenza: la lettura e interpretazione dei segnali e delle espressioni emotive dei comportamenti altrui (Barone, 2009).

Diversi studi hanno dimostrato come il bambino sia dotato di una sensibilità sociale alla nascita, caratterizzata da una preferenza per facce, sguardo diretto e imitazione, un vero “preadattamento” (Schaffer, 1984) che lo predispone al rapporto sociale e che emerge sia nell’ambito delle capacità espressive e dell’organizzazione comportamentale che in quello delle capacità percettive (Lavelli, 2007).

Queste predisposizioni favoriscono l’avvio delle prime forme di interazione ma poiché all’inizio non c’è un bambino ma una diade, anche il contributo del partner significativo è fondamentale per lo sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino (Carpendale & Lewis, 2004, in Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009).

La madre deve mostrare nei confronti del bambino, una buona responsività, solo così i bambini diventeranno abili nel percepire gli effetti del loro comportamento sugli altri (Gergely & Watson, 1999, in Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009) e imparano a usate il loro comportamento vocale e facciale in maniera strumentale (Stern, 1999, Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009). È vero che il bambino è predisposto a interagire selettivamente agli esseri umani ma è anche vero che l’ambiente in cui è inserito deve essere sensibilmente responsivo.

Negli ultimi anni, nell’ambito dell’infant research, si è verificato un aumento dell’interesse per lo studio delle modalità attraverso cui il bambino arriva a condividere la sua esperienza soggettiva e quindi i suoi stati affettivi, la sua attenzione, le sue intenzioni, con quella di un’altra persona. La necessità di osservare e descrivere in maniera accurata i segnali che vengono emessi dalla madre e dal bambino all’interno della diade momento per momento, durante le loro interazioni, ha portato all’utilizzo delle tecniche di analisi microanalitiche in modo da rilevare ogni minimo cambiamento di comportamento, e ottenere dettagliate informazioni su “quali” comportamenti occorrono, “quando” e “per quanto tempo” prendendo come unità di analisi o i singoli comportamenti dei membri della diade oppure la diade stessa.

Due grandi studiosi dell’ambito della psicologia dello sviluppo: Edward Tronick e Alan Fogel, si sono interessati allo studio delle prime relazioni madre-bambino introducendo un proprio schema di codifica. Ciò che li unisce è l’analisi dell’interazione diadica, ciò che li differenzia è l’unità di analisi considerata.

Tronick si focalizza sui comportamenti interattivi della madre e del bambino in modo distinto, eseguendo un tipo di analisi microanalitica discreta.

Fogel considera le due componenti congiuntamente focalizzandosi sul processo di co-regolazione diadica, eseguendo un’analisi microanalista olistica.

Considerando queste due modalità di analisi microanalitica complementari piuttosto che escludentisi, nel 2011 è stato condotto uno studio che potesse indagare possibili relazioni tra le due modalità, in particolare, si è deciso di mettere in correlazione le misure rilevate dai due schemi di codifica: l’Infant and Caregiver Engagement Phases (ICEP; Weinberg & Tronick, 1998) e il Sistema di Decodifica Relazionale (Fogel et al., 2003) creati dai due autori per indagare, rispettivamente, la capacità di regolazione emotiva del bambino e quelle di co-regolazione della diade. L’obiettivo dello studio era quello di dimostrare come la co-regolazione diadica influenzi le condotte di auto-consolazione del bambino e i suoi comportamenti interattivi sia durante l’interazione faccia-a-faccia sia a fronte di una situazione di stress.

Gli schemi di codifica sono stati applicati alle videoregistrazioni di interazioni faccia-a-faccia madre-bambino durante l’esecuzione del Paradigma della Still-Face che si compone di tre situazioni: la fase di interazione faccia-a-faccia tra madre e bambino; la fase di Still-Face (viene chiesto alla madre di immobilizzare il volto assumendo un’espressione neutra); la fase di riunione.

È stato preso in esame un campione di 40 bambini, osservati insieme alle loro madri all’età di 4 mesi. Sono state utilizzate come misure di analisi le misure proporzionali relative sia alla durata sia alla frequenza dei comportamenti presi in esame. Per l’analisi dei dati sono state effettuate prima delle statistiche descrittive e in seguito sono state analizzate le correlazioni tra le misure ottenute nei due schemi.

I risultati hanno dimostrato che il tipo di co-regolazione diadica influenza sia la direzione dello sguardo, le espressioni facciali, le vocalizzazioni, l’emotività del bambino durante l’interazione faccia-a-faccia con la madre, sia il modo in cui il piccolo percepisce e vive una situazione di stress.

Sono emerse inoltre delle differenze significative tra le varie categorie di auto-consolazione utilizzate dal bambino per fronteggiare le situazioni di stress: tali condotte potrebbero non avere tutte la stessa valenza funzionale, ossia, un bambino che durante una situazione di stress, mette la mano in bocca, potrebbe essere un bambino che vive un livello di stress maggiore rispetto a un bambino che si consola incrociando le mani.

Studi approfonditi sul microcosmo diadico potrebbero aiutare a comprendere meglio lo sviluppo emotivo, sociale e cognitivo del bambino dimostrando l’importanza delle interazioni nei primi mesi di vita.

LEGGI ANCHE:

BAMBINIGRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

GENESI E RISOLUZIONE DELL’ATTACCAMENTO MATERNO INFANTILE

 

BIBLIOGRAFIA:

Venere in pelliccia, Roman Polanski (2013) – Recensione

Recensione del film:

Venere in pelliccia

Roman Polanski (2013)

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Venere in pelliccia. -Immagine: locandinaIl bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

L’ultima fatica di Roman Polanski è un film geniale e trascinante che riprende l’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch e la pièce teatrale di David Ives anch’essa ispirata al testo dello scrittore austriaco.

La scena è costituita dal palco di un teatro parigino e da due soli protagonisti, l’autore dell’adattamento di “Venere in pelliccia” nonché regista dello spettacolo e un’attrice che arriva in ritardo all’audizione per l’assegnazione della parte principale.

Progressivamente la dialettica si trasforma attraversando i diversi ruoli della relazione: la donna esordisce come figura rozza e lamentosa venendo respinta dal regista che si rifiuta di concederle tempo per l’audizione, poi la qualità della contesa si eleva d’improvviso quando l’attrice inizia a recitare la sua parte con penetrante sensibilità, morbida consapevolezza, sorprendente padronanza.

Inizia in questo modo un gioco a due vissuto e interpretato nel perdurante intreccio tra realtà e finzione, un crescendo di intensità recitativa nel quale i protagonisti si affidano ora al copione della pièce ora al proprio tumultuoso divenire emotivo per comunicare intenzioni e desideri contrastanti, la crescente attrazione dell’uomo sempre più difficile da celare nei tormenti del personaggio letterario e la sottile quanto inesorabile presa di potere della donna, che cavalcando la trama dell’opera da portare in scena, mette in atto una seduzione vera fatta di sguardi e toni che eccitano e distanziano, infiammano e vanificano le passioni.

Il testo di “Venere in pelliccia” è la nascita letteraria del sadomasochismo e come tale prende forma nel film, costruito sul bisogno dell’uomo di consegnarsi alla bellezza dispotica della donna e farsi dominare per poterle appartenere; il genio di Polanski produce un assedio di tensione catartica che utilizza dapprima l’ironia, poi l’inquietudine e infine l’emergere vivido delle lacerazioni più profonde che fanno esplodere la vulnerabilità di entrambi i personaggi, le contraddizioni evocate dalla loro ricerca di sé, l’impossibilità di definirsi attraverso una funzione univoca.

Mutano gli assetti emotivi, si trasformano le posizioni da occupare sul palco e nelle dinamiche sempre più potenti della relazione; il dominato sperimenta con metamorfosi imprevedibile il ruolo di dominatore anzi di dominatrice, scoprendosi preda di una femminea voluttà che segue la misoginia quasi insita nella sottomissione così visceralmente implorata – “E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani della donna” è l’epigrafe del romanzo che ritorna come elemento cardine del film – mentre la donna sovrappone l’erotismo all’ironia aggressiva e alla sapiente lucidità manipolatoria conservando il controllo sulla relazione anche quando sembra cederlo assecondando l’assunzione del ruolo femminile da parte dell’altro.

L’epilogo del film si richiama alla tragedia greca ed è un ultimo ribaltamento che ristabilisce il tema già percorso amplificandolo negli accenti drammatici; la grandezza di “Venere in pelliccia” è data dalla straordinaria prova attoriale dei due interpreti – lui un perturbante alter ego di Polanski che trasformandosi in figura femminile ne ripropone i caratteri espressivi allucinati de “L’inquilino del terzo piano”, lei una superba profusione di sfumature psicologiche che spaziano dal cinismo all’impulso iracondo fino al gioco compiaciuto – e dalla capacità di Polanski di mantenere un ritmo narrativo degno della sua arte assoluta.

Le figure dell’opera svelano contenuti che trascendono dal loro copione potendosi definire solo attraverso un’umanità intimamente contaminata dall’altro e dall’ignoto, il fragile regista utilizzato come strumento per un disegno già pensato e la donna, forte orgogliosa e austera a tratti ma poi furiosa nel sentirsi vittima di una letteratura che legittima esclusivamente il bisogno maschile.

Il bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

Un film di eccezionale valore, da lasciar fermentare e poi rivedere per poterne cogliere l’essenza più complessa.

RECENSIONI

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Omega-3 utile contro la malattia di Alzheimer

Santina Leonardi

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sulla scorta di precedenti studi di popolazione che indicano che gli omega-3 possono proteggere contro l’insorgenza della malattia di Alzheimer, il presente studio ha voluto indagare gli effetti di un’integrazione di questi acidi grassi nella dieta giornaliera in pazienti che hanno già sviluppato la malattia.

Gli omega-3 (fra i più importanti l’acido eicosapentaenoico o EPA e l’acido docosaesaenoico o DHA) e gli omega-6 sono acidi grassi polinsaturi essenziali che si accumulano nel sistema nervoso centrale durante la crescita fetale. Si ritiene che questi acidi continuino ad essere rimpiazzati nell’arco di vita, ma poco si sa su come questo avvenga e se un cambiamento nella dieta possa influire sul passaggio di questi importanti acidi grassi attraverso la barriera ematoencefalica, altrimenti designata a proteggere il cervello dalle sostanze nocive presenti nel sangue.

Diverse malattie possono interferire sulla loro distribuzione a livello del sistema nervoso centrale. In pazienti con malattia di Alzheimer, per esempio, si riscontrano concentrazioni di acido DHA inferiori alla norma.

Sulla scorta di precedenti studi di popolazione che indicano che gli omega-3 possono proteggere contro l’insorgenza della malattia di Alzheimer, il presente studio ha voluto indagare gli effetti di un’integrazione di questi acidi grassi nella dieta giornaliera in pazienti che hanno già sviluppato la malattia.

La fase di sperimentazione è durata 6 mesi durante i quali sono state somministrate ai pazienti assegnati al gruppo sperimentale dosi giornaliere di integratori di omega-3, mentre il gruppo di controllo assumeva capsule di olio di mais.

La ricerca condotta dalla dott.ssa Yvonne Freund-Levi del Karolinska Institutet in Svezia mostra che i livelli plasmatici di tutti gli acidi grassi omega-3 (in particolare DHA e EPA) aumentano significativamente nel gruppo sperimentale; diversi però sono gli stessi aumenti a livello del liquido cerebrospinale (CSF o liquor) e la loro correlazione con i marcatori tipici della demenza di Alzheimer.

Risulta ad esempio che il livello di EPA aumenta sia nel plasma che nel liquor, mentre a un aumento di DHA nel plasma non corrisponde un suo aumento nel CSF. Emerge anche che all’aumentare dell’acido DHA nel liquor aumentano anche i cambiamenti in alcuni biomarker infiammatori e dementigeni, il che suppone un’interazione reciproca.

Sembra quindi che gli acidi grassi omega-3 possono superare la barriera ematoencefalica in pazienti affetti da Alzheimer, con ripercussioni sia a livello di alcuni indici infiammatori sia di alcuni marcatori tipici di questa patologia dementigena che fanno ben sperare in un effetto positivo sui processi neurodegenerativi che la caratterizzano.

Ulteriori studi sono necessari per esplorare il ruolo svolto dagli acidi DHA ed EPA, per capire se l’assorbimento di DHA nel liquor è specificamente associato al fatto che la sua carenza è tipica di questa malattia e per comprendere come mai la barriera ematoencefalica lasci passare in modo così diverso i due acidi. Queste e altre ricerche fanno inoltre supporre che possa esistere una finestra temporale nella patogenesi dell’Alzheimer all’interno della quale l’assunzione di omega-3 può essere efficace per prevenire o ritardare la malattia, mentre tentativi di ripristinare le perdite di DHA a livello cerebrale potrebbero risultare fallimentari.

Molto lavoro resta da fare per poter dire se questi acidi grassi possono essere usati nel trattamento dell’Alzheimer per arrestare la perdita di memoria o se possono avere un ruolo nella sua prevenzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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La differenza tra i due concetti di Empathy e Sympathy spiegati in un breve cortometraggio da Brené Brown, Research Professor presso la University of Houston.

I 4 ingredienti fondamentali dell’empatia:

  • Perspective taking: la capacità di prendere su di se la prospettiva, il punto di vista, di un altra persona.
  • Staying out of judgement: non giudicare, sospendere il giudizio.
  • Recognizing emotions in other people: riconoscere le emozioni delle altre persone.
  • Communicate that you recognize other people’s emotions: comunicare alle altre persone che siamo consapevoli delle emozioni che stanno provando.

 

 

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Affaccendarsi – Tribolazioni Nr. 20 – Rubrica di Psicologia

 

 

 

Uomini e donne: diversi anche nelle connessioni cerebrali

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio sulle connessioni cerebrali condotto da Penn Medicine e pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences ha portato alla scoperta di notevoli differenze nei circuiti neurali degli uomini e delle donne che hanno alimentato le credenze popolari riguardo le differenze di genere.

In uno dei più importanti studi sulle differenze di genere, Ragini Verma, professore dell’Università della Pennsylvania, e colleghi hanno trovato ampie connessioni neuraliintraemisferiche antero-posteriori nei maschi, il che suggerisce che il loro cervello sia strutturato per facilitare la connessione tra la percezione e la coordinazione dei movimenti. Al contrario, nelle femmine, sono più ampie le connessioni interemisferiche dimostrazione del fatto che esse hanno maggiore facilità di comunicazione tra le capacità analitiche e l’intuizione.

Questa mappa mostra significative differenze- e complementarietà- nell’architettura del cervello umano che forniscono una spiegazione del perchè gli uomini si distinguono in alcuni compiti, mentre le donne in altri” spiega Verma.

Per esempio, mediamente, i maschi sono migliori nell’imparare e nell’eseguire un singolo compito alla volta, come andare in bicicletta o guidare, mentre le femmine hanno una memoria maggiore e migliori abilità cognitive sociali, il che le rende maggiormente attrezzate per il cosidetto multitasking, che sottilinea un approccio di tipo mentalistico.

Altri studi precedenti hanno dimostrato differenze legate al sesso a livello cerebrale, ma il circuito neurale che connette le regioni dell’intero cervello connesso a quelle specifiche abilità cognitive non è stato scientificamente dimostrato.

In questo studio, invece, Verma e colleghi hanno indagato le specifiche differenze di genere nella connessione cerebrale durante il periodo dello sviluppo di 949 soggetti (521 femmine e 428 maschi) di età compresa tra gli 8 e i 22 anni attraverso l’utilizzo della DTI (Diffusion Tensor Imaging).

Questo gruppo di ricerca ha dimostrato che le donne hanno una maggior connettività interemisferica nelle aree sovratentoriali, al contrario degli uomini che hanno una maggior connettività intraemisferica. Accade l’opposto, invece, nel cervelletto, il quale ha un ruolo principale nel controllo motorio e in cui i maschi mostrano maggior connessione interemisferica mentre le femmine maggior connessione intraemisferica.

Tutte queste connessioni specifiche nei maschi forniscono loro un sistema efficiente per la coordinazione dei movimenti in cui il cervelletto e la corteccia favoriscono il collegamento tra le esperienze percettive (parte posteriore del cervello) e l’azione (parte frontale). Nelle femmine queste connessioni facilitano l’integrazione tra processi analitici e sequenziali (emisfero sinistro) e le informazioni spaziali e intuitive (emisfero destro).

Gli autori hanno riscontrato poche differenze di genere nei bambini di età inferiore ai 13 anni, ma differenze più pronunciate negli adoloescenti tra i 14 e 17 anni e nei giovani adulti oltre i 17 anni.

I risultati dimostrano anche che le femmine hanno prestazioni migliori dei maschi nell’attenzione, nel linguaggio, nel riconoscimento delle espressioni facciali e nei test di cognizione sociale. I maschi, invece, sono migliori nel processamento spaziale e nella percezione sensori-motoria. Queste differenze sono maggiormente evidenti tra i 12 e i 14 anni.

Infine, il dottor Ruben Gur afferma: “E’ impressionante quanto siano complementari il cervello femminile e quello maschile. I dettagli sulle mappe neurali non ci hanno solamente aiutato a capire meglio le differenze tra come uomini e donne pensano, ma ci hanno anche portato a conoscere a fondo le radici dei disturbi neurologici, che sono spesso legati al sesso”.

 

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GENDER STUDIES – NEUROPSICOLOGIANEUROSCIENZE

IL CERVELLO MASCHILE: ISTRUZIONI PER L’USO

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Adolescenti e Gambling: Centro di ascolto telefonico per genitori e insegnanti

COMUNICATO STAMPA 17-12-2013

PRIMO CONSUMO APRE IL CENTRO D’ASCOLTO  TELEFONICO  ALLA SCUOLA

L’associazione per i consumatori Primo Consumo con il suo progetto – Game Over  la dipendenza dal gioco non è un gioco – è da anni impegnata nella lotta alla ludopatia.
Sulla base dell’esperienza maturata dalle psicologhe del centro in questi anni, avvalorata peraltro dalle recenti statistiche relative al pericoloso coinvolgimento dei giovanissimi nel gioco d’azzardo (Relazione Annuale Dip. Politiche Antidroga, 2013; Studio Espad-Italia, 2012 Ifc-CNR), Primo Consumo decide di aprire il centro d’ascolto telefonico, GRATUITO a genitori e insegnanti.
Gli adolescenti infatti, proprio per le caratteristiche specifiche di questa fase evolutiva quali l’impulsività e la ricerca di novità e di emozioni nuove, costituiscono una tra le fasce di età più coinvolta nel gioco d’azzardo.
Insegnanti e genitori hanno bisogno di aiuto. Ora possono usufruire di uno strumento concreto, anonimo e gratuito per essere supportati nella guida di figli o alunni. Trascorrendo infatti molte ore al giorno vicino ai giovani hanno modo di cogliere quei segnali che, se  sottovalutati, possono portare allo sviluppo di un problema molto serio.
Come dimostra la vicenda del diciannovenne di Ischia suicidatosi per debiti di gioco, la cui storia ha ispirato la realizzazione di un corto premiato al Torino Film Festival: “Chasing” diretto da Renato Porfido,  a cui l’Associazione Primo Consumo, sensibile al tema dei giovani, ha recentemente collaborato.

L’Associazione Primo Consumo, a nome del presidente, Avv. Marco Polizzi, per rispondere in modo sempre maggiore alla necessità di far fronte al problema ludopatia, si rende disponibile ad effettuare interviste e interventi al fine di far conoscere maggiormente la propria presenza sul territorio nazionale.

Associazione Primo Consumo
Sito web: www.primoconsumo.it.(sezione progetti – Game Over)
Tel. 0639738239.

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DIPENDENZEGIOCO D’AZZARDO PATOLOGICOADOLESCENTI

Leadership negli Sport di Squadra #12: I compiti del Leader

 

Leadership negli Sport di Squadra #12:

I compiti del Leader – I leader e la prestazione

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra #12- I compiti del Leader. -Immagine:© L.F.otography - Fotolia.com

Al di sopra di ogni strategia è indispensabile, per impedire il tracollo motivazionale ad opera della pigrizia sociale, che venga data a ciascun atleta l’opportunità di soddisfare i propri bisogni di realizzazione individuale, e che questi rappresentino la base per il raggiungimento degli obiettivi di tutto il gruppo.

L’allenatore è il leader istituzionale della squadra sportiva; il suo ruolo è caratterizzato da funzioni e attività varie e complesse che richiedono competenze in vari campi (educativo, tecnico, psicologico, manageriale) e presuppongono un grande equilibrio emozionale”. [Giovannini e Savoia, 2002, p.123]

Questa è la definizione di allenatore che Giovannini e Savoia [2002] espongono nel loro testo dedicato alla psicologia dello sport. Come è stato chiarito dalle teorie presentato nel capitolo precedente risulta impossibile definire in modo universale le caratteristiche ideali che un allenatore dovrebbe possedere. Anzi ogni leader, e quindi anche l’allenatore, deve affrontare situazioni sempre diverse che richiedono l’utilizzo di specifiche abilità. L’assenza di questa versatilità può portare alcuni allenatori a realizzare ottimi risultati in certe realtà, che si adattano ai limiti imposti dalle proprie capacità, ed esclusivamente insuccessi in altre, che richiederebbero un comportamento e uno stile diverso da quello proprio e rigido [Mazzali, 1995]. Detto questo è naturale conseguenza affermare che la sua capacità di adattamento alle condizioni e alle esigenze più svariate è anche direttamente proporzionale all’effettivo rendimento della squadra, alla sua prestazione.

L’allenatore-leader è quindi la componente da cui dipende una buona parte dei risultati ottenuti. Se da un lato è vero che chi scende in campo sono i giocatori, dall’altro è altrettanto vero che l’organizzazione e la preparazione della prestazione è affidata all’allenatore e che quest’ultimo, in virtù del potere che gli è concesso dalla sua posizione è in grado di influenzare, in modo anche molto incisivo, la prestazione dei suoi atleti. In che modo? Sicuramente non prestando attenzione solo all’aspetto puramente tecnico e tattico ma preoccupandosi sia dei singoli individui, sia del gruppo come entità a sé stante, e, in particolar modo, a quelle caratteristiche importanti per massimizzare i risultati di quest’ultimo. Diverse ricerche hanno individuato alcune di queste caratteristiche particolarmente sensibili all’intervento dell’allenatore. Tra queste, oltre all’importanza dell’organizzazione degli obiettivi e del lavoro della squadra, risultano importanti: il livello di motivazione individuale, la presenza di pigrizia sociale,la coesione interna al gruppo e l’andamento della squadra nel corso della stagione.

La funzione principale del leader è legata inevitabilmente al compito e all’obiettivo imposto dalla dirigenza della squadra e l’allenatore deve utilizzare tutte le risorse disponibili al fine di portare gli atleti ai massimi livelli delle loro possibilità tenendo in considerazione le capacità tecniche, fisiche e psicologiche di ciascuno.

Per fare ciò non deve svolgere solo il compito di leader ma anche quello di formatore/educatore (che deve conoscere e sviluppare modalità idonee per favorire l’apprendimento di aspetti motori e tattici) e di tecnico/organizzatore del gioco (che deve preparare l’atleta a prendere le proprie decisioni e valutazioni al momento della prestazione). L’importanza della versatilità dell’allenatore si manifesta anche in questo, e cioè nella capacità di scegliere di interpretare il ruolo (tra quello di leader, formatore o organizzatore) più adatto a una situazione o a uno specifico problema [Antonelli e Salvini, 1987].

Una volta che gli obiettivi specifici che si propone di raggiungere sono chiari non solo a sé stesso e alla dirigenza ma anche ai giocatori della squadra, l’allenatore deve iniziare a predisporre le condizioni che possono permettere di avere successo attraverso:

– l’individuazione degli strumenti necessari (che comprendono particolari modalità di insegnamento, tecniche di allenamento, tattiche specifiche ecc…),

– l’indagine delle risorse umane disponibili e utili al compiere le azioni necessarie per procedere con successo verso gli obiettivi,

– l’analisi delle strategie adatta per superare ostacoli prevedibilmente presenti sul cammino della squadra verso un risultato positivo.

Un altro campo in cui l’allenatore può intervenire, per migliorare le prestazioni della squadra è il controllo e l’influenza sulla motivazione degli atleti, una variabile di estrema importanza che, seppur limitatamente, può essere influenzata dal suo comportamento.

Carron [1984] individua quattro tipologie di variabili influenzanti la motivazione individuale determinate dall’incrocio di due assi che sono: il livello di controllabilità e l’origine situazionale/personale del fattore. Il modello di Carron sulla motivazione nello sport può essere riassunto nella tabella seguente:

 

Tab3 – Rappresentazione del modello di Carron per la motivazione nello sport

  Rappresentazione del modello di Carron per la motivazione nello sport

Secondo l’autore possiamo, quindi distinguere:

Fattori situazionali soggetti al controllo dell’allenatore: all’interno dei quali bisogna distinguere quelli dipendenti da una situazione oggettiva o da un percezione soggettiva da parte degli atleti. Alcuni esempi di fattori di questo tipo su cui l’allenatore può agire possono essere: la promessa e l’uso di ricompense oppure un saggio processo di definizione degli obiettivi (goal-setting) che rappresentino sfide realistiche, né disperate, né banali. A livello motivazionale queste strategie dell’allenatore-leader possono influire generando quattro diversi meccanismi [Locke e al., 1981]: direzionamento di attenzione e azione verso chiari e specifici target, mobilitazione dell’energia dell’atleta per lo svolgimento del compito ad esso attribuito, persistenza di questo direzionamento e di questa mobilitazione energetica per un lungo periodo di tempo, motivazione allo sviluppo di una strategia individuale per raggiungere la propria meta.

Fattori personali soggetti al controllo dell’allenatore: che rappresentano l’insieme delle variabili legate al singolo atleta su cui l’allenatore può interagire. Un esempio possono essere le esperienze incentivanti, in cui può mostrare al giocatore i vantaggi conseguenti al successo, o lo stile attributivo che l’atleta utilizza spiegando le esperienze vissute con la squadra, che l’allenatore può contribuire a modificare.

Fattori personali e situazionali non soggetti al controllo dell’allenatore: rappresentano le altre due categorie, quelle che contengono variabili influenzanti la motivazione individuale sulle quali però l’allenatore ha poco potere. I fattori situazionali di questo tipo possono essere ad esempio: il comportamento degli spettatori, le caratteristiche dell’avversario, la storia recente della squadra, le esperienze che ha vissuto ecc… Mentre tra i fattori personali si possono distinguere: il livello di ansia, la capacità attentiva di ogni atleta e la motivazione al successo [Carron, 1984].

Per poter migliorare le prestazioni della squadra l’allenatore non solo deve occuparsi di incentivare la motivazione dei singoli atleti agendo su quei fenomeni, individuali o situazionali, che possono essere sensibili al suo intervento, ma deve anche impedire che si determini, nel medesimo livello, quel naturale calo nell’impegno di ogni giocatore definito “pigrizia sociale” [Harkins, Latanè e Williams, 1980; Harkins e Latanè, 1981].

Questi autori hanno osservato come la tendenza generale delle persone le porti a diminuire il proprio impegno nello svolgere un compito all’aumentare delle dimensioni del gruppo di compagni con i quali devono collaborare. Un atleta sarebbe, quindi, naturalmente portato a non dare il meglio di sé quando lavora assieme al resto dei componenti della squadra. Perché? Harkins, Latanè e Williams [1980] hanno proposto quattro possibili interpretazioni:

strategia allocativa: secondo cui gli atleti darebbero il meglio di sé in una prestazione individuale piuttosto che in quella di gruppo semplicemente perché risulta più facilmente identificabile e quindi premiato il proprio lavoro.

strategia minima: in cui i soggetti mirano semplicemente a spendere il minor quantitativo di energia possibile per non essere identificati come individui pigri.

free rider: secondo cui le persone riducono il proprio impegno perché non lo ritengono indispensabile ai fini del risultato.

sucker effect: secondo cui le persone riducono il loro impegno per evitare di lavorare anche per coloro che si impegnano poco.

Qualsiasi strategia, tra queste, è in grado di spiegare la pigrizia sociale,che, in generale, risulta molto dannosa ai fini della prestazione del gruppo intero, anche perché il sucker effect non fa altro che determinare una spirale discendente nell’impegno da parte degli atleti che porta sempre più lontano dagli obiettivi comuni e dal successo. Come deve comportarsi l’allenatore-leader davanti a palesi manifestazioni di questo fenomeno nei suoi atleti? Hardy [1990] ha individuato alcune strategie che possono essere messe in atto con successo per poter tenere sotto controllo l’instaurarsi di fenomeni di pigrizia sociale. Tra questi:

1. migliorare il livello di autoconsapevolezza dell’atleta, rendendo identificabile l’impegno individuale,

2. migliorare il senso di responsabilità di ciascun atleta attraverso un aumento delle interazioni e della coesione di gruppo;

3. rendere i compiti coinvolgenti;

4. impiegare un programma sistematico di goal-setting, definendo specifici obiettivi individuali e di squadra;

5. condurre riunioni e incontri collettivi al fine di risolvere eventuali cadute motivazionali e comprendere la discontinuità di alcune prestazioni;

6. attribuire a ciascuno un determinato ruolo identificabile da tutti e contraddistinto positivamente;

7. permettere agli atleti di esprimersi in modo creativo e appoggiarli nelle loro assunzioni di rischi;

8. fornire la possibilità agli atleti di svolgere attività , meno intense e impegnative che concedano momenti di divertimento e svago al team.

Al di sopra di ogni strategia è indispensabile, come afferma Cei [1998], per impedire il tracollo motivazionale ad opera della pigrizia sociale, che venga data a ciascun atleta l’opportunità di soddisfare i propri bisogni di realizzazione individuale, e che questi rappresentino la base per il raggiungimento degli obiettivi di tutto il gruppo.

L’allenatore non deve essere confuso a priori con la figura del leader centrato sul compito, anche se in alcuni casi può identificarsi con questo. Questo è ancor più vero se si prende in considerazione una sua ulteriore funzione importante che, pur essendo associata al sistema relazionale della squadra, è strettamente correlata alle prestazioni di quest’ultima.

La funzione in questione riguarda la coesione di gruppo intesa come: “il campo totale delle forze che agiscono sui membri per farli rimanere nel gruppo” [Festinger, Schachter e Back, 1950]. Hogg [1992], riprendendo l’idea di Festinger, individua nella teoria dell’identità sociale di Tajfel [1981] e nella teoria della categorizzazione del sé di Turner [1987] due contributi per permettere una definizione della coesione che, ponendosi lungo un continuum interpersonale-intergruppi, è associabile all’attrazione sociale esercitata dalle persone, non per loro caratteristiche, ma per la loro appartenenza alla squadra.

Solo in questo caso si può parlare di coesione perché solo in questo caso è un fenomeno riferito al gruppo [Speltini e Polmonari, 1999]. Molte ricerche hanno infatti dimostrato [Widmeyer, Carron e Brawley, 1993], l’esistenza di una correlazione positiva tra una forte coesione che rende il gruppo stabile, unito e pronto a sostenersi nei momenti di difficoltà, e le prestazioni effettivamente raggiunte. E’ importante per il leader istituzionale fare in modo che tutti i membri del gruppo vengano stimolati ad orientare i loro sforzi verso ciò che Mazzali [1995] definisce “noi di gruppo” costruendo così la possibilità di compiere un lavoro cooperativo ed integrato che possa condurre al successo.

La coesione di una squadra viene quindi analizzata da un punto di vista multidimensionale in cui le caratteristiche e il comportamento del leader rappresentano alcune delle grandezze che ne possono influenzare le caratteristiche. Riguardo la relazione tra coesione e prestazione il dibattito rimane comunque aperto. In una rassegna di 30 ricerche sull’argomento Zanna e Fazio [1982] individuano, in tutte, l’esistenza di una relazione tra le due dimensioni ma, mentre su 24 (80%) questa era caratterizzata positivamente, le rimanenti mettevano in evidenza una correlazione negativa.

Questa possibilità, quella cioè di una correlazione negativa tra coesione e prestazione, è ancor più evidente in alcuni casi, storici nell’ambito della psicologia dello sport, presentati di Lenk [1966] in cui l’autore descriveva come una squadra nazionale di canottaggio, nonostante l’assenza di coesione tra i membri che la componevano, riuscì a imporsi alle olimpiadi prima e ai campionati mondiali poi. Questa ambiguità ha portato i ricercatori a cercare di comprendere in quali condizioni il legame positivo o negativo si verifica [Grieve, Whelan, Meyers, 2000]. Alcune delle ricerche orientate in questa direzione [Landers e Luschen, 1974; Steiner, 1972, 1976; Widmeyer, Carron, Brawley, 1993; Carron, Chelladurai, 1979; Widmeyer, Williams, 1991; Guicciardi, Staffa e Meleddu, 2001] hanno associato le caratteristiche della relazione tra coesione e prestazione a diverse variabili tra le quali: il tipo di compito, la struttura del gruppo, il tipo di disciplina ecc… E’ probabile che gli stessi comportamenti dell’allenatore-leader, seppur non ancora descritti in alcuna ricerca, possano essere una variabile importante per determinare in che modo queste due dimensioni interagiscono tra di loro.

E’ stato descritto finora che l’allenatore, in quanto leader istituzionale, deve preoccuparsi di delineare gli obiettivi specifici e renderli chiari anche ai componenti del team, deve individuare gli strumenti, indagare le risorse umane e analizzare le strategie generali che possono renderne possibile il raggiungimento. Per lo stesso fine deve anche prestare attenzione e intervenire sui fattori situazionali e individuali che influenzano la motivazione dei componenti della squadra, evitare la diffusione della pigrizia sociale e promuovere la coesione del gruppo in ciascuno atleta.

Tutto ciò rappresenta il terreno iniziale necessario per affrontare una stagione sportiva ma non è sufficiente per oltrepassare gli ostacoli, sempre diversi, che si presenteranno nel corso dell’anno. Per questo l’allenatore deve anche essere pronto ad affrontare problematiche sempre nuove, spesso dipendenti dai risultati ottenuti, ma che, a loro volta, possono trascinare la squadra in una spirale di ancor maggiori fallimenti, se non vi viene posto un freno. Mazzali [1995] fa riferimento a cinque specifiche condizioni in cui la squadra può venire a trovarsi nel corso della stagione, che l’allenatore deve gestire per evitarne le conseguenze negative:

1. Periodi di vittorie: caratterizzati da successo ed entusiasmo da parte del gruppo. L’autore mette in guardia da crogiolarsi nel piacere della vittoria rischiando di perdere la concentrazione necessaria nelle prestazioni di squadra e rischiando di sottovalutare gli avversari. L’allenatore-leader deve essere in grado di smorzare gli animi, sdrammatizzare un’eventuale mitizzazione del team analizzando il momento con estrema cautela e con una certa dose di sospetto. Può sfruttare comunque la condizione del gruppo per investire in senso tecnico, tattico e di preparazione al fine di mantenere elevata la concentrazione e l’impegno in allenamento.

2. Periodi di sconfitte: rappresenta esattamente la condizione opposta alla precedente. In questo caso gli atleti sviluppano una sorta di depressione e apatia di gruppo o possono reagire facendo esplodere l’aggressività individuale e facendo emergere ingigantiti i dissidi interni alla squadra. Non porre freno a questa situazione vuol dire lasciare che la squadra si disintegri. E’ importante che l’allenatore-leader eviti, per primo, di cercare alibi o scusanti ma cerchi di individuare con raziocinio dove è il problema e di affrontarlo con decisione. L’obiettivo è quello di impedire che l’aggressività si sfoghi contro arbitri, sorte o compagni ma si canalizzai nell’affrontare il problema della squadra.

3. Nuove vittorie dopo periodi di sconfitte: è uno dei periodi più favorevoli per condurre una squadra. La serie di vittorie da sicuramente sfogo alla frustrazione accumulata dalle sconfitte non cancellando però una certa modestia dipendente dai risultati precedenti che permette di non sottovalutare gli avversari e di fornire prestazioni altamente competitive. L’allenatore non deve far altro che comportarsi come nei periodi di vittoria prestando attenzione che questa modestia non vada a ridursi e investendo tatticamente sulla squadra.

4. Nuove sconfitte dopo periodi di vittorie: secondo l’autore questa situazione pone la squadra in una condizione dura da risollevare. La serie di vittorie aveva determinato inconsciamente delle aspettative a cui ora è difficile rinunciare, ma che i risultati rendono sempre più irrealizzabili. L’allenatore deve, però, cercare di riadattare sia il lavoro che la mentalità della squadra a nuovi obiettivi più modesti. Il tempo di convincimento a livello individuale è lungo ma se l’allenatore non riesce a creare questa mentalità, corre il rischio di veder sfuggire la possibilità di raggiungere anche gli obiettivi modesti.

5. Periodi “senza infamia e senza lode”: vengono definiti come i periodi peggiori in assoluto per condurre una squadra. Sono caratterizzati dall’alternarsi saltuario di vittorie e sconfitte che portano ad un andamento nel complesso né positivo né negativo. Ciò può determinare la mancanza di una reazione emotiva da parte dei membri della squadra e se questa non è una conseguenza negativa in sé stessa, è facile, però, che porti a uno scoramento il più delle volte seguito da una serie di sconfitte pesanti. In questa pericolosa posizione l’allenatore deve cercare, agendo sulla motivazione, la coesione, e l’allenamento della squadra di elevare il livello delle prestazioni in termini tecnici e caratteriali allo scopo di uscire al più presto da questa condizione che, nonostante sembri caratterizzata da un andamento regolare è, in realtà, estremamente precaria perché da un momento all’altro può far cadere i risultati della squadra

Anche il leader intimo svolge un ruolo importante nell’influenzare le prestazioni della squadra. In linea di massima i fattori sui quali può intervenire sono molto simili a quelli esposti riguardo le funzioni del leader istituzionali ma esistono, tra i due, alcune importanti differenze. Prima fra tutte è quella collegata alla diversa posizione assunta dal leader istituzionale e da quello intimo rispetto alla prestazione stessa. Il primo si occupa dell’organizzazione preventiva della prova che il team deve affrontare e gestisce le risorse e gli strumenti della sua squadra, anche durante la prestazione, mantenendosi su un livello di andamento generale. Al contrario, il leader intimo, ancor di più se è anche leader tecnico, organizza le risorse e fornisce supporto principalmente nel corso della prestazione e della partita che la squadra sta affrontando agendo e prendendo decisioni più che altro a livello di azioni particolari, spesso attraverso un linguaggio gestuale conosciuto dai suoi compagni.

Da questo risultano chiare due considerazioni. Per prima cosa questi due ruoli, in relazione all’organizzazione e alla gestione di una prova da affrontare per la squadra appaiono essere  complementari. Di conseguenza una squadra può ottenere prestazioni molto positive se entrambe le figure di leader sanno svolgere al meglio il proprio compito. Secondariamente si può osservare come le differenze nelle mansioni svolte possano essere connesse ai diversi punti di vista con cui affrontano sia la preparazione che la partita.

Oltre a ciò il capitano dovrebbe, al pari dell’allenatore, cercare di impedire che la pigrizia sociale dilaghi tra i membri del gruppo rendendosi fonte di sostegno motivazionale per i suoi compagni agendo sui quegli stessi fattori considerati sotto il controllo dell’allenatore. Lo stesso discorso può essere fatto per i fattori che influenzano il livello di coesione della squadra.

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PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Tre caffè al giorno aiutano a scacciare il tumore al fegato di torno!

 

Tre caffè al giorno aiutano a scacciare il tumore al fegato di turno!. -Immagine:© red2000 - Fotolia.comL’effetto positivo del caffè sul rischio di tumore al fegato potrebbe essere mediato dalla ormai dimostrata capacità di tale sostanza di prevenire il diabete, fattore quest’ultimo di rischio per il tumore, oppure dai suoi effetti benefici sulla cirrosi e sugli enzimi epatici. 

È ormai noto come le patologie tumorali abbiano una origine multifattoriale, nella misura in cui sono coinvolti nel loro sviluppo non solo fattori di rischio genetici, ma anche di natura ambientale e psicologica, i così detti “stressors”.

Non a caso i programmi di prevenzione dell’insorgenza dei tumori più all’avanguardia ai giorni nostri prevedono che la persona, una volta entrata nell’età di rischio per il potenziale sviluppo della malattia, effettui dei controlli medici specifici e costanti negli anni al fine di verificare la corretta funzionalità dell’organo in questione. Ne sono un esempio il Pap Test e la Mammografia nella donna e l’ esame del PSA nell’uomo, volti a valutare i primi due la possibile presenza di un tumore all’utero o al seno e il terzo il rischio tumorale prostatico.

Ma è la natura stessa del tumore che impone la necessità per l’individuo di prendersi cura e limitare il più possibile di esporsi agli stressors che possono, in condizioni favorevoli di vulnerabilità biologica, favorire lo sviluppo della malattia. L’attività fisica regolare, una corretta alimentazione e in generale l’adozione di tutti quei comportamenti che promuovono il benessere psichico e fisico dell’individuo rappresentano dei veri e propri fattori protettivi contro la malattia. La ricerca scientifica in questo campo ha fatto negli ultimi anni passi da gigante nell’individuazione dei fattori di rischio e protettivi, nonché dei trattamenti più efficaci al fine di curare la malattia e migliorare in generale il benessere delle persone che ne sono affette.

Tra le varie forme tumorali quella al fegato rappresenta la sesta più frequente tipologia di cancro nel mondo, e la terza causa di morte tra i tumori. Il Carcinoma Epatocellulare è la più frequente tipologia di tumore al fegato, causato con maggior frequenza dalle infezioni croniche dovute ai virus dell’epatite B o C. Altri fattori di rischio di elevata rilevanza sono l’alcol, il tabacco, l’obesità e il diabete.

Un recente studio di meta-analisi  di un gruppo di ricercatori tutto italiano, proveniente dall’ Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e del Dipartimento di Scienze Cliniche e Salute dell’ Università degli Studi di Milano ha dimostrato come l’assunzione di caffè riduca il rischio di cancro al fegato, in particolare il carcinoma epatocellulare.

Gli autori hanno analizzato più di 16 lavori di elevata qualità scientifica pubblicati dal 1996 al 2012, concludendo che tre tazze di caffè al giorno sembrerebbero in grado di ridurre del 50 % il rischio di tumore al fegato.  

Scoperta interessante se si considera che il caffè rappresenta una delle bevande più consumate nel nostro paese. Ma come si spiega questo risultato? Gli autori affermano che l’effetto positivo del caffè sul rischio di tumore al fegato potrebbe essere mediato dalla ormai dimostrata capacità di tale sostanza di prevenire il diabete, fattore quest’ultimo di rischio per il tumore, oppure dai suoi effetti benefici sulla cirrosi e sugli enzimi epatici. 

Nonostante il risultato necessiti di ulteriori studi che ne verifichino la validità esso risulta interessante almeno per due ordini di motivi.

In primo luogo perché mostra come fattori più propriamente associati allo stile di vita della persona abbiano un peso sia in termini protettivi che di rischio del tumore al fegato. In altre parole se è vero che non è ancora noto l’esatto meccanismo con il quale si sviluppa il tumore del fegato e restano molti punti da chiarire, alcuni elementi costituiscono un indubbio fattore di rischio, quali ad esempio il contrarre un’infezione da virus epatico di tipo B o C o una cirrosi, oppure ancora il condurre uno stile di vita poco sano e regolare.

Rispetto a quest’ultimo punto se da un lato il seguire un’alimentazione sana, evitando l’eccesso di alcol e il fumo, accompagnata da una regolare attività fisica rappresentano dei fattori protettivi importanti, il risultato della ricerca identifica il caffè come potenziale fattore protettivo per il tumore al fegato.

In secondo luogo i risultati ribadiscono e segnalano un nuovo effetto benefico del caffè, che se assunto nelle dosi adeguate non solo ha un effetto antiossidante, stimolante dell’attività celebrale, lipolitico e facilitante i processi digestivi ma ha anche una funzione di prevenzione delle malattie, tra cui il diabete e il tumore al fegato.

Per cui godiamoci il caffè, perché non solo è buono, ma fa anche bene!

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ONCOLOGIA-TUMORI – ALIMENTAZIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

E se facessimo Mindfulness online? – Tecnologia & Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa ricerca ha ormai dimostrato che adeguati percorsi di mindfulness possono ridurre stress, ansia e depressione.

Come in tutti i percorsi terapeutici anche per la mindfulness spesso la richiesta è superiore all’offerta o poco accessibile a causa di prezzi poco abbordabili. In alcuni casi, invece, la non possibilità di intraprendere una terapia è dettata da altre motivazioni, (orario e luogo), o dall’impossibilità della persona di recarsi in uno studio (o struttura) a causa di una particolare condizione clinico/fisica.

La creazione di interventi terapeutici online può quindi fornire a tutti la possibilità di usufruire di servizi altrimenti inaccessibili e di svolgere la terapia all’interno di un luogo familiare e confortevole come la propria casa.

I trials condotti sulla possibilità di effettuare terapie cognitivo comportamentali online sembrano promettenti, soprattutto nell’ambito della sintomatologia ansiosa e depressiva. Sono quindi ormai diverse le ricerche a supporto del dato secondo cui i corsi online risultano efficaci tanto quelli “faccia a faccia” condotti in uno specifico luogo terapeutico, in cui uno dei fattori fondamentali è l’alleanza terapeutica e ciò che i ricercatori si domandano è se tale efficacia si possa verificare anche nel caso di terapia mindfulness.

Sebbene ancora non siano del tutto chiari i meccanismi alla base dell’efficacia delle terapie mindfulness, molti clinici concordano sul fatto che siano due i fattori principali implicati nella diminuzione di ansia, stress e depressione, ovvero consapevolezza e accettazione, e che tale diminuzione sia proporzionale alla quantità di pratica svolta. Su questo ultimo punto è bene però notare che non tutti gli studi riportano i medesimi risultati, per cui talvolta appare che stress, ania e depressione diminuiscono indipendentemente dal numero di esercizi svolti.

A partire da questi dati, Krusche, Cyhlarova e Williams hanno deciso di verificare le seguenti tre ipotesi: i corsi di pratica mindfulness online sono efficaci nella riduzione di stress, ansia e depressione? Questa (eventuale) diminuzione è mantenuta al follow-up? L’umore negativo diminuisce proporzionalmente alla quantità di esercizi svolti? Questa diminuzione è paragonabile a quella già osservata in altri tipi di intervento? Se e come il tempo necessario per il completamento degli esercizi influisce su i risultati finali?

Riassumendo le diverse ipotesi, gli autori hanno deciso di valutare la fattibilità e l’efficacia dei corsi mindfulness online nella diminuzione di stress, ansia e depressione. Per lo studio sono stati selezionati 273 soggetti. Il programma mindfulness prevedeva 10 lezioni, video di meditazione guidata e ricezione di e-mail, con elementi della Mindfulness-Based Stress Reduction and Mindfulness-Based Cognitive. Il programma prevedeva una durata totale di 4 settimane e i soggetti erano liberi di completarlo secondo le loro tempistiche.

Confrontando i livelli di ansia, stress e depressione pre e post programma gli autori hanno evidenziato una forte diminuzione in tutte e tre le variabili e un ulteriore decremento al follow-up di un mese. Tali effetti potevano essere comparati a quelli ottenuti nei gruppi mindfulness “face-to-face“.

In conclusione i primi risultati sembrano aprire le porte verso un possibile futuro di pratiche mindfulness online e (forse) verso un rivoluzionario modo di fare terapia.

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MINDFULNESS TECNOLOGIA E PSICOLOGIA – STRESS

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BIBLIOGRAFIA:

 

Uno studio sui musicisti: Forme d’ ansia e Predittori di personalità

 

FORME DELL’ANSIA E PREDITTORI DI PERSONALITA’ NEGLI ARTISTI:

UNO STUDIO SUI MUSICISTI

Anna Colazilli, Simona Napoletano, Daniela Martino

(Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto)

 

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FORME DELL’ANSIA E PREDITTORI DI PERSONALITA’ NEGLI ARTISTI: UNO STUDIO SUI MUSICISTISi vuole dimostrare che l’ansia da palcoscenico è un fenomeno autonomo e indipendente rispetto all’ansia da prestazione e all’ansia sociale e quindi da considerarsi normale e non patologica nella vita di un musicista.

È ampiamente riportata in letteratura l’incidenza dell’ansia in persone che svolgono lavori particolarmente stressanti. Grande interesse è stato riservato agli artisti, che vivono con la costante pressione di doversi esibire in pubblico. Le ricerche hanno tentato una analisi dei processi e delle variabili in gioco ma il quadro risulta poco chiaro, a causa  di alcune incomprensioni terminologiche.

Gli autori parlano indistintamente di “ansia da palcoscenico”, “ansia da prestazione” e “ansia sociale”,  fornendo una descrizione univoca del fenomeno.

Obiettivo della ricerca è indagare meglio la natura dell’ansia negli artisti, operando al contempo una distinzione tra le categorie nosografiche menzionate. Considerata la vastità della popolazione target, si è deciso di restringere il campo alla sola categoria dei musicisti (compreso i cantanti). Il campione riguarderà studenti di musica e diplomati presso il Conservatorio, di entrambi i sessi, dai 18 anni in su.

Verrà somministrata una STAI-Y opportunamente modificata a cui i soggetti dovranno rispondere immaginando di trovarsi in 3 situazioni specifiche: suonare davanti ad un pubblico, incontrare nuove persone ad una festa e svolgere un importante esame scritto all’università, al fine di valutare rispettivamente l’ansia da palcoscenico, l’ansia sociale e l’ansia da prestazione.

Si vuole dimostrare che l’ansia da palcoscenico è un fenomeno autonomo e indipendente rispetto all’ansia da prestazione e all’ansia sociale e quindi da considerarsi normale e non patologica nella vita di un musicista. A conferma dell’ipotesi, ci aspettiamo che i soggetti riportino i livelli più alti nell’ansia da palcoscenico.

Ulteriore obiettivo è verificare se esiste un tratto di personalità maggiormente predittivo dell’ansia nei musicisti tra quelli ritenuti più plausibili: timore dell’errore, timore del giudizio e timore dell’attivazione fisiologica. A tale scopo saranno somministrati rispettivamente  l’MPS (Multidimensional Perfectionism Scale), il BSPS (Brief Social Phobia Scale )  e l’ACS (Affective Control Scale).

 

SLIDES DI PRESENTAZIONE DELLO STUDIO:

 

POSTER:

 

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MUSICA ANSIA PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

Report: Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva

Teresa Costanza.

Report dal convegno

Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva.

 

Locandinaa Giornate Seminariali 2013 MasterSi è conclusa il giorno 7 dicembre, in un generale clima di soddisfazione, la terza edizione di Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva.

Terza edizione che segue quelle del 2011 a Catania presso Le Ciminiere sul tema dell’intervento psicologico e forense nei casi di abuso sessuale e del 2012 a Palermo presso il Cristal Palace Hotel sul tema delle nuove strategie di psicoterapia nei disturbi di personalità.

L’evento, che quest’anno si è svolto a Caltanissetta, sempre con il patrocinio dalla sezione regionale della SITCC, ha visto succedersi relatori provenienti da gran parte delle città siciliane: Tullio Scrimali e Massimo Sciuto da Catania, Simona Tedesco da Palermo, Damiana Tomasello e Cristian Tinebra da Enna, Alessia Di Liberto e Mariangela La Lisa da Ragusa e Siracusa, Lisa Alaimo, Teresa Costanza, Laura Carbone e Giovanni Duminuco da Caltanissetta.

Il tema di questa terza edizione è stato incentrato sulla Metacognizione, nel duplice versante dell’assessment e dell’intervento psicoterapico centrato sullo sviluppo delle capacità di metacognizione.

Sebastiano Maurizio Alaimo, ideatore e direttore scientifico delle Giornate Seminariali Siciliane (GSS), ha aperto i lavori facendo il punto sulle attività che sono state svolte in questi ultimi anni dal Centro Clinico e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive (nato originariamente come Unità Clinica e di Ricerca dell’Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin” (ISPEM) di Caltanissetta). Ha ricordato gli studi su metacognizione e terapia dei Disturbi di personalità, l’importanza dei contributi del Terzo centro romano e i contatti, seppur al momento sporadici, con il conterraneo Antonino Carcione e con Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo.

Un Centro Clinico che si è speso molto nella ricerca e che ha proposto tre nuovi strumenti per la valutazione di specifiche aree della metacognizione (uno dei quali in press, Rivista Psichiatria & Psicoterapia, ed. G. Fioriti).

Particolarmente coinvolgente il lavoro presentato da Giovanni Duminuco, laureato in Filosofia e perfezionato in Bioetica, componente del Gruppo di studio sulla epistemologia della complessità dell’ISPEM. Duminuco ha compiuto un dovizioso excursus sul grande tema della metacognizione a partire dal concetto di mente e di consapevolezza del se cominciando dall’antica Grecia, attraverso Platone, Aristotele, Democrito, Cartesio, Locke, Hobbes, Cabanis, Bateson via via fino al pensiero dei filosofi moderni giungendo alle porte delle scienze cognitive e delle neuroscienze.

Ha subito dopo preso la parola Tullio Scrimali, ribadendo lo spirito di collaborazione con i colleghi che da molti anni si occupano di metacognizione in Italia e preannunciando una serie di iniziative in ambito didattico da concertare tra la Scuola in psicoterapia cognitiva Aleteia, da lui diretta, e il Centro Clinico e di Ricerca di Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive di Caltanissetta, diretto da Sebastiano Maurizio Alaimo.

 Tullio Scrimali e Damiana Tomasello hanno illustrato un nuovo strumento iconico per l’assesment di cognizione e metacognizione che ha la duplice funzione di valutare il deficit nella ToM (teoria della mente) e al contempo di avviare, dopo la valutazione, un percorso di riabilitazione. Scrimali ha altresì illustrato diffusamente i gap della metacognizione nel paziente schizofrenico e l’importanza degli interventi riabilitativi in tale direzione.

Altrettanto interesse ha suscitato la relazione dal titolo Psicoterapia Cognitiva del paziente difficile: Training metacognitivo e incremento delle abilità deficitarie nel setting di gruppo presentata da Simona Tedesco, psicoterapeuta impegnata a Palermo, nel versante occidentale dell’isola. Durante il suo intervento a presentato il Protocollo Cnosso e la sua applicazione su sei pazienti afflitti da gravi Disturbi della personalità.

Nel pomeriggio è stata la volta di giovani ricercatori che, con grande entusiasmo hanno presentato delle ricerche di particolare interesse, in diversi ambiti. Lisa Edvige Alaimo e Teresa Costanza hanno parlato dello sviluppo delle capacità di ToM in soggetti con ritardo mentale, evidenziando come nello studio il diverso livello di funzionalità non può essere spiegato solo a partire dal tipo di deficit mentale e che probabilmente l’attenzione e le premure dei genitori insieme a interventi abilitatiivo-riabilitativi potrebbero spiegare la variabilità registrata.

Laura Carbone ha messo in luce con la sua ricerca, condotta su soggetti in età evolutiva, l’importanza e l’efficacia di alcuni strumenti, come quello proposto dalla Main (Cos’è un pensiero?) utilizzato insieme al più celebre compito di falsa credenza di Sally e Anne insieme ancora al disegno della famiglia (per valutare la tipologia dell’attaccamento, interpretazione secondo Attili e Vermigli), e alle Favole di Duss. Lo studio, confermando quanto presente in letteratura, mostra alte correlazioni tra il tipo di attaccamento e lo sviluppo di adeguate funzioni metacognitive.

Mariangela La Lisa e Alessia Di Liberto hanno parlato di metacognizione e pazienti psichiatrici gravi. Anche le due giovani ricercatrici hanno illustrato uno studio su 50 soggetti, descrivendo i punteggi ottenuti ai diversi test e cercando di spiegarne, attraverso l’analisi statistica, il rapporto con la tipologia e gravità della malattia mentale.

Infine, molto interesse e curiosità in sala ha suscitato il lavoro del criminologo Cristian Tinebra che ha compiuto una lunga disanima sulle “capacità metacognitive” del mostro di Rostov, Andreij Romanovic Chikatilo.

Le due sessioni, quella mattinale e quella pomeridiana, sono state seguite da un vivace dibattito (molti, tra il pubblico, insieme ai professionisti, gli studenti di psicologia delle Università di Catania, Enna e Palermo), a testimonianza del crescente interesse per l’argomento trattato.

Discussione che si è protratta anche durante la pausa pranzo in un clima di piacevole confronto tra le “vecchie” e le giovani generazioni di professionisti della salute mentale.

Sull’onda dell’ottimismo e del rinforzo ricevuto dall’esito anche di questa edizione di Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva, i colleghi del Centro Clinico e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive e dell’ISPEM di Caltanissetta, insieme al suo ideatore e direttore scientifico Alaimo, dalla prossima settimana si dicono già pronti per la organizzazione della quarta edizione che avrà luogo, dopo Catania, Palermo e Caltanissetta, in un’altra delle splendide città siciliane.

 

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METACOGNIZIONETERAPIA METACOGNITIVA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

LE MOLTE ANIME DELLA METACOGNIZIONE: REPORT DAL CONGRESSO NAZIONALE DI RIMINI

 

 

 

 

 

DSM 5: Disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi correlati

 

 

DSM5 . - Immagine @ o-DSM-5-facebookTra pochi mesi anche noi avremo la versione italiana del nuovo DSM 5 e nell’attesa, tra numerose polemiche e criticità, ecco un nuovo importante cambiamento nella diagnosi e classificazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo e nei disturbi associati (www.dsm5.org).

Innanzitutto il DOC esce dal capitolo dei disturbi d’ansia per guadagnarsi un nuovo capitolo dedicato e un’entità nosografica autonoma insieme a ad altri disturbi ad esso correlati (Obessive-Compulsive and Related Disorders) a sostegno del sempre maggior numero di ricerche che sottolineano i tratti comuni che caratterizzano i disturbi legati allo spettro ossessivo compulsivo caratterizzati, quindi, dalla presenza di pensieri ossessivi e comportamenti ripetuti.

Acquisiscono una propria identità diagnostica il disturbo da accumulo patologico “Hoarding” (o disposofobia o accaparramento compulsivo) e il disturbo da escoriazione della pelle “Skin-Picking Disorder”. Rietrano poi nel medesimo capitolo il distrubo da dismorfismo corporeo e la tricotillomania.

Il disturbo da dismorfismo corporeo resta quasi invariato nei criteri diagnostici rispetto alla precedente versione del Manuale Psichiatrico, ma con l’aggiunta di un criterio che implica la presenza di comportamenti ripetitivi (o azioni mentali) in risposta alla preoccupazione di un presunto difetto fisico, mentre il termine trichitillomania viene ad affiancarsi al forse più comprensibile “Hair-Pulling Disorder” restando pressochè invariato nei criteri diagnostici.

Dunque due nuovi disturbi del quinto manuale rientrano nella categoria dei disturbi legati allo spettro ossessivo-compulsivo, in particolare dopo numerosi anni di ricerche e studi a riguardo l’accumulo compulsivo diventa una vera e propria patologia cessando di essere un sintomo della personalità Ossessivo-Compulsiva o un sottotipo di DOC.

Tale disturbo si caratterizza per la persistente difficoltà a disfarsi o gettare oggetti personali indipendentemente dal valore di questi. Questo tipo di comportamenti ha effetti dannosi per l’individuo e per i suoi familiari dal punto di vista emotivo, fisico, finanziario, sociale e persino legale. Questi soggetti “accumulatori” si distinguono dal normale collezionismo. Infatti la tendenza all’accumulo e il successivo non riuscire a gettare gli oggetti in loro possesso spesso portano a dover riempire i luoghi di vita e di lavoro creando disordine e rendendo impossibile l’utilizzo di tali aree.

L’importanza di tale disturbo è tale da creare disagio clinicamente significativo, o una compromissione nel piano sociale, lavorativo o in altre importante aree compresa la possibilità di preservarsi un ambiente di vita per sè o per altri. Nonostante per alcuni l’accumulo compulsivo sia egosintonico, questo comportamento può però essere fonte di disagio per altre persone come i familiari.

La ragione della nuova diagnosi risiede in una sempre più crescente mole di ricerche relative a questo disturbo condotte negli ultimi anni che riscontrano come tali soggetti affetti dalla patologia dell’accumulo non manifestano allo stesso tempo altri sintomi per la diagnosi di DOC nonchè la percentuale di casi presenti nella popolazione generale risulta essere maggiore rispetto al Disturbo Ossessivo (Mataix-Cols, Frost et all, 2010). In più altri studi suggeriscono che nonostante tali disturbi possano coesistere sono neurologicamente distinti (Saxena, Brody et all., 2004)

Il secondo disturbo inserito è quello di “Escorazione” (Skin Picking) che si stima essere presente tra il 2 e il 4 percento della popolazione che causa delle vere e proprie lesioni cutanee. L’accento dei criteri diagnostici così come vengono riferiti in una serie di video legati alle novità del nuovo manuale condotti dalla Dottoressa Katharine Phillips del Anxiety Disorder Work Group (http://www.psychiatry.org/) va, in particolar modo, sui tentativi del soggetto affetto da tale patologia di controllare o cercare di interrompere il proprio comportamento e pertanto sul disagio clinicamente significativo che questo causa, nonchè sulle compromissioni sul piano sociale e lavorativo o in altre importanti aree del funzionamento della persona.

Cambiano e si rivoluzionano anche alcune specifiche rispetto all’ormai vecchio manuale sia per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, per il Disturbo da Dismorfismo Corporeo e per l’Hoarding per quanto riguada l’Insight.

Il DSM-IV riportava la specifica “con scarso insight”, mentre adesso anche la dimensione dell’Insight cessa di essere dicotomizzata in una prospettiva bianco o nera, per spalmarsi lungo un continuum: insight buono, insight povero, fino all’assenza di insight e alla presenza di veri e propri deliri legati al disturbo ossessivo garantendo la possibilità di una diagnosi in questa area piuttosto che di disturbo psicotico o dello spettro schizofrenico. Le stesse specifiche vengono incluse anche per il disturbo da dismorfismo corporeo e per l’accumulo compulsivo ad indicare l’importanza della componente di insight anche per queste patologie.

Inclusi nel capitolo anche il Disturbo Ossessivo-Compulsivo indotto da sostanze o a seguito di condizione medica e la categoria “altri specificati/non specificati distubi Ossessivo-Compulsivi e correlati” (Other Specified and Undspecified Obssessive-Compulsive and Related Disorder ) che includono sia le condizioni di comportamenti ripetitivi legati ad una particolare focalizzazione nel corpo (oltre a strapparsi i capelli e all’escorazione della pelle) come il mordersi le unghie, mordersi le labbra e le guance sempre accompagnati da ripetuti tentatvi del soggetto di controllare o fermare il comportamento in questione, sia l’ossessione di gelosia caratterizzata dalla preoccupazione (che non assume le caratteristiche del delirio) circa l’infedeltà del partner.

Queste le novità che vedremo comparire nella nuova edizione con il fine di dare un valido contributo ai clinici e ai ricercatori, tuttavia le controversie sulle nuove diagnosi e sull’assetto del prossimo manuale sottolineano la preoccupante possibilità di una sovra diagnosi della patologia mentale e dello stigma correlato. Ai posteri l’ardua sentenza.

LEGGI:

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM 5 –  DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – OCD – DISMORFOFOBIA – DISTURBO DI DISMORFISMO CORPOREO

Misurare la patologia mentale con il DSM 5… Ecco le novità!

Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

BIBLIOGRAFIA:

 

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