L’ecoansia, ovvero l’ansia derivante in risposta ai pericolosi effetti del cambiamento climatico, sembra essere percepita maggiormente da giovani, scienziati e attivisti (Kelly, 2017) che spesso protestano per la mancanza di provvedimenti adeguati all’urgenza di questa imminente minaccia. Ma quali sono le ragioni psicologiche che ci portano a non intervenire tempestivamente?
Gli effetti psicologici del cambiamento climatico
L’ultimo decennio ha visto l’importante sviluppo della climate psychology, ovvero psicologia del clima. In psicologia, sono state identificate sei aree chiave nell’ambito dei cambiamenti climatici, tra cui: la percezione del rischio, le cause psicologiche e comportamentali del cambiamento climatico, gli impatti psicosociali del cambiamento climatico, le strategie di coping, gli impedimenti psicosociali all’azione e il ruolo degli psicologi (APA, 2010). Allo stesso tempo, gli psicoterapeuti si trovano a dover fronteggiare ansia e senso di colpa, perdita e rabbia, sia nei propri pazienti sia in loro stessi (Rust, 2020; Dodds, 2021).
L’ecoansia viene definita come paura cronica di una catastrofe ambientale, che comporta un’accentuata sofferenza emotiva, mentale o somatica in risposta ai pericolosi cambiamenti del clima (APA, 2017; CPA, 2020).
La letteratura ha evidenziato come l’ansia da cambiamento climatico possa provocare diversi risvolti psicopatologici tra cui stress (da lieve ad acuto), depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, suicidio, violenza domestica e abuso di sostanze (North et al., 2004; Harville et al., 2011; Fisher, 2010; Flory et al., 2009; Fullerton et al., 2004). Allo stesso modo, è stata anche associata ad attacchi di panico, perdita di appetito, irritabilità e insonnia (APA, 2010).
Sono stati riscontrati diversi tipi di ansia climatica e traumi dovuti al cambiamento climatico, soprattutto quando i danni ambientali implicano la perdita del proprio stile di vita o cultura di appartenenza (Cianconi et al., 2020).
Bisogna dunque distinguere tra ecoansia patologica ed ecoansia adattiva, poiché prestare attenzione a ciò che sta accadendo intorno a noi è una risposta sana, se paragonata alla negazione o al rifiuto (CPA, 2020). A questo riguardo, è importante sottolineare che l’ecoansia sembra sia percepita maggiormente tra giovani, scienziati e attivisti (Kelly, 2017).
Hickman (2020) sostiene che ci siano differenze generazionali nel modo in cui rispondiamo alle emozioni, soprattutto per quanto riguarda l’ecoansia. I giovani spesso parlano di incomprensione o inazione da parte degli adulti. Infatti, ciò che spesso spaventa i giovani è il modo in cui vedono il “mondo degli adulti”, che non riesce a prendere provvedimenti adeguati all’urgenza di questa imminente minaccia. I bambini e i giovani sono sempre più spesso al centro di proteste sulla necessità di intraprendere un’azione immediata, proprio perché sono consapevoli che le conseguenze delle azioni degli adulti di oggi si ripercuoteranno su di loro in futuro.
Perché non interveniamo sul cambiamento climatico?
Dodds (2021) ha teorizzato quattro ipotesi psicologiche che tentano di motivare il perché, globalmente, non si siano ancora presi provvedimenti seri per contrastare il cambiamento climatico.
- Ipotesi del falso allarme: gli esseri umani hanno la capacità di rispondere in maniera efficace a minacce immediate e visibili mentre gli eventi che accadono lentamente sfuggono alla nostra attenzione (Gilbert, 2010; Marshall, 2014).
- Ipotesi del dilemma sociale (bystander effect): i dilemmi sociali comportano un conflitto tra interesse individuale e collettivo. Il cambiamento climatico è il dilemma sociale per eccellenza. L’ansia si riferisce non solo ai “costi” del gioco (se giocato male), ma anche alla previsione del comportamento degli altri (Foddy et al., 1999). La mancata sicurezza di un’azione collettiva spesso frena l’azione individuale: se io faccio la cosa giusta nei confronti dell’ambiente, come posso fidarmi che anche tu la faccia?
- Ipotesi ecopsicologica: dagli anni ’90, l’ecopsicologia è emersa come una particolare risposta della psicologia ai problemi ambientali, suggerendo che la nostra vita moderna è talmente disconnessa dalla natura che non ci preoccupiamo abbastanza di proteggerla e non ci rendiamo conto di essere minacciati dai danni dovuti alla nostra noncuranza nei confronti del mondo naturale. La riconnessione con la natura è vista come un requisito per la salute mentale, la quale fornisce anche la spinta emotiva che ci muove ad agire (per amore, non solo per paura). Gli ecopsicologi sottolineano che l’ansia, il senso di colpa, il dolore e la rabbia che proviamo per il collasso degli ecosistemi, il nostro “dolore per il mondo”, sono appropriati e, sebbene difficili, forniscono il punto di partenza per l’azione e un rinnovato rapporto con la Terra (Jordan, 2009).
- Ipotesi psicoanalitica: il modello psicoanalitico dei problemi ambientali si concentra sul modo complesso in cui gli esseri umani gestiscono l’ansia. L’ansia da cambiamento climatico è vista come uno stato di preoccupazione elevato, da cui ci si protegge attraverso meccanismi di difesa individualmente e socialmente strutturati. L’ansia climatica è quindi, in parte, una risposta realistica ma dolorosa alla nostra situazione e difficile da mantenere, soprattutto in un contesto sociale di negazione generalizzata (Searles, 1972; Lertzman, 2015).
Un articolo di Panu (2020) sottolinea che l’incertezza, l’imprevedibilità e l’incontrollabilità sembrano essere fattori importanti dell’ecoansia. Come evidenziato anche da Dodds (2021), l’autore rimarca come le dinamiche sociali modellino le forme di ecoansia in modo profondo.
Inoltre, mentre le forme paralizzanti di ecoansia emergono come un problema, Buzzell e Chalquist (2019) sostengono ci sia molta ecoansia “sana” nei sintomi solitamente descritti dal concetto di ecoansia e che essa possa manifestarsi anche come “ansia pratica”, che porta a raccogliere nuove informazioni e a rivalutare le opzioni di comportamento al fine di trovare una soluzione.