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Stimolazione elettrica cerebrale: può migliorare l’autocontrollo?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio apparso sul Journal of Neuroscience la stimolazione elettrica cerebrale può migliorare l’autocontrollo. Questa scoperta secondo gli scienziati potrebbe essere utile nel trattamento dell’ADHD e di altri disturbi gravi di auto-monitoraggio.

Lo studio, in doppio cieco, ha coinvolto quattro volontari epilettici ai quali è stato chiesto di eseguire semplici compiti comportamentali che implicavano l’interruzione o il rallentamento di un azione. Per ogni paziente i ricercatori hanno identificato la posizione specifica di questo “freno” nella regione prefrontale del cervello. Successivamente, un computer ha stimolato la corteccia prefrontale esattamente nel momento in cui l’interruzione dell’azione era necessaria. Ciò è stato fatto utilizzando elettrodi impiantati direttamente sulla superficie del cervello .

La stimolazione con cariche elettriche brevi e impercettibili ha portato a una forma di maggiore auto-controllo nei soggetti epilettici.

Quando la stimolazione elettrica avveniva al di fuori della corteccia prefrontale non c’erano effetti sul comportamento e questo dimostra che l’effetto della stimolazione è specifico per il sistema di frenata prefrontale.

Questo è il primo studio pubblicato sul come migliorare la funzione del lobo prefrontale umano utilizzando la stimolazione elettrica diretta. Inoltre la stimolazione elettrica ha avuto l’effetto di amplificare la funzione del lobo prefrontale, mentre normalmente negli studi in cui viene utilizzata la stimolazione elettrica su esseri umani si ottiene l’effetto di disturbare momentaneamente la normale attività cerebrale.

I ricercatori sottolineano che nonostante i risultati dello studio siano promettenti, non si focalizzano ancora sulla capacità di migliorare il controllo in generale; in particolare  la stimolazione elettrica diretta non sembra essere un’opzione realistica per il trattamento dei disturbi di auto-monitoraggio, come il disturbo ossessivo -compulsivo, sindrome di Tourette e disturbo borderline di personalità .

LEGGI:

DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – ADHD NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La pubblicità con il mio nome: quante soddisfazioni! – Psicologia

 

 

La pubblicità con il mio nome: quante soddisfazioni! . -Immagine: © Mr Korn Flakes - Fotolia.comOra possiamo avere in casa la cioccolata con il nostro nome o la bevanda con il ruolo che ricopriamo nelle interazioni sociali (moglie, fratello, mamma…), e, se non vogliamo farci mancare proprio nulla, addirittura entrambe! Un’operazione di marketing che soddisfa il nostro bisogno di stima.

Nell’ultimo anno si è assistito ad un cambiamento di forma negli spot pubblicitari: grosse industrie di prodotti alimentari hanno aggiunto, al proprio prodotto in vendita, il nome e il ruolo sociale che ciascuno di noi può ricoprire.

In cosa consiste questa operazione di marketing? Perché dovrebbe farci piacere comprare prodotti che portano il nostro nome o il nostro ruolo? Perché secondo Maslow, in realtà, questo soddisfa il nostro bisogno di stima. 

Il nostro comportamento è motivato da una serie di cause ed è finalizzato alla realizzazione di determinati scopi: ad esempio dormiamo perché siamo stanchi (causa) e abbiamo bisogno di riposare (scopo). L’insieme degli scopi rappresenta il sistema motivazionale dell’individuo (Lorenzini & Sassaroli, 2000).

Nel panorama psicologico internazionale esistono diverse teorie volte a spiegare la dimensione motivazionale nell’agire umano. La motivazione, in generale, può essere definita come un costrutto che prevede la presenza di diversi livelli di complessità ordinati in modo gerarchico: da risposte automatiche semplici (i riflessi: ad esempio l’attività involontaria e automatica delle ghiandole sudoripare che consente di mantenere costante la temperatura del corpo) e spinte elementari (bisogni, pulsioni) a condotte più articolate ed elaborate (essere amati, sentirsi realizzati) (Anolli & Legrenzi, 2001).

Secondo Maslow (1954), in particolare, è possibile organizzare i bisogni umani in una gerarchia piramidale, dove, partendo dalla base, troviamo:

  1. i bisogni fisiologici connessi alla sopravvivenza (come sete e fame);
  2. i bisogni di sicurezza che portano alla ricerca di tranquillità, protezione ed evitamento di condizioni pericolose;
  3. i bisogni di appartenenza ed amore (ad esempio sentirsi parte di un gruppo, dare e ricevere amore);
  4. i bisogni di stima, che si dividono in autostima (fiducia in se stessi, indipendenza, realizzazione) ed eterostima (status, riconoscimento, apprezzamento e rispetto meritato degli altri). Quando questi bisogni non sono soddisfatti, si possono sviluppare sentimenti di inferiorità o di debolezza;
  5. i bisogni di realizzazione del sé, intesi come il desiderio di realizzare le proprie potenzialità, di portare a compimento le proprie aspettative e di occupare una posizione significativa all’interno del proprio contesto sociale.

I bisogni alla base della piramide scompaiono al loro appagamento, gli altri continuano a svilupparsi via via che vengono soddisfatti.

La tipologia di pubblicità in questione tende a soddisfare i gradini più alti di questa piramide, come il bisogno di stima e il bisogno di realizzazione del sé: la qualità non risulta più essere l’unico fattore importante, ma emergono anche i valori che l’azienda e il prodotto comunicano.

Più l’azienda è capace di creare approcci fondati su relazioni durature e interattive con i clienti, più i clienti saranno soddisfatti. Sentire: “Per noi rimarrai sempre Stefano”, equivale a dire che per quell’azienda Stefano è importante, e (Maslow insegna) essere riconosciuti e apprezzati è uno dei bisogni sempre attivi, che se appagato è un toccasana per la nostra autostima e dà origine ad un senso di soddisfazione e benessere, che aumenta esponenzialmente se si sperimenta proprio mentre ci troviamo in condizioni di stress (come essere in coda con il carrello il sabato mattina!).

Consigli per l’uso: usare con moderazione. Godiamo del senso di benessere non solo al supermercato, ma appaghiamo il bisogno di stima impegnandoci per migliorare la nostra condizione sociale, per avere una buona reputazione o una posizione importante all’interno di un gruppo, condizioni che rendono il benessere più stabile. Ed eventualmente, se non è indispensabile, evitiamo di fare la spesa il sabato mattina!

LEGGI:

PSICOLOGIA & MARKETINGSCOPI ESISTENZIALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psiche & Legge #10: L’ espressione di disprezzo rivolta al partner vale come maltrattamento?

PSICHE E LEGGE #10

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Può l’espressione di disprezzo rivolta al partner, valere come maltrattamento in famiglia?

 

Psiche & legge#10. - Immagine:  © Rudie - Fotolia.comLe espressioni di disprezzo del coniuge, certamente lesive della dignità umana, possono talora costare anche una condanna per il reato di maltrattamento in famiglia, di cui all’art. 572 del Codice Penale.

Vediamo, però, in quali casi ciò è ipotizzabile, e quali sono i presupposti che il legislatore richiede ai fini della configurazione del delitto. Va precisato, in primo luogo, come i maltrattamenti in famiglia si delineano, nel codice, alla stregua di una risposta punitiva tesa a sanzionare la condotta di chi “maltratti” una persona della famiglia.

Così, analizzando con maggiore attenzione la nozione di maltrattamenti, verrà spontaneo ricondurre a tale alveo, non solo gli atti di violenza fisica – quali percosse o lesioni – ma altresì ogni condotta in grado di arrecare alla vittima sofferenze, anche soltanto psichiche. E’ noto, difatti, come la serenità psicologica sia elemento integrante della salute umana, intesa nel senso più ampio di benessere psicofisico. Di qui, la rilevanza, per l’integrazione del reato, sia delle aggressioni al corpo del familiare, che delle ingiurie, minacce, privazioni o umiliazioni idonee a violarne la tranquillità quotidiana. A tal fine, inoltre, il giudice dovrà riservare adeguata attenzione – come del resto precisato, di recente, dalla Cassazione con sentenza n. 44700/13 – agli atti “di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali”.

Ma quando, allora, un comportamento teso a mortificare le persone vicine diviene reato? Non sempre, è evidente. Si pensi all’agire, obiettivamente spiacevole, di chi rivolga espressioni atte a mortificare il valore altrui, o all’abitudine, purtroppo frequente, di svilire il partner durante una lite. Ebbene, entrambe le azioni, seppur riprovevoli sotto il profilo personale, non vanno certamente qualificate come delitti, ove singolarmente considerate. Scatterà il reato, tuttavia, nell’ipotesi in cui detti modi di fare assumano un’abitualità tale da sottoporre i familiari a continue vessazioni. Vessazioni che, però – va precisato – vestiranno valenza penale esclusivamente ove espressione di una condotta abituale del soggetto, che risulti mosso dall’intenzione di porre in essere un programma criminoso, caratterizzato dalla volontà unitaria di ledere la vittima.

L’abitualità, pertanto, quale elemento connotante i maltrattamenti in famiglia, inquadrati, proprio per tale ragione, tra i reati abituali, la cui consumazione coinciderà con l’ultimo degli atti perpetrati. È la natura abituale del crimine, dunque, a comportare la possibilità di punire il comportamento complessivamente valutato, a nulla rilevando che i singoli segmenti dell’agire siano, o meno, penalmente perseguibili. Potrebbe accadere, ad esempio, che isolate frasi ingiuriose – seppur in se lecite – si trasformino in reato, ove inserite in un contesto di vita caratterizzato da una serie costante di vessazioni, fonte di sofferenza psichica per la persona offesa.

Preme sottolineare, ancora, come il giudice potrà emettere sentenza di condanna anche nell’evenienza in cui sia stata riscontrata l’abitudine dell’imputato a proferire espressioni di disprezzo nei confronti del familiare, tali da ridurlo in stato di sofferenza, nonostante il suo atteggiarsi venga ad innestarsi, come di sovente accade, in una situazione di conflittualità familiare, reciproca e permanente. A segnare la responsabilità penale, pertanto, sarà solo il formarsi della cosiddetta serie “di minima rilevanza” di atti vessatori, sufficiente a procurare lesioni psicologiche alla vittima.

Altro aspetto meritevole di analisi, è quello attinente le vicende in cui il reo sia separato dalla consorte.

In tale evenienza, occorre domandarsi se lo stato di separazione consente di ritenere le parti ancora legate da quel vincolo di familiarità che il Codice Penale richiede per la sussistenza del reato. La soluzione, alla luce dei principi giuridici generali, non può che essere positiva. Del resto, ma è palese, la separazione dei coniugi sospende – e non interrompe – i doveri assunti con la celebrazione del matrimonio. Restano intatti, perciò, almeno fino alla pronuncia di divorzio, gli obblighi di rispetto e di assistenza, morale e materiale. Di conseguenza, i maltrattamenti in famiglia potranno configurarsi anche nelle ipotesi in cui il comportamento del reo – dunque le vessazioni, le offese e gli atti di disprezzo rivolti al partner – sia iniziato durante la vita coniugale, e si sia protratto durante lo stato di separazione, sia essa legale, o solo di fatto. Assunto, questo, immediatamente collegato al concetto di familiare, quale soggetto passibile di restare vittima del reato di maltrattamenti. Ebbene, familiare – secondo costante giurisprudenza – è senz’altro il convivente, nel caso in cui la coppia abbia comunque progettato una vita basata sulla reciproca solidarietà e sostegno. Che la stabile convivenza sia ormai equiparata alla famiglia fondata sul matrimonio, almeno ai fini in esame, lo si deduce altresì dal mutamento del titolo della rubrica normativa, oggi non più rubricata “maltrattamenti in famiglia” ma “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.

Ecco che il delitto in lettura, potrà scattare quando le continue vessazioni siano rivolte, non solo al coniuge, ma ad ogni soggetto legato al reo da obblighi assistenziali, seppur non connessi a specifici vincoli di parentela, naturale o giuridica.

Di conseguenza, laddove i comportamenti tenuti dall’agente – volgari, irriguardosi, umilianti o ingiuriosi – siano tali da costringere il familiare a vivere in un contesto quotidiano avvilente e mortificante, il giudice, accertata l’esistenza di un programma criminoso volto a vessare la vittima, potrà senz’altro emettere sentenza di condanna ai sensi dell’art. 572 del Codice Penale.

 

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

LEGGI ANCHE:

VIOLENZA – ABUSI E MALTRATTAMENTI – FAMIGLIA – PSICOLOGIA PENITENZIARIA

IL MANIPOLATORE PERVERSO: COME RICONOSCERE IL NARCISISTA MALIGNO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Pascasi, S. (2013). Ciò che caratterizza la sussistenza del crimine è l’abitualità di fatti che procurano sofferenza. Nota a Cass. Pen. n. 44700-13, in Guida al Diritto (Il Sole 24 Ore) n. 47/13, pagg. 83-86

Sexual economic theory e pubblicità – Psicologia & Marketing

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le donne sono insensibili ​​alle immagini sessualmente esplicite delle pubblicità…a meno che il prodotto pubblicizzato sia molto prezioso, e speciale.

Questo secondo i risultati di un nuovo studio condotto da un gruppo internazionale di docenti di marketing, Kathleen D. Vohs , Jaideep Sengupta e Darren W. Dahl.

L’ipotesi alla base dello studio si rifà alla “sexual economic theory” una teoria molto poco romantica su come uomini e donne pensano, sentono, reagiscono e si comportano in un contesto sessuale. Nello specifico, secondo questa teoria, pensieri,  sentimenti, comportamenti e preferenze sessuali di uomini e donne seguono principi economici: la premessa fondamentale è che “il sesso” è qualcosa che le donne hanno e gli uomini desiderano.

Per cui la sessualità femminile è considerata un bene prezioso che verrà ceduto solo in cambio di adeguate risorse maschili (impegno, affetto, attenzione, tempo, rispetto…e denaro). Inoltre per le donne è importante che la sessualità femminile venga rappresentata come qualcosa di speciale e che venga valorizzata, come un oggetto prezioso.

I ricercatori hanno messo alla prova questa teoria in campo pubblicitario e mostrato a uomini e donne annunci pubblicitari di orologi da polso: alcuni avevano come contesto immagini piccanti, altri una maestosa catena montuosa, inoltre il valore dell’orologio poteva essere di 10 o di 1250 dollari. I partecipanti all’esperimento avevano il compito di valutare l’annuncio pubblicitario.

Le donne hanno giudicato in modo estremamente negativo gli annunci associati al contesto piccante quando l’oggetto era di poco valore, mostrandosi disgustate, arrabbiate e spiacevolmente sorprese. I giudizi sull’annuncio erano però molto meno severi quando il prezzo dell’orologio era alto. Il prezzo dell’orologio non influenzava le valutazioni nel caso in cui il contesto era mondano.

Negli uomini, invece, il prezzo dell’orologio non ha modificato le valutazioni in entrambi i contesti. Gli uomini però hanno reagito molto negativamente ad alcuni annunci sessualmente espliciti quando questi ammiccavano al fatto di dover investire risorse economiche per avere un contatto sessuale. Questa reazione non si verificava quando l’annuncio suggeriva che le risorse da investire erano affettive, e non monetarie.

Sebbene i risultati dimostrassero esattamente ciò che i ricercatori avevano previsto questi sono rimasti sorpresi “Siamo riusciti a ottenere questi effetti persino al di fuori si uno scenario d’acquisto reale.  È bastata una breve esposizione ad annunci pubblicitari perchè la  sexual economic theory emergesse. Questo significa che il processo avviene a livello profondo e intuitivo.”

LEGGI:

SESSO-SESSUALITA’GENDER STUDIES PSICOLOGIA & MARKETING

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Buon anno e buone feste da State of Mind

Happy Christmas State of Mind 2013. - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti
Happy Christmas State of Mind 2013. – Immagine: © 2013 Costanza Prinetti

Cari amici e lettori di State of Mind!

E’ passato un altro anno di SoM, un anno di articoli, recensioni, polemiche, commenti, congressi e post. Un anno di blogger straordinari e di lettori generosi e attenti.

Il giornale è cresciuto, e diventato un punto di riferimento importante della psicologia italiana.

Anche quest’anno il Premio State of Mind ha avuto molto successo, sono arrivate in redazione decine di proposte che hanno reso difficile la decisione data l’alta qualità delle ricerche in gara.

Abbiamo inventato un format difficile, che chiede un equilibrio costante tra severità delle citazioni, controllo delle notizie, e leggibilità e attenzione al mondo mainstream e al pubblico generalista.  Le oscillazioni esistono e ogni volta ci fanno rimuginare, ci rendono insoddisfatti, ci fanno cambiare direzione.

Ma ogni volta, condotti dal nostro Direttore, Giovanni Ruggiero, dal nostro webmaster Flavio Ponzio, dalla redazione Linda Confalonieri, Serena Mancioppi, Valentina Davi, dagli studenti della scuola, le preziose Roberta e Daniela… troviamo una strada nuova che consente di rimettere il timone in asse.

Noi crediamo che un giornale come il nostro contribuisca in piccolo, modestamente ma con grande testardaggine, all’avanzamento della psicologia italiana,  crediamo nell’eccellenza dei nostri psicologi, degli psichiatri, dei neuroscienziati, e vogliamo che SoM sia una delle molte voci che si fanno ascoltare dall’Italia verso il mondo.

Una voce divertente e informata che parli non solo al mondo psicologico ma che renda più attuale e aggiornata la conoscenza della psicologia da parte dei lettori non specialisti.

State of Mind non esisteva ma l’esigenza di un journal come SoM c’era. Noi l’abbiamo soltanto intercettata. E ne siamo orgogliosi.

 

Cari amici e lettori, Buon anno a tutti, buon SoM a tutti!

Sandra Sassaroli

 

 

 

 

Photo-taking impairment effect: se vuoi ricordare…non fare foto!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Photo-taking impairment effect: le persone è come se usassero la macchina fotografica come una stampella alla quale affidarsi per memorizzare gli oggetti, questo però indebolisce il ricordo che è affidato alla memoria della macchina fotografica invece che a quello della mente.

Fare foto o video di ciò che osserviamo non sempre ci aiuta a ricordare meglio ciò che abbiamo visto e vissuto, è quanto emerso da una ricerca della Fairfield University in Connecticut. Lo studio, ispirato dall’osservazioni di vita reale, ha voluto indagare se l’abitudine a fotografare e videoriprendere compulsivamente tutto ciò che vediamo, per esempio quando siamo in vacanza, aiuti davvero a scolpire il ricordo nella memoria o se invece possa avere l’effetto contrario, cioè quello di distoglierci dalla vera osservazione.

La psicologa ricercatrice Linda Henkel ha testato 28 soggetti che hanno visitato il Bellarmine Museum of Art: gli studenti sono stati assegnati in modo casuale al compito di osservare o fotografare 30 diversi oggetti.

Il giorno successivo i partecipanti allo studio hanno svolto un test di memoria: dovevano scrivere i nomi degli oggetti  visti o fotografati il giorno prima, rispondere a domande su dettagli degli oggetti, e infine svolgere un test fotografico di riconoscimento.

I risultati indicano che i partecipanti allo studio ricordavano più facilmente gli oggetti osservati di quelli fotografati. La Henkel ha chiamato questo fenomeno “photo-taking impairment effect”, le persone, cioè, è come se usassero la macchina fotografica come una stampella alla quale affidarsi per memorizzare gli oggetti, questo però indebolisce il ricordo che è affidato alla memoria della macchina fotografica invece che a quello della mente.

In un secondo esperimento, 46 studenti hanno percorso lo stesso tour al museo: la metà di loro avevano il compito di osservare gli oggetti e l’altra metà quello di fotografare solo un dettaglio (ad esempio la testa o i piedi di una statua).

Anche in questo caso l’indebolimento del ricordo, legato all’uso del supporto tecnologico, era evidente, però il fatto di zoommare su alcuni dettagli dell’oggetto li aiutava a ricordare la figura intera.

Questo studio ci suggerisce di prestare davvero attenzione a ciò che fotografiamo o videoregistriamo, perchè solo così saremo facilitati nel recuperare i ricordi, in caso contrario le immagini non rimarranno impresse nella mente ma solo nella scheda di memoria della macchina fotografica.

La Henkel sta ora progettando di studiare le differenze nelle memorie di persone scelgono di scattare una foto rispetto a quelle a cui viene chiesto di scattare una foto. L’idea è quella che il livello di attenzione e interesse che varierebbe nelle due situazioni influenzerebbe anche la qualità del ricordo.

LEGGI:

MEMORIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Legge anti stalking: novità e criticità – Report dal convegno

 

Una risposta alla violenza di genere?

La cura dei sistemi di convivenza.

 

Legge antistalking, Convegno Napoli Novembre 2013. -Immagine: locandinaLunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, durante il quale si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere.

Lunedì 25 novembre 2013 a Napoli ho partecipato, come relatrice, a un convegno sulla violenza di genere dal titolo “Legge anti stalking: novità e criticità”, promosso dall’avvocato Maria Giovanna Castaldo, consigliere segretario della Camera Minorile di Napoli. Durante tale incontro, intorno a un tavolo, si sono riuniti il Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e diverse figure professionali (avvocati, assistenti sociali, psicologi, giudici, giornalisti ecc.) per provare a intessere un dialogo multidisciplinare atto a ripensare gli interventi di contrasto alla violenza di genere. Qui di seguito proverò a riassumere i punti nodali del mio intervento, anche alla luce delle riflessioni emerse dal convegno.

Se cerchiamo su internet la parola “violenza di genere” vengono fuori numerose immagini di donne profondamente sole e dal volto livido. Strano a dirsi ma, pur essendo molteplici le rappresentazioni proposte ai nostri occhi, avremo la bizzarra percezione di essere di fronte alla medesima donna maltrattata: l’aggressore, se c’è, è sullo sfondo, lo si percepisce appena in uno sguardo, lo si vede in un braccio che elargisce uno schiaffo o, ancora, lontano intento a sbattere una porta, dopo aver compito la sua brutalità.

Ciò che manca in queste foto è la relazione che si crea tra vittima e aggressore; la sua rappresentazione in queste immagini è quasi sempre assente. Vien da chiedersi la ragione di tutto ciò. Probabilmente perché è davvero intollerabile concepire la violenza come un qualcosa che sia ascrivibile a una qualsiasi danza relazionale.

C’è chi è reo di quel gesto meschino e chi ne è vittima: la responsabilità del misfatto è da osservare, in questo rarissimo caso, con una casualità semplicistica di tipo lineare, altrimenti si rischia di rifare i tristi errori del passato, che spingevano a intravedere una corresponsabilità di quanto accaduto in gonne troppo corte o atteggiamenti femminili eccessivamente provocanti.

Eppure la relazione anche in questi casi esiste, c’è sempre, anche in queste amare storie di cronaca. Interessante sarebbe, infatti, ad esempio capire quale incastro relazionale si crei tra vittima e carnefice e in quali contesti tali fenomeni si vadano per lo più a sviluppare.

Il mio insistere tanto sulle relazioni non è dovuto solo al mio bagaglio formativo (sono una psicoterapeuta sistemico-relazionale), ma nasce anche dalla convinzione che, come sosteneva Gregory Bateson, “la relazione viene prima”. Della saggezza di quest’affermazione ne portiamo il segno sul nostro corpo attraverso l’ombelico, un piccolo ma pregnante simbolo che dà a queste premesse epistemologiche conforto e ragione, ricordandoci che noi veniamo al mondo già in una relazione. Anche il figlio meno desiderato, e magari per questo motivo abbandonato, sa che quando è nato era già in relazione con qualcuno. Pensare a quel simbolo mi regala sempre un sospiro di sollievo: mi ricorda che i problemi non sono nelle persone ma nelle relazioni che tra esse intercorrono e che, dunque, anche le soluzioni sono da ricercare lì.

E sulla scia del riconoscimento dell’importanza degli aspetti relazionali in ogni situazione, credo sia importante fronteggiare il sempre più elevato numero di casi di violenza di genere attraverso un proficuo lavoro di rete tra tutti i professionisti che di tale fenomeno si occupano, anche per fungere da opportuno modello di riferimento per quella rete amicale e familiare che pure si deve costruire intorno alla vittima. La solitudine, infatti, costituisce a mio avviso la vera violenza!

Attualmente i validi interventi che sono stati allestiti per fronteggiare e contrastare questo dilagare di violenza sono quelli relativi agli sportelli dedicati alle donne, o, ancora, quelli “di nuova generazione”, destinati agli uomini violenti, cui viene ugualmente offerta la possibilità di avere un “luogo” ove poter accedere a vissuti conflittuali non elaborati e non risolti, che sono probabilmente responsabili di quelle condotte criminali.

Relativamente alle leggi, invece, l’aspetto che in esse trova maggiore spazio è quello della repressione: l’aumento delle pene, come se ciò potesse garantire di per sé che la violenza non verrà più perpetrata. E così il nostro ordinamento giuridico vive nell’illusione, proprio come ahimè accade ad alcune donne vittime di violenza, che l’aggressore un giorno la smetterà e che l’emergenza che oggi viviamo è quella dell’ “ultima volta”. Che illusione! Occorre educare alla non violenza a partire dalle scuole, ove è opportuno realizzare un percorso educativo ed etico che promuova il benessere psicologico dei futuri cittadini e delle future comunità. Accanto alla repressione andrebbe data dunque importanza all’educazione.

Da psicoterapeuta sistemico-relazionale mi sono sforzata di leggere il fenomeno della violenza di genere da un punto di vista più allargato, che arrivasse a includere il contesto nel quale oggi tanto essa si esplica: quello della crisi. Crisi che nel nostro Paese è qualcosa che va ben al di là dei meri aspetti economici. 

Tempo fa mi ha colpito molto quanto osservato da una mia collega argentina che, dopo avermi ricordato che anche nel suo Paese una forte crisi c’era stata, ha precisato che i suoi connazionali non hanno mai perso il sorriso e la voglia di ballare, “voi siete tristi, questa crisi ha toccato le vostre identità”.

Ho riflettuto a lungo su quanto da lei saggiamente sottolineato e mi sono ritrovata a pensare che, probabilmente, avesse ragione. Se ci fate caso la seconda domanda che segue un “come stai?”, che un qualsiasi amico o conoscente ci rivolge a un incontro fortuito per strada, è seguita da un: “il lavoro come va?” Domanda dolente di questi tempi che mette in seria discussione il nostro senso d’identità, perché sì noi italiani o, meglio ancora, noi occidentali, abbiamo finito, forse, con il far coincidere il nostro senso d’identità con lo status sociale. C’è dunque da chiedersi quanto tutto questo abbia potuto incidere su questo spaventoso incremento dei casi di violenza di genere se, come diceva Goethe, «chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza».

Diversi studi hanno indagato i modi della violenza esercitata e minimizzata dagli uomini. Questi ultimi giustificano le loro azioni in quanto ciò consente loro di dimostrare di essere uomini (Hearn 1998, p,37). Le identità maschili sono costruite  attraverso atti di violenza e attraverso la narrazione delle stesse. Anderson e Umberson (2001), per esempio, riportano una varietà di modi in cui i resoconti degli uomini violenti sono reputati performance di genere” (pag 126 di “Sono caduta dalle  scale”- i luoghi e gli attori della violenza di genere a cura di Caterina Arcidiacono e Immacolata Di Napoli 2012 Franco Angeli Milano)

E se fosse questa indeterminatezza identitaria che spinge ancora di più a essere violenti verso tutto ciò che è diverso, nella speranza che per lo meno in quella folle contrapposizione si trovi un’identità? La stessa identità che, poi, il molestatore fa perdere anche alla donna vittima di violenza che, offuscata dal terrore psicologico e fisico che sovente vive, finisce con il dimenticarsi chi sia, quali siano i propri sogni, i propri desideri, smettendo di immaginarsi un futuro possibile, completamente catturata dal presente orribile. Dunque, forse, le immagini da me trovate su internet, e di cui parlavo all’inizio, colgono proprio questa indeterminatezza identitaria della vittima e dell’aggressore?

Ad aggravare la situazione sono poi i mass media, spesso dei veri “stalker della società”, pronti a ricordare, per fare notizia, che la vita, quando meno te lo aspetti, può cambiare tragicamente (omicidi familiari, attentati, incidenti disastrosi ecc.) e che spesso a tutto questo non c’è rimedio, come ad esempio quando raccontano storie di donne vittime di violenza, che sono state uccise nonostante le frequenti segnalazioni effettuate alle forze dell’ordine. Vien da chiedersi quante donne rischino di inibirsi di fronte a tali sconfortanti notizie di cronaca, quale devastante senso di precarietà possa regalare ascoltare informazioni tanto angoscianti a una donna che si trova, poiché vittima di violenza, già in una situazione di estrema fragilità. Non sarebbe più opportuno dare maggiore lustro e visibilità a pratiche d’intervento positive che possano far riacquistare senso di fiducia e di empowerment?

Dopo aver evidenziato le “criticità” vien dunque da chiedersi quali soluzioni occorrerebbe proporre, quali “novità” apportare agli interventi già in atto. Forse il primo aspetto da recuperare è quello della storia della vittima di violenza in modo che la donna recuperi quell’importante senso d’identità che, andando al di là del terribile abuso subito, la rimetta in contatto con il proprio progetto di vita: solo così potrà, infatti, riprogrammare la propria esistenza e rispettare di più la propria persona, sottraendosi a quell’impietosa prepotenza.

Un altro aspetto importante è poi quello di recuperare un sano rapporto con le Istituzioni, che non devono apparire ai cittadini come qualcosa di lontano e noncurante ma come un’importante strumento per vedere riconosciuti i propri diritti e per far sentire la propria voce. A tale scopo occorre lavorare proprio su quella rete di relazioni professionali, di cui discutevo all’inizio, affinché si riesca a superare il pericoloso senso di solitudine di cui la violenza si nutre. E’ assurdo, ad esempio, oggigiorno pensare che le case di accoglienza per le vittime di violenza siano presenti in un numero talmente esiguo da non permettere a molte donne di allontanarsi dal proprio carnefice dopo aver effettuato la denuncia.

E poi… cos’altro fare? Ripensare i contesti di convivenza perché udite udite chi pratica violenza non vive sulla luna ma nel nostro pianeta ed è in relazione con noi, per quanto ciò ci possa sembrare strano. Prendersi cura dunque dei sistemi di convivenza, vuol dire prendersi cura delle relazioni e con esse della possibilità che la violenza si estingua. Sensibilizzare su quest’argomento, allestire contesti di riflessione sulle pratiche d’intervento, come il convegno promosso dall’avvocato Castaldo, queste sono valide strategie per contrastare questo increscioso fenomeno, che con la sola repressione ben poco rischia l’estinzione.

“Il fenomeno della violenza e del maltrattamento alle donne non è ancora riconosciuto come un grave problema sociale: esso è inserito nel Piano Socio Sanitario Regionale, ma senza indicazioni di tempi, luoghi, strumenti, competenze, poteri risorse per una sua corretta e concreta presa in carico” (pag 166 di “C.A. DO. M Rompere il silenzio- l’esperienza del centro Aiuto Donne Maltrattate 2005 Franco Angeli, Milano) e questo costituisce davvero un pericoloso problema perché ciò non consente, a mio avviso, di fare un costruttivo e ponderato lavoro di prevenzione, ove per prevenzione intendo più precisamente un lavoro di promozione del benessere psicologico.

Vi racconto un episodio. Anni fa ero responsabile di un progetto di inclusione sociale in una scuola elementare nell’hinterland napoletano. Il più terribile dei bambini  prendeva puntualmente a pugni e a calci gli operatori, specialmente quando questi gli impedivano di fare il “delinquentello”. L’unica a non essere mai stata malmenata ero io, forse perché, come responsabile del progetto, ero considerata “il boss della situazione”. Un giorno, però, Salvatore (userò un nome di fantasia), dopo l’ennesima violazione di una regola, venne da me messo in severa punizione. La cosa non gli andò giù, per cui decise che era giunto anche il mio turno: le avrei prese! Era arrabbiatissimo e mi si avvicinò con fare da bullo e minaccioso, in quel momento non sapevo cosa fare, si ero una psicologa, all’epoca quasi psicoterapeuta, ma nessun libro di psicologia o di psicoterapia mi avrebbe mai potuto fornire una risposta corretta su come intervenire, attinsi così alla mia integrità, alla mia verità, non volli fingere. Spaventata chiesi al piccolo Salvatore, prima che mi mollasse un terribile calcio, di appoggiare la sua mano sul mio cuore per sentirne il battito accelerato dalla paura che nutrivo per lui. Non dimenticherò mai l’espressione del suo volto, pronto com’era a darmi un calcio, decise di abbandonare quella malvagia espressione per sorridermi e venirmi in braccio. Non c’era più spazio per le “mazzate”, solo per le parole: ci calmammo, entrambi. Nella mia paura Salvatore si era riconosciuto! Qualche momento dopo mi chiese cosa avrebbe dovuto fare Nicola (un suo amichetto) visto che la madre gli suggeriva sovente di pestare chiunque gli mancasse di rispetto mentre io ogni giorno mostravo a lui e agli altri bambini, in quel progetto, un modo diverso di affrontare la rabbia: attraverso le parole, il dialogo.

Ricordo che felice sorrisi, avevo capito che Salvatore parlando di Nicola stava parlando di sé, e mi trovai a rispondergli che gli stavo semplicemente mostrando un altro modo di stare nel mondo, di stare in relazione con gli altri, sarebbe stato poi “Nicola” a scegliere ogni volta quale comportamento adottare, se il mio o quello suggerito dalla madre (e dal quartiere). Salvatore mi sorrise rasserenato.

Quel progetto durò pochi mesi. Ancora mi chiedo se poi quel ragazzino oggi abbia davvero in memoria, nel suo cuore, quella possibilità di scelta e mi arrabbio quando penso che forse una maggiore continuità a quel progetto avrebbe potuto garantire a lui e a tutti noi un domani migliore.

Certo, interventi che siano attenti alla cura dei sistemi di convivenza, richiedono tempo, un lento e laborioso insieme di azioni che lentamente, germoglio dopo germoglio, vedano crescere e svilupparsi una cultura di pace.

Così recitano i personaggi di “Questa storia” di Alessandro Baricco:

«Lo sa come si fa a riconoscere se qualcuno ti ama? Ti ama veramente, dico?»

«Non ci ho mai pensato.»

« Io si»

«E ha trovato una risposta?»

«Credo che sia una cosa che ha a che vedere con l’aspettare. Se è in grado di aspettarti, ti ama.»

Beh se amiamo questa causa, se la amiamo veramente, allora dobbiamo imparare ad attendere e allestire contesti in cui gli interventi di promozione del benessere psicologico possano trovare spazio: con la consapevolezza che se sapremo aspettare vedremo lentamente  sbocciare dei frutti molto più succosi e consistenti.

LEGGI:

VIOLENZA ABUSI & MALTRATTAMENTICONGRESSI – STALKING

 

Prostituzione minorile: quale il ruolo delle famiglie? – Psicologia

Prostituzione minorile. - Immagine: © Superingo - Fotolia.comProstituzione minorile: Baby squillo arrestate! Baby squillo, parlano! Baby squillo, il giro si allarga! Queste sono alcune delle informazioni che leggiamo, di recente, sui quotidiani. Sembrano termini antitetici, contrastanti, eppure succede questo: le ragazzine si prostituiscono! Il solo pensare all’associazione tra ragazzine e squillo fa male, crea sgomento, sconforta.

È difficile riflettere sui bambini e legare a questa parola il termine “prostituzione“, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, non rappresenta mai una libera scelta. Usare, dunque, l’aggettivo prostituiti, rende più chiaro il concetto che dietro ogni bambino prostituito c’è qualcuno che ha voluto esplicitamente ridurlo a merce. Comunque, anche quando un minore offre “volontariamente” servizi sessuali lo fa perché indotto da situazioni oggettive e cogenti, in primis la povertà. Solitamente i minori prostituiti provengono da situazioni di emarginazione e di miseria, non a caso, la maggioranza di essi ha origini umili (Bressan, 1999). Ma al degrado economico e sociale si affianca il deterioramento familiare. Infatti, in tutto il mondo la vulnerabilità dei bambini rispetto allo sfruttamento sessuale risiede innanzitutto nelle condizioni di vita e familiari, sia economiche sia emotive (Ambrosini, 2002).

Quanto accaduto di recente, al contrario di quanto comunemente succede, coinvolge bambini/adolescenti che appartengono ad un ceto medio-alto per i quali la prostituzione può essere considerata una scelta autonoma dettata da una forte ribellione interiore, da un grande bisogno di trasgredire che nasce dalla speranza di attirare l’attenzione, classico adolescenziale, di una famiglia distante e disattenta, e di colmare un vuoto esistenziale attraverso la conquista di una disponibilità economica che consenta un facile acquisto di beni (Brown, 2006). Equivale a dire che l’adolescente afferma se stesso attraverso il denaro facile e per questo si sente un adulto. Si tratta di rispondere a delle esigenze dettate dal consumismo vigente nella società contemporanea dove il denaro può tutto, o piuttosto una questione di breakdown adolescenziale? Forse, una commistione di cause!

Spesso sono minori che appartengono ad ambienti familiari deteriorati, disfunzionali, inesistenti, dove ogni membro è sempre impegnato in qualcos’altro di più importante al punto da non vedere il figlio, non considerarlo e non parlare con lui. Si valutano scontati degli aspetti di vita quotidiana che in realtà non lo sono affatto, e il non detto diventa la copertura e il falso consenso al comportamento inadeguato.

Spesse volte si ha a che fare con famiglie monogenitoriali, dove la madre sola, già vittima di disavventure, ha dovuto gestire come poteva la prole, magari senza risorse cognitive alle quali attingere. Quindi, l’adolescente abbandonato e senza regole, senza confini, non messi per rispondere a delle esigenze di falso amore permettendogli tutto, sopperendo a grosse lacune dettate dall’assenza emotiva, ha potuto superare l’insuperabile: vendere il proprio corpo in cambio di denaro!

La cosa che colpisce è che nessuno accenna mai alla figura del padre. Che ruolo hanno nella crescita delle figlie, che funzione svolgono? Eppure, dati clinici fanno propendere per una funzione determinate nella crescita psico-sociale delle figlie. Ma non esistono, non sono presenti in queste famiglie, sia materialmente che emotivamente. Sono sempre impegnati in altro, diverso da ciò che la famiglia richiede, lavoro, affari, interessi. Sembrano estranei e sconosciuti a dei meccanismi di deterioramento familiare, dove ciò che conta è l’apparire (Rohner, & Veneziano, 2001).

In letteratura si evidenzia come questa assenza determina, spesso, nelle adolescenti l’insorgenza di comportamenti non socialmente condivisibili, e torniamo all’inizio del nostro scritto, alla prostituzione.

Spesso si minimizza l’importanza dei padri nello sviluppo soprattutto della figlia, rispetto alla tanto studiata e dibattuta relazione madre-figlia. Ma la relazione padre-figlia è determinante per la creazione del benessere. Infatti, un rapporto qualitativamente buono tra padre e figlia provoca in quest’ultima maggiore benessere psicologico, definito in termini di autostima, migliore soddisfazione di vita e scarso disagio psicologico (Allgood, Beckert, & Peterson, 2012). Insomma, è la qualità del rapporto che è in grado di trasmettere una sensazione di sostegno, d’amore, e nutrimento per le figlie (Chao, 2011). Quando questa qualità non è presente è possibile si possa ricercarla in fittizie relazioni a pagamento dove attimi di finto amore creano l’illusione di un benessere che non esiste, e i soldi potrebbero rinvigorirlo e portare la ragazzina a pensare di poter affermare se stessa attraverso un comportamento adulto, in cui il materialismo del corpo e dei soldi cedono il posto al benessere psichico (Schwartz, & Finley, 2006).

Ma il corpo giovane porterà le cicatrici dei traumi subiti nel tempo.

 

 LEGGI ANCHE:

BAMBINI E ADOLESCENTIGRAVIDANZA E GENITORIALITA’FAMIGLIA – SESSO – SESSUALITA’

ASPETTARE PER IL PRIMO RAPPORTO SESSUALE? FORSE CONVIENE

 

BIBLIOGRAFIA:

Alimentazione: Le buone abitudini cominciano nella pancia della mamma

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori del Monell Chemical Senses Center , un’organizzazione di ricerca no-profit di Philadelphia, hanno scoperto che una dieta variata durante la gravidanza e l’allattamento favorisce nei futuri nati un maggiore apprezzamento per una vasta gamma di sapori; queste preferenze inoltre si sviluppano nell’infanzia e continuano nell’età adulta.

Sulla base di questi risultati i ricercatori ritengono che le preferenze alimentari che si sviluppano in periodi cruciali nella prima infanzia hanno effetti duraturi per tutta la vita.  Infatti cambiare  le preferenze alimentari dall’infanzia all’età adulta sembra essere estremamente difficile.

I ricercatori hanno identificato diversi periodi sensibili per lo sviluppo del gusto. Uno è prima di tre mesi e mezzo di età , per questo motivo ciò che la madre mangia durante la gravidanza e l’allattamento è così importante .

I neonati esposti a una varietà di sapori nell’infanzia sono più disposti ad accettare una varietà di sapori nell’arco dell’intera vita. Questo è un elemento importante perchè il tipo di alimentazione nella prima infanzia getta potenzialmente le basi per una corretta educazione alimentare anche nell’adulto e si pone come importante elemento di prevenzione nei confronti delle cattive abitudini alimentari e dei diffusi problemi di sovrappeso e obesità, così comuni anche nell’infanzia.

C’è un’altra ragione per cui queste esposizioni hanno un impatto permanente, dicono i ricercatori: “Questa esposizione precoce porta ad un fenomeno simile all’ imprinting, per cui i sapori preferiti veicolano anche un attaccamento emotivo.”

Un altro recente studio condotto presso il centro di ricerca dell’Università di Adelaide ha rilevato che l’esposizione a una “cattiva” dieta materna (cibi che altamente energetici, e con un alto contenuto di grassi e zuccheri) ha indotto nei bambini una preferenza per questi stessi alimenti .

L’esposizione al junk food in utero e attraverso il latte materno porta la prole una desensibilizzazione per cibi dolci e grassi; alla base di questo ci sarebbe l’indebolimento di un percorso di ricompensa, mediato dalla maggiore espressione del gene per un recettore degli oppioidi. Come per una dipendenza da droghe è necessario assumere una maggiore quantità della sostanza, in questo caso grassi e dolci, per ottenere un senso di appagamento.

Altre ricerche hanno evidenziato che i sapori dolci hanno un effetto analgesico sui neonati e i bambini ma che questo effetto è ridotto nei bambini obesi, forse a causa  di qualche perturbazione nel sistema degli oppioidi, per cui i bambini obesi hanno bisogno di maggiori quantità di alimenti dolci per ottenere lo stesso effetto calmante dei bambini normopeso.

Questi studi mettono in discussione l’etica della commercializzazione di alimenti di scarsa qualità per i bambini e lattanti.

LEGGI:

ALIMENTAZIONEBAMBINIGRAVIDANZA E GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La Gelotofobia: la paura di essere derisi. Psicologia – Fobia Sociale

 

La gelatofobia. -Immagine: © Andrey Armyagov - Fotolia.com

La gelotofobia è una paura intensa e irrazionale di essere derisi o di essere oggetto di scherno e può essere concepita come una particolare forma di fobia sociale. 

Avete mai sentito qualcuno dire; “soffro di gelatofobia?”. No?!? Eppure, pare sia una sindrome molto diffusa! Spiacente, non significa avere paura dei gelati ma la gelotofobia è una paura intensa e irrazionale di essere derisi o di essere oggetto di scherno e può essere concepita come una particolare forma di fobia sociale. 
Ognuno di noi è più o meno sensibile alle critiche altrui, ma i gelotofobici esasperano i giudizi ricevuti al punto che qualsiasi intervento umoristico è considerato un attacco personale. Non si tratta solo di essere permalosi, ma di una difficoltà da parte di questi soggetti di interpretare correttamente l’umorismo, che viene pertanto vissuto esclusivamente come fonte di umiliazione. Pare che questi gelotofobici siano assolutamente incapaci di distinguere una risata canzonatoria da una risata sprezzante,  il riso finto da quello sarcastico. Inoltre, pensano spesso che l’oggetto di ogni derisione  siano proprio loro, maleinterpretando il linguaggio non verbale, la mimica facciale, il tono della voce, insomma tutti quegli elementi che possono in qualche modo far intendere quale sia l’oggetto del discorso.

Il gelatofobico, con estrema ingenuità, tende ad autoriferire a se stesso sempre e comunque quello che si sta dicendo. A quel punto, in preda alla rabbia e alla vergogna, sentendosi vittima di umiliazione abbandona malamente la situazione nella quale si trova. 

Anche se in compagnia e stanno trascorrendo una piacevole serata i gelotofobici percepiscono le risate positive come sgradevoli o maligne. E’ possibile che queste persone siano state oggetto di derisione nel loro passato, in maniera precoce, al punto da aver “imprintato” la paura reale o immaginata di essere sempre e comunque l’oggetto di risate e di scherno.
Questi episodi, inoltre, sarebbero stati percepiti con un livello di disagio e sofferenza significativamente più alto rispetto agli altri, che provoca un disagio molto forte da un punto di vista emotivo.

Infatti, l’umiliazione spesso cede il passo alla tristezza che potrebbe diventare patologica.

L’incidenza della gelotofobia è particolarmente alta in Asia dove, tra l’altro,  il tema del “salvare la faccia” è piuttosto condiviso da un punto di vista socio-culturale, quindi il timore del giudizio è vissuto in maniera significativamente più alta rispetto ad altre situazioni sociali.

E tu, sei un gelatofobico?

LEGGI:

ANSIA ANSIA SOCIALE -FOBIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Omogenitorialità – Lo stato dell’arte in letteratura scientifica

Gruppo Psicologi Arcobaleno. ArciGay Torino

 

 

 

Omogenitorialità - Lo stato dell'arte in letteratura scientifica. -Immagine:© redkoala - Fotolia.com

Adulti equilibrati e amorevoli (uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, bisessuali o trans) possono essere ottimi genitori.

Il termine “omogenitorialità” è un neologismo che descrive tutte quelle situazioni familiari in cui almeno un adulto omosessuale è il genitore di almeno un bambino.

L’omogenitorialità si manifesta quindi principalmente in due condizioni:

▪   il desiderio di maternità e di paternità nelle persone gay, lesbiche, bisessuali e trans;

▪   la responsabilità paterna e materna delle persone omosessuali che nelle loro storie precedenti (anche eterosessuali, quindi) hanno avuto figli.

In Italia questo è un tema delicato e complesso in quanto non esiste una regolamentazione giuridica in merito: le persone e le coppie omosessuali rischiano così una specie di clandestinità sociale e si sentono ignorate anche in famiglie già esistenti, dove ad essere coinvolti non sono solo gli adulti stessi, ma a volte anche i loro figli.

Le famiglie omogenitoriali ormai costituiscono una realtà vasta e variegata (è stato stimato che in Italia circa centomila minori crescono con almeno un genitore omosessuale), che merita un riconoscimento sul piano sociale, giuridico e psicologico.

In una società costantemente in evoluzione, non esiste più solo la famiglia-tipo con padre-madre-figli, ma si osservano sempre più diversi modelli di famiglia in cui alcuni pilastri fondamentali sono messi in discussione, in quanto non coincidono più necessariamente i genitori biologici e i genitori sociali (cioè tutte quelle persone che si definiscono “genitore”, ma che non ne hanno il “diritto biologico”).

È il caso per esempio delle famiglie “ricomposte”, dove i figli di un genitore divorziato convivono nella stessa famiglia con il nuovo partner della madre o del padre.

Ed è il caso delle famiglie omogenitoriali.

Falsi miti e pregiudizi sulle famiglie omogenitoriali

Prima di approfondire l’omogenitorialità gay e lesbica crediamo sia utile ricordare quali stereotipi continuano ancora oggi a circolare quando ci riferiamo ad una famiglia composta da due uomini o due donne e i rispettivi figli.

Il pregiudizio più radicato è sicuramente quello relativo al fatto che i figli devono avere una madre e un padre nel senso biologico del termine.

Resistono poi tutti quei pregiudizi legati all’orientamento omosessuale come malattia: le lesbiche e i gay non sono in grado di crescere un figlio, le lesbiche sono meno materne delle altre donne, i gay sono pedofili.

E ancora: le relazioni omosessuali maschili sono promiscue e meno stabili di quelle eterosessuali e quindi non offrono garanzia di continuità familiare, oppure l’idea che i figli di persone omosessuali siano a maggior rischio di problemi psicologici di quelli di persone eterosessuali o che diventino più facilmente omosessuali (anche se in fondo basterebbe pensare che un figlio gay nasce e cresce seguendo il proprio orientamento omosessuale in una famiglia eterosessuale).

Madri lesbiche, padri gay: cosa dice la ricerca scientifica internazionale in psicologia

Negli ultimi anni sono state presentate numerose ricerche scientifiche che evidenziano come l’orientamento sessuale dei genitori non incide sullo sviluppo “sano” ed equilibrato dei loro figli.

Le più grandi e accreditate associazioni americane e inglesi di psicologia e psichiatria, come l’American Psychological Association (APA), l’American Psychiatric Association e la British Psychological Society, dopo più di vent’anni di studi, si sono pubblicamente schierate a favore del diritto al matrimonio e all’adozione per le persone omosessuali.

I risultati delle ricerche internazionali dimostrano che i figli di genitori gay o lesbiche si sviluppano emotivamente, cognitivamente, socialmente e sessualmente esattamente come i bambini che hanno genitori eterosessuali. L’orientamento sessuale dei genitori è molto meno importante dell’avere genitori che li amino e li educhino.

Per esempio l’American Psychological Association ha dichiarato:

«Non esiste alcuna prova scientifica che l’essere dei buoni genitori sia connesso all’orientamento sessuale dei genitori medesimi: genitori dello stesso sesso hanno la stessa probabilità di quelli eterosessuali di fornire ai loro figli un ambiente di crescita sano e favorevole. La ricerca ha dimostrato che la stabilità, lo sviluppo e la salute psicologica dei bambini non ha collegamento con l’orientamento sessuale dei genitori, e che i bambini allevati da coppie gay e lesbiche hanno la stessa probabilità di crescere bene quanto quelli allevati da coppie eterosessuali».

L’American Psychoanalytic Association risponde a chi sostiene che avere genitori omosessuali è contro l’interesse del bambino:

«È nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale».

E anche l’American Association of Child and Adolescent Psychiatry ribadisce l’assenza di rischi neuropsichiatrici nelle famiglie omogenitoriali:

La base su cui devono reggersi tutte le decisioni in tema di custodia dei figli e diritti dei genitori è il migliore interesse del bambino […] Non ci sono prove a sostegno della tesi per cui genitori con orientamento omo o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio, a confronto con orientamento eterosessuale. Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato a una patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo o bisessuali, messi a confronto con genitori eterosessuali, non depongono per un maggior grado di instabilità nella relazione genitori-figli o disturbi evolutivi nei figli“.

In una ricerca condotta su 14.000 madri di bambini nati in un anno in Inghilterra, un campione di 19 famiglie costituite da una coppia lesbica è stato confrontato con un gruppo di 74 famiglie eterosessuali e con 60 madri single. Ebbene, non è stata rilevata nessuna differenza rispetto ai seguenti parametri: coinvolgimento emotivo, soddisfazione materna, frequenza dei conflitti, supervisione dei figli, comportamenti dei bambini osservati dai genitori e dagli insegnanti, autostima e presenza di disordini psichiatrici (Golombok et al., 2003).

Questi risultati sono stati confermati da un’altra indagine effettuata su un campione di soggetti (più di 12.000 adolescenti), grazie alla quale è stato possibile constatare che i ragazzi e le ragazze con due madri unite da un legame matrimoniale non presentavano differenze sistematiche con i loro pari riguardo autostima, depressione, ansia, successo scolastico, integrazione con i vicini e autonomia personale (Wainright, Russell, Patterson, 2004).

Anche l’Ordine nazionale degli psicologi italiani, nel 2012, in occasione della Giornata mondiale contro l’omotransfobia, conferma «la necessità di riconoscere come irrinunciabile e indispensabile la possibilità degli omosessuali di vivere desideri, affetti, progetti di vita e genitorialità senza bisogno di nascondersi o temere o subire discriminazioni e aggressioni».

In Australia, la Melbourne University ha avviato una ricerca nel 2012 che si concluderà nel 2014 e coinvolge 500 minori e 315 genitori gay, lesbiche, bisessuali e queer: anche i primi risultati suggeriscono che i bambini che vivono in questi contesti familiari hanno uno sviluppo normale in termini di benessere fisico, mentale e sociale.

Ha preso posizione anche l’American Academy of Pediatrics a sostegno delle famiglie omogenitoriali e dell’adozione per le coppie gay e lesbiche.

Il 20 marzo 2013 pubblica un importante documento in cui ribadisce le conclusioni di una ricerca pubblicata nel 2006 (Pawelski et al., 2006):

«Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, siano essi uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori […] Nonostante le disparità di trattamento economico e legale e la stigmatizzazione sociale, trent’anni di ricerche documentano che l’essere cresciuti da genitori lesbiche e gay non danneggia la salute psicologica dei figli e che il benessere dei bambini è influenzato dalla qualità delle relazioni con i genitori, dal senso di sicurezza e competenza di questi e dalla presenza di un sostegno sociale ed economico alle famiglie».

Dai risultati della stessa ricerca è emerso che, su 500 bambini studiati, nessuno ha dimostrato evidenze di confusione rispetto alla propria appartenenza di genere, al desiderio di appartenere all’altro sesso né ha avuto comportamenti di travestitismo.

Inoltre, se è vero che bambini che crescono e vivono in famiglie omogenitoriali devono battersi maggiormente contro gli effetti della discriminazione sociale (la stigmatizzazione e l’atteggiamento omofobico possono essere considerati i soli motivi per cui l’orientamento sessuale dei genitori può avere influenza sui figli), i risultati delle ricerche suggeriscono che è il rapporto tra genitori e figli il fattore determinante nel predire la relazione del bambino e dell’adolescente con i pari, piuttosto che variabili strutturali come la composizione della famiglia (Wainright, Patterson, 2008).

In conclusione, adulti equilibrati e amorevoli (uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, bisessuali o trans) possono essere ottimi genitori. I bambini di coppie gay crescono sani e felici se la coppia è formata da adulti responsabili e attenti, crescono con disturbi se i genitori sono poco attenti ai loro bisogni.

Esattamente come accade per una coppia eterosessuale.

LEGGI:

LGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDER SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA BAMBINIADOLESCENTIGRAVIDANZA & GENITORIALITA’FAMIGLIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

GLI AUTORI DELL’ARTICOLO:

Psicologi Arcobaleno – Arcigay Torino “Ottavio Mai”

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I disturbi del sonno e la loro influenza sul disagio psico-sociale

Viviana Spandri.

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio recente condotto dal gruppo di ricerca del Dott. G. Neil Thomas dell’Università di Birmingham (UK), ha dimostrato che la qualità del sonno è fortemente correlata con i disturbi dell’umore e un più basso livello di qualità di vita negli individui affetti da obesità di grado severo.

Per questo studio sono stati arruolati 270 individui con un indice di massa corporea (BMI) di 47.0 kg/m2, che sono stati successivamente presi in carico da un servizio regionale specializzato nella gestione del peso corporeo. I partecipanti avevano un’età media di 43 anni. I disturbi legati alla sfera del sonno, il grado di sonnolenza esperito durante il giorno, i disturbi dell’umore e la qualità di vita sono stati valutati mediante questionari standardizzati.

Andando ad analizzare i risultati di questo studio è emerso che il 74.8% dei partecipanti era caratterizzato da una breve durata del sonno: questi individui infatti riportavano una durata media di 6 ore e 20 minuti di sonno a notte. Il 52% dei partecipanti a questo studio soffriva inoltre di una sintomatologia di tipo ansiosa, mentre il 43% presentava una deflessione del tono dell’umore. Un’accurata analisi statistica ha permesso di concludere che la qualità del sonno e il grado di sonnolenza giornaliera erano significativamente correlati con i disturbi dell’umore e il livello di qualità di vita, dopo aver controllato l’effetto di numerose variabili confondenti tra cui il sesso, l’età, l’ipertensione, il diabete e la sindrome da apnea ostruttiva del sonno, che frequentemente accompagnano l’obesità.

Questo studio enfatizza l’importanza per la sanità di introdurre nella routine strumenti standardizzati di screening per i disturbi legati al sonno, in particolare tra i pazienti obesi. Migliorare la qualità e la quantità di sonno potrebbe incentivare fisicamente, emotivamente e mentalmente questi pazienti, già costretti a fronteggiare i cambiamenti negativi nello stile di vita che l’obesità comporta.

Il ruolo potenziale del sonno sul benessere degli individui con un livello severo di obesità sembrerebbe essere stato quindi, fino ad oggi, sottovalutato. Sebbene il disegno di questo studio sia cross-sectional, e quindi non permetta di indagare il legame di causalità tra le variabili studiate, i risultati emersi potrebbero suggerire che una precoce identificazione dei disturbi legati al sonno potrebbe prevenire potenzialmente lo sviluppo e il perpetuarsi del disagio psicologico presente negli individui con un livello di obesità severo.

Nonostante gli innumerevoli disturbi e problemi che affliggono questi pazienti infatti, nella pratica comune non vengono indagati i disturbi appartenenti alla sfera del sonno e viene spesso anche prestata poca attenzione al disagio psicologo, in quanto ad oggi la routine prevede di focalizzarsi principalmente nel trattamento dell’obesità e delle complicanze mediche ad essa relate, come ad esempio l’impostazione di uno specifico programma alimentare e di esercizio fisico, invece di andare ad analizzare le cause di questa patologia, che potrebbero essere ricondotte a qualche forma di disagio psicologico o allo stress.

Queste scoperte sono importanti per il futuro, in quanto l’obesità colpisce ad oggi il 37.5% degli adulti negli Stati uniti, che ha un indice di massa corporea superiore a 30.

 

LEGGI ANCHE:

 SONNODISTURBI DEL SONNODISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – DCA

INSONNIA CRONICA: ALCUNI ASPETTI COGNITIVI E COMPORTAMENTALI

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La relazione Madre-Bambino: un micro-cosmo diadico

 

 La relazione Madre-Bambino: un micro-cosmo diadico

L’importanza delle interazioni nei primi mesi di vita per lo sviluppo emotivo, sociale e cognitivo del bambino.

 

La relazione madre bambino un micro cosmo diadico. - Immagine: ©-Svetlana-Fedoseeva-Fotolia.comLa diade madre-bambino è un mondo chiuso all’esterno e ricco al suo interno, definito dai confini stessi della diade. Le prime interazioni sono fini a se stesse e il loro unico scopo è quello di interagire: sono due i partecipanti e non esiste altro che le loro espressioni facciali, la loro vocalizzazione, la loro emotività.

È una comunicazione affettiva a scopo interno. Madre e bambino nel loro agire e reagire, costituiscono un luogo all’interno del quale il bambino pone le fondamenta di una delle più sviluppate aree della sua competenza: la lettura e interpretazione dei segnali e delle espressioni emotive dei comportamenti altrui (Barone, 2009).

Diversi studi hanno dimostrato come il bambino sia dotato di una sensibilità sociale alla nascita, caratterizzata da una preferenza per facce, sguardo diretto e imitazione, un vero “preadattamento” (Schaffer, 1984) che lo predispone al rapporto sociale e che emerge sia nell’ambito delle capacità espressive e dell’organizzazione comportamentale che in quello delle capacità percettive (Lavelli, 2007).

Queste predisposizioni favoriscono l’avvio delle prime forme di interazione ma poiché all’inizio non c’è un bambino ma una diade, anche il contributo del partner significativo è fondamentale per lo sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino (Carpendale & Lewis, 2004, in Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009).

La madre deve mostrare nei confronti del bambino, una buona responsività, solo così i bambini diventeranno abili nel percepire gli effetti del loro comportamento sugli altri (Gergely & Watson, 1999, in Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009) e imparano a usate il loro comportamento vocale e facciale in maniera strumentale (Stern, 1999, Mcquaid, Bibok, & Carpendale, 2009). È vero che il bambino è predisposto a interagire selettivamente agli esseri umani ma è anche vero che l’ambiente in cui è inserito deve essere sensibilmente responsivo.

Negli ultimi anni, nell’ambito dell’infant research, si è verificato un aumento dell’interesse per lo studio delle modalità attraverso cui il bambino arriva a condividere la sua esperienza soggettiva e quindi i suoi stati affettivi, la sua attenzione, le sue intenzioni, con quella di un’altra persona. La necessità di osservare e descrivere in maniera accurata i segnali che vengono emessi dalla madre e dal bambino all’interno della diade momento per momento, durante le loro interazioni, ha portato all’utilizzo delle tecniche di analisi microanalitiche in modo da rilevare ogni minimo cambiamento di comportamento, e ottenere dettagliate informazioni su “quali” comportamenti occorrono, “quando” e “per quanto tempo” prendendo come unità di analisi o i singoli comportamenti dei membri della diade oppure la diade stessa.

Due grandi studiosi dell’ambito della psicologia dello sviluppo: Edward Tronick e Alan Fogel, si sono interessati allo studio delle prime relazioni madre-bambino introducendo un proprio schema di codifica. Ciò che li unisce è l’analisi dell’interazione diadica, ciò che li differenzia è l’unità di analisi considerata.

Tronick si focalizza sui comportamenti interattivi della madre e del bambino in modo distinto, eseguendo un tipo di analisi microanalitica discreta.

Fogel considera le due componenti congiuntamente focalizzandosi sul processo di co-regolazione diadica, eseguendo un’analisi microanalista olistica.

Considerando queste due modalità di analisi microanalitica complementari piuttosto che escludentisi, nel 2011 è stato condotto uno studio che potesse indagare possibili relazioni tra le due modalità, in particolare, si è deciso di mettere in correlazione le misure rilevate dai due schemi di codifica: l’Infant and Caregiver Engagement Phases (ICEP; Weinberg & Tronick, 1998) e il Sistema di Decodifica Relazionale (Fogel et al., 2003) creati dai due autori per indagare, rispettivamente, la capacità di regolazione emotiva del bambino e quelle di co-regolazione della diade. L’obiettivo dello studio era quello di dimostrare come la co-regolazione diadica influenzi le condotte di auto-consolazione del bambino e i suoi comportamenti interattivi sia durante l’interazione faccia-a-faccia sia a fronte di una situazione di stress.

Gli schemi di codifica sono stati applicati alle videoregistrazioni di interazioni faccia-a-faccia madre-bambino durante l’esecuzione del Paradigma della Still-Face che si compone di tre situazioni: la fase di interazione faccia-a-faccia tra madre e bambino; la fase di Still-Face (viene chiesto alla madre di immobilizzare il volto assumendo un’espressione neutra); la fase di riunione.

È stato preso in esame un campione di 40 bambini, osservati insieme alle loro madri all’età di 4 mesi. Sono state utilizzate come misure di analisi le misure proporzionali relative sia alla durata sia alla frequenza dei comportamenti presi in esame. Per l’analisi dei dati sono state effettuate prima delle statistiche descrittive e in seguito sono state analizzate le correlazioni tra le misure ottenute nei due schemi.

I risultati hanno dimostrato che il tipo di co-regolazione diadica influenza sia la direzione dello sguardo, le espressioni facciali, le vocalizzazioni, l’emotività del bambino durante l’interazione faccia-a-faccia con la madre, sia il modo in cui il piccolo percepisce e vive una situazione di stress.

Sono emerse inoltre delle differenze significative tra le varie categorie di auto-consolazione utilizzate dal bambino per fronteggiare le situazioni di stress: tali condotte potrebbero non avere tutte la stessa valenza funzionale, ossia, un bambino che durante una situazione di stress, mette la mano in bocca, potrebbe essere un bambino che vive un livello di stress maggiore rispetto a un bambino che si consola incrociando le mani.

Studi approfonditi sul microcosmo diadico potrebbero aiutare a comprendere meglio lo sviluppo emotivo, sociale e cognitivo del bambino dimostrando l’importanza delle interazioni nei primi mesi di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

Venere in pelliccia, Roman Polanski (2013) – Recensione

Recensione del film:

Venere in pelliccia

Roman Polanski (2013)

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Venere in pelliccia. -Immagine: locandinaIl bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

L’ultima fatica di Roman Polanski è un film geniale e trascinante che riprende l’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch e la pièce teatrale di David Ives anch’essa ispirata al testo dello scrittore austriaco.

La scena è costituita dal palco di un teatro parigino e da due soli protagonisti, l’autore dell’adattamento di “Venere in pelliccia” nonché regista dello spettacolo e un’attrice che arriva in ritardo all’audizione per l’assegnazione della parte principale.

Progressivamente la dialettica si trasforma attraversando i diversi ruoli della relazione: la donna esordisce come figura rozza e lamentosa venendo respinta dal regista che si rifiuta di concederle tempo per l’audizione, poi la qualità della contesa si eleva d’improvviso quando l’attrice inizia a recitare la sua parte con penetrante sensibilità, morbida consapevolezza, sorprendente padronanza.

Inizia in questo modo un gioco a due vissuto e interpretato nel perdurante intreccio tra realtà e finzione, un crescendo di intensità recitativa nel quale i protagonisti si affidano ora al copione della pièce ora al proprio tumultuoso divenire emotivo per comunicare intenzioni e desideri contrastanti, la crescente attrazione dell’uomo sempre più difficile da celare nei tormenti del personaggio letterario e la sottile quanto inesorabile presa di potere della donna, che cavalcando la trama dell’opera da portare in scena, mette in atto una seduzione vera fatta di sguardi e toni che eccitano e distanziano, infiammano e vanificano le passioni.

Il testo di “Venere in pelliccia” è la nascita letteraria del sadomasochismo e come tale prende forma nel film, costruito sul bisogno dell’uomo di consegnarsi alla bellezza dispotica della donna e farsi dominare per poterle appartenere; il genio di Polanski produce un assedio di tensione catartica che utilizza dapprima l’ironia, poi l’inquietudine e infine l’emergere vivido delle lacerazioni più profonde che fanno esplodere la vulnerabilità di entrambi i personaggi, le contraddizioni evocate dalla loro ricerca di sé, l’impossibilità di definirsi attraverso una funzione univoca.

Mutano gli assetti emotivi, si trasformano le posizioni da occupare sul palco e nelle dinamiche sempre più potenti della relazione; il dominato sperimenta con metamorfosi imprevedibile il ruolo di dominatore anzi di dominatrice, scoprendosi preda di una femminea voluttà che segue la misoginia quasi insita nella sottomissione così visceralmente implorata – “E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani della donna” è l’epigrafe del romanzo che ritorna come elemento cardine del film – mentre la donna sovrappone l’erotismo all’ironia aggressiva e alla sapiente lucidità manipolatoria conservando il controllo sulla relazione anche quando sembra cederlo assecondando l’assunzione del ruolo femminile da parte dell’altro.

L’epilogo del film si richiama alla tragedia greca ed è un ultimo ribaltamento che ristabilisce il tema già percorso amplificandolo negli accenti drammatici; la grandezza di “Venere in pelliccia” è data dalla straordinaria prova attoriale dei due interpreti – lui un perturbante alter ego di Polanski che trasformandosi in figura femminile ne ripropone i caratteri espressivi allucinati de “L’inquilino del terzo piano”, lei una superba profusione di sfumature psicologiche che spaziano dal cinismo all’impulso iracondo fino al gioco compiaciuto – e dalla capacità di Polanski di mantenere un ritmo narrativo degno della sua arte assoluta.

Le figure dell’opera svelano contenuti che trascendono dal loro copione potendosi definire solo attraverso un’umanità intimamente contaminata dall’altro e dall’ignoto, il fragile regista utilizzato come strumento per un disegno già pensato e la donna, forte orgogliosa e austera a tratti ma poi furiosa nel sentirsi vittima di una letteratura che legittima esclusivamente il bisogno maschile.

Il bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

Un film di eccezionale valore, da lasciar fermentare e poi rivedere per poterne cogliere l’essenza più complessa.

RECENSIONI

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Omega-3 utile contro la malattia di Alzheimer

Santina Leonardi

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sulla scorta di precedenti studi di popolazione che indicano che gli omega-3 possono proteggere contro l’insorgenza della malattia di Alzheimer, il presente studio ha voluto indagare gli effetti di un’integrazione di questi acidi grassi nella dieta giornaliera in pazienti che hanno già sviluppato la malattia.

Gli omega-3 (fra i più importanti l’acido eicosapentaenoico o EPA e l’acido docosaesaenoico o DHA) e gli omega-6 sono acidi grassi polinsaturi essenziali che si accumulano nel sistema nervoso centrale durante la crescita fetale. Si ritiene che questi acidi continuino ad essere rimpiazzati nell’arco di vita, ma poco si sa su come questo avvenga e se un cambiamento nella dieta possa influire sul passaggio di questi importanti acidi grassi attraverso la barriera ematoencefalica, altrimenti designata a proteggere il cervello dalle sostanze nocive presenti nel sangue.

Diverse malattie possono interferire sulla loro distribuzione a livello del sistema nervoso centrale. In pazienti con malattia di Alzheimer, per esempio, si riscontrano concentrazioni di acido DHA inferiori alla norma.

Sulla scorta di precedenti studi di popolazione che indicano che gli omega-3 possono proteggere contro l’insorgenza della malattia di Alzheimer, il presente studio ha voluto indagare gli effetti di un’integrazione di questi acidi grassi nella dieta giornaliera in pazienti che hanno già sviluppato la malattia.

La fase di sperimentazione è durata 6 mesi durante i quali sono state somministrate ai pazienti assegnati al gruppo sperimentale dosi giornaliere di integratori di omega-3, mentre il gruppo di controllo assumeva capsule di olio di mais.

La ricerca condotta dalla dott.ssa Yvonne Freund-Levi del Karolinska Institutet in Svezia mostra che i livelli plasmatici di tutti gli acidi grassi omega-3 (in particolare DHA e EPA) aumentano significativamente nel gruppo sperimentale; diversi però sono gli stessi aumenti a livello del liquido cerebrospinale (CSF o liquor) e la loro correlazione con i marcatori tipici della demenza di Alzheimer.

Risulta ad esempio che il livello di EPA aumenta sia nel plasma che nel liquor, mentre a un aumento di DHA nel plasma non corrisponde un suo aumento nel CSF. Emerge anche che all’aumentare dell’acido DHA nel liquor aumentano anche i cambiamenti in alcuni biomarker infiammatori e dementigeni, il che suppone un’interazione reciproca.

Sembra quindi che gli acidi grassi omega-3 possono superare la barriera ematoencefalica in pazienti affetti da Alzheimer, con ripercussioni sia a livello di alcuni indici infiammatori sia di alcuni marcatori tipici di questa patologia dementigena che fanno ben sperare in un effetto positivo sui processi neurodegenerativi che la caratterizzano.

Ulteriori studi sono necessari per esplorare il ruolo svolto dagli acidi DHA ed EPA, per capire se l’assorbimento di DHA nel liquor è specificamente associato al fatto che la sua carenza è tipica di questa malattia e per comprendere come mai la barriera ematoencefalica lasci passare in modo così diverso i due acidi. Queste e altre ricerche fanno inoltre supporre che possa esistere una finestra temporale nella patogenesi dell’Alzheimer all’interno della quale l’assunzione di omega-3 può essere efficace per prevenire o ritardare la malattia, mentre tentativi di ripristinare le perdite di DHA a livello cerebrale potrebbero risultare fallimentari.

Molto lavoro resta da fare per poter dire se questi acidi grassi possono essere usati nel trattamento dell’Alzheimer per arrestare la perdita di memoria o se possono avere un ruolo nella sua prevenzione.

 

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INNOVA ALZHEIMER: INNOVAZIONE TECNOLOGICA AL SERVIZIO DELLE DEMENZE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Empathy VS Simpathy – Psicologia & Emozioni (Video)

 

 

La differenza tra i due concetti di Empathy e Sympathy spiegati in un breve cortometraggio da Brené Brown, Research Professor presso la University of Houston.

I 4 ingredienti fondamentali dell’empatia:

  • Perspective taking: la capacità di prendere su di se la prospettiva, il punto di vista, di un altra persona.
  • Staying out of judgement: non giudicare, sospendere il giudizio.
  • Recognizing emotions in other people: riconoscere le emozioni delle altre persone.
  • Communicate that you recognize other people’s emotions: comunicare alle altre persone che siamo consapevoli delle emozioni che stanno provando.

 

 

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Quando si decide di promuovere nel paziente la capacità di capire la mente degli altri non conviene farlo tramite il canale immaginativo.
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Colloquio Psicologico: Il colloquio è composto anche di silenzi. A volte questi hanno una funzione terapeutica, altre volte sono sintomo di ostilità
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Disturbo della Condotta & Reazioni Cerebrali
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Affaccendarsi – Tribolazioni Nr. 20 – Rubrica di Psicologia

 

 

 

Uomini e donne: diversi anche nelle connessioni cerebrali

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio sulle connessioni cerebrali condotto da Penn Medicine e pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences ha portato alla scoperta di notevoli differenze nei circuiti neurali degli uomini e delle donne che hanno alimentato le credenze popolari riguardo le differenze di genere.

In uno dei più importanti studi sulle differenze di genere, Ragini Verma, professore dell’Università della Pennsylvania, e colleghi hanno trovato ampie connessioni neuraliintraemisferiche antero-posteriori nei maschi, il che suggerisce che il loro cervello sia strutturato per facilitare la connessione tra la percezione e la coordinazione dei movimenti. Al contrario, nelle femmine, sono più ampie le connessioni interemisferiche dimostrazione del fatto che esse hanno maggiore facilità di comunicazione tra le capacità analitiche e l’intuizione.

Questa mappa mostra significative differenze- e complementarietà- nell’architettura del cervello umano che forniscono una spiegazione del perchè gli uomini si distinguono in alcuni compiti, mentre le donne in altri” spiega Verma.

Per esempio, mediamente, i maschi sono migliori nell’imparare e nell’eseguire un singolo compito alla volta, come andare in bicicletta o guidare, mentre le femmine hanno una memoria maggiore e migliori abilità cognitive sociali, il che le rende maggiormente attrezzate per il cosidetto multitasking, che sottilinea un approccio di tipo mentalistico.

Altri studi precedenti hanno dimostrato differenze legate al sesso a livello cerebrale, ma il circuito neurale che connette le regioni dell’intero cervello connesso a quelle specifiche abilità cognitive non è stato scientificamente dimostrato.

In questo studio, invece, Verma e colleghi hanno indagato le specifiche differenze di genere nella connessione cerebrale durante il periodo dello sviluppo di 949 soggetti (521 femmine e 428 maschi) di età compresa tra gli 8 e i 22 anni attraverso l’utilizzo della DTI (Diffusion Tensor Imaging).

Questo gruppo di ricerca ha dimostrato che le donne hanno una maggior connettività interemisferica nelle aree sovratentoriali, al contrario degli uomini che hanno una maggior connettività intraemisferica. Accade l’opposto, invece, nel cervelletto, il quale ha un ruolo principale nel controllo motorio e in cui i maschi mostrano maggior connessione interemisferica mentre le femmine maggior connessione intraemisferica.

Tutte queste connessioni specifiche nei maschi forniscono loro un sistema efficiente per la coordinazione dei movimenti in cui il cervelletto e la corteccia favoriscono il collegamento tra le esperienze percettive (parte posteriore del cervello) e l’azione (parte frontale). Nelle femmine queste connessioni facilitano l’integrazione tra processi analitici e sequenziali (emisfero sinistro) e le informazioni spaziali e intuitive (emisfero destro).

Gli autori hanno riscontrato poche differenze di genere nei bambini di età inferiore ai 13 anni, ma differenze più pronunciate negli adoloescenti tra i 14 e 17 anni e nei giovani adulti oltre i 17 anni.

I risultati dimostrano anche che le femmine hanno prestazioni migliori dei maschi nell’attenzione, nel linguaggio, nel riconoscimento delle espressioni facciali e nei test di cognizione sociale. I maschi, invece, sono migliori nel processamento spaziale e nella percezione sensori-motoria. Queste differenze sono maggiormente evidenti tra i 12 e i 14 anni.

Infine, il dottor Ruben Gur afferma: “E’ impressionante quanto siano complementari il cervello femminile e quello maschile. I dettagli sulle mappe neurali non ci hanno solamente aiutato a capire meglio le differenze tra come uomini e donne pensano, ma ci hanno anche portato a conoscere a fondo le radici dei disturbi neurologici, che sono spesso legati al sesso”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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