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Autismo – Esplorare i sentimenti, di Tony Attwood (2013) – Recensione

 

Recensione del libro:

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitiva – comportamentale per gestire ansia e rabbia

di Tony Attwood (2013)

Armando Editore

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbiaIl libro “Esplorare i sentimenti” di Tony Attwood illustra un programma elaborato per intervenire su bambini con la Sindrome di Asperger che può essere utilizzato anche con bambini affetti da Autismo ad Alto Funzionamento, Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, Disturbi dello Spettro Autistico e in generale con soggetti che presentano difficoltà nella regolazione emotiva.

Il programma prevede gruppi dai 2 ai 5 bambini di età compresa fra i 9 e i 12 anni con due adulti che conducono l’incontro; ogni bambino dispone di un quaderno dove lavora per sei sessioni di due ore ciascuna che comprendono attività e informazioni finalizzate all’esplorazione di sentimenti quali felicità, ansia e rabbia. Viene inoltre fornito un libro dei progetti in cui il bambino può scrivere i commenti e le risposte alle domande rivolte dagli adulti.

Al termine di ogni sessione viene assegnato un progetto, un compito da completare prima della sessione successiva e all’inizio di quest’ultima ne viene discusso l’esito col singolo bambino o con l’intero gruppo. “Esplorare i sentimenti” comprende due moduli, uno per la conoscenza e la gestione dell’ansia, l’altro per la rabbia. Il primo incontro approfondisce due emozioni positive, la felicità e il rilassamento, attraverso attività che misurano, stimolano e pongono a confronto sensazioni di benessere in situazioni specifiche. La seconda sessione spiega cosa sono l’ansia e la rabbia promuovendo il riconoscimento delle alterazioni che si verificano a livello fisiologico, cognitivo, comportamentale e comunicativo.

Al termine dell’incontro viene descritta la Cassetta degli Attrezzi ossia la categoria degli strumenti che riparano i sentimenti, in particolare gli strumenti fisici che permettono un rilascio immediato di energia emotiva (correre, saltare) e gli strumenti di rilassamento che riducono il ritmo cardiaco (ascoltare musica, leggere un libro).

Nella terza sessione vengono trattati gli strumenti sociali, spiegando per esempio come le persone attorno al bambino possano aiutarlo a ristabilire pensieri positivi attraverso parole e gesti rassicuranti. Viene insieme esplicitato che la solitudine, cioè il temporaneo evitamento del contatto sociale, può essere in alcuni casi una strategia efficace per i soggetti con la Sindrome di Asperger.

La terza sessione si occupa infine degli strumenti di Pensiero e Prospettiva, una gamma di strategie e attività utili a esaminare la realtà e a stimare la probabilità degli eventi temuti.

Il quarto incontro è dedicato al concetto di Misuratore come modalità per determinare l’intensità di uno stato emotivo; ci si confronta inoltre sulle possibilità a disposizione del bambino per prestare o condividere strategie e abilità di fronteggiamento dell’ansia o della rabbia.

Nella quinta sessione vengono presentate le Storie Sociali, che si configurano come strumenti per migliorare la competenza sociale ed emotiva nonché le risposte comportamentali e l’elaborazione cognitiva degli stati problematici; accanto ad esse viene introdotta la nozione di antidoto per i pensieri negativi, che prende forma attraverso la costruzione di pensieri alternativi e la distrazione dai contenuti mentali fonte di sofferenza.

Nell’ultimo incontro i bambini progettano per sé e per gli altri membri del gruppo un intervento cognitivo-comportamentale volto ad accrescere le risorse di coping emotivo. Il programma prevede lo svolgimento di un test o di un’attività prima e dopo i sei incontri per verificare i risultati ottenuti; è importante sottolineare che “Esplorare le emozioni” può essere adattato a soggetti adolescenti e adulti e rappresenta un progetto clinico sull’ansia e sulla rabbia a disposizione non solo dei terapeuti ma anche di insegnanti adeguatamente formati.

LEGGI:

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – BAMBINI – RECENSIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Effetti della TV sullo sviluppo della teoria della mente nei bambini

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Molti studi hanno indagato gli effetti dell’esposizione alla TV sui comportamenti sociali dei bambini, senza però esaminare se l’esposizione alla TV influisce sullo sviluppo della teoria della mente, cioè capacità del bambino di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio comportamento e quello degli altri.

Secondo i risultati di un recente studio, pubblicato sul Journal of Communication, i bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Un team di ricercatori della Ohio State University ha intervistato e analizzato 107 bambini e i loro genitori per studiare la relazione tra l’esposizione alla TV in età prescolare e lo sviluppo della teoria della mente.

Ai genitori veniva chiesto quanto tempo i loro figli guardassero la televisione, in seguito i bambini svolgevano dei compiti basati sulla teoria della mente, per valutare la loro capacità di discriminare tra le proprie e le altrui credenze e desideri, la conoscenza del fatto che le credenze possono essere sbagliate e che queste influenzano i comportamenti.

Avere una TV camera da letto ed esserne esposti con frequenza correlava con una comprensione più debole degli stati mentali, anche dopo aver considerato le differenze di prestazioni basate sull’età e lo status socio-economico del genitore. Tuttavia, il dialogo tra figli e genitori su ciò che i bambini stanno guardando sembra essere un fattore di protezione anche per quei bambini che vedono molta TV, infatti in questi casi la teoria della mente risultava comunque buona.

Questi risultati sono importanti perchè i bambini con una teoria della mente ben sviluppata sono facilitati nelle relazioni sociali, hanno maggiore sensibilità e capacità di cooperazione, e sono meno aggressivi con gli altri nel tentativo di raggiungere i loro obiettivi.

LEGGI:

BAMBINITEORIA DELLA MENTE TELEVISIONE E TV SERIES

 

BIBLIOGRAFIA:

DSM 5: Pedofilia, disturbo o disordine? – Psicologia

 

DSM5 . - Immagine @ o-DSM-5-facebookI criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa!

La diagnosi di pedofilia, inclusa fino al DSM IV TR tra le parafilie ha provocato rumor nel settore, per le modifiche inserite nel DSM 5 rispetto a questa categoria diagnostica.

I criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa, poiché erroneamente il termine disorder è stato tradotto come “disordine” e non come “disturbo” (traduzione corretta del termine). Considerare la pedofilia un disordine e non una patologia declasserebbe il problema, rendendola una patologia non più patologica. 

In realtà l’intento dell’APA era, al contrario, quello di evidenziare e sottolineare la componente psicopatologica che sottende e mantiene il  pedophilic disorder.

Partiamo dall’origine. Nel DSM IV si effettuava una diagnosi differenziale tra egodistonia ed egosintonia della sintomatologia, per cui se i sintomi erano egodistonici, cioè causa di disagio sociale o di altre aree di funzionamento nel pedofilo, allora si poteva parlare di patologia; se, al contrario, i sintomi erano egosintonici non risultavano clinicamente rilevanti.  Nel DSM IV-TR questo criterio è è stato modificato: l’agito dell’impulso sessuale è stato introdotto come criterio diagnostico rilevante quanto l’egodistonia.

Torniamo ai giorni nostri. Nel DSM-5 colui che mostra un’attrazione sessuale e agito verso i bambini, mostra un disagio clinicamente significativo e una compromissione dell’area sociale e psicologica. 

Ma, la polemica non si è fermata qui ed è continuata incessantemente. Infatti, la stampa internazionale, questa volta, si è scagliata contro il termine, introdotto nel DSM IV 5 pedophilic sexual orientation. Ancora peggio, non solo disordine, ma orientamento sessuale! Effettivamente, questa dicitura lasciava molto perplessi: la pedofilia non era più un problema psicologico? Ed ecco che arriva la correzione: si tratta di sexual interest e non di orientamento. 

Tutti coloro che non soddisfano pienamente i criteri per la diagnosi di pedophilic disorder, in quanto presentano un’attrazione sessuale rivolta verso i bambini non agita, in assenza di sentimenti di colpa, vergogna e ansia, quindi egosintonica, presentano un “orientamento sessuale”.

Questa sotto categoria è stata introdotta nel DSM-5 per operare una distinzione col disturbo mentale vero e proprio. L’utilizzo di questo termine è stato travisato dall’opinione pubblica, pertanto l’APA ha provveduto repentinamente, attraverso comunicato on -line, a modificare la terminologia sostituendola con “interesse sessuale”. Infatti così facendo sembrava legittimasse “l’interesse” nei confronti dei bambini, e anche se questa cosa non passava all’atto, si trattava sempre di un interesse atipico.

L’intento, però, era solo quello  di demarcare il confine tra soggetti che presentano un interesse sessuale atipico e non agito e quelli che sono affetti da un disturbo mentale vero e proprio, cioè agito.

Per non farci mancare nulla, la sezione dei disturbi sulle parafilie include, oltre al pedofilic disorder, altri sette disturbi: exhibitionistic disorder,fetishistic disorder, frotteuristic disorder, sexual masochism disorder, sexual sadism disorder, transvestic disorder and voyeuristic disorder.

Altro rumor: l’introduzione del transvestic disorder per definire coloro che si vestono con abbigliamento tipico del sesso opposto. Nel DSM IV-TR questo disturbo era specifico per i  maschi eterosessuali, mentre nel DSM 5 sono state incluse nel disturbo anche le donne. Ma, anche qui, se queste persone traggono piacere nell’effettuare questo travestimento sono patologici?

Aspettiamo buone nuove!

LEGGI ANCHE:

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM5 

SESSO – SESSUALITA‘ – DISTURBI SESSUALI

Guarda l’ Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ortoressia nervosa: quando mangiare bene non fa più bene.

 

Ortoressia: oggi il cibo fa paura, siamo costantemente sottoposti ad un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute, sugli alimenti “buoni” e “cattivi”, sui rischi che corriamo scegliendo o meno certi prodotti. Non c’è quindi da meravigliarsi se il rapporto con il cibo si sia fatto sempre più complesso e problematico.

Ortoressia. - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.
Ortoressia. Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.

Recentemente, i mass-media e gli specialisti del settore dell’alimentazione hanno segnalato la diffusione di un nuovo disturbo, chiamato Ortoressia Nervosa (ON).

Il termine ortoressia (da orthos, giusto, corretto, e orexis, appetito) fu utilizzato per la prima volta nel 1997 dal dietologo americano Steven Bratman per descrivere l’ossessione patologica riguardo al consumo di cibi sani e naturali (Bratman, 1997).

Oggi, sebbene non esistano né una definizione universalmente accettata né dei criteri diagnostici formalmente riconosciuti, si intende per ortoressia nervosa (ON) l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni sostanziali nella dieta e presenza di:

  • ruminazione ossessiva sul cibo;
  • comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti;
  • insoddisfazione affettiva e isolamento sociale dovuti alla persistente preoccupazione riguardo al mantenere le regole alimentari autoimposte (Brytek-Matera, 2012).

Le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che posso essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

  1. forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o “artificiali”, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);
  2. impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;
  3. preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);
  4. sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

Infatti, come scrive Bratman nel suo libro, “una persona che riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa può sentirsi altrettanto pia di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto”, ma di fronte ad uno strappo alla regola la stessa persona si trova a dover affrontare forti sensi di colpa, e spesso si punisce mettendo in atto restrizioni ancora più severe (Bratman & Knight, 2000).

Diventa impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena da amici; con il passare del tempo, la gamma alimentare diviene sempre più ristretta e la qualità del cibo arriva ad essere più importante dei valori morali, delle relazioni sociali, dell’attività lavorativa e della vita affettiva, minando il funzionamento globale ed il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).

Ortoressia nervosa: quanto è diffusa?

Donini e colleghi (2004) hanno valutato la prevalenza dell’ortoressia nervosa in Italia: su 404 soggetti inclusi nella ricerca, il 17.1% (n= 69) è stato definito “fanatico della salute”, mentre il 6,9 % (n=28) è risultato corrispondere ai criteri definiti dagli autori per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa (presenza di comportamenti di selezione del cibo, sintomi fobici e ossessivo-compulsivi riguardo al cibo).

La prevalenza del disturbo è risultata maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%). Questo dato può essere spiegabile con la crescente diffusione di stereotipi culturali legati alla forma fisica maschile ed è in accordo con i dati relativi ad un altro recente disturbo prevalentemente maschile, la vigoressia o preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso.

 

Come misurare l’ Ortoressia nervosa

Ancora Donini e colleghi (2005) hanno sviluppato l’ORTO-15, uno strumento per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa. Si tratta di un questionario auto-somministrato composto da 15 item che valutano la presenza di comportamenti ossessivi relativi a selezione, acquisto, preparazione e consumazione dei cibi considerati salutari (ad es.:“ Quando entri in un negozio di alimentari ti senti confuso?”; “Sei disposto a spendere di più per avere cibi più sani?”; “Pensi che la convinzione di mangiare solo cibo sano aumenti la tua autostima?”). Ciascun item è valutato su una scala Likert a 4 punti (sempre, spesso, a volte, mai) in cui i comportamenti a rischio ricevono punteggio 1 e i comportamenti normali punteggio 4; un punteggio al di sotto di 40 è considerato indice di ortoressia.

 

Ortoressia nervosa: quale categoria diagnostica?

Da qualche tempo in letteratura si è aperto un dibattito sulla natura dell’ortoressia: si tratta di un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare (DCA), di una condotta patologica nei riguardi del cibo oppure di un sotto-tipo di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)?

Alcuni autori, infatti, (ad es., Mac Evily, 2001), sostengono che il motivo per cui l’ortoressia non è stata per il momento inserita all’interno dei DCA è legato al fatto che ci sono alcune differenze tra Ortoressia Nervosa e anoressia o bulimia. In particolare, l’esordio dell’Ortoressia Nervosa non sembra legato ad una bassa autostima, come accade invece frequentemente nei DCA; inoltre, la natura delle ossessioni del soggetto ortoressico non riguarda il peso o la forma corporea, ma la purezza degli alimenti; infine, pare che l’Ortoressia Nervosa si possa trasformare in anoressia o bulimia quando la dieta si fa eccessivamente restrittiva e compulsiva.

Altri autori (ad es., Catalina Zamora et al., 2005) sottolineano invece le somiglianze tra soggetti ortoressici e soggetti con DCA, in particolare anoressici, come ad esempio la presenza di elevato perfezionismo e bisogno di controllo, rigidità, meccanismi fobici e ipocondriaci.

Anche la relazione tra ortoressia nervosa e DOC appare interessante; infatti, sembra che le persone che soffrono di DOC abbiano elevate tendenze ortoressiche (Arusoĝlu et al., 2008).

Infine, Brytek-Matera (2012) sostiene che si possa considerare l’ Ortoressia Nervosa come un’abitudine o una condotta patologica verso il cibo (al pari del vomito, dell’uso di lassativi o del “dieting”) connessa con sintomi ossessivi-compulsivi.

Per il momento il dibattito sull’argomento rimane aperto; sono auspicabili ulteriori studi che vadano ad incrementare la scarsa letteratura riguardante l’ortoressia.

 

Cura dell’ ortoressia nervosa

Ci sono evidenze di buoni risultati per trattamenti che combinano la psicoterapia cognitivo-comportamentale con farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012).

In generale, il trattamento dell’ortoressia dovrebbe avvalersi di un’equipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti; dovrebbe essere pensato per rispondere alle specifiche esigenze della popolazione ortoressica e dovrebbe porsi come obiettivo quello di insegnare alla persona a mangiare (bene) senza che questo costituisca un’ossessione, lavorando non solo con il soggetto, ma anche con l’ambiente che lo circonda (ad es., familiari).

Per fortuna, sembra che i soggetti ortoressici rispondano meglio alle cure rispetto a soggetti con DCA, probabilmente a causa di una maggiore compliance dovuta alla preoccupazione per la propria salute che caratterizza questo disturbo (Mathiew, 2005).

LEGGI ANCHE:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD)

LA DISMORFIA MUSCOLARE O VIGORESSIA: LO SPECCHIO DEFORME DI ADONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Status updates su Facebook: correlazioni con tratti di Personalità

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Lo studio della Sahlgrenska Academy  dell’ università svedese di Gotenburg è stato condotto su 300 volontari utenti del social network e mirava ad analizzare i commenti e gli status su Facebook con lo scopo di capire le personalità degli utenti. Lo status degli utenti diventa quindi possibile indicatore della psicopatologia o dei tratti di personalità degli utenti.

Come ci si aspettava chi ha una personalità più estroversa ha più amici e aggiorna di frequente  lo status, ma oltre questo hanno scoperto che chi ad esempio pubblica foto macabre di violenza su animali o riporta spesso episodi di cronaca cruenti  potrebbe in realtà celare istinti violenti, personalità oscure o ossessive.

Secondo gli autori della ricerca ciò che possiamo considerare come fattori rilevanti per comprendere i tratti di personalità degli utenti di Facebook sono il numero di amici e la frequenza degli status che vengono pubblicati, oltre che il contenuto.

Dagli status del social network è addirittura possibile scoprire se tra i nostri amici si nascondono psicopatici, narcisisti o individui particolarmente subdoli e contorti

 

 

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Nuove tecnologie contro le Abbuffate da Stress – Alimentazione / Binge Eating

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’università di Rochester a New York insieme a quella di Southampton nel regno unito e con il contributo di Microsoft hanno messo a punto un reggiseno in grado di aiutare le persone a non riversare lo stress sul cibo e quindi a non abbuffare.

Il reggiseno è dotato di sensori che monitorano l‘attività del cuore del respiro e della pelle rilevando le attività elettrodermiche e misurando il livello di stress di chi lo indossa. Inoltre il reggiseno è fornito di giroscopio e accelerometro che forniscono informazioni sullo stato emotivo.

Questo monitoraggio costante aiuta le persone a essere più consapevoli del proprio umore e stato emotivo e prevenire le abbuffate o gestire le abbuffate. Il funzionamento è semplice, nel momento in cui il reggiseno misura livelli di stress elevati avvisa chi lo indossa tramite una app sul cellulare che suggerisce di mangiare più lentamente.

Questo nuovo prodotto è ancora un prototipo ma potrebbe essere un aiuto interessante per chi è un mangiatore emotivo e quindi potrebbe essere un utile suppporto nella cura dei Disturbi Alimentari.

Tutto nasce da una ricerca scientifica sul tema “cibo & umore”. Molte persone mangiano non per fame ma per stress, con i danni per la salute a tutti noti. Modificare i comportamenti alimentari, quando si tratta di «cibo emotivo», è particolarmente difficile, e i ricercatori dell’Università di Rochester, New York, e di Southampton, Regno Unito, cercavano un metodo efficace e immediato per aiutare chi soffre di sovrappeso a causa del troppo cibo ingerito per ragioni che nulla hanno a che fare con la fame.

 

Il reggiseno che controlla come mangiamoConsigliato dalla Redazione

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Il prototipo dei Microsoft Labs “monitora” l’umore per avvisarci sullo smartphone se ci abbuffiamo per stress (…)

 

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ARTICOLI SU: STRESS – ALIMENTAZIONE


Alcool – Bevitori solitari in adolescenza più a rischio di alcolismo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alcool e Adolescenti – I bevitori solitari utilizzano l’alcol come forma di automedicazione e di gestione di stati emotivi negativi.

Come comincia la strada dell’alcolismo? Negli incontri degli AA si parla tanto di come sono stati i primi approcci con l’alcol e si scopre che molti alcolisti iniziano già nell’adolescenza a bere, per scopi sociali, per sentirsi simili ai coetanei, per vincere la timidezza, per sentire un maggiore senso di adeguatezza nel gruppo. Per alcuni però il bere non è mai stato un rito collettivo, ma hanno cominciato in modo solitario, senza il piacere della socialità.

Kasey Creswell, psicologa ricercatrice della Carnegie Mellon University si è interessata ai giovani bevitori solitari perchè, pur essendo più rari di quelli sociali, hanno un maggiore rischio di diventare alcolisti superato il periodo adolescenziale.

Cosa spinge questi adolescenti a bere da soli? Bere da soli induce a bere sempre di più o è il bere tanto che induce l’isolamento? E che funzione ha bere da soli?

L’ipotesi della Creswell è che i bevitori solitari utilizzino l’alcol come forma di automedicazione e di gestione di stati emotivi negativi.

Per testare questa ipotesi ha condotto uno studio longitudinale, il primo del suo genere, e ha seguito un ampio campione di bevitori adolescenti fino al raggiungimento dell’età adulta (709 adolescenti tra i 12/18 anni, seguiti fino ai 25) . Alcuni dei ragazzi si trovavano in strutture di riabilitazione, altri no, e questo le ha permesso di osservare un campione eterogeneo sia nei comportamenti di consumo di alcol che nei percorsi personali.

Nel corso del tempo il team della Creswell ha monitorato la frequenza del consumo di alcol e la frequenza del bere sociale e/o solitario; per ogni episodio di consumo eccessivo di alcol veniva indagato il contesto in cui si era verificato e quali situazioni avevano preceduto l’episodio (ad esempio un litigio con un amico o un festeggiamento per qualcosa di bello). l’ultima tappa dello studio è stata ovviamente la valutazione di chi tra tutti i giovani osservati ha sviluppato una dipendenza dall’alcol.

Circa il 60 per cento dei soggetti osservati non ha mai bevuto da solo ma sempre in contesti sociali; tuttavia ben 4 adolescenti su 10 ha bevuto da solo, almeno in alcune occasioni. Questo dato è stato più alto delle stime attese, inoltre la percentuale di bevitori solitari era più alta tra quegli adolescenti che mostravano sintomi di abuso di alcol, infatti i bevitori solitari bevono più spesso e di più degli altri adolescenti, oltre ad avere cominciato prima.

L’elemento più interessante dell’indagine della Creswell ha a che fare con i contesti nei quali gli adolescenti bevono, emerge infatti che gli adolescenti che tendono a bere da soli lo fanno quando sono in situazioni spiacevoli, suggerendo che il consumo massiccio di alcol abbia una funzione di automedicamento, cioè sia una sorta di coping nella difficile gestione di sentimenti negativi.

Gli adolescenti che bevono da soli hanno anche molte più probabilità di sviluppare problemi alcol-correlati tra cui la dipendenza dall’alcol, già a 25 anni.

LEGGI:

ALCOOLADOLESCENTIDIPENDENZE

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Creswell, K.G., Chung, T., Clark, D.B., & Martin, C.S. (under review).  Solitary drinking increases adolescents’ risk for alcohol use disorders in young adulthood.  Clinical Psychological Science

 

Settimo Cielo, di Andreas Dresen (2009) – PFF 2013 – Psicologia Film Festival

 

Appuntamento del Psicologia Film Festival

Martedì 10 Dicembre ore 21,00 – presso il Cubo, via Pallavicino 35 Torino

SETTIMO CIELO

di Andreas Dresen (2009)

presenta il prof. Fabio Veglia

Ingresso libero con tessera Arci

SETTIMO CIELO di Andreas Dresen (2009) - PFF 2013

Il Film

Inge ha poco più di sessant’anni. È sposata da tempo immemorabile con Werner, uomo generoso e silenzioso. Si amano. Di un amore sincero e onesto. Ma che con la quotidianità ha perso forse il gusto della freschezza e l’impeto della novità. Inge incontra Karl, settantasei anni, e, dopo pochi e timidi tentativi di resistenza, si lascia andare a una passione impetuosa. Ci sono alcuni momenti della vita che paiono non rappresentabili sul grande schermo. Momenti troppo intimi, eccessivamente privati, socialmente considerati tabù. Il regista tedesco Andreas Dresen decide di mostrarne uno. La passione amorosa ed erotica tra due anziani.

Pochi e scarni dialoghi. Un silenzio assordante fa da contraltare sonoro a un universo visivo fatto di primi e primissimi piani. Occhi acquosi che scintillano come quelli di adolescenti alle prese con le prime inebrianti esperienze sessuali. Mani rugose e forse impacciate. E così tutto ciò che può sembrare scabroso o non rappresentabile diventa ciò che di più semplice e naturale ci sia: una storia d’amore tra persone della cosiddetta terza età.

 

Il regista

Dresen, è l’unico regista formatosi alla scuola della DEFA ad aver trovato il successo anche nella nuova Germania unita, dopo l’annessione dell’Est all’Ovest. Nato a Gera, in Turingia, nel 1963, si è diplomato presso la scuola superiore di cinema e televisione «Konrad Wolf» di Postdam-Babelsberg con un mediometraggio, So schnell es geht nach Istanbul (1990), che riscosse un certo successo alla Berlinale. Nel 1992 esce Stilles Land, il suo primo lungometraggio. Questa commedia amarissima e sincera preannuncia il tema chiave del cinema di Dresen: l’esplorazione empatica della vita dei perdenti. Il prosieguo degli anni Novanta vede Dresen impegnato in ambito televisivo, tra documentari, storie d’amore e soggetti drammatici. Con Catastrofi d’amore (2002), il regista di Gera realizza il film della maturità. Nel corso del 2004 gira Un’estate sul balcone. Settimo cielo è uno dei suoi ultimi e più coraggiosi progetti.

 

Fabio Veglia

Professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli studi di Torino, è docente di Psicologia clinica e psicoterapia cognitiva e Psicologia e psicopatologia dei processi cognitivi e del comportamento sessuale. Si occupa in particolare di: psicologia e psicopatologia dell’apprendimento, psicologia dell’handicap e psicologia della riabilitazione, psicologia e psicopatologia dello sviluppo e dell’attaccamento, psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale, sessuologia clinica, psicosessuologia applicata all’handicap e alla disabilità, metodologia dell’approccio narrativo in psicoterapia.

 

QUANDO E DOVEMartedì 10 Dicembre ore 21,00 – presso il Cubo, via Pallavicino 35, Torino – INGRESSO LIBERO CON TESSERA ARCI. 

 

ARTICOLI SU: CINEMA

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LA PAGINA DEL PFF – Psicologia Film Festival

 

Dalle radici alle ali – Adozioni internazionali

 

Dalle radici alle ali

Adozioni internazionali, l’importanza di creare un ponte con la cultura d’origine.

 

Dalle radici alle ali - Adozioni internazionali. -Immagini: © RioPatuca Images - Fotolia.comGuidando il ragazzo alla scoperta delle proprie radici, lo si aiuterà verso la scoperta e l’accettazione della sua storia, verso una costruzione di un puzzle completo senza pezzi mancanti e senza frammenti.

Quando dentro di sè riuscirà ad avere una visione completa allora troverà il coraggio di mettere le ali e spiccare il volo.

In Italia una ricerca effettuata nel 2007 e pubblicata su Repubblica, mette in evidenza che una coppia su sette ogni anno ha problemi di sterilità. Non poter aver figli può causare un sentimento di vuoto enorme nella propria vita, creando a volte delle crisi esistenziali sia individuali che di coppia.

La condizione di infertilità porta i coniugi ad affrontare una situazione di forte scompenso, caratterizzata da sentimenti di frustrazione ed angoscia, che vanno ad influire sulla vita di relazione, sulla sfera sessuale e sul benessere e la salute psico-fisica di entrambi i partners.

Nella donna sterile spesso si riscontra un calo di autostima, legato a sentimenti di incompletezza, e spesso si arriva a mettere in discussione anche la propria femminilità perdendo il controllo del proprio corpo. Nell’uomo, l’incapacità riproduttiva è vissuta come una mancanza di virilità, e spesso esso arriva a svalutare la propria mascolinità e a reagire con il rifiuto (Daniluk, 1997)

Rabbia, rifiuto, senso di colpa, isolamento, e dolore sono i sentimenti vissuti dalla coppia in questione. Il primo passo verso un ritorno alla serenità è quello di accettare la sterilità come condizione e non come una menomazione.

Di solito la tappa successiva  alla diagnosi di sterilità è un iter di procreazione assistita; laddove anche questa fallisce, la coppia deve subire un’ulteriore frustrazione, e un ulteriore elaborazione del lutto e della perdita.

In questo momento si affaccia sulla vita della coppia l’idea dell’adozione. In questo cammino i coniugi dovranno prima di tutto avere i seguenti requisiti:

Matrimonio:  la coppia deve essere unita in matrimonio da almeno tre anni, o per per un numero inferiore di anni se i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, e ciò sia accertato dal tribunale per i minorenni;

Età: L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando, con la possibilità di deroga in caso di danno grave per il minore.

Una volta accertati i requisiti si potrà intraprendere il tortuoso iter burocreatico e psicologico, che passa da una valutazione genitoriale della coppia effettuata dagli Enti locali e validata dal Tribunale per Minorenni, alla richiesta ad un Ente autorizzato per le adozioni internazionali che segue la coppia dalla richiesta all’arrivo del bambino in Italia.

Durante questo percorso proviamo ad immaginare quante saranno le fantasie che i genitori costruiranno sui bambini in arrivo.Gli individui che si trovano ad affrontare un’adozione, sognano durante la lunga attesa, una relazione perfetta, idilliaca.

Dopo aver dovuto rinunciare alla maternità/paternità, ed essere passati per un percorso di sofferenze,  finalmente iniziano a vivere una sorta di “riscatto”, finalmente sembra che il destino restituisca in altro modo ciò che ci ha tolto.

E’ per questo che bisognerebbe essere certi che la coppia in questione sia riuscita ad elaborare i propri vissuti psichici legati al percorso di elaborazione lutto e frustrazione, affinché non proiettino sul bambino adottato le proprie richieste affettive.

Adottare è un gesto d’amore, ma rappresenta anche la soddisfazione di un desiderio per la coppia stessa. 

La costruzione della genitorialità si snoda nel tempo, e si presenta come un processo caratterizzato da dubbi, angosce, timori, che la coppia affronta nell’intero percorso, prima, durante e dopo l’arrivo del bambino. E’ un atto psicologicamente complesso, che intreccia diverse dinamiche, dalla relazione tra sterilità e adozione, e a quella della rappresentazione mentale del figlio immaginario.

Nel momento in cui è avvenuta la scelta dell’adozione, i genitori iniziano a prefigurare nella propria mente l’immagine del figlio che verrà. D’altronde l’immagine del figlio che verrà, coinvolge non solo le coppie che intraprendono un percorso adottivo, ma tutti coloro che attendono un bambino.

Nella mente dei genitori sorgeranno domande, sull’età, la storia del bambino, il carattere, domande alle quali non avranno subito risposta, e quindi l’immagine corrisponderà sempre più al modello prefigurato che alla realtà. Questa rappresentazione mentale diventerà importantissima quando le due figure, reale e immaginaria, verranno sovrapposte.

Questo passaggio genererà ansia e timore, che generalmente non vengono espressi per paura di essere fraintesi o di non essere accolti, invece bisognerebbe che i genitori possano esprimere e riconoscere i loro sentimenti reali e plausibili.

Ad ogni modo alla fine di questo percorso nasce una nuova storia, nasce l’incontro in questo “non luogo” abitato dalla  famiglia adottante e dal bambino adottato.

La prima con una serie di aspettative sul legame genitoriale sul ruolo e la responsabilità dal quale si è investiti.

Il bambino  lascia il proprio paese, lascia le proprie radici, la propria cultura, la propria lingua, chiude la porta del suo passato e si lancia verso un futuro incognito. 

Si potrebbe pensare secondo una semplice logica, che il bambino separato dalla sua famiglia, accolto in un’altra, riceve l’amore come un dono, che gli è dovuto dopo tutto quello che ha subito. In riconoscenza dei legami affettivi creati con la nuova famiglia, il bambino saprà adattarsi e costruire un nuovo destino, dimenticando il suo destino originario. Il bambino, preparato a vivere una nuova avventura, arriva in un habitat sconosciuto, con un’ “identità” di vittima che lo precede. Dopo un periodo iniziale, la fragilità e la frammentarietà della struttura del ragazzo inizia a venir fuori, attraverso delle crisi, dei comportamenti violenti o a rischio“, come spiega Arlette Pellé.

Purtroppo, non tutte le adozioni vanno a buon fine, e lo dimostra Francesco Viero, neuropsichiatra infantile, nel libro “Fallimenti Adottivi” nel quale stima che le cifre dei bambini adottati “restituiti” sarebbero tra l’1 e l’1,8 per cento degli adottati.

Ma perché le adozioni internazionali falliscono?A questa domanda cerca di rispondere il Centre Devereux di Parigi attraverso il sostegno all’adozione.

Nell’adolescenza il conflitto identitario è forte, come diventa conflittuale anche la relazione con i propri genitori, la ribellione alle regole, all’autorità. Si cerca di costruire una propria identità, si cercano dei punti di riferimento e si rifiutano quelli imposti. Maggiore è la crisi quando ci si trova confrontati a dei conflitti di appartenza a una doppia cultura. Il conflitto che vivono questi ragazzi nasce spesso dall’esigenza di integrare gli elementi identificatori della cultura di adozione, e di mantenere viva la cultura d’origine. (Kaes)

L’articolo “Echec sur l’adoption“spiega quali possono essere i punti di fallimento delle adozioni, e le difficoltà che emergono :

  • Il vissuto: le caratteristiche del bambino: deprivazioni affettive e alimentari precoci, traumi individuali (maltrattamento, abuso), o collettivi (violenze di guerra) rotture affettive forti (distaccamento dalla famiglia o dai fratelli), vissuto di strada, vita istituzionalizzata (case famiglia, ospedale), rappresentazione dell’adozione e della famiglia molto lontana dalla realtà.
  • Il percorso dei genitori: sofferenza nell’accettare la sterilità, isolamento sociale, rischi nell’intraprendere il duro percorso dell’adozione, giudizio esterno, forte desiderio di avere un bambino, paura di una buona riuscita.
  • Organismo dell’adozione: assenza della preparazione dei bambini o dei genitori sulla realtà dell’adozione, poche notizie, o a volte insufficienti, incomplete.

Il fallimento dell’adozione e le situazioni di crisi familiari molto gravi mettono in evidenza la molteplicità e il cumulo importante dei fattori che li determinano. Quando la relazione tra genitori e ragazzo non sono più tollerabili, il ragazzo può attaccare le figure genitoriali, verbalmente e fisicamente. I genitori quindi percepiscono il figlio adottivo come qualcuno diverso da loro, con valori e principi diversi da quelli che loro avrebbero voluto offrirgli o che hanno pensato di fornirgli. Spesso per fermare questa escalation negativa, si passa all’allontanamento temporaneo, collocando il ragazzo in una struttura d’accoglienza.

A volte i comportamenti antisociali dei ragazzi sono dovuti a dei traumi passati e non eleborati che hanno provato a nascondere nel loro cuore, o a dimenticare chiudendo la porta al loro passato. Spesso i genitori adottivi non sono emotivamente preparati per accogliere questo aspetto, e questo capitolo della storia del ragazzo, che per quanto spiacevole, per quanto difficile, fa comunque parte della sofferenza che si porta dentro.

Probabilmente un passo avanti potrebbero essere fatto nel creare un ponte tra passato e presente. Pensare al ragazzo come un individuo che ha già una storia alle spalle, una storia di sofferenza dura da affrontare, e impossibile  dimenticare.

Bisognerebbe pensare all’adozione guardando al ragazzo non come un tabula rasa, ma come un diario con delle pagine della sua esistenza già scritte, e quindi abbordando l’adozione da un punto vista  interculturale, senza spezzare le radici.

Aiutando il ragazzo alla scoperta delle proprie radici, lo si aiuterà verso la scoperta e l’accettazione della sua storia, verso una costruzione di un puzzle completo senza pezzi mancanti e senza frammenti. Quando dentro di sè riuscirà ad avere una visione completa allora troverà il coraggio di mettere le ali e spiccare il volo.

Diventare genitori rappresenta uno degli aspetti più importanti della vita di una persona. Doversi prendere cura di un bambino, cambiare le proprie abitudini, cambiare le dinamiche di coppia, riassestare il normale equilibrio sono fasi di ridefinizione del proprio stile di vita. Tanto in una famiglia biologica, quanto adottiva. La genitorialità si impara passo dopo passo, errore dopo errore, e tentativo dopo tentativo. Non esistono genitori perfetti e tanto meno esiste un manuale per esserlo al meglio. Possono però esistere genitori capaci di trovare dentro se stessi le risorse necessarie per accudire, accogliere, comprendere, e tutelare un figlio.

Affinché un’adozione riesca, bisogna da una parte far sì che il ragazzo non chiuda la porta alle proprie origini, ma bisogna anche esser certi che la coppia, proveniente da un percorso di dolore, abbia accettato ed elaborato la propria condizione. Affinché un’adozione funzioni le motivazioni dell’adozione devono essere “sane”.

L’adozione è un ponte da entrambe le parti, il bambino adotta la famiglia che non ha mai avuto, la coppia adotta il bambino che non ha mai avuto. Entrambi colmano un vuoto, ma per far sì che ciò possa avvenire con successo, sia chi viene adottato, che chi ha adotta necessita di attenzione e sostegno psicologico durante tutto il percorso adottivo.

 LEGGI:

ADOZIONI GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ BAMBINI & ADOLESCENTI

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Accettazione – Tribolazioni Nr. 19 – Rubrica di Psicologia

Le donne con PTSD sono più a rischio di Obesità?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le donne con disturbo da stress post-traumatico ( PTSD ) aumentano di peso più rapidamente e hanno più probabilità di essere sovrappeso o obese rispetto alle altre donne.

È quanto emerso da uno studio condotto da un team di ricercatori della Columbia University’s Mailman School of Public Health e della Harvard School of Public Health, il primo che ha esaminato la relazione tra PTSD e l’obesità nel corso del tempo.

Una donna su nove ha un PTSD nel corso della vita, il doppio rispetto agli uomini. Insieme alle malattie cardiovascolari e al diabete, l’obesità rappresenta uno dei maggiori rischi per la salute correlati PTSD.

Uno dei risultato incoraggianti dello studio è relativo al fatto che quando i sintomi del PTSD si alleviano anche il rischio di obesità o di grave sovrappeso si riduce.

I ricercatori hanno analizzato i dati raccolti da più di 50mila donne, di età compresa tra 22-44 anni, che hanno partecipato al Nurses ‘Health Study II tra il 1989 e il 2009 . Ai partecipanti è stato chiesto quale fosse il trauma peggiore che avevano vissuto e a questo fossero seguiti sintomi da stress post-traumatico. La soglia per la diagnosi di PTSD era la persistenza di quattro o più sintomi per un mese o più . I sintomi più comuni includono rivivere l’evento traumatico, sentirsi in pericolo, l’evitamento sociale, e l’intorpidimento.

Le donne normopeso che hanno sviluppato PTSD durante il periodo di studio hanno avuto il 36 % di probabilità in più di andare in sovrappeso o diventare obese, rispetto alle donne che hanno subito un trauma ma non hanno avuto sintomi di PTSD .

Il rischio maggiore era evidente anche per le donne con livelli sotto soglia di PTSD e ma che avevano sviluppato sintomi depressivi, che è un altro dei maggiori fattori di rischio per l’obesità. Inoltre nelle donne che avevano un PTSD prima del periodo di studio l’indice di massa corporea aumentava più velocemente che nelle donne senza PTSD:

I sintomi di PTSD, piuttosto che il trauma stesso sembravano essere correlati all’aumento di peso: nelle donne che hanno subito un trauma senza sviluppare un PTSD il tasso di variazione del BMI era uguale a quello delle donne che non hanno mai vissuto un trauma.

Ma come fa il PTSD ad indurre l’ aumento di peso ?

Il percorso biologico è ancora sconosciuto, ma gli scienziati hanno formulato delle ipotesi:  la prima è che questo avvenga attraverso la sovra-attivazione di ormoni dello stress; il PTSD può causare disturbi nel funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e del sistema nervoso simpatico , ciascuno dei quali è coinvolto nella regolazione di una vasta gamma di processi, tra cui il metabolismo.

Un’altra è che avvenga attraverso comportamenti malsani che possono essere utilizzati come forme di coping per far fronte allo stress.

Le ricerche attuali stanno cercando di stabilire se il PTSD aumenti la preferenza per cibi malsani e diminuisca l’interesse per l’attività fisica.

LEGGI:

DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO (PTSD)ALIMENTAZIONE TRUAMA – DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.11 – Il leader impostore

 

Leadership negli Sport di Squadra #11:

Un caso particolare: Il leader impostore

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.11 – Il leader impostore. -Immagine: © bilderstoeckchen - Fotolia.comIl leader impostore – Alcuni cambiamenti che possono essere individuati attraverso una riflessione personale (che deve sempre accompagnare il proprio lavoro) e che sono sintomi del proprio fallimento possono essere riconosciuti quando si avverte che: il coraggio è divenuto paura di fallire; l’entusiasmo è divenuto sopportazione; l’inventiva è divenuta routine e la ricerca dei fini del gruppo si è trasformata in ricerca di fini personali.

Mazzali individua un terza tipologia di leader, non aggiunta ma parallela alle precedenti. Infatti sia il leader istituzionale che quello intimo possono essere, in realtà, dei leader negativi, o fasulli.

Le caratteristiche del leader falso sono riconducibili a una grande proprietà persuasiva messa in atto nei confronti  di tutti i membri della squadra e utilizzata principalmente per ingannare l’anima gruppale e farsi accettare ed eleggere come leader. La base della loro personalità è caratterizzata inoltre da una buona dose di frustrazione e senso di inadeguatezza ricollegabile alle esperienze infantili che lo spingono, raggiunta l’età adulta, a comportarsi con totale assenza di scrupoli, e quindi di limitazioni etiche, per raggiungere i propri scopi.

Non pongono mai alcun reale interesse negli obiettivi della squadra. Per questo motivo, in molti casi, pur di ottenere fama e successo personali, contribuiscono in modo sensibile al fallimento della squadra e spesso, essendo la responsabilità dell’insuccesso qualcosa di difficile quantificazione, riescono comunque a deresponsabilizzarsi. Se poi l’aspirante leader negativo, grazie alle sue scaltre capacità, riesce a raggiungere una posizione che gli conferisce un certo potere sui compagni tende ad abusarne al fine di costruire una condizione di irreale sudditanza nei suoi confronti che mina, non solo la coesione e la stabilità delle relazioni interne alla squadra ma, soprattutto, le sue prestazioni.

Esistono, secondo l’autore, alcuni accorgimenti che possono permettere di riconoscere la presenza di un leader negativo di questo tipo. Alcuni di questi sono:

– i leader fasulli approfittano dei momenti di crisi per diffondere le loro millanterie contribuendo ad ottenere  ciò che vogliono e a deresponsabilizzarsi attraverso l’inganno e la mistificazione,

– sono i primi a sollevare sentimenti di insoddisfazione e di rabbia all’interno della squadra,

– si limitano a perseguire obiettivi che li possano portare ad aumentare il potere nelle proprie mani e nient’altro,

– non hanno remore nel ricorrere alla corruzione e all’inganno, il che li pone in una condizione di vantaggio rispetto ai leader positivi.

In realtà, individuare questi comportamenti e soprattutto la loro finalità nascosta risulta ben più difficile di quanto non appaia, anche perché spesso gli stessi leader positivi, essendo uomini, possono mettere in atto comportamenti orientati più che altro al raggiungimento dei propri fini personali che di quelli della propria società. Questi “errori”, quindi appartengono anche all’allenatore a al capitano positivi, in quanto uomini.

Ma l’idea che Mazzali vuole trasmettere di leader negativo si differenzia da questi comportamenti saltuari perché a) ogni sua azione risulta essere finalizzata prima di tutto al guadagno personale e b) appare studiata e calcolata razionalmente e non dettata dall’istinto e dall’impulsività.  

E’ possibile che lo stesso allenatore o capitano positivi si rendano conto, con il tempo, di aver assunto comportamenti indirizzati al raggiungimento di fini personali piuttosto che verso il bene della squadra, comprendano cioè di aver fallito nei compiti che la squadra, la società e i membri della squadra avevano affidato loro.

Alcuni cambiamenti che possono essere individuati attraverso una riflessione personale (che deve sempre accompagnare il proprio lavoro) e che sono sintomi del proprio fallimento possono essere riconosciuti quando si avverte che: il coraggio è divenuto paura di fallire; l’entusiasmo è divenuto sopportazione; l’inventiva è divenuta routine e la ricerca dei fini del gruppo si è trasformata in ricerca di fini personali.

Se questi cambiamenti dovessero essere osservati, Mazzali suggerisce di abbandonare l’incarico per il quale non si possiede più la spinta motivazionale e morale adatta a poterlo compiere in modo corretto.

 

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Scienze cognitive, digital storytelling e arte: un processo di cross-fertilization. Nuove frontiere di ricerca

di Annalisa Banzi, Raffaella Folgieri, Diletta Grella.

 

 

LEGGI ANCHE: LEARNING BY LOOKING. THE CASE FOR VISUAL PERCEPTUAL REPETITION PRIMING

Scienze cognitive e digita storytelling. - Immagine: ©-bagiuiani-Fotolia.comIl lavoro è suddiviso in tre parti: la prima, introduttiva, descrive le possibilità offerte dal digital storytelling per migliorare la fruizione del pubblico museale coniugando e innescando i processi mnemonici legati al priming attraverso il potente mezzo della narrazione.

La seconda sezione entra nel merito del priming, presentando modi e mezzi adottabili per misurare e comprendere al meglio il suo effetto in presenza di stimoli artistici.

Infine, la terza parte conclude la presentazione, portando l’attenzione sui nuovi mezzi che possono definirsi dall’incontro dell’Intelligenza Artificiale (AI) con il digital storytelling e il priming per dar vita a esperienze in cui il dialogo attivo e rispettoso con il nostro Patrimonio sia accompagnato da una evoluzione proficua della persona.

 

Narrazione e tecnologia

Una delle nuove frontiere nella comunicazione dell’arte e della cultura è il digital storytelling, o racconto multimediale: gli spazi espositivi, i musei e le gallerie possono cioè presentare allestimenti e installazioni che, attraverso la multimedialità (parole, suoni, luci, fotografie, immagini in movimento, video), raccontano opere d’arte, ma anche oggetti, ambienti, luoghi, aspetti del territorio…

Racconto multimediale è però una definizione molto ampia, che raccoglie differenti e numerose modalità di utilizzo delle nuove tecnologie all’interno degli spazi espositivi.

In alcuni musei, per esempio, ci sono attori che raccontano al pubblico una storia, mentre attorno a loro, grazie all’utilizzo della multimedialità, viene ricreato un ambiente.

In altri luoghi, a raccontare una storia può essere una proiezione olografica.

E, ancora, ci sono casi in cui su grandi schermi vengono proiettati video che raccontano storie attinenti all’esposizione in corso…

Un luogo o un argomento, infine, possono venire interamente pensati e raccontati con l’utilizzo delle tecniche digitali. Il percorso espositivo si trasforma cioè in un racconto che -dall’inizio alla fine- si sviluppa grazie a immagini in movimento, suoni, schermi tattili, dispositivi….

Quest’ultima è la modalità più completa e complessa dell’utilizzo del digital storytelling, con una valenza artistica più forte.

I vantaggi dell’utilizzo del racconto multimediale nel campo dell’arte e della cultura sono diversi.

Innanzitutto, è possibile fare una ricostruzione del contesto in cui l’opera è stata creata. Intorno ad un affresco, per esempio, si possono ricostruire in digitale gli interni della Chiesa dove si trovava. Una voce può raccontare chi l’ha dipinto, il suo significato, la vita dell’autore…

Un altro vantaggio consiste nella possibilità dell’interazione diretta con l’opera. In musei e spazi espositivi tradizionali, infatti, quando ci si trova di fronte ad un quadro, non si ha modo di interagire con esso; si può al massimo modificare l’angolo dal quale lo si osserva, ci si può avvicinare o allontanare, ma nulla di più. Chi fruisce di un’opera o di uno spazio artistico attraverso il racconto digitale è invece portato spesso a partecipare con l’opera stessa, per esempio scegliendo di attivare un dispositivo piuttosto che un altro, e intraprendendo in questo modo un viaggio virtuale che prevede alcune tappe piuttosto che altre.

Le storie digitali, dunque, molte volte sono partecipate: il pubblico contribuisce alla loro creazione. Da fruitore passivo, lo spettatore si trasforma in co-autore.

Interessanti anche gli effetti che l’utilizzo della multimedialità ha sulla fruizione dell’opera.

La ricerca conferma che, in generale, l’utilizzo di più codici di comunicazione:

-tipico del racconto multimediale-, permette di creare un contatto emotivo più forte tra l’opera e il suo spettatore, cioè un maggior feeling.

Sul piano emozionale, dunque, la dimensione narrativo-digitale facilita la fruizione dell’oggetto, e questo si osserva soprattutto nel caso di un pubblico non esperto, lontano dall’oggetto stesso per interesse, curiosità, conoscenza.

Questo tipo di multimedialità, inoltre, non nuocerebbe alla capacità attentiva dello spettatore, al contrario favorirebbe la flessibilità dei suoi modelli mentali e stimolerebbe il suo pensiero creativo e quello logico.

Il racconto multimediale, in conclusione, è certamente una grande opportunità per la divulgazione e l’apprendimento dell’arte e della cultura.

Chi lo utilizza, però, deve avere ben chiaro che il suo scopo non è un virtuosismo tecnologico fine a sé stesso. Al contrario, la finalità dovrà sempre essere quella di coinvolgere il pubblico e di aiutarlo a comprendere aspetti di un’opera d’arte, di un oggetto, di un argomento, di un luogo… che altrimenti resterebbero difficilmente comprensibili.

Un museo cognitivo

Gli studi condotti sul pubblico museale suggeriscono alcune vie per rendere il museo più accessibile ai visitatori che non dispongono di una adeguata formazione storico-artistica. Idealmente il museo dovrebbe rivolgersi a tutti senza escludere le persone che hanno un ridotto grado di istruzione. Sfortunatamente non sempre questo obiettivo è raggiunto, basti pensare alle didascalie che molto spesso presuppongono una conoscenza pregressa. L’obiettivo per gli operatori dovrebbe concentrarsi sul potenziamento progressivo dell’autonomia del visitatore nel dialogo razionale con un manufatto artistico, incentivandone spirito critico e desiderio di conoscenza.

Le scoperte degli ultimi decenni nei campi della Psicologia e delle Neuroscienze spiegano alcuni meccanismi cognitivi che possono essere quindi agevolati favorendo e migliorando la fruizione museale. Nel 1971 gli psicologi Meyer e Schvaneveldt scoprono il priming: una forma di memoria di fondamentale importanza che innesca diversi aspetti dell’apprendimento come l’attenzione, la memoria e la percezione. In via preliminare, il fenomeno può essere definito come l’influenza che un stimolo precedente determina sulla percezione o memorizzazione di uno stimolo successivo. Lo stimolo innescante è detto prime, quello successivo è chiamato target. Presentando, per esempio, come stimolo innescante la parola ciliegia, si riducono i tempi di risposta del soggetto a domande relative a concetti correlati come rosso, tondo, torta e frutto. Una persona impiegherà qualche decina di millesimi di secondo in meno per rispondere a domande come «Il rosso è un colore?» se in precedenza ha ricevuto come prime la parola ciliegia anziché banana.

Il priming è il miglioramento di una prestazione – misurato nella velocità e accuratezza di risposta a uno stimolo presentato – in un compito percettivo o cognitivo prodotto dal contesto o da una precedente esperienza (McNamara 1992, 2005). Questo tipo di memoria è comune a tutti gli individui, rimane relativamente stabile per tutto l’arco della vita, si attiva automaticamente e trattiene le informazioni per lunghi periodi di tempo. Caratteristiche che lo rendono potenzialmente idoneo a diventare uno strumento attivo e un aiuto per il pubblico che non è avvezzo a relazionarsi con il mondo artistico.

La tesi che viene suffragata è che il visitatore possa più facilmente entrare in contatto con le parti costitutive delle opere d’arte attraverso l’impiego del priming nelle logiche museografiche. Si tratta di piccoli interventi che incidono limitatamente sui costi di gestione e sul tessuto museografico preesistente. Tra le diverse tipologie di priming si pensa che quelle che possono maggiormente favorire la fruizione museale siano il priming ripetuto visivo-percettivo e il priming ripetuto semantico basati sulla uguaglianza tra stimoli prime e target.

Questo fenomeno psicologico può quindi facilitare il ricordo di stimoli visivi (come colori, linee, composizione, etc.) e semantici (tema iconografico, significato del dipinto in relazione al contesto storico o al committente, etc.) insiti nell’opera d’arte: la presa di coscienza degli aspetti che compongono l’oggetto dovrebbe aiutare, inoltre, a sviluppare un proprio metodo di approccio critico da mettere in atto ogni volta che si presenti l’occasione di confrontarsi con i beni culturali.

L’approccio basato sul priming può aiutare a definire un nuovo modello di museo che chiameremo cognitivo per l’attenzione posta alle esigenze del cervello in relazione all’apprendimento dei contenuti artistici (non venendo meno al rispetto per l’identità dei Beni culturali).

Questa metodologia può essere adattata a tutto il Patrimonio, nelle sue diverse espressioni, e può divenire uno strumento per abbattere le barriere culturali, venendo incontro anche al pubblico straniero di ogni provenienza, in quanto sfrutta meccanismi che contraddistinguono tutti gli esseri umani.

Intelligenza e tecnologia

I progressi nel campo delle Neuroscienze, ed in particolare nel Brain Imaging, consentono oggi di indagare i meccanismi di risposta individuali a stimoli di priming rendendoli misurabili e quindi confrontabili quantitativamente. Corrispondentemente, le Scienze Cognitive e, tra queste, in particolare, l’Intelligenza Artificiale, forniscono potenti modelli e strumenti di indagine per registrare i rapporti tra Arte e Cervello, analizzabili più agevolmente grazie a strumenti tecnologici recenti quali i dispositivi B.C.I. (Brain Computer Interface).

I progressi nel Brain Imaging (sistemi di diagnostica per immagini delle aree e delle funzioni cerebrali, quali la Tomografia Computerizzata, T.C., la Risonanza Magnetica funzionale, fMRI, la Position Emission Tomography, P.E.T. e l’Elettroencefalografia, E.E.G.) consentono oggi di osservare il cosiddetto “living brain”, ovvero il cervello in azione, permettendo la valutazione in tempo reale delle reazioni di individui sottoposti a determinati stimoli. Tra tutte le tecniche, l’EEG si presenta come la più adatta, per il costo minore e per l’alta risoluzione temporale, importante per valutare i tempi di risposta a determinati stimoli. I nuovi dispositivi BCI (Brain Computer Interface), nati in seno alla branca dell’Informatica che studia modelli, modalità e strumenti per l’interazione tra uomo e macchina, basati su EEG, offrono non solo la possibilità di interagire con un elaboratore attraverso l’interpretazione dei ritmi cerebrali, ma soprattutto, grazie ai software di registrazione e agli algoritmi AI di interpretazione dei ritmi, forniscono la possibilità di rilevare la risposta degli individui a stimoli specifici in tempo reale. Un dispositivo BCI (Allison, 2007) è una semplificazione dell’EEG medico, ovvero un sistema hardware/software che legge segnali elettrici o altre manifestazioni dell’attività cerebrale e li trasforma in forme digitali che un elaboratore può comprendere, processare e convertire in azioni ed eventi o mettere a disposizione per la successiva analisi. I vantaggi risiedono, oltre che nel basso costo dei dispositivi, anche nella connessione wi-fi, che consente agli individui di sentirsi rilassati, di ridurre l’ansia e di muoversi liberamente in un ambiente sperimentale. Le frequenze cerebrali registrate sono raggruppate nei ritmi alfa, beta, gamma, delta e theta, come per l’EEG tradizionale.

I dispositivi BCI consentono di indagare i rapporti tra arte e cervello sia dal punto di vista dell’artista, durante il processo di creazione di un’opera, sia dal punto di vista degli spettatori, nel mentre vivono l’esperienza dell’arte. In particolare è possibile indagare le attività neurali durante la percezione dei colori (Shapley et. Al., 2002), i processi decisionali e le funzioni mnemoniche (Vanrullen e Thorpe, 2001; Barbas, 2000) e analizzare la risposta cerebrale di un individuo durante l’esperienza estetica, le cui reazioni sono osservabili nell’area della corteccia prefrontale e in quella orbito-frontale (Cela et Al., 2004; Kawabata, Hideaki e Semir Zeki, 2004) in cui i sensori di un BCI sono posti.

Negli studi condotti sul priming, alcuni soggetti sono stati esposti a stimoli visivo-percettivi, semantici o concettuali per valutare la risposta emotiva e cognitiva successiva nel contesto di musei di Arti Visive (Banzi e Folgieri, 2012). A tale scopo alcuni soggetti, prima di effettuare un tour museale, sono stati sottoposti ad uno stimolo di priming, mediante un video e sotto la supervisione del ricercatore, e, successivamente, è stata misurata l’efficacia del priming mediante analisi elettroencefalografica. I risultati ottenuti sono stati incoraggianti. Infatti, rispetto ai gruppi di controllo (stimolo neutro e assenza di stimolo), i partecipanti sottoposti a stimolo hanno mostrato un incremento dei livelli di attenzione in corrispondenza alle domande relative allo stimolo somministrato, rivelando un rinforzo dei meccanismi di memoria. Gli studi descritti sono parte di una ricerca interdisciplinare più ampia (Banzi e Folgieri 2012; Calore, Folgieri et Al., 2012; Folgieri et Al., 2013; Folgieri e Zichella, 2012) che mira a valutare la risposta degli individui a stimoli visivi, uditivi e percettivi, misurati con metodi classici della Psicologia e delle Scienze Cognitive e con metodologie innovative di Brain Imaging quali l’EEG.

Al momento la ricerca è rivolta alla comprensione dei meccanismi cognitivi di base della creatività, dell’esperienza estetica e dell’educazione all’Arte. Già dagli studi condotti è, comunque, evidente l’enorme potenzialità degli strumenti tecnologici a disposizione oggi, che danno, inoltre, la possibilità di verificare, riprendendo il concetto espresso da Vygotskij (1925), quanto l’ontogenesi umana sia determinata anche dal contributo degli strumenti culturali a disposizione nel contesto storico e sociale.

Oltre a tutte le possibilità appena descritte per misurare e comprendere al meglio l’effetto del priming in presenza di stimoli artistici, la tecnologia oggi offre anche strumenti che possono migliorare la fruizione del pubblico museale coniugando e innescando questi processi mnemonici legati al priming attraverso il potente mezzo della narrazione.

Inoltre, in questa sede si desidera portare l’attenzione sui nuovi mezzi che possono definirsi dall’incontro dell’intelligenza artificiale con il digital storytelling e il priming per dar vita a esperienze in cui il dialogo attivo e rispettoso con il nostro Patrimonio sia accompagnato da una evoluzione proficua della persona.

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ARTESCIENZE COGNITIVE – NEUROSCIENZE

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BIBLIOGRAFIA:

 

Sonno e maturazione cerebrale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il cervello cambia drasticamente durante la prima infanzia: nuovi collegamenti si formano, altri vengono rimossi e la mielina si sviluppa intorno alle fibre nervose rinforzando le connessioni e accelerando il trasferimento delle informazioni.

La maturazione delle fibre nervose porta al miglioramento delle competenze del linguaggio, dell’attenzione e del controllo degli impulsi.

Il sonno gioca un ruolo importante in questo processo ma ancora non è chiaro quale sia.
Un team di ricercatori della University of Colorado Boulder ha esaminato le differenze nell’attività cerebrale durante il sonno nel corso della crescita di bambini a 2 , 3 e 5 anni e le differenze di attività cerebrale di ogni bambino in una notte di sonno.

I risultati indicano che le connessioni nel cervello divengono più forti durante il sonno all’aumentare dell’età e che la forza delle connessioni fra gli emisferi destro e sinistro aumenta di ben il 20% in una sola notte di sonno.
La correlazione tra sonno e maturazione del cervello è ormai provata anche se ancora il meccanismo non è chiaro.

Studi futuri saranno volti a determinare come i disturbi del sonno durante l’infanzia possono influenzare lo sviluppo del cervello e del comportamento.

Ma di una cosa il Dr. Kurth, a capo dello studio, è certo: “la mancanza di sonno durante l’infanzia può influenzare la maturazione del cervello ed essere legata alla comparsa di disturbi dello sviluppo e dell’umore“.

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SONNODISTURBI DEL SONNONEUROSCIENZE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Innova Alzheimer – Innovazione tecnologica al servizio delle Demenze.

Innova Alzheimer 5 dicembre 2013

COMUNICATO STAMPA

“Innova Alzheimer”

Politecnico di Bari e Anthropos insieme per il primo progetto del Sud Italia di innovazione tecnologica al servizio delle demenze

Il 5 dicembre, la conferenza stampa e il seminario a Giovinazzo

 

Anthropos e Politecnico di Bari insieme per Innova Alzheimer. Si terrà, giovedì 5 dicembre, alle ore 10.30 presso la sala convegni del San Martin Hotel (piazzale Leichardt – Centro Antico Giovinazzo) la conferenza stampa di presentazione del progetto “Innova Alzheimer. L’innovazione tecnologica al servizio delle demenze.”

E’ il primo progetto realizzato nel sud Italia che in via sperimentale utilizzerà  le tecniche di geolocalizzazione a supporto dei malati di Alzheimer.

 

Interverranno: Maria Pia Cozzari, presidente cooperativa sociale  Anthropos, Katia Pinto, vice presidente Associazione Alzheimer Bari, Floriana De Vanna, responsabile ricerca centro diurno Gocce di Memoria e Francesco Cannone responsabile Best, società Spin off Politecnico di bari.

 

Seguirà dalle ore 11.15 il seminario di formazione  dedicato agli operatori, dipendenti di pubbliche amministrazioni, tecnici e specialisti sui “Nuovi modelli di intervento per le demenze”.

Interverranno: Giancarlo Logroscino, Docente del Dipartimento Neuroscienze Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Giulio Lancioni, Docente del Dipartimento di Psicologia Università degli studi “Aldo Moro” di Bari, Franciscus Robert Hoogeveen  Docente Lettorato di Psicogeriatrica Università dell’Aia – Olanda.   Nella sessione dedicata all’innovazione tecnologica  interverranno: Gianfranco Avitabile e Francesco Cannone del Dipartimento di Elettrica ed Informazione, Politecnico di Bari.

 

Moderatore della giornata: Mauro Minervini, dirigente Unità di Neurologia “Don Uva” di Bisceglie. Conclusioni a cura di Elena Gentile, assessore regionale al Welfare.

Per iscriversi al seminario gratuito, è necessario inviare un’e-mail: a [email protected] – sarà rilasciato attestato di partecipazione. Per informazioni contattare la segreteria scientifico- organizzativa: Floriana De Vanna – Maria Pia Cozzari  – Tel. 388.7305782 – www.goccedimemoria.it  – www.anthroposonline.it

ARTICOLI SU:

MORBO DI ALZHEIMERDEMENZA

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Pt.4

 

Il conflitto pt. 4

Il conflitto: componenti e processi emotivo-affettivi.

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta - Pt.4. - Immagine: © WavebreakmediaMicro - Fotolia.com

I ragazzi tendono a ribattere in maniera altrettanto aggressiva dal punto di vista verbale e a passare poi all’aggressione fisica, quando l’umiliazione e la rabbia suscitata dall’attacco verbale diventano intollerabili cognitivamente ed emotivamente.

Per rendere conto della reale processualità e complessità dell’escalation, è necessario considerare il fatto che essa è sempre una dinamica satura di emozioni forti e impulsive, tra cui rabbia, senso di umiliazione, ostilità, ansia (Winstok e Eisikovits, 2008); questo tumulto emozionale comporta una sensazione di perdita di controllo della situazione fino al punto in cui l’aggressività viene percepita come la sola modalità di riacquisire la percezione di controllo di sé stessi e della situazione (ibid.). La componente emotiva e psicofisiologica dell’escalation è così importante e sostanziale, che Winstok (2008) parla di “covert escalation”, intendendo quella dimensione cognitiva e affettiva nascosta al di sotto dei comportamenti visibili all’esterno.

Per conoscere queste componenti nascoste, è indispensabili utilizzare metodologie qualitative che analizzino le emozioni e motivazioni profonde dei partecipanti al conflitto.

Una ricerca di Geiger e Fischer (2006), mediante interviste qualitative, ha indagato i vissuti emotivi profondi direttamente dalle parole e dalle narrazioni di un campione di preadolescenti. Le domande delle interviste intendevano analizzare tutte le componenti e i fattori coinvolti nell’escalation del conflitto tra compagni di classe, ad esempio le motivazioni o condizioni che la innescavano, le reazioni verbali e comportamentali aggressive, l’eventuale uso della violenza, le emozioni profonde provate durante e dopo il conflitto.

Dalle parole degli studenti emerge il dato che il conflitto è una parte integrante e sempre presente della vita scolastica e gruppale e non si limita all’aggressività verbale ma sfocia spesso in quella fisica.

I ragazzi del campione descrivono diversi parametri mediante cui valutare la gravità o l’innocenza delle provocazioni o degli scherni; alcune delle condizioni contestuali che maggiormente fanno percepire il conflitto come grave e che innescano risposte altrettanto aggressive e il rischio di escalation, sono ad esempio il contenuto ostile o offensivo della provocazione, il fatto di essere oggetto di derisione di fronte al gruppo dei pari, ma soprattutto il bersaglio della provocazione o offesa subita.

Infatti, come sottolineano gli autori, i ragazzi tendono a ribattere in maniera altrettanto aggressiva dal punto di vista verbale e a passare poi all’aggressione fisica, quando l’umiliazione e la rabbia suscitata dall’attacco verbale diventano intollerabili cognitivamente ed emotivamente. Il dolore, la rabbia e il risentimento sono ingigantiti quando bersagli dell’umiliazione o della derisione subita sono elementi profondi della propria identità e dei propri affetti; nelle parole semplici e dirette dei preadolescenti, si risponde a tono alle offese e alle umiliazioni, soprattutto se pubbliche, quando “fanno male”.

La percezione che l’attacco verbale abbia oltrepassato la soglia della tolleranza è sollecitata dal fatto di aver subito una grave e inaccettabile violazione di quegli aspetti idiosincratici profondi che costituiscono e strutturano la dimensione identitaria ed affettiva delle persone. La messa in atto di condotte competitive, aggressive, quando non espressamente violente, in risposta ad un attacco o ad una provocazione risulta l’unica soluzione possibile per difendere quegli elementi naturali e immodificabili del proprio Sé, come l’appartenenza di genere, i tratti derivanti dall’etnia, alcuni difetti fisici.

L’escalation del conflitto e il passaggio dall’aggressività verbale a quella fisica, sono innescati dall’attacco a componenti emotivamente e cognitivamente salienti della propria identità personale e sociale; ridicolizzazioni e offese rivolte a caratteristiche personali immodificabili e stabili nel tempo, suscitano intollerabili vissuti emotivi di rabbia, umiliazione e frustrazione che sfociano nella percezione che l’unico modo per fare valere e difendere il proprio punto di vista sia quello di aggredire alla stessa maniera e di ripagare con la stessa moneta il torto subito. Secondo Anderson e Bushman (2002), l’emozione che gioca il ruolo cruciale nel determinare un’eventuale aggressione fisica è la rabbia, in quanto interferisce con i processi cognitivi complessi di ragionamento e valutazione morale e di autocontrollo, provvedendo a una giustificazione del proprio comportamento aggressivo.

Non sono rari in casi estremi di escalation, soprattutto quando le emozioni in gioco risultano intollerabili, processi di deindividuazione e deumanizzazione dell’altro, che tendono a negare la diversità e la dignità delle persone (Arielli e Scotto, 2003; Coleman et al., 2007); sempre a livelli estremi, la lucidità cognitiva e percettiva viene definitivamente persa, le motivazioni originarie si affievoliscono e rimane come unica legge quella della retaliation, ovvero di rispondere a un torto subito con un attacco di almeno pari entità, meglio nota come “legge del taglione” (Anderson e Bushman, 2002; Arielli e Scotto, 2003; Geiger e Fischer, 2006; Anderson, Buckley e Carnagey, 2008).

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE – 

VIOLENZA ADOLESCENTI

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR. Trattamento EMDR per la rabbia patologica e l’ostilità

 

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

 

“Se la persona che si arrabbia è in piedi,

si dovrebbe sedere. Se la rabbia se ne va,

tanto meglio, altrimenti deve sdraiarsi.”

Muhammad (570-632)

labirinti traumatici emdrLa rabbia è un’emozione molto intensa, generalmente legata ad un sentimento di profonda ingiustizia, alla percezione di aver subito un danno o talora di essere in pericolo: la sua natura è dunque soprattutto difensiva.

Nel recente Convegno Nazionale EMDR l’intervento di Mark Nickerson ha permesso di approfondire questa emozione e le sue sfumature, mettendo al centro i possibili meccanismi eziologici e alcune linee guida importanti per il trattamento.

La prima considerazione necessaria per lavorare su problematiche legate alla rabbia e all’ostilità è distinguere tra diversi gradi di intensità: 1) rabbia “normale, intesa come emozione reattiva ad una situazione specifica, 2) rabbia “patologica, intesa come uno stato emotivo duraturo e ingestibile manifestato internamente o esternamente, 3) ostilità, come tratto stabile di personalità e caratterizzato da uno stile di conoscenza e di relazione basato sul conflitto/scontro, 4) comportamento collerico, inteso come espressione di una rabbia improvvisa o di un tratto ostile di personalità e infine 5) comportamento abusante, inteso come un comportamento che ha l’obiettivo di umiliare la vittima e di ottenere potere e controllo sull’altro.

Ciascun aspetto descritto necessita di interventi specifici e dopo il panorama descritto nei precedenti contributi, il Dott. Nickerson si concentra soprattutto sugli aspetti più importanti da affrontare in psicoterapia.

Il primo passo per la cura di pazienti con un problema di rabbia patologica è indagare “dove e quando” quel comportamento è stato appreso nello sviluppo. Spesso infatti i comportamenti collerici o abusanti rappresentano manifestazioni sintomatiche di traumi irrisolti che hanno generato dei pattern di comportamento stereotipati, originariamente usati come “risposta di sopravvivenza” in situazioni di pericolo e poi rimaste “congelate” negli anni e rinforzate dai successivi eventi di vita negativi. E’ necessario dunque comprendere il ruolo strumentale che la rabbia e l’aggressione hanno per la persona: insomma, a cosa è servita in passato?

Ad attirare l’attenzione degli altri, a ridurre lo stress, a scaricare energia accumulata, a raggiungere un obiettivo, a controllare o ferire gli altri, ad evitare il contatto emotivo con ricordi dolorosi, a mantenere intatta la personalità, a proteggersi.

Nell’ottica EMDR il lavoro terapeutico proposto da Nickerson è caratterizzato da due fasi: la prima consiste nella gestione dello stato, sulla comprensione cioè di cosa attiva oggi la reazione rabbiosa e sull’ampliamento della “finestra di tolleranza delle emozioni (van der Kolk, 1991); la seconda prevede l’intervento EMDR sulla rabbia come tratto, come cioè caratteristica nata dalle esperienze traumatiche infantili che hanno creato e attivato schemi relazionali patologici.

L’idea che guida la prima fase è legata alla neurofisiologia della rabbia: quando è attiva un’emozione difensiva, come spesso è la rabbia, il flusso sanguigno viene indirizzato verso i muscoli, ai danni della corteccia cerebrale, e quindi la nostra capacità di ragionare, pensare e programmare azioni adeguate è seriamente compromessa. Restano attive le aree limbiche del cervello (amigdala e ippocampo), direttamente impegnate nel sistema difensivo primario, tutte le altre vengono letteralmente “spente”. In sostanza, parlare ad un persona intensamente arrabbiata è come parlare alla sua amigdala… difficile, e soprattutto rischioso!

Nickerson propone dunque innanzitutto interventi di psicoeducazione e comportamentali, utili ad uscire dall’emozione e recuperare una distanza emotiva sufficiente per riattivare la corteccia e riuscire di nuovo a dialogare e comunicare con gli altri. Il ciclo della rabbia descritto (vedi immagine) è tra tutti lo strumento clinico più utile a questo scopo, per semplicità e chiarezza: una volta identificate tutte le fasi del ciclo, dai trigger all’escalation della tensione, si rintracciano i target (episodi) – che verranno usati nella seconda fase – legati ad ognuna di quelle fasi attraverso il float back. Il ciclo ha la funzione primaria di comprendere come si arriva all’esplosione di rabbia e costruire successivamente strategie di TIME OUT, per uscire dal ciclo, e di TIME IN, per ri-focalizzarsi su se stessi e cercare infine un’auto-regolazione delle emozioni.

Ciclo della Rabbia

Quest’ultimo aspetto, mette luce uno degli ostacoli più importanti al trattamento di questo tipo di problemi: la presenza di convinzioni rigide ed esternalizzate sugli altri, in assenza di cognizioni e credenze negative su di sé.

La negatività dell’emozione infatti è tutta focalizzata sull’altro e così anche le credenze negative; questo “salva se stessi” dal vivere emozioni troppo dolorose, soprattutto se vissute nell’infanzia, ma blocca l’elaborazione di quelle stesse emozioni e la possibilità che diventino nel tempo meno dolorose. Spesso nei problemi di rabbia patologica lo schema inconsapevole appreso nell’infanzia è frutto infatti di un locus of control completamente esterno: “il comportamento dell’altro mi ha fatto sentire ingiustamente colpevole, sbagliato o in pericolo di vita, e allora oggi faccio sentire gli altri come mi sono sentito io”. Il passato diventa il presente.

Così Nickerson ci spiega il suo Protocollo EMDR per il Targeting di Pregiudizi e Credenze Ostili Esternalizzate (ENC): “Mentre solitamente il valore dell’EMDR risiede nell’identificare e nell’accedere alle credenze negative che il paziente ha di sé, molte di queste vengono oscurate quando il paziente si focalizza negativamente verso l’esterno. Questo processo di esternalizzazione spesso prevede la proiezione di un aspetto negativo di sé sugli altri. Inizialmente può sembrare che questo processo doni un certo sollievo psicologico alla persona dalle proprie responsabilità, al contempo tuttavia, nega l’opportunità di risolvere ciò che rappresenta la loro parte del problema. In generale, il pregiudizio cronico e l’ostilità sono la manifestazione di una carenza di informazioni, disinformazione e informazioni non immagazzinate adeguatamente, basate su esperienze traumatiche irrisolte del passato e di conseguenza trattabili con l’approccio EMDR. Tuttavia, il terapeuta EMDR deve assolutamente mantenere la consapevolezza rispetto al processo di esternalizzazione, aiutando a dirigere il focus del paziente internamente. Il problema delle ENC infatti è che spesso rimangono inesplorate e non vengono mai associate alle esperienze interne.”

Nel lavoro con EMDR è importante dunque considerare e discutere queste credenze nella fase di preparazione, poiché queste possono ripresentarsi durante il trattamento e bloccare l’elaborazione dei ricordi scelti come target. L’idea del protocollo di Nickerson è che queste convinzioni esternalizzate siano apprese e possano essere smantellate quando utilizzate come target durante l’EMDR. E’ necessario quindi associare le ENC ad eventi di vita, che utilizzeremo come target, e collegarle ad una o più credenze negative su di sé legate a quegli eventi. Per una elaborazione efficace è importante che entrambe le cognizioni siano identificate, prima di iniziare la desensibilizzazione ed elaborazione di quel ricordo.

I pregiudizi e i comportamenti ad essi associati, possono ovviamente creare danno alle vittime di questi pregiudizi intaccando la loro sicurezza personale, l’autostima, l’identità sociale, il ruolo nella famiglia. Meno noti sono i danni invece che questi pregiudizi producono sui perpetratori stessi.

Eccone alcuni, utili ai perpetratori e …a chiunque si trovi in balia dei propri pregiudizi:

– il pregiudizio danneggia il pensiero e le capacità decisionali,

– stimoli contestuali attivano reazioni, aumentando la risposta pregiudizievole

– comportamenti pregiudizievoli possono includere il ritiro, l’evitamento, il minacciare, il sottomettere,

– gli stereotipi possono “giustificare” e alimentare l’aggressione,

– risposte pregiudizievoli rinforzano e aumentano il pregiudizio (“Profezia che si auto-avvera””).

 

LEGGI ANCHE:

CONGRESSO NAZIONALE EMDR – EYE MOVEMENT DESENTITIZATION AND REPROCESSING – EMDR – NEUROPSICOLOGIA TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – RAPPORTI INTERPERSONALI

COME FUNZIONA L’EMDR? IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE

 

“Il risentimento è come bere un veleno

e poi sperare che questo uccida i tuoi nemici”

(Nelson Mandela)

Bernardo Carducci on the distinction between shyness and social anxiety

Bernardo Carducci

Indiana University Southeast Shyness Research Institute

 

 

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

Distinction between shyness and social anxiety. - Immagine: © Amir Kaljikovic - Fotolia.comWhat is the distinction between shyness and other conditions, such as social anxiety?

In contrast to individuals with social anxiety, shy individuals will go to social functions but have difficulty talking to or engaging others, particularly those individuals they find attractive or in a position of authority.

Social anxiety is a medical condition defined by a general fear of being evaluated by others to the point that the individual will avoid social situations.  In contrast to individuals with social anxiety, shy individuals will go to social functions but have difficulty talking to or engaging others, particularly those individuals they find attractive or in a position of authority.

Since shyness is not a disease, mental disorder, character flaw, or personality deficit, shy people do not have to change who they are.  More specifically, there is nothing wrong with being a shy person.  The real problem with shyness is what it does to shy people.  What shyness does to shy people is it serves as a personal barrier by controlling their thoughts, feelings, and behavior in a manner that holds them back.  It holds them back in terms of their careers, educational goals, and love lives.

To help shy individuals to deal effectively with their shyness, they have to learn how to control their shyness instead of their shyness controlling them.  And the key to controlling shyness is to understand the nature and the dynamics of shyness.  Thus, the focus of my efforts in the study of shyness is to help shy individuals understand their shyness and to use this understanding to take control of their shyness.  Taking control of shyness is about taking control of your shyness by changing what you think and do, not about changing who you are.   So, this is what I mean when I say, “I’d rather understand shy people than change them.”

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – Psychology

SEE THE ENGLISH ARTICLES ARCHIVE

 

 

 

REFERENCES: 

 

For more information on dealing effectively with your shyness, visit the Indiana University Southeast Shyness Research Institute at www.ius.edu/shyness.

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