La bella e la bestia: Arte e Neuroscienze – Recensione
Recensione
La bella e la bestia: arte e neuroscienze
di L. Lumer e S. Zeki
(2011)
Ed. Laterza
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Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.
Quanti di voi hanno pensato “Questi scarabocchi li so fare pure io!” davanti ad un quadro di J. Pollock? Quanti si sono mostrati scettici di fronte ad una tela tagliata di Fontana? Quanti durante una mostra di arte contemporanea hanno trascorso almeno cinque minuti ad osservare perplessi un termosifone?
Una volta le opere d’arte erano qualcosa di definito nello spazio e nel tempo (un quadro nella sua cornice, una scultura a tutto tondo). A partire dall’arte moderna si è invece assistito alla nascita di opere costituite da stimoli sempre più ambigui, fino ad arrivare a forme che oggi comprendono installazioni, video, performance…
Cosa accade nel nostro cervello di fronte a questo tipo di opere? Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.
La Lumer osserva che il nostro cervello, attraverso il processo di astrazione (capacità di formare un concetto generale partendo dal particolare), è in grado di cogliere delle costanti che ci permettono di mantenere coerente la percezione; per esempio, riconosciamo un oggetto per quello che è nonostante questo sia visto sotto condizioni di illuminazione o da prospettive e distanze differenti.
Di fronte, però, a stimoli ambigui a cui possono essere attribuiti differenti significati di pari validità, il nostro cervello si trova costretto ad accettare entrambe le possibili interpretazioni, seppur in momenti diversi e mai contemporaneamente; esempio famoso è il cubo di Necker in cui la nostra percezione oscilla tra un cubo visto da sopra e uno visto da sotto:
L’arte contemporanea, con l’ambiguità dei suoi stimoli, ingaggia il cervello dell’osservatore in questa continua sfida. Si pensi al ready-made di Marcel Duchamp “Fontana”: un orinatoio acquista un nuovo significato sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; l’osservatore oscilla tra la concettualizzazione di un oggetto quotidiano e un nuovo modo di pensare quell’oggetto.
Chi osserva, quindi, contribuisce alla creazione dell’opera che prende vita nell’attimo in cui lo sguardo dell’osservatore si posa su di essa. L’arte diventa così un prodotto del nostro cervello, esperienza nel qui ed ora.
Ed ecco che di fronte ad un quadro di Pollock noi non vediamo uno scarabocchio, ma percepiamo il mondo emotivo che l’artista ha voluto esprimere non attraverso la forma, bensì attraverso il movimento; e grazie ai neuroni specchio attiviamo tramite simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto, empatizzando così con l’artista.
Se l’arte è attribuzione di significato, allora diventa anche mezzo per acquisire conoscenza del mondo, delle relazioni interpersonali (emblematiche le performance artistiche di automutilazione di Marina Abramovic, in bilico tra vita e morte, che spingono il pubblico ad intervenire per porvi fine) e del proprio corpo (quando è il corpo stesso a diventare oggetto artistico).
E proprio a tal proposito, la Lumer ha tenuto per il secondo anno consecutivo un’interessante lectio magistralis in occasione di DermArt, convegno di dermatologia tra arte e scienza, giunto nel 2013 alla sua 5° edizione. Durante il suo intervento, intitolato “Se pergamena fosse la mia pelle”, la neurobiologa ha illustrato il fil rouge tra cervello visivo, arte e cute che diventa mezzo artistico e di conoscenza attraverso le forme che le malattie dermatologiche disegnano, attraverso i segni di traumi e di danni provocati, ed in quanto superficie pittorica su cui si eseguono camouflage e tatuaggi.
La Lumer con i suoi libri e le sue ricerche s’inserisce così all’interno del vivace dibattito tra scienza e arte, due campi che all’apparenza appaiono distinti ed incompatibili, ma che nella Neuroestetica hanno trovato un punto di contatto: “L’arte – una delle più elevate espressioni della complessità umana e delle più raffinate modalità di rappresentare sensazioni ed emozioni – ci fornisce una testimonianza preziosa sul funzionamento del cervello e in ultima istanza dell’uomo” (Zeki, 2007; 2010).
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BIBLIOGRAFIA:
- Ludovica Lumer – Semir Zeki. La bella e la bestia: arte e neuroscienze. Laterza, Bari, 2011.
- Zeki, S. (2007) La visione dall’interno, arte e cervello. Bollati Boringhieri, Torino, 2007
- Zeki, S. (2010) Splendori e miserie del cervello. Codice, Torino, 2007
Interdipendenza tra fattori terapeutici: metacognizione e alleanza
La creazione di un contesto relazionale di sicurezza, in cui poter riflettere sulla propria esperienza, e il confronto tra stati mentali propri e stati mentali dell’altro in un clima paritetico, permetterebbero un miglioramento della metacognizione del paziente.
Introduzione
Uno studio ha provato ad analizzare in che modo la qualità della relazione instauratasi tra paziente e clinico durante la psicoterapia influenzi la capacità del paziente di riflettere sui propri stati mentali (come ad esempio pensieri, emozioni e desideri).
Il buon funzionamento di questa capacità, definita metacognizione, consente alla persona di affrontare le situazioni problematiche con un’adeguata flessibilità affettiva, cognitiva e comportamentale; al contrario, deficit metacognitivi conducono la persona a sviluppare veri e propri sintomi psicopatologici. La metacognizione è pertanto considerata attualmente un aspetto rilevante su cui lavorare all’interno della psicoterapia con i pazienti.
Attraverso l’analisi di un campione di 96 colloqui, audioregistrati e trascritti parola per parola, relativi a 24 pazienti in psicoterapia, è stato indagato in quali momenti della seduta i pazienti mostravano maggiori capacità metacognitive.
I risultati statistici hanno messo in luce che i pazienti riuscivano a riflettere con maggior profondità sulle proprie esperienze nei momenti in cui era presente una maggior alleanza terapeutica con il clinico, ovvero nei momenti in cui il paziente si sentiva contenuto all’interno di un clima paritetico e collaborativo.
Inoltre, è stata rilevata un’associazione tra i livelli metacognitivi più alti dei pazienti e la presenza di un maggior numero di interventi supportivi del clinico, ovvero quelli in cui trasmetteva comprensione, validazione e supporto alle esperienze dei pazienti.
Questi risultati empirici sembrano essere in linea con le attuali teorizzazioni cliniche sull’argomento, secondo cui la creazione di un contesto relazionale di sicurezza, in cui poter riflettere sulla propria esperienza, e il confronto tra stati mentali propri e stati mentali dell’altro in un clima paritetico, permetterebbero un miglioramento della metacognizione del paziente.
Inoltre, diversi autori sottolineano che le variabili relative alla metacognizione, all’alleanza terapeutica e agli interventi del clinico siano legate tra loro da un rapporto di influenza bidirezionale: si muovono all’interno dell’interazione paziente-terapeuta secondo una dinamica di tipo circolare, condizionandosi costantemente e vicendevolmente.
In linea con questa prospettiva teorica, pertanto, i risultati dello studio potrebbero nel contempo indicare che l’espressione di maggiori difficoltà metacognitive dei pazienti ostacoli la costruzione di un clima relazionale positivo all’interno della psicoterapia; al contrario, laddove i pazienti risultano più abili nel riflettere metacognitivamente sulla propria esperienza, si creerebbe con maggior facilità un rapporto positivo e collaborativo tra clinico e paziente.
In conclusione, i dati emersi dallo studio sembrano indicare che la metacognizione sia una capacità cognitiva che viene favorita dalla presenza di una relazione positiva e paritetica con il clinico, e che, in un’ottica di interdipendenza reciproca, a sua volta tale abilità sia in grado di influenzare la creazione di una soddisfacente relazione terapeutica tra paziente e clinico.
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LEGGI:
METACOGNIZIONE – ALLEANZA TERAPEUTICA
Sara Citro, Dipartimento di Psicologia, Università degli studi Milano-Bicocca, Italia
Quando i bambini costruiscono insieme un gioco immaginario – Psicologia
Uno studio pilota australiano ha indagato il fenomeno tecnicamente definito come gioco immaginario coordinato in funzione della variabile “grado di amicizia”.
Basti pensare alla nostra infanzia, un gioco di potenziometri inventato con una delle amichette del cuore. La stanza diventa una navicella spaziale, i sassolini colorati diventano gettoni magici – per l’appunto i potenziometri- per raggiungere lo spazio, ogni colore ti consente di andare su un pianeta diverso: marrone Marte, bianco Venere, azzurro Mercurio, si parte. Una stanza, sassolini colorati e tanta immaginazione.
Uno studio pilota australiano ha indagato proprio questo fenomeno tecnicamente definito come gioco immaginario coordinato in funzione della variabile “grado di amicizia”, e cioè a dire variano le interazioni conversazionali in tale contesto di gioco se i bambini sono molto amici (“migliori amici”) oppure si sono soltanto compagni di gioco più occasionali.
E’ stato analizzato il gioco di coppie di bambini di 5-6 anni di età, caratterizzate da diversi gradi di amicizia, e a cui veniva loro fornito materiale di gioco generico che lasciasse spazio alla fantasia. I ricercatori hanno identificato nelle interazioni di gioco (della durata di circa 30 minuti) tre temi conversazionali distinti: in primo luogo il tema del “costruire insieme” in cui l’obiettivo è co-costruire una rappresentazione condivisa di oggetti reali e immaginari.
In secondo luogo emergerebbe il tema della “condivisione di informazioni personali”, che sarebbe presente soltanto nel caso in cui la coppia di bambini sia caratterizzata da amicizia stretta e non solo occasionale. Infine il tema chiave dello storytelling e cioè la cocostruzione di uno scenario immaginario, per prima cosa decidendo insieme cosa sarebbe più divertente da immaginare e quindi ponendo le fondamenta dello storytelling condiviso.
Ulteriori sviluppi di ricerca sono chiaramente necessari a questo iniziale studio esplorativo e preliminare, per comprendere le differenze conversazionali e linguistiche prendendo in considerazione gli aspetti affettivi tra pari.
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BAMBINI – RAPPORTI INTERPERSONALI – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE
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BIBLIOGRAFIA:
- Frances Hoyte, Jane Torr, and Sheila Degotardi (2013). The language of friendship: Genre in the conversations of preschool children Journal of Early Childhood Research.
Differenze di genere nelle reazioni allo stress – Psicologia
Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia.
Genere ed età sono, come noto, due determinanti fondamentali per la salute. Trattare i due sessi come uguali può essere inappropriato sia nel campo della ricerca che nel campo della clinica.
I dati epidemiologici suggeriscono che le donne vivono più a lungo ma in peggiori condizioni di salute. La categoria più a rischio di incorrere in patologie legate allo stress pare essere quella delle donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002; Duprè, 2002; ISTAT, 2005; European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, 2007; Reale et al., 2009)
Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia. Le differenze di genere sono inoltre il frutto di una sottile interazione tra fattori biologici e ambientali, il ruolo nella società, la concezione di sé e la propria storia personale.
La letteratura scientifica in molte discipline evidenzia come i maschi siano più studiati rispetto alle femmine: la biologia di base dei testi di medicina rispecchia la biologia maschile, lo sviluppo dei farmaci è basato sulla ricerca al maschile. Una ricerca medico-scientifica basata sul genere è l’obiettivo dell’approccio definito Gender Medicine, nella quale si tiene conto di fattori quali la classe sociale, il livello di istruzione, l’età, le condizioni psicologiche, ma soprattutto il genere. I dati epidemiologici (ISTAT, 2005) evidenziano differenze tra uomini e donne: le donne vivono più a lungo ma in condizioni peggiori di salute.
L’indagine ISTAT del 2005 “Condizioni di salute e ricorso ai sevizi sanitari” suggerisce le seguenti percentuali: le donne riferiscono di essere affette, in modo maggiore degli uomini, soprattutto da artrosi/artrite (21,8% contro 14,6%), osteoporosi (9,2% contro 1,1%) e cefalea (10,5% contro il 4,7%); depressione e ansia (7,4% contro il 3,1%); malattie allergiche (11,2% contro 10,3%); ipertensione arteriosa (15,4% contro l’11,8%), diabete (4,7% contro il 4,3%), malattie della tiroide (5,5% contro lo 0,9%); tumore (1,1% contro lo 0,9%).
Continuando con i dati ISTAT, in alcune patologie le donne hanno valori più elevati degli uomini anche nella fascia di età più giovanile (34-35 anni), in particolare per quanto riguarda le malattie della tiroide, allergiche, artrosi e artrite, depressione e ansia, tumore, cefalea (che ha il picco nella fascia d’età 35-44 anni). La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini).
Infine, tra le cause di morte, quelle più frequenti tra le donne sono le malattie dell’apparato circolatorio (46,8%) e il cancro (23,8%). Le malattie dell’apparato respiratorio sono responsabili del 5,5% dei decessi e le causa violente del 3,7%.
Volendo considerare solo le patologie strettamente correlate allo stress, l’Agenzia del Lavoro cita, insieme alle malattie cardiache, anche le malattie psichiche, per le quali le donne sono vittime in percentuali maggiori rispetto agli uomini. In particolare, il 20% di donne rispetto al 17% di uomini riportano sintomi di stress, depressione e ansia (Duprè, 2002).
Nella Quarta Ricerca Europea (European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, Fourth European Working Condition Survey, Denmark, 2007) è emerso che le donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito, subiscono più stress rispetto alla quantità di lavoro in più e rispetto alle difficoltà psicologiche nel gestire i ritmi di entrambe le occupazioni, spesso rese incompatibili dalle organizzazioni del lavoro e dal contesto sociale e familiare.
Uno dei principali fattori che condizionano l’equilibrio tra lavoro e vita riguarda il numero di ore lavorate. Livelli molto elevati di soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata è segnalato da coloro che lavorano meno di 30 ore alla settimana. Il lavoro domestico, per la molteplicità delle mansioni, per la sussistenza di rischi potenziali e per la dispendiosità energetica è collocabile nella graduatoria dei lavori usuranti.
Ciò è sostenuto dalla prevalenza di molte patologie cronico-degenerative in coloro che si occupano prevalentemente di lavori domestici (Reale et al., 2009). La potenzialità patogena aumenta ulteriormente quando si configura come attività aggiuntiva (doppio lavoro). Numerosi studi hanno evidenziato come il doppio carico di lavoro potrebbe avere serie conseguenze sulla salute e sulla sicurezza delle donne, le più esposte a questa condizione (Agenzia Europea per la Sicurezza e la salute sul Lavoro, 2002).
Il lavoro domestico dovrebbe dunque essere considerato alla stessa stregua del lavoro produttivo, con il conseguente riconoscimento dei rischi e una loro standardizzazione, al fine di evitare l’invisibilità dei pericoli fisici, psicologici e sociali ai quali la donna è esposta.
LEGGI:
GENDER STUDIES – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA
BIBLIOGRAFIA:
- Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro (2002). Stress legato all’attività lavorativa. Facts, 22, Lussemburgo.
- Duprè, D. (2002). The health and safety of men and women at work. Statistics in focus, 4/2002. Eurostat, Office for Official Publications of the European Communities, Luxemburg. (DOWNLOAD)
- European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition (2007). Fourth European Working Condition Survey, Denmark.
- ISTAT (2005), Condizioni di Salute, fattori di rischio e ricorso ai servizi sanitari, Roma.
- Reale, E., Carbone, U. (2009). Il genere e il lavoro. Valutare e prevenire i rischi lavorativi nella donna. Franco Angeli, Milano.
Disturbo paranoide di personalità – Sospettando ad veritatem pervenit!
La caratteristica essenziale del Disturbo Paranoide di Personalità è un quadro pervasivo di sfiducia e sospettosità, tanto che le intenzioni degli altri sono interpretate sempre come malevole.
Ricordate la canzone Paranoid dei Black Sabbath? Si racconta di una persona che sta male, che non riesce a godersi la vita, rimugina moltissimo, ed è alla ricerca della felicità! Effettivamente, questo stato corrisponde esattamente a quello che nell’immaginario collettivo si è soliti definire col termine “paranoia”: condizione di confusione, di preoccupazione, di pensieri che si rincorrono. Ma questo non significa essere paranoici nel senso più patologico della termine, anzi non è paranoici affatto!
Che cosa si intende esattamente per “paranoia” patologica?
La caratteristica essenziale del Disturbo Paranoide di Personalità è un quadro pervasivo di sfiducia e sospettosità, tanto che le intenzioni degli altri sono interpretate sempre come malevole.
Gli individui con questo disturbo presumono che gli altri li sfruttino, li danneggino o li ingannino, anche quando non vi sono prove che supportino queste aspettative. Sospettano, sulla base di prove insignificanti o inesistenti, che gli altri complottino contro di loro e possano attaccarli improvvisamente, in ogni momento e senza alcuna ragione.
Dubitano, senza una giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o di colleghi, le cui azioni sono esaminate minuziosamente per evidenziare le intenzioni ostili. Ogni deviazione dalla affidabilità e della lealtà serve a supportare le loro presunzioni: l’altro è malevolo e sicuramente mi farà del male.
Infatti, un gesto di lealtà altrui li porta a rimuginare sull’autenticità dello stesso e se esista un fine diverso celato dietro un atto apparentemente benevolo. Per esempio, un individuo con questo disturbo può interpretare un errore commesso da un amico come un tentativo deliberato di imbroglio, o può intendere un rimprovero scherzoso e casuale da parte del capo come un grave attacco.
I paranoici sono riluttanti a confidarsi o a entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni possano essere usate contro di loro. Leggono significati nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri atti amichevoli.
Possono interpretare un’offerta di aiuto come una critica al fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.
Gli individui con questo disturbo provano costantemente del risentimento, e sono incapaci di dimenticare insulti, offese, o ingiurie che pensano di avere ricevuto. Piccoli torti evocano grande ostilità, e i sentimenti suscitati persistono per molto tempo. Sono costantemente attenti alle intenzioni nocive degli altri, spesso sentono di essere stati attaccati nel ruolo o nella reputazione, o di essere stati offesi in qualche altro modo, per questo contrattaccano e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti.
I paranoici sono gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il partner sessuale sia infedele senza una giustificazione adeguata. Possono raccogliere prove banali o circostanziate per supportare le loro convinzioni di gelosia. Pretendono di mantenere un controllo completo delle relazioni intime per evitare di essere traditi.
E’ difficile possano andare d’accordo con gli altri, e spesso hanno problemi nelle relazioni strette, il loro atteggiamento ipervigile nei confronti di minacce potenziali, gli permette di agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, fino ad apparire privi di sentimenti.
La loro natura aggressiva e sospettosa può suscitare negli altri una risposta ostile, che serve a confermare le loro aspettative originarie, e il pensiero malevole è confermato e validato, profezia che si auto-avvera.
Vista la scarsa fiducia negli altri, i paranoici pretendono da loro stessi di essere autosufficienti e autonomi.
Sono litigiosi e spesso si coinvolgono in dispute legali, e se qualcosa non andasse per il verso giusto? Chiaro, è sempre colpa dell’altro, cattivo e spietato.
E in terapia, cosa è possibile fare con un paranoico?
Il trattamento terapeutico mira a portare il paziente a riconoscere le proprie emozioni, aiutandolo ad individuare lo stato di minaccia, di pericolo o di derisione, a cui seguono emozioni quali ansia e rabbia, oppure lo stato in cui sente di essere stato escluso dagli altri, a cui, invece, seguono tristezza ed isolamento.
Solo in un secondo momento è possibile lavorare per migliorare l’incapacità di porsi nella prospettiva dell’altro e la difficoltà di distinguere tra mondo esterno e mondo interiore. Questo è uno degli aspetti più importanti del trattamento ed è fondamentale per regolare lo stato interno del soggetto e le sue relazioni.
Un’ulteriore parte del trattamento, infine, è costituito dalla messa in discussione delle interpretazioni disfunzionali del paziente riguardanti le intenzioni degli altri, attraverso la formulazione di ipotesi alternative alle sue convinzioni, intervento prettamente cognitivista basato sul disputing e formulazione di pensieri alternativi.
Quindi, il paziente è allenato a fornire nuove interpretazioni delle situazioni, dei comportamenti e dei pensieri degli altri, permettendo in questo modo di migliorare le difficoltà e di acquisire nuovi strumenti per verificare l’attendibilità delle sue interpretazioni sui comportamenti altrui.
“Il neofita sente il dovere di difendere fanaticamente la fede che ha abbracciato. Nel paranoico abbiamo esattamente la stessa condizione: egli si sente costretto a difendersi contro ogni critica esterna perché il suo sistema delirante è fortemente attaccato all’interno” ( Jung, 2011).
LEGGI:
DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITA’ – RAPPORTI INTERPERSONALI
Storie di Terapie #3 – Andrea lo Sfortunato.
BIBLIOGRAFIA:
- Freeman, D. & Garety, P.A. (2004) Paranoia: The Psychology of Persecutory Delusions. Psychology Press, Hove.
- Gabbard, G. O. (2002). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano. (ACQUISTA ONLINE)
- Munro, A. (1999) Delusional disorder. Cambridge University Press, Cambridge.
- Sims, A. (2002) Symptoms in the mind: An introduction to descriptive psychopathology (III edizione). Elsevier Science, Edinburgh.
- Jung,C.G. (2011). Tipi psicologici, traduzione di Cesare L. Musatti e Luigi Aurigemma, Bollati Boringhieri, Milano.
Psicoterapia Sistemico-Relazionale: Intervista con Alfredo Canevaro
LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI
State of Mind intervista:
Alfredo Canevaro
Psichiatra e Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale.
Fondatore della Società Argentina di Terapia Familiare e della rivista Terapia Familiar
Serena Mancioppi intervista per State of Mind Alfredo Canevaro, Psichiatra e Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale. Fondatore della Società Argentina di Terapia Familiare e della rivista Terapia Familiar.
Questa conversazione fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.
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La scienza del dialogo interiore – Psicologia
Studiare dal punto di vista empirico il fenomeno del dialogo interiore, o inner talk, e cioè il processo per cui le persone mentalmente parlano a sé stesse, è oltremodo complicato poiché nel momento in cui si cerca di indagare tale attività mentale mediante self-report retrospettivi si attua un’interferenza con il fenomeno oggetto di studio.
Per diversi anni lo studioso Russell Hurlbert ha utilizzato una tecnica particolare per indagare questo self-talk o dialogo interiore nella quotidianità. La tecnica consiste nel fornire ai soggetti un dispositivo che emette un suono (beep) che si attiva diverse volte durante il giorno e non appena suona si richiede ai partecipanti di riportare in maniera dettagliata la loro attività mentale immediatamente prima del suono del beep. Tale approccio viene definito “descriptive experience sampling” (DES) e implica una collaborazione stretta tra soggetti e ricercatori affinchè il soggetto sperimentale apprenda a distinguere e a descrivere puntualmente le diverse tipologie di attività mentale.
In un recente articolo il team di ricercatori guidati da Hurlbert fanno il punto dei loro risultati di ricerca sul tema del dialogo interiore. Anzitutto la voce del dialogo interiore – che è un dialogo silente puramente mentale- viene solitamente percepita come la nostra stessa voce e soltanto in rarissimi casi con la voce di altri. Anche se in alcuni casi sono emersi esempi di dialogo interiore a più voci che dicono cose differenti (forse in relazione a un processo di disputing di credenze?E’ un aspetto ancora da verificare). Proprio come la nostra voce vera, la voce del nostro dialogo interno viene percepita a livello fenomenico con caratteristiche sovrasegmentali non verbali differenti in funzione dell’emozione che stiamo provando.
Vi sarebbe poi una grande variabilità nella frequenza con cui le persone parlano a sé stesse nelle loro menti: mediamente al 23% dei beep sono stati rilevati dialoghi interiori, però con elevate deviazioni standard. Interessante è anche il tema della localizzazione: alcune persone localizzano il processo del dialogo interiore nella testa, mentre altri nel petto.
In alcuni casi un self-talk con una velocità così elevata da essere impossibile da riprodurre a voce alta (per inevitabili vincoli fisiologici del nostro sistema fonatorio).
Vale la pena sottolineare che cosa non è dialogo interiore. Va distinto dal fenomeno di ascolto interiore, in cui una voce viene esperita passivamente. E’ anche differente dal “pensiero non simbolizzato”, esperienza mentale riguardo uno specifico concetto che però non implica parole e simboli.
La tecnica di indagine “descriptive experience sampling” (DES) secondo i ricercatori avrebbe il vantaggio – rispetto a indagini retrospettive mediante questionari – di rimanere più ancorata temporalmente al momento in cui si verifica il fenomeno di inner speaking.
Diversi aspetti sono ancora da indagare, dalle differenze individuali riguardo alla presenza del dialogo interiore, al processo di sviluppo ontogenetico, alle differenze cross-culturali, così come la comprensione di questo costrutto rispetto ad altri quali il rimuginio e la ruminazione.
LEGGI ANCHE:
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IMMAGINAZIONE E PENSIERO VERBALE NEL RIMUGINIO
BIBLIOGRAFIA:
- Hurlburt RT, Heavey CL, and Kelsey JM (2013). Toward a phenomenology of inner speaking. Consciousness and cognition, 22 (4), 1477-94
La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista – Recensione
Recensione
La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista.
di Leahy, Tirch e Napolitano
(2013)
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La regolazione delle emozioni in psicoterapia: per la recensione di questo volume della Eclipsi possiamo prendere spunto dalla prefazione scritta da Cesare Maffei. Il volume si pone come obiettivo principale fornire una cassetta degli attrezzi ai professionisti che si trovano a lavorare con i propri pazienti.
Il libro, infatti, rappresenta lo sforzo ben riuscito di integrare il Cognitivismo più standard (basti pensare che Robert Leahy é Direttore dell’Amerian Institute for Cognitive Therapy di New York) con i recenti modelli di terapia cosiddetti di Terza Ondata.
Ciò non toglie che il volume, prima di prendere in esame le singole possibili forme di intervento sulla regolazione delle emozioni, dedica i primi capitoli a fornire una cornice teorica ben chiara di riferimento, la Teoria degli Schemi Emozionali.
Come sottolineato sulla prefazione, infatti, “i clinici da tempo hanno compreso come una delle esperienze più problematiche per i pazienti sia la sensazione di essere sopraffatti dalle emozioni e come, non sapendo regolarne l’intensità, alcuni adottino strategie di doping maladattive (abuso di alcol o sostanze, abbuffate, vomito autoindotto, colpevolizzazioni degli altri, dipendenza dalla pornografia, rimugino e ruminazione etc…)”.
Questa breve osservazione degli autori rende l’idea di come tutte le strategie che mettiamo in atto in presenza di emozioni forti e presumibilmente per noi non regolabili, altro non siano che tentativi di gestire, in modo spesso dannoso, una attivazione emotiva vissuta come incontrollabile o quantomeno pericolosa per noi.
La parte teorica del libro si concentra sulla descrizione accurata della Emotional Schema Therapy (EST) ideata da Leahy. Il centro della teoria riguarda l’ipotesi che le differenti interpretazioni che vengono date dalle persone siano riconducibili a differenti e specifici “schemi emozionali“. Ad esempio, credenze negative rispetto alle proprie emozioni, come ad esempio “sono prive di senso, non finiscono mai, sono qualcosa di imbarazzante etc…”, portano a sviluppare strategie dannose di gestione di tali emozioni, ad esempio il rimuginio. Avere credenze positive e adattive circa le proprie emozioni, invece, ci permette non solo di esprimerle in modo funzionale ma viene anche meno la necessità di attivare strategie disfunzionali per gestirle.
Senza entrare in merito alla teoria molto interessante presentata in questo libro, ci limitiamo a segnalare che la prima parte del volume, quella teorica appunto, prepara il clinico lettore a dare un ordine e un senso alle molteplici tecniche descrittive nella seconda parte del libro, che occupa la maggior parte del volume.
Interventi come accettazione e compassione, Mindfulness, validazione, ma anche ristrutturazione cognitiva “stretta” e tecniche di gestione dello stress, vengono presentate e integrate in un corpus coerente e ricco di spunti di riflessione.
La sensazione che si ha leggendo questa guida per i professionisti é che gli autori, di formazione e tradizioni differenti all’interno del panorama cognitivista, abbiamo davvero compiuto uno sforzo di discussione, andando oltre le proprie singole formazioni e cercando, spesso riuscendoci, di aprire le proprie prospettive a interventi e modelli diversi.
Ristrutturazione cognitiva e tecniche comportamentali vengono integrate con interventi basati sulla Compassione Focud Therapy, interventi di riduzione dello stress con interventi di Mindfulness.
Il modello della EST, come indicato dagli autori, incoraggia l’utilizzo e l’integrazione con concettualizzazioni e interventi che promuovano nel paziente la regolazione delle emozioni.
Lo stile dei capitoli sugli strumenti della “cassetta degli attrezzi” é stato costruito con la migliore traduzione dei manuali “british“, razionale, schematizzata e standardizzata. Ogni capitolo, infatti, include un elenco di tecniche e strategie che possono essere utilizzate dal clinico.
L’aspetto interessante é che gli autori non propongono un modello a step, seduta dopo seduta, bensì lasciano al lettore la possibilità di utilizzare il manuale in modo flessibile e coerente con i propri modelli di riferimento, mantenendo come base del lavoro l’importanza sia dell’esperienza emotiva sia della sua regolazione (o disregolazione).
Ogni tecnica viene presentata seguendo uno schema chiaro e semplice: descrizione della tecnica, domande da porre, esempi con dialoghi terapeuta-paziente, homework da proporre per il lavoro a casa tra una seduta e l’altra, i possibili problemi che si possono incontrare nel percorso e infine altre tecniche integrabili con quella descritta.
Inoltre, il manuale é accompagnato da un insieme ricco di schede, moduli e esercizi pratici che aiutano, nel miglior stile cognitivista, non solo a comprendere il razionale teorico ma anche a cogliere sia da subito l’utilità clinica-esperienziale delle tecniche proposte.
Insomma, un volume molto denso quello di Leahy e colleghi, che rappresenta anche uno sforzo notevole per terapeuti cognitivi standard: dare valore all’aspetto emotivo dei nostri pazienti e di coglierne l’importanza fondamentale in terapia.
Chissà che questi volumi aiutino a chiudere una volta per tutte l’annosa (e ormai noiosa) questione legata alla poca importanza che alcune terapie cognitive hanno dato, in passato, alla dimensione emotiva dell’essere umano.
I nostri pazienti arrivano sempre nei nostri studi con un problema o una difficoltà “emotiva” che li guida. Non dare a essa valore sarebbe come avere il privilegio di entrare in un meraviglioso giardino privato all’italiana e non soffermassi sui colori delle piante, sugli odori e sulle singole isole e concentrarsi solo sui gradini.
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DISPUTING E RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA – COGNITIVISMO – CREDENZE – BELIEFS – PSICOTERAPIA COGNITIVA
BIBLIOGRAFIA:
- Leahy R. L., Tirch D., Napolitano L. A. (2013) La regolazione delle emozioni in psicoterapia. Guida pratica per il professionista. Edizioni Eclipsi.
Alimentazione: La dimensione sociale dei pasti – Psicologia
Alimentazione: La dimensione sociale dei pasti correla con il peso dei bambini e dei loro genitori.
La dimensione sociale gioca un ruolo cruciale quando si parla di cibo: mangiare è bello, ma mangiare in compagnia lo è ancora di più. La convivialità rappresenta quindi un elemento fondante la percezione di piacere connessa al cibo, che non è solo indispensabile per la sopravvivenza, ma può essere condivisa, quindi diventare uno spazio sociale di incontro tra le persone.
L’ambiente in cui il pasto si consuma ha a sua volta un effetto sulla qualità percepita del pasto: mangiare su una bella terrazza sul mare è ben diverso che farlo in ufficio davanti al computer, e questo incide fortemente sul nostro umore e sulla possibilità di sperimentare stati emotivi positivi. Non solo, ma è anche il corpo a subirne l’effetto.
Questa la scoperta recente di due ricercatori americani Brian Wansink e Ellen van Kleef, i quali hanno indagato la relazione tra i rituali familiari durante la cena e l’indice di massa corporea (BMI), calcolato considerando il peso e l’altezza dell’individuo. Hanno partecipato allo studio un gruppo di bambini e di loro genitori, i quali hanno compilato un questionario volto ad indagare le abitudini familiari durante i pasti, tra cui ad esempio l’abitudine di raccontarsi quanto fatto durante la giornata, piuttosto che l’abitudine di mangiare seduti a tavola o sul divano davanti alla televisione.
I risultati hanno mostrato come le abitudini sociali durante i pasti correlavano con il BMI sia dei genitori che dei loro figli, ovvero tanto più il BMI era elevato tanto più ad esempio le coppie genitori-figli riferivano l’abitudine di mangiare davanti alla televisione accesa.
Mangiare seduti a tavola in cucina o in sala da pranzo si associava invece a BMI più bassi nei bambini e nei loro genitori. Le bambine che avevano l’abitudine di aiutare i propri genitori nella preparazione della cena mostravano livelli di BMI più elevati, dato non presente nei bambini maschi, che viceversa mostravano più bassi livelli di BMI se provenienti da famiglie in cui vigeva la regola per tutti di stare a tavola sino a quando ognuno non aveva finito di mangiare.
Questi risultati confermano quindi l’importanza della dimensione sociale di condivisione dei momenti dei pasti in famiglia e il suo effetto sull’indice di massa corporea tanto nei bambini che nei loro genitori. L’interazione sociale si sostituisce quindi alla sovra-alimentazione, tipicamente associata con lo svolgimento di attività passive durante i pasti, favorendo la possibilità di sperimentare emozioni positive.
Il risultato di questa ricerca potrebbe quindi rappresentare un fattore chiave nella prevenzione dell’obesità, spunto per poter arricchire i programmi di prevenzione e di cura di tale problematica attraverso una più attenta educazione dei bambini e del loro genitori non solo al cosa mangiare ma anche al come farlo in modo socialmente stimolante e gratificante.
LEGGI:
ALIMENTAZIONE – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – BAMBINI – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’
BIBLIOGRAFIA:
- Ladzinski, J., The dining table should be more than just a place for eating!, 06-11-13, Cornell University
- Wansink, B., & Van Kleef, E. (2013). Dinner Rituals that Correlate with Child and Adult BMI. Obesity, Forthcoming.
Impulsività e videogame violenti: quale legame? – Psicologia
Giocare con videogame violenti può aumentare la probabilità di attuare comportamenti impulsivi rispetto al gioco non-violento.
In un nuovo studio sono stati coinvolti 172 ragazzi di età compresa tra i 13 e 19 anni.
I soggetti sono stati sottoposti a circa 30 minuti di gioco violento oppure 30 minuti di gioco “non violento” mediante computer.
I ricercatori hanno scoperto che i ragazzi del primo gruppo coinvolti in videogame violenti di fatto hanno mangiato tre volte tanto (rispetto all’altro gruppo) dolci e caramelle lasciate in una ciotola accanto a loro durante il gioco stesso.
Al termine della sessione di gioco ai soggetti è stato chiesto di rispondere ad alcune domande generiche, di autoverificarne la correttezza e di premiarsi con dei biglietti della lotteria per ciascuna risposta corretta: tutto questo senza che nessuno li stesse a controllare.
Dai risultati è emerso che i ragazzi che avevano giocato a videogames violenti avevano una probabilità di 8 volte maggiore di prendersi biglietti non meritati – e cioè anche quando le risposte fornite erano sbagliate.
E’ qualcosa di differente da quel che genericamente si dice riguardo videogames violenti e aggressività, qui sono in gioco i comportamenti impulsivi, intesi come difficoltà a inibire alcune risposte comportamentali in funzione delle conseguenze a breve e lungo temine, con un legame stretto tra emozione e azione.
LEGGI:
IMPULSIVITA’ – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – PSICOLOGIA & TECNOLOGIA
BIBLIOGRAFIA:
- Alessandro Gabbiadini, Paolo Riva, Luca Andrighetto, Chiara Volpato, Brad J. Bushman, Interactive Effect of Moral Disengagement and Violent Video Games on Self-Control, Cheating, and Aggression, Social Psychological and Personality Science November 8, 2013
Omicidio-Suicidio alla clinica di Paderno Dugnano. Prospettiva Psicologica
Due righe di commento sull’uomo (GB) che giovedì 2 gennaio ha ucciso la moglie (MP) nella clinica «Emilio Bernardelli» a Paderno Dugnano, dove la donna era ricoverata per un’ischemia cerebrale, e che poi si è ucciso.
Una storia dolorosa che nei giornali viene descritta come una storia di affetto e di amore. Un uomo, dopo un grave evento invalidante, per non potere rinunciare alla donna con la quale vive e che ama, la uccide e si uccide.
Però potrebbe essere anche una storia di dipendenza eccessiva. La donna dopo l’ischemia (sono passati solo due mesi) stava lentamente riprendendosi e aveva bisogno di tempo. I medici stessi dicono che occorrono molti mesi perché la situazione cerebrale dopo un trauma si assesti. E allora perché ucciderla? Cito dal Corriere della Sera:
MP non era in pericolo di vita. Si stava riabilitando, era cosciente e vigile, la signora aveva sicuramente subito dei danni però nessuno può giudicare “perenne” un quadro evolutivo come poteva essere il suo “anche se comunque era un quadro importante”.
Se dobbiamo fare una riflessione su questa vicenda, certo non è quella della Bossi Fedrigotti, che qui citiamo
“la tragedia fornirà motivo per discutere di nuovo di eutanasia, la cosiddetta morte dolce in contrasto con quella violenta, scioccante a colpi di rivoltella: ma avrebbe, anche a più dolce delle morti, indotto G. a vincere il suo smarrimento, a posare la pistola, a continuare a vivere, magari anche dieci anni, da solo e soprattutto senza A?”
Mi chiedo: ma che c’entra l’eutanasia?
Non viene voglia di riflettere da psicoterapeuti su questo omicidio? Si possono fare alcune ipotesi (che rimarranno ipotesi) perché ora la scena è ferma per sempre.
La prima è quella che ha dominato la scena giornalistica e che ha a che fare con il dolore e la depressione. L’uomo si è sentito solo, senza l’affetto di sua moglie, probabilmente con difficoltà a sentirsi competente e adeguato. Il dolore è troppo grande e non sa affrontarlo in modo profondo, e prende la scorciatoia, spara a lei e a se stesso. Certo se fossi stata la moglie avrei voluto essere messa al corrente della scelta e che mi venisse richiesto, in quello specifico momento, non prima, mentre se ne parlava prima che le cose vere accadessero.
In questo caso, da clinici, pensiamo che quest’uomo fosse poco abituato ad affrontare in modo consapevole le emozioni dolorose. E che anzi ne fuggisse, le temesse.
Oppure l’uomo è un ansioso, ha visioni catastrofiche del futuro, teme che da solo non ce la farà, non tollera di non conoscere ciò che ha davanti a sé e affronta l’evento chiudendo il futuro che non sa prevedere, che teme di non sapere affrontare e organizzare. In questo caso l’ansia, la paura, hanno portato a una scelta poco riflessiva, non condivisa.
Oppure è un impulsivo, è arrabbiato con il destino che gli ha fatto quello scherzo, protesta contro l’evento che gli sembra gli tolga la libertà di scegliere la vita che preferiva fare.
Gli spari, a se stesso e alla moglie sono spari di rabbia e di protesta. Che non tengono conto delle esigenze e del punto di vista della compagna. E forse anche dei figli, che non sono stati consultati sull’esito cruento che si andava preparando.
Insomma in tutti i casi abbiamo una persona poco capace di accettare e affrontare in modo consapevole questa fase dolorosa della vita in cui sembra che tutte le certezze si perdano, e in cui si è davanti a eventi improvvisi e imprevisti che non si pensava di potere affrontare.
La consapevolezza emotiva, la capacità di accettazione della realtà e di quello che essa improvvisamente ci impone sono tipici argomenti di un intervento psicologico.
Così come la capacità di mettersi in relazione con l’altro e condividere ciò che l’altro prova o può provare o pensa o può pensare. MP non parlava in questa fase ma certo GB non è stato capace di mettersi nei panni di lei. Per dolore? Per paura? Per rabbia? Si è messo violentemente al centro della scena decidendone lo script e il finale.
Insomma, a mio parere, un evento della patologia mentale e della violenza più che un evento dell’esagerato amore.
LEGGI ANCHE: VIOLENZA – SUICIDIO
BIBLIOGRAFIA:
-
Mologni M. (2014). Uccide la moglie in coma in clinica e si spara davanti al corpo di lei. Corriere della Sera, 2 Gennaio 2014
ARTICOLO CONSIGLIATO:
“Amour”, Storia d’Amore e Distruzione – RECENSIONE (M. Haneke, 2012)
Leadership negli Sport di Squadra #13: I leader e la soddisfazione
Leadership negli Sport di Squadra #13:
I leader e la soddisfazione
LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA
Nel capitolo precedente è stata analizzata la figura del leader, che sia istituzionale o intimo,in relazione alle prestazioni e al raggiungimento di risultati positivi. In questa sezione l’accento verrà posto sull’aspetto socio-relazionale del rapporto tra il leader e gli altri atleti.
Un leader non deve mettere in atto comportamenti esclusivamente centrati sul compito ma in alcune condizioni (per la precisione quelle con un livello di controllabilità intermedio) si possono ottenere risultati migliori con un comportamento improntato allo sviluppo delle relazioni e all’aumento della soddisfazione individuale degli atleti. Questa considerazione, già, per altro, giustificata, è utile per sottolineare come esista un forte rapporto di interdipendenza tra la prestazione e la soddisfazione dei giocatori di una squadra e come esistano variabili (quali la coesione) che agiscono positivamente su entrambe.
Perché la soddisfazione e gli obiettivi della squadra possano entrambi realizzarsi è necessario, nel pensiero di Giovannini e Savoia [2002], la costituzione di un accordo allenatore-atleta nel quale il primo esponga le sue aspettative prestazionali nei confronti dell’altro e quest’ultimo lo informi sui suoi obiettivi personali. Questa può rappresentare una buona base di partenza per il lavoro di tutti, proprio perché imposta l’organizzazione stagionale per realizzare entrambi i livelli di obiettivi. Di per sé questo è già uno stimolo motivazionale non indifferente che, come si è visto nel capitolo precedente, ha la possibilità di influenzare la prestazione di ogni singolo giocatore.
Ma la soddisfazione all’interno del gruppo da che cosa nasce? Mazzali [1995] individua alcuni punti importanti che non dipendono esclusivamente dal raggiungimento dei propri obiettivi personali ma:
- Dal riuscire a trovare un propria identità tecnica all’interno del gruppo.
- Dal riuscire a trovare una propria identità di espressione fisica nell’ambito del gruppo.
- Dal riuscire a trovare nel ruolo un proprio riconoscimento all’interno dei rapporti espressivo-emozionali del gruppo.
- Dal riuscire a riconoscersi come membro appartenente alla società sportiva.
- Dal sentire che la società cerca di ricompensarlo adeguatamente.
Perché tutto questo sia possibile è necessario che il leader sia consapevole dei bisogni di ciascun giocatore e che cerchi di coltivare il terreno sociale del gruppo.
L’allenatore-leader che voglia raggiungere gli obiettivi prestabiliti deve, quindi, prestare attenzione oltre che ai risultati anche al livello di soddisfazione del gruppo e deve comportarsi in modo tale da favorirne la crescita nel caso risulti bassa. E’ ovvio che le sue capacità di orientamento verso il compito siano maggiormente importanti per la preparazione delle prestazioni altrettanto quanto è ovvio che le sue qualità socio-relazionali divengono principali nel raggiungere la soddisfazione da parte di tutti i membri. Spesso si può osservare che gli aspetti prettamente legati alla socialità del gruppo siano organizzati dal leader intimo della squadra ma gli autori che trattano l’argomento sono concordi nell’affermare che un buon allenatore non deve mantenersi su di un rigido piano istituzionale se vuole avere successo.
Le variabili inerenti la leadership sono ritenute essere uno degli elementi chiave per lo sviluppo di un senso di soddisfazione negli atleti. Tra queste, quelle che gli autori di psicologia dello sport, primo fra tutti Carron [1982, 1988], individuano come principali ci sono: lo stile comportamentale del leader, lo stile decisionale del leader, il rapporto allenatore/atleta e il rapporto allenatore/squadra. A queste si può aggiungere anche lo stile comunicativo del leader. Questi fattori legati alla leadership appaiono simili, per non dire identici, a quelli inerenti la prestazione della squadra. Questo dimostra ancora una volta alcune considerazioni importanti; innanzitutto ribadisce l’esistenza di una forte interdipendenza tra prestazione e soddisfazione, secondariamente mette in rilievo l’importanza per il bravo allenatore di saper comportarsi sia per favorire l’una che per favorire l’altra.
Prendendo in considerazione il primo di questi fattori, infatti, si può ricordare come lo stile socio-relazionale e quello centrato sul compito siano ritenuti entrambi importanti in relazione a specifiche situazioni e, nonostante il primo sia spesso collegato alla soddisfazione dei membri del team e il secondo alla loro prestazione, devono essere considerati entrambi indispensabili sia per l’una che per l’altra. Ciononostante esistono comportamenti particolarmente utili per favorire la soddisfazione dei giocatori che un allenatore dovrebbe sempre cercare di considerare e di perseguire. Alcuni studi di Horne e Carron [1985] e di Weiss e Friedrichs [1986], a proposito di questi, mettono in evidenza che i giocatori si sentono soddisfatti quando l’allenatore-leader a) predispone in allenamento dei comportamenti che tendono a migliorare le abilità personali coinvolgendo l’impegno di tutti i giocatori, b) fornisce dei feedback positivi che mirano a premiare le prestazioni positive, c) si preoccupa di promuovere il benessere degli atleti e di mantenere un clima interpersonale positivo. Giovannini e Savoia [2002] attraverso un adattamento del modello di Krech, Crutchfield, Ballachey [1962] individuano nel comportamento dell’allenatore e nei fattori che da questo dipendono, delle variabili intermedie che agiscono su tre categorie di fattori (strutturali, relativi al compito e ambientali), determinando le caratteristiche di produttività ma anche di soddisfazione della squadra.
Tra i fattori che possiamo riconoscere dipendenti dal comportamento del leader, quell’insieme di variabili attraverso le quali l’allenatore influenza indirettamente il livello di soddisfazione del gruppo, possiamo sottolineare: la coesione sociale, la motivazione individuale e la collaborazione intragruppo.
La coesione della squadra può essere distinta, secondo Carron [1982], in due diversi livelli: uno, definito come coesione relativa al compito, riguarda la compattezza, la stabilità e l’unione del gruppo nell’affrontare e superare le prove a cui viene sottoposto; l’altra, la coesione sociale, si riferisce alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri sociali dei componenti (quali l’affiliazione, amicizia e morale).
Il raggiungimento della prima è strettamente importante per il miglioramento delle prestazioni, il raggiungimento della seconda, per il miglioramento del livello di soddisfazione individuale. Ancora una volta vale la pena sottolineare che questa distinzione non possiede limiti così netti se si presuppone l’interdipendenza tra prestazione e soddisfazione. Quando il comportamento dell’allenatore permette e stimola l’aumento della disponibilità sociale dei giocatori, la consapevolezza di avere uno scopo comune, la possibilità di comunicare serenamente, il bisogno spontaneo di farsi conoscere dai compagni, la spinta a rivivere le situazioni degli altri, la ricerca dell’appagamento personale all’interno dei fini della squadra, la capacità di stabilire delle regole e accettarle volontariamente, la volontà di integrare il proprio lavoro con quello degli altri, lo sviluppo di dinamiche affettive all’interno di esperienze comuni, il divertimento collettivo nel corso dell’allenamento; allora la coesione sociale del gruppo, e quindi la soddisfazione, sono sicuramente favorite.
Oltre che rispetto alla coesione, la soddisfazione dei giocatori è influenzata dal loro livello di motivazione individuale. Sicuramente se manca quest’ultima il raggiungimento degli obiettivi o l’appartenenza alla squadra risultano meno importanti e quindi determinano non solo una minore quantità di impegno ma anche un livello di appagamento minore. Il comportamento dell’allenatore, relativamente a quelli che sono stati individuati da Carron [1984] come fattori situazionali o personali che possono essere limitatamente controllati, può aumentare il livello di motivazione individuale di ogni singolo atleta, aumentando così l’importanza che ha per quest’ultimo l’appartenenza alla squadra e la possibilità di impegnarsi per raggiungere specifici obiettivi e, di conseguenza, anche la soddisfazione che dipende da questi fattori.
Infine, sempre riguardo ai fattori che possono aumentare la soddisfazione individuale e che dipendono dal comportamento del leader, anche lo sviluppo di una salda collaborazione ingroup (dipendente anche dal livello di coesione interna, sociale e non) può essere un ottimo mezzo per veder migliorato il livello di soddisfazione personale degli atleti. Alcune analisi di casi singoli hanno evidenziato come, in squadre caratterizzate dalla presenza di uno o più campioni in grado di compiere imprese grazie al proprio talento individuale e di portare alla vittoria il proprio team, la carenza di una collaborazione con i compagni di squadra poteva facilmente minare il livello di soddisfazione di questi ultimi rendendo vane, a questo livello, le vittorie ottenute nel complesso di risultati scadenti [Riley, 1993].
Alla lunga, infatti, la collaborazione e, di conseguenza, la soddisfazione tendeva a divenire tanto scarsa da portare inevitabilmente al crollo delle prestazioni, rendendo inutile il talento dei campioni. In altri casi, in cui il campione mostrava anche capacità di leader o in cui l’allenatore era in grado di arginare questo fenomeno, si poteva comunque formare una condizione di collaborazione in cui tutti i giocatori si sentivano parte attiva del team, indipendentemente dalla presenza di compagni virtuosi, aumentando la propria disponibilità e il proprio livello di soddisfazione ed evitando il prevedibile calo nelle prestazioni. Perché ciò sia possibile la squadra, secondo Cei, deve sempre ragionare in termini di “noi” evitando, o limitando a episodi circoscritti, la rivalità interna, che tende a far sprecare inutili energie agli atleti e che, per di più, hanno un’influenza negativa sui risultati e sul morale del team. Una competizione tra i componenti di un gruppo esiste sempre, ma può rimanere latente e subordinata alla volontà di collaborare fino a ché vi sono successi e vittorie e fino a che il leader riesce ad arginarne lo sviluppo [Behm, 1996].
Per ottenere questo proposito Peterson, Bauer e Tiburzio [1987] suggeriscono all’allenatore di a) favorire la partecipazione dei giocatori tenendo in considerazione le loro indicazioni, b) utilizzare gli stessi criteri di giudizio per tutti ed evitare i favoritismi, c) premiare comportamenti altruistici, d) ridurre comportamenti individualistici per evitare che il gioco si accentri solo su alcuni giocatori anche se particolarmente virtuosi e e) promuovere occasioni per stare insieme. Prima di ciò è importante che l’allenatore sappia riconoscere quando la collaborazione all’interno di una squadra sportiva viene messa a rischio. Secondo Peterson e al, esistono alcuni segnali significativi che tendono a ripetersi in situazioni di questo tipo e che devono essere colti alle loro prime manifestazioni. Innanzitutto i giocatori iniziano a non svolgere i compiti affidati dagli allenatori, iniziano ad essere infrante sia regole tecniche che non tecniche, alcuni atleti possono lamentarsi perché ritengono di rivestire un ruolo eccessivamente marginale rispetto alle loro qualità, alcuni componenti possono giungere a esprimere critiche all’esterno verso allenatore e società, nei momenti di difficoltà i giocatori sono facili al litigio e all’accusa reciproca di responsabilità per gli errori commessi.
Tutto questo è sintomo, non solo di una scarsa disposizione individuale alla collaborazione intragruppo (e a una conseguente competizione intergruppi), ma anche di una buona dose di insoddisfazione personale. La nostra tendenza a sentirci parte di un gruppo (o di una squadra sportiva) è legata alla necessità che abbiamo di veder riconosciuta una caratterizzazione positiva alla nostra identità sociale (dipendente principalmente dalle caratteristiche del gruppo) e identità di ruolo. Quest’ultima per alcuni autori [Deaux,1992] rappresenta una parte dell’identità sociale; ma in realtà deve essere distinta da questa in quanto non si riferisce all’immagine di sé dipendente dall’appartenenza ad un particolare gruppo (o squadra sportiva) ma all’immagine che le persone hanno di sé in rapporto ai ruoli che giocano nei contesti della loro vita quotidiana [Mancini, 2001; Thoits, 1991; Stryker, 1987] o, in questo caso, dello loro vita sportiva. Questo è il livello di identità che viene danneggiato se viene dato corso a queste dinamiche. La perdita della valenza positiva della propria identità di ruolo non può che portare ad un’insoddisfazione e ad un allontanamento, sia cognitivo che comportamentale, dalla squadra. Questo è ciò che il leader deve evitare.
La seconda categoria di variabili legate alla leadership che possono influenzare il livello di soddisfazione negli atleti di una squadra è rappresentata dagli stili decisionali del leader. Questi, come è già stato descritto nel primo capitolo, sono stati suddivisi da Chelladurai e Haggerty [1978] in 5 categorie riconducibili, per semplificazione a uno stile autocratico e ad uno partecipativo o consultivo. Mentre le ricerche portate avanti in ambito sportivo hanno dimostrato che lo stile autocratico è ritenuto essere, sia dai giocatori che dagli allenatori, quello maggiormente valido al fine di raggiungere gli obiettivi della squadra (anche se limitatamente a situazioni molto complesse o molto banali), la situazione si capovolge quando si analizza quale sia il migliore per elevare il livello di soddisfazione tra i membri del gruppo. Nella maggior parte dei casi questo fine viene raggiunto da uno stile decisionale partecipativo che, di per sé, risulta anche il più efficace, per le prestazioni, in situazioni caratterizzate da un livello di controllabilità intermedio.
Questo potrebbe essere principalmente dovuto al fatto che lo stile decisionale partecipativo permette all’atleta di mettere in rilievo le proprie capacità ed esalta l’importanza di ogni giocatore all’interno del gruppo qualificandone positivamente l’identità di ruolo. Un identità di ruolo positiva determina un aumento della soddisfazione personale e, per questo, è importante che l’allenatore sappia quando è necessario utilizzare uno stile autocratico e quando la situazione ne permette uno partecipativo per agire anche sul morale e sfruttare i vantaggi di entrambi.
Altre due categorie importanti di fattori che possono influenzare il livello di soddisfazione della squadra riguardano la relazione tre allenatore/atleta e allenatore/squadra. Come è già stato osservato nel capitolo 2.2 esistono alcuni comportamenti, al di là della necessità di versatilità, che l’allenatore deve comunque mettere in atto o evitare nel momento in cui si relazione con gli altri giocatori. Questi comportamenti devono permettere la costruzione di un rapporto che sia aperto agli interventi degli atleti, in cui il leader deve possedere la sensibilità di ascoltarli, supportarli, premiarli per accentuare il riconoscimento del loro ruolo all’interno della squadra, ed evitare di sanzionarli o punirli per ogni errore. Allo stesso tempo, però, deve essere chiaro sin dal principio e mantenere salda la propria autorità senza abbassare la testa davanti a nessuno dei suoi giocatori. E’ importante ritornare a questo punto sull’idea di accordo allenatore/atleta di Giovannini e Savoia, poiché appare essere questa la base sulla quale fondare la relazione con l’atleta. Per mantenere fede a quest’accordo iniziale, secondo Mazzali [1995], l’allenatore deve preoccuparsi di:
- dimostrare che tecnicamente è più competente dei giocatori,
- possedere la sensibilità di comprendere e influenzare l’anima gruppale,
- aumentare la propria autorità guadagnandosi il riconoscimento da parte dei giocatori e non solo quello istituzionale,
- dare opportunità di soddisfazione ai giocatori in termini di competizione attraverso: l’assegnazione corretta dei ruoli, variabilità e incisività del programma di allenamento e la possibilità per gli atleti di mettersi alla prova fisicamente.
Un esempio di come la relazione che si forma tra allenatore e atleta possa influenzare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra è rappresentato dalla gestione della panchina. Mazzali [1995] definisce la panchina come “uno dei più importanti mezzi di cui l’allenatore dispone per stimolare i giocatori”. Allo stesso modo è importante osservare come, per le sue conseguenze sulla relazione, costringere un giocatore in panchina risulta una pericolosa arma a doppio taglio. Infatti da un lato può rappresentare uno stimolo a competere sia con sé stessi, sia con i compagni di squadra per migliorare le proprie capacità e poter uscire da questa condizione. In questo modo la motivazione e l’impegno del giocatore viene assolutamente incentivata e la soddisfazione guadagna un forte incremento al momento della realizzazione dell’obiettivo. D’altro canto la frustrazione causata dalla condizione della panchina, soprattutto per i giocatori abituati ad essere in campo, può determinare una ritorsione nei confronti dell’allenatore arrivando a minare la relazione con quest’ultimo, una frattura che può ripercuotersi su tutta la squadra minacciando il clima interno del gruppo. Questo comportamento dipende principalmente dalla percezione che l’atleta ha del comportamento e delle decisioni dell’allenatore reputate essere un evidenza della sua scarsa considerazione verso il proprio lavoro. In questo modo l’identità di ruolo dell’atleta viene ferita tanto profondamente da portare al conflitto aperto. Ovviamente l’allenatore deve evitare questa situazione per impedire che sia la soddisfazione che la prestazione, del giocatore, in primis, ma di tutta la squadra, crollino. Fermo restando che la scelta della panchina deve essere fatta sempre e comunque, in primo luogo, su un motivo tecnico per porre in primo piano il bene della squadra rispetto agli obiettivi individuali, è importante imparare a prendere certi provvedimenti. Al fine di mantenere salda la relazione con l’atleta, Mazzali ritiene che l’allenatore debba imparare a bilanciare la propria capacità diplomatica e persuasoria con la chiarezza e la validità delle spiegazioni tecniche che hanno dettato le sue decisioni. L’atteggiamento che deve mantenere è quello di un “virtuoso” pronto a non abbassare la testa per far valere le proprie decisioni a costo di affrontare il giocatore in un conflitto aperto (per evitare che il proprio status di leader venga intaccato) ma altrettanto pronto a non abusare del suo potere e a dimenticarsi di eventuali offese pur di recuperare il rapporto con un atleta.
Infine, l’ultimo elemento preso in considerazione come variabile importante per la soddisfazione dei membri dei gruppi riguarda lo stile comunicativo del leader e la comunicazione intragruppo in generale. La presenza di forti rapporti comunicativi è spesso sintomo di altrettanto forti rapporti sociali, i quali a loro volta aumentano la coesione del gruppo, il senso di appartenenza degli atleti e la soddisfazione provata nel far parte del team e condividere la propria esperienza con i compagni. Burgoon, Heston e Mc Croskey [1974] sostengono che la comunicazione sia principalmente orientata dalla omogeneità e quindi dalla somiglianza tra i membri e risulta più difficile se i giocatori sono molto diversi tra loro. Nelle squadre professionistiche odierne l’eterogeneità è molto diffusa, in quanto molti società acquistano atleti provenienti da diversi paesi, di conseguenza il problema della comunicazione risulta essere piuttosto centrale. Le variabili che influenzano i rapporti comunicativi riguardano le caratteristiche individuali degli interlocutori, le caratteristiche dell’ambiente in cui sono inseriti, le situazioni che vivono e gli obiettivi delle loro prestazioni. Zander [1982] sostiene che l’allenatore-leader, per aumentare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra, può mettere in atto alcune soluzioni operative come: fare in modo che ogni membro conosca i doveri e le responsabilità degli altri compagni, fornire occasioni ai giocatori per socializzare e conoscersi, fare in modo di comunicare ai giocatori il riconoscimento del loro impegno e dei loro valore, fare in modo che eventuali conflitti tra membri della squadra siano risolti tra loro attraverso la discussione diretta, cercare di promuovere collaborazione tra i giocatori e con lo staff tecnico.
L’obiettivo è quello di promuovere un comunicazione aperta, chiara e votata alla libera espressione che abitui i giocatori a sviluppare i rapporti e la conoscenza interpersonale evitando che si fermino a pregiudizi superficiali, dannosi non solo per le singole relazioni ma anche per il clima e la coesione di squadra. La comunicazione non è comunque una variabile da stimolare solo all’interno della squadra ma rappresenta un fattore a cui lo stesso leader deve porre estrema attenzione nei suoi rapporti con ciascun atleta. Brewer [2000] sottolinea, infatti, l’importanza per l’allenatore di un’adeguata formazione al riguardo, che gli permetta di utilizzare la psicologia dello sport nello svolgimento del proprio ruolo e nei colloqui con i singoli giocatori.
Come l’allenatore, ancor più il capitano deve essere in grado di favorire la soddisfazione personale degli altri atleti. Anche in questo caso, come nell’ambito della prestazione, le variabili su cui i due leader possono e devono intervenire per ottenere questo risultato sono le medesime. Tuttavia il modo di affrontarle risulta, ancora una volta, diverso. Questa differenza è, ovviamente, dipendente dalla diversa posizione dei leader. In particolar modo il capitano, come è stato già accennato descrivendo il rapporto con gli altri giocatori, viene caricato di un credito idiosincratico al momento della sua elezione, che non si è particolarmente meritato ma che viene investito sulle sue presunte capacità di essere un buon leader intimo. In questo senso parte avvantaggiato rispetto all’allenatore, per questo appare più legato ad un aspetto relazione che prestazionale. Questa fiducia posta dei compagni di squadra non deve poi essere delusa. Per evitare ciò il capitano deve utilizzarla, e utilizzare il potere che ne deriva, sulle variabili già descritte, che possono essere associate allo stile comportamentale del leader, a quello decisionale, alle caratteristiche della sua relazione con gli atleti e al suo stile comunicativo. Se ciò non avviene, il patto con gli atleti, sottoscritto dall’assegnazione di credito idiosincratico non sarà rispettato dal leader intimo e ciò porterà probabilmente all’esplosione di un conflitto interno al gruppo, spesso guidato da aspiranti leader. Se il capitano non possiede le capacità diplomatiche, gestionali ed empatiche per arginarlo, probabilmente verrà sostituito ma, al dì la di questa condizione, tutto ciò influirà in modo negativo sulla soddisfazione, sia direttamente che indirettamente attraverso l’azione che determinerà sul clima della squadra, sulla sua coesione interna e sulla sua prestazione.
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Obesità e stigmatizzazione nelle pubblicità sociali – Psicologia
Chi pensa a sé stesso come in sovrappeso e lo associa a uno stigma sociale, svalutato e ridicolizzato, probabilmente vivrà la sua condizione come una minaccia alla sua identità sociale: questo può causare maggiore ansia e indebolire l’autocontrollo ed entrambi questi fattori possono indurre a mangiare troppo.
Numerose sono le concause dell’obesità, in particolare, a livello sociale, i nostri stili di vita sempre più sedentari e la disponibilità di cibi ad alto contenuto calorico non aiutano a prevenire e ridurre il fenomeno. Ma c’è un altro fattore sociale a pesare sul fenomeno dell’obesità: la stigmatizzazione delle persone obese. Ironia della sorte, questa stigmatizzazione spesso la ritroviamo proprio all’interno di campagne pubblicitarie anti obesità.
Secondo un gruppo di ricercatori della University of California di Santa Barbara , la lotta all’obesità attraverso messaggi sociali può avere effetti paradossali e indesiderati.
Se pensi a te stesso in sovrappeso, e ti identifichi in uno stereotipo è probabile che sperimenterai quella che i ricercatori chiamano “minaccia all’identità sociale”.
93 studentesse universitarie – 49 di loro si giudicavano in sovrappeso e le altre 44 normopeso o sotto la media – hanno letto un articolo di giornale in due versioni diverse. È’ stato usato un pool di donne perché sono meno stigmatizzate meno degli uomini, anche sui posti di lavoro.
Una versione dell’articolo spiegava perché i datori di lavoro sono riluttanti ad assumere persone che sono in sovrappeso, l’altra perchè i datori di lavoro sono riluttanti ad assumere fumatori.
Dopo aver letto l’articolo ciascuna delle partecipanti ha potuto parlare di ciò che aveva letto per 5 minuti davanti a una telecamera. Successivamente ciascuna di loro veniva accompagnata in una stanza ed era invitata a rilassarsi e a fare uno spuntino.
Dopo 10 minuti gli veniva chiesto di stimare il suo indice di massa corporea, mentre i ricercatori misuravano quanti grammi di cibo erano stati consumati.
L’87 % delle donne hanno mangiato durante la pausa, ma a variare era la quantità di cibo consumato.
Chi aveva letto l’articolo sui costi sociali ed economici associati con l’essere sovrappeso consumava uno spuntino con un contenuto calorico significativamente più alto di chi aveva letto l’articolo sulla discriminazione verso i fumatori.
Inoltre, le risposte a un questionario hanno rivelato che le donne si sentivano significativamente meno in grado di controllare l’assunzione di cibo dopo la lettura dell’articolo che stigmatizzava l’obesità, rispetto alla lettura dell’articolo sulla stigmatizzazione dei fumatori.
È importante sottolineare che questo effetto si verificava nelle donne che si percepivano in sovrappeso, ma non in quelle che lo erano realmente. Nel caso in cui le donne non si consideravano sovrappeso l’esposizione al messaggio stigmatizzante nei confronti dell’obesità ha avuto l’effetto sorprendente di incrementare l’autocontrollo della dieta.
Questi risultati suggeriscono che chi pensa a sé stesso come in sovrappeso e lo associa a uno stigma sociale, svalutato e ridicolizzato, probabilmente vivrà la sua condizione come una minaccia alla sua identità sociale: questo può causare maggiore ansia e indebolire l’autocontrollo ed entrambi questi fattori possono indurre a mangiare troppo.
Per concludere le campagne pubblicitarie dovrebbero puntare a sottolineare gli aspetti positivi del perdere peso piuttosto che enfatizzare quelli negativi legati al sovrappeso.
LEGGI:
ALIMENTAZIONE – STIGMA – PSICOLOGIA & MARKETING
BIBLIOGRAFIA:
- Brenda Major, Jeffrey M. Hunger, Debra P. Bunyan, Carol T. Miller, The ironic effects of weight stigma, Journal of Experimental Social Psychology, Volume 51, March 2014, Pages 74–80
Dolore Cronico: il modello cognitivo stress-valutazione-coping
Se il tuo corpo è dolorante e il dolore che senti è insopportabile, l’ultima cosa che vuoi sentire è: “è tutto nella tua testa”. Per le persone con dolore cronico, il disagio è molto reale, e lo sanno fin troppo bene quello che sentono nei loro corpi.
Se sei sdraiato a letto, e senti dolore, il dolore è tutto il tuo mondo. Il modello transazionale dello stress di Lazarus and Folkman’s (1984) ha dato importanti elementi per la spiegazione, lo studio e la costruzione di un approccio cognitivo che vede il dolore cronico come uno stressor, rimanendo molto attuale in campo di riabilitazione fisica e trattamento cognitivo del dolore.
Secondo tale modello transazionale dello stress in generale, diverse variabili come la personalità, il ruolo sociale stabile e/o diversi parametri biologici, possono influire l’interazione di una persona con uno stressor. In aggiunta a questo, le persone effettuano una serie di processi di valutazione dinamici che influenzano la loro risposta allo stressor, in particolare se, e quali, risposte di coping saranno tentate.
I processi di valutazione sono pensieri, e riguardano interpretazioni cognitive di eventi o stimoli, che possiamo distinguere in: “Valutazioni primarie”, intendendo quelle relative ai giudizi sulla potenziale rilevanza degli stressors (benigni/positiviti oppure stressanti), e in “valutazioni secondarie”, che sono invece i beliefs sulle opzioni di coping e la loro possibile efficacia. In ultimo, le risposte di coping, che implicano sia sforzi cognitivi e comportamentali per la gestione dello stress, sia importanti effetti adattivi sul funzionamento sociale, l’umore e la salute fisica.
E’ evidente che le richieste di uno stressor non restano statiche, ma sono in costante mutamento. Al variare delle richieste dello stressor, cambiano le valutazioni, e di conseguenze le risposte di coping. Per un paziente con dolore cronico, purtroppo tale mutamento nelle valutazioni e nelle strategie di coping potrebbe spesso porsi alla base di una sindrome di disabilità.
Seguendo tale lettura, Beverly Thorn ha proposto un modello stress-valutazione-coping del dolore cronico, per l’organizzazione del trattamento cognitivo di tale problematica. Schematizzando:
Le caratteristiche individuali che intervengono nell’adattamento al dolore, comprendono:
- Fattori biologici: lo stato della malattia (ad esempio, tipo e decorso) non predicono la disfunzione, ma forniscono un contesto per la comprensione del tipo di trattamento di cui il paziente potrebbe necessitare (ad es. chirurgia, medicazione, ecc.);
- Ruoli sociali: i ruoli di genere e le aspettative culturali hanno un impatto sulle credenze di causalità e appropriatezza nel trattamento del dolore, influenzando la scelta della strategia di coping;
- Fattori di personalità: le caratteristiche temperamentali come il nevroticismo, l’affettività negativa, e la vulnerabilità emozionale incrementa il rischio di disabilità;
- Core beliefs: le credenze più profonde su sé stessi come persone nel dolore potrebbero evolvere durante il corso della malattia, ma restare sottostanti alla precoce formulazione di sé stessi costruita nel corso della propria vita.
Un soggetto con le caratteristiche individuali sopra elencate, in condizioni di dolore, non considera lo stimolo doloroso né la reazione biologica come uno stressor. E’ il processo cognitivo che traduce tale stimolo e tale reazione in “minaccioso” o “ingestibile”, aprendo le porte allo stress.
“Dolore”, allora, verrà considerato uno stressor, quando e se una persona giudicherà l’esperienza percepita come onerosa o eccessiva rispetto alla sua abilità di fronteggiarla. Affinchè ci sia tale passaggio, da stimolo doloroso a stressor, il soggetto effettua delle valutazioni primarie, che possono essere:
- Valutazione di Minaccia: la percezione di dolore è superiore alle proprie strategie di coping.
- Emozione: produce emozioni negative come paura e ansia, che possono essere psicologicamente debilitanti;
- Cognizione: il focus attentivo viene fissato sul dolore o sul potenziale stimolo doloroso, attraverso la riduzione dell’abilità di spostare l’attenzione su altri stimoli, distorcendo una valutazione più realistica, riducendo la concentrazione e la memoria;
- Comportamenti: Riduzione delle attività che potrebbero incrementare il dolore, aumentando gli evitamenti, esacerbando così la disabilità fisica;
- Valutazione di Perdita/Danno: la percezione che un danneggiamento è accaduto/risultato dallo stimolo doloroso.
- Emozione: produce dispiacere, tristezza ed emozioni depressive, tutte associate a disfunzione psicologica;
- Cognizione: incrementa pensieri di perdita e impotenza, attraverso la distorsione di una più realistica valutazione della situazione stressante;
- Comportamenti: aumenta la passività, e riduce l’attività fisica e delle altre attività quotidiane, producendo la perdita di lavoro, reddito e qualità economica della vita, così come difficoltà relazionali;
- Valutazione di sfida: la percezione che l’abilità di fronteggiamento non è inferiore al potenziale pericolo.
- Emozione: produce sensazioni di impegno o convinzione, e in certe situazioni anche impazienza o eccitamento;
- Cognizione: conduce alla credenza che reazioni efficaci di coping sono possibili, e a percepire gli stimoli dolore correlati come una sfida; gli stressors sono percepiti più realisticamente; vi è un’autoidentificazione come “persona sana con il dolore”;
- Comportamenti: aumenta la probabilità di autogestione del dolore, così come il coinvolgimento in attività indipendenti del vivere quotidiano, arrivando ad una diminuzione della disabilità.
La concettualizzazione cognitiva del dolore cronico deve tenere in considerazione anche le valutazioni secondarie che intervengono nel paziente. Tali valutazioni, si sostanziano in:
- Credenze intermedie: interpretazioni acquisite derivanti da fattori personali, culturali, e ambientali, spesso riconducibili a doverizzazioni;
- Beliefs sul dolore: opinioni sulla natura del dolore, sulle cause, e/o sul trattamento appropriato del dolore; questi influenzano sia l’angoscia sia la disabilità;
- Beliefs sulle proprie capacità di controllo del dolore: credenze basate sulla propria autoefficacia e il locus of control; queste influenzano l’iniziativa ad intraprendere l’autocontrollo del dolore;
- Pensieri automatici/errori cognitivi: si presentano frequentemente al di fuori della propria consapevolezza, influenzando la scelta delle strategie di coping:
- Catastrofizzazione: intesa come un’orientamento negativo distorto verso il dolore o di anticipazione del dolore. E’ un forte predittore del livello di dolore percepito, di disabilità e adattamento alle condizioni di dolore cronico;
- Altri errori cognitivi: percezione negativa di sé stessi, interpretazione negativa dell’interazione con gli altri e auto colpevolizzazione. Sono tutti associati con grande afflizione e disfunzione.
Parallelamente, il soggetto attiva reazioni di coping verso il dolore, che includono sforzi cognitivi e comportamentali; essi rappresentano tentativi di ridurre il dolore o lo stress dolore correlato.
Infine, l’ultimo componente del modello stress-valutazione-coping del dolore, è l’adattamento: esso include più di una eliminazione del dolore, è multidimensionale, coinvolge cioè il funzionamento fisico, sociale e psicologico del paziente. Viene spesso quantificato usando questi parametri: dolore percepito (inclusa l’intensità e sgradevolezza), funzione psicologica (specialmente l’ansia e la depressione), livello di attività (includendo status lavorativo e i markers di disabilità), l’assunzione di farmaci (a volte divisi in sedativi/ipnotici, non oppiacei analgesici e oppiacei analgesici), ricorso al servizio sanitario (numero di richieste mediche, numero di ospedalizzazioni, numero di interventi chirurgici).
Appare evidente che un intervento di psicoterapia cognitivo comportamentale possa essere di grande aiuto nel trattamento medico di pazienti con tale sofferenza. Molte le ricerche che si muovono nello studio della componente cognitiva nei soggetti che fanno esperienza di dolore fisico, come i pazienti della grande chirurgia ortopedica.
Una recente ricerca italiana condotta dall’equipe del Dottor Monticone dell’Istituto Scientifico di Lissone (MI) pubblicata sulla rivista internazionale Archives of Physical Medicine and Rehabilitation nel febbraio 2013, ha sottolineato la rilevanza della componente cognitiva nella riabilitazione dei pazienti sottoposti ad artroplastica totale del ginocchio: su 110 pazienti di età media di 67 anni operati di protesi completa dell’articolazione del ginocchio, alla normale riabilitazione fisica è stata affiancata una riabilitazione cognitiva che aiutava i pazienti a gestire le problematiche relative al dolore, alla kinesiofobia (paura del movimento), gli evitamenti e le credenze disfunzionali ad essi associate. Il trattamento riduceva significativamente il grado di disabilità, aumentando il livello di qualità della vita percepito dai pazienti.
LEGGI ANCHE:
DOLORE – STRESS – PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’
CATASTROFIZZAZIONE DEL DOLORE NEL PAZIENTE OBESO
BIBLIOGRAFIA:
- Monticone M., Ferrante S., Rocca S., Salvaderi S., Fiorentini R., Restelli M., Foti C.,(2013), Home-Based Functional Exercises Aimed at Managing Kinesiophobia Contribute to Improving Disability and Quality of Life of Patients Undergoing Total Knee Arthroplasty: A Randomized Controlled Trial, Archives of Physical Medicine and Rehabilitation.
- Thorn B.E., (2004), Cognitive Therapy for Chronic Pain, The Guilford Press.
- Lazarus, R. S., Folkman, S., (1984), Stress, appraisal, and coping. New York: Springer.
Quanto mi amo? Questioni di autostima – Psicologia
Lavorare su stessi significa capire chi si è e cosa si vuole, amarsi e stimarsi per quelli che si è. Ognuno di noi è unico e irripetibile anche se ha dei difetti, la perfezione non è umana.
Cosa penso di me stesso? Mi stimo? Pare, da quanto presente in rete, che esista una formula per far lievitare l’autostima . Si tratta di una serie di liste per la spesa , 10 regole, 4 regole, 5 regole, non si sa neanche bene quante dovrebbero esserne, che garantiscono un risultato sicuro e determinante: sentirsi Super man o Wander woman!
In realtà non è così semplice, esiste una componente individuale, personale, che si tralascia, ma che risulta essere determinate per l’autostima. L’autostima è una stima, una valutazione, che si fa di se stessi, un giudizio derivante dalla domanda: “Cosa penso di me?”.
Se si ha una buona concezione di se stessi, allora si avrà una alta autostima, altrimenti ci si disistima. Solitamente, quest’ultima deriva da un gap che si crea tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che realmente si è. Quando queste due valutazioni sono distanti, si determina una discrepanza che porta ad una scarsa considerazione di se stessi. Ed è proprio qui che si comincia a ruminare negativamente su quanto poco valore si ha.
Se l’autostima cala significa che qualcosa d’importante sta accadendo, in qualche modo si inseguono i desideri altrui trascurando quelli che sono i reali bisogni della persona, e così si cade nel baratro del non valore, pensando che i desideri altrui sono sempre migliori dei propri.
Perché è così importante avere una buona stima di se stessi?
Chiaro, più ci stimiamo e più ci sentiamo efficaci ed efficienti, meno lo facciamo e più sprofondiamo nell’abisso. In questo caso siamo pronti a ricercare sempre e comunque all’esterno qualcosa che in qualche modo possa determinare un miglioramento della nostra stima.
Chi non pensa di avere valore personale, spesse volte, evita di affrontare le situazioni per paura di sbagliare o si sperimenta goffamente in alcune contesti. E se si verificasse un insuccesso? Allora si soffre maggiormente associando l’accaduto esclusivamente ad una propria mancanza. Al contrario, quando si sperimenta un successo si tende a svalutarlo e a sminuirlo.
Chi sperimenta bassa autostima vive la sensazione di perdere il controllo delle emozioni, che conosce poco, sentendosi di non essere capace di raggiungere i propri obiettivi nel modo in cui vorrebbe venissero raggiunti
La mancanza di fiducia in sé stessi può danneggiare la vita, al punto da creare situazioni anche senza via d’uscita, a meno che non si passi ai ripari e costruiscano delle certezze su cui contare.
Quindi, chi ha una bassa autostima pensa che se i progetti, i lavori o le iniziative intraprese non sfociano nel giusto successo che meritano allora si raggiunge un fallimento, e si rumina in buona sostanza su quanto si è inutili. Di conseguenza la tristezza prende il sopravvento su tutto fino al punto da perdere il controllo emotivo.
D’altro canto colui che ha una giusta visione di sé stesso è pienamente consapevole del fatto che non tutti i progetti o iniziative si concludono con successo, che probabilmente alcuni d’essi non raggiungeranno gli obiettivi sperati. Questa giusta attitudine mentale permette di imparare dai propri errori e migliorare in futuro dai propri insuccessi, aumentando così le probabilità di buona riuscita.
Quando ci si butta in situazioni sociali aventi come scopo l’affermare se stessi e malauguratamente questa situazione non esita positivamente, è possibile si possa piombare in uno stato depressivo o aggressivo perché la posta in gioco è troppo alta e le aspettative sono disattese. Chi ha bassa autostima non accetta la perdita di un incarico di prestigio, perché equipara il ruolo sociale al proprio prestigio personale.Rivestire un ruolo di prestigio rende queste persone autorevoli.
Attenzione, si è piombati in un falso sillogismo dove le conclusioni sono sbagliate, perché se il posto prestigioso un giorno venisse a mancare la persona diventerebbe un nulla pieno di rancore, odio e tristezza. Tutto questo porta ad inferire che, innanzitutto, non si hanno dei valori personali, per questo è necessario chiarire con se stessi quello che si vuole e quello che non si vuole ottenere dalla vita.
Poi, è necessario riconoscere le proprie emozioni imparando a riconoscerle ed entrare in contatto la propria sofferenza. Solo così si può capire perché è importante avere una buona stima di noi stessi.
Per perseverare questo obiettivo bisogna lavorare sulla immagine di se, che non significa dimagrire, smettere di fumare etc…, perché così facendo ancora una volta si sta rispondendo a dei dictat sociali, esterni, che potrebbero non corrispondere alle esigenze della persona.
Lavorare su stessi significa capire chi si è e cosa si vuole, amarsi e stimarsi per quelli che si è. Ognuno di noi è unico e irripetibile anche se ha dei difetti, la perfezione non è umana.
LEGGI:
SCOPI ESISTENZIALI – RIMUGIONIO (WORRY) -RUMINAZIONE (RUMINATION)
BIBLIOGRAFIA:
- Bandura A. (2000) Autoefficacia. Teoria e applicazioni– Edizioni Erickson, Trento 2000
- Menditto M. (2004) Autostima al femminile. Trento: Edizioni Erickson. ISBN 9788879465786
Stimolazione elettrica cerebrale: può migliorare l’autocontrollo?
Secondo uno studio apparso sul Journal of Neuroscience la stimolazione elettrica cerebrale può migliorare l’autocontrollo. Questa scoperta secondo gli scienziati potrebbe essere utile nel trattamento dell’ADHD e di altri disturbi gravi di auto-monitoraggio.
Lo studio, in doppio cieco, ha coinvolto quattro volontari epilettici ai quali è stato chiesto di eseguire semplici compiti comportamentali che implicavano l’interruzione o il rallentamento di un azione. Per ogni paziente i ricercatori hanno identificato la posizione specifica di questo “freno” nella regione prefrontale del cervello. Successivamente, un computer ha stimolato la corteccia prefrontale esattamente nel momento in cui l’interruzione dell’azione era necessaria. Ciò è stato fatto utilizzando elettrodi impiantati direttamente sulla superficie del cervello .
La stimolazione con cariche elettriche brevi e impercettibili ha portato a una forma di maggiore auto-controllo nei soggetti epilettici.
Quando la stimolazione elettrica avveniva al di fuori della corteccia prefrontale non c’erano effetti sul comportamento e questo dimostra che l’effetto della stimolazione è specifico per il sistema di frenata prefrontale.
Questo è il primo studio pubblicato sul come migliorare la funzione del lobo prefrontale umano utilizzando la stimolazione elettrica diretta. Inoltre la stimolazione elettrica ha avuto l’effetto di amplificare la funzione del lobo prefrontale, mentre normalmente negli studi in cui viene utilizzata la stimolazione elettrica su esseri umani si ottiene l’effetto di disturbare momentaneamente la normale attività cerebrale.
I ricercatori sottolineano che nonostante i risultati dello studio siano promettenti, non si focalizzano ancora sulla capacità di migliorare il controllo in generale; in particolare la stimolazione elettrica diretta non sembra essere un’opzione realistica per il trattamento dei disturbi di auto-monitoraggio, come il disturbo ossessivo -compulsivo, sindrome di Tourette e disturbo borderline di personalità .
LEGGI:
DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – ADHD – NEUROPSICOLOGIA
BIBLIOGRAFIA:
- Jan R. Wessel, Christopher R. Conner, Adam R. Aron, and Nitin Tandon, Chronometric Electrical Stimulation of Right Inferior Frontal Cortex Increases Motor Braking, The Journal of Neuroscience, 11 December 2013, 33(50): 19611-19619; doi: 10.1523/JNEUROSCI.3468-13.2013