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Giorgio Gaber e Sandro Luporini: la lezione psicologica

Giorgio Gaber e Sandro Luporini: L’interesse per l’uomo è stato sempre centrale nella loro produzione artistica, ecco un parallelismo con la psicoterapia.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 29 Ott. 2013

Un’idea, un concetto, un’idea 

finché resta un’idea è soltanto un’astrazione 

se potessi mangiare un’idea 

avrei fatto la mia rivoluzione. 

Un’idea, Giorgio Gaber, 1972

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini- La lezione psicologica. -Immagine: www.sandroluporini.it Giorgio Gaber e Sandro Luporini: L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta.

L’idea di scrivere questo articolo è maturata leggendo il bel libro di Sandro Luporini Vi racconto Gaber (2013). Sandro Luporini è un pittore viareggino, coautore di tutti gli spettacoli teatrali e delle canzoni più evocative di Gaber. Dopo la scomparsa del grande cantautore milanese (nel 2003) ha condotto una vita abbastanza ritirata dal punto di vista mediatico e questo libro è la testimonianza che molti attendevano di un lavoro creativo straordinario che è durato più di trent’anni.

Quando iniziò a lavorare con Luporini, Giorgio Gaber era già un cantante affermato, con una fama nazionalpopolare. L’incontro tra i due sancì un cambio di rotta nella carriera del cantautore, che da allora in poi privilegiò i teatri come luogo di scambio con il pubblico, dando vita a una nuova forma di spettacolo, costituita da canzoni e monologhi, che ha preso il nome di teatro canzone.

Il teatro permetteva di creare una dimensione artistica più intima, dove il pubblico risultava maggiormente coinvolto e in grado di recepire i messaggi e le emozioni degli spettacoli. Della vecchia produzione musicale, caratterizzata da testi spesso leggeri, restava solo un ingrediente che ha sempre contraddistinto il cantautore: l’ironia. Le tematiche affrontate diventarono invece via via più profonde e complesse, seguendo uno straordinario processo di maturazione artistica e personale, in cui Luporini ebbe sicuramente un ruolo fondamentale.

Anche prima di leggere il libro, avevo sentito parlare della loro affascinante modalità compositiva: Gaber e Luporini si trovavano ogni estate in Versilia e trascorrevano un mese intero a parlare liberamente dell’attualità dell’Italia e del mondo, dell’uomo e delle sue contraddizioni, dei libri letti e di tutto ciò che poteva stimolare la loro curiosità. Spesso venivano coinvolti nelle discussioni altri amici fidati o alcuni intellettuali di passaggio (o in pellegrinaggio). Da questi brain storming nascevano i monologhi e le canzoni per gli spettacoli, caratterizzati da una forte impronta umanistica.

L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta. D’altra parte come diceva l’illustre paziente Alda Merini (2008) “Rendere interessante un malato ai suoi stessi occhi è una cosa davvero importante, è il cominciamento della sua guarigione.

L’intento della coppia Gaber-Luporini andava sicuramente oltre il semplice intrattenimento, in quanto è noto che l’arte, quando è arte vera, cerca di rivelare l’essenza delle cose, di trovare un orizzonte di significato, un senso da contrapporre alla realtà caotica e incoerente in cui viviamo.

L’atteggiamento con cui i due hanno indagato l’uomo ricorda più un osservatore della psiche e del comportamento, forse un filosofo (a questo riguardo non negarono di aver preso ispirazione per alcuni testi dai filosofi esistenzialisti), che un semplice artista. “Abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio, non abbiamo fatto altro che porci delle domande senza alcuna pretesa di risposta” racconta Luporini. Questo atteggiamento socratico, il rifuggire da concetti assolutistici, fino a relativizzare anche il bene e il male ricorda il lavoro di uno psicoterapeuta, che Vittorio Guidano (1988) definiva “perturbatore strategicamente orientato.

D’altra parte, in scena l’artista si analizzava, si interrogava ponendosi delle domande, promuovendo un’identificazione proiettiva collettiva. Non usava modalità persuasive, ma invitava indirettamente il pubblico ad un’autoanalisi. Negli spettacoli di Gaber era impossibile distogliere lo sguardo e si era costretti a guardare dentro di sé. L’obiettivo era uscire dalla sala con meno certezze e l’effetto destabilizzante veniva addolcito dall’uso dell’ironia, che come diceva Gaber “permette di giocare seriamente e fare cose serie giocando”, arrivando ad ironizzare anche sulla sofferenza.

Lo psicoterapeuta Amedeo Pingitore (2013) ha scritto un bel libro in cui delinea un interessante profilo psicologico di Gaber come artista, mettendolo a confronto con altri grandi perturbatori come Pier Paolo Pasolini, con cui condivideva la capacità di sfuggire dai recinti ideologici, o come il pittore Edvard Munch, per la capacità di rappresentare la precarietà dell’esistenza umana.

I numerosi spettacoli teatrali scritti dalla coppia e i dischi di canzoni registrate in studio abbondano di spunti di riflessione psicologica. Vediamo qualche esempio.

Dialogo tra un impiegato e un non so (1972), uno dei primi spettacoli, contiene la canzone Un’idea, che pone l’accento sulla distanza tra pensiero e sentimento, sulla mancanza di sintonia tra corpo e mente e sulla perdita di naturalità che ne consegue. Tanti disagi esistenziali e disturbi psicosomatici hanno alla base questo tipo di conflitto ed il lavoro terapeutico in questi casi è di integrazione delle varie parti (Semerari, 1999).

E’ nello spettacolo successivo, Far finta di essere sani (1973), che la coppia esplora maggiormente gli scenari della psiche, influenzata dalla lettura de L’io diviso (1969) dello psichiatra scozzese Ronald Leing, considerato uno dei principali rappresentanti del movimento antipsichiatrico, che affermava “che un gran numero di “guarigioni” di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l’altro, ha deciso di ricominciare a fare finta di essere sano”.

Nello spettacolo troviamo ad esempio la canzone Un’emozione, in cui viene trattato il conflitto tra razionalità e istintività, con un appello alla “dolce prudenza”, come meccanismo di difesa e di evitamento emotivo.

Quello che perde i pezzi è invece la storia di un individuo iper-razionale che si dimentica del corpo, fino a perderne delle parti, con conseguente esilaranti. Ancora la mancanza di sintonia tra corpo e mente.

L’impotenza è un brano che si sofferma nuovamente sulla ricerca di equilibrio tra fisicità e pensiero con l’esortazione a “imparare a sentire il presente in un tempo così provvisorio” e rapido come il nostro, in sintonia con le moderne teorie di mindfullness.

L’elastico è una canzone sulla schizofrenia, dove l’immagine dell’elastico che si spezza rappresenta l’angoscia di frammentazione della crisi psicotica, con quel “Me fuori di me” a evidenziare la perdita dei confini come ci viene descritta classicamente dalla letteratura (Gabbard, 2002).

La canzone Il narciso sottolinea in modo impietoso le modalità relazionali della persona affetta da personalità narcisistica, dove l’altro viene usato in modo strumentale, come un oggetto (“perché io, con una donna, mi scopo”).

La libertà, forse uno dei brani più noti, contiene la citatissima frase “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”, che sottolinea come nel conflitto tra individualità e il bisogno di appartenenza vince quest’ultima. Questo tema verrà poi ripreso nella Canzone dell’appartenenza (2001) che recita “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. Sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”. Il concetto di appartenenza riveste una certa importanza nell’ambito della maturazione dell’individuo.

La capacità di percepire un sentimento d’appartenenza ad un gruppo sociale è infatti una delle funzioni basiche della personalità normale. Si può sentire di appartenere alla famiglia, a un gruppo di amici o di lavoro, a una squadra sportiva o altro, con un conseguente senso di completezza e vivacità interiore. L’analisi di trascritti di sedute di pazienti con Disturbo Narcisistico ed Evitante di Personalità ha suggerito che, almeno in questi disturbi, l’esperienza di non appartenenza sia pervasiva e influenzi il quadro psicopatologico (Dimaggio, Procacci, Semerari, 1999).

Lo spettacolo Polli da allevamento (1978) contiene il monologo Il suicidio, che tratta l’argomento in modo ironico concludendo saggiamente che “ c’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte”.

Nel brano Quando è moda è moda emerge come il confondersi con gli altri attraverso le mode, ci permetta di evitare l’angoscia che può derivare dal definire la nostra identità, con il rischio di non essere accettati.

Anni affollati (1981) include il brano Il dilemma, che racconta la storia di una coppia che crede al rapporto come qualcosa di autentico per cui valga la pena lottare, senza accettare compromessi, essendo addirittura pronti a morire per esso.

Io se fossi Gaber (1985) contiene invece la canzone Ipotesi per una Maria che recita “perché per credere all’amore davvero bisogna spesso andarsene lontano e ridere di noi come da un aeroplano”, descrivendo l’ambivalenza di certe donne divise tra il bisogno di starti accanto e la consapevolezza di riuscire a esistere solo come persone libere. Questo tipo di conflitto si trova tipicamente nelle organizzazioni di personalità di tipo fobico (Guidano, 1988).

Vale la pena inoltre soffermarsi sugli ultimi due dischi registrati in studio da Gaber: La mia generazione ha perso (2001) e Io non  mi sento italiano (2003). Sono due lavori bellissimi, ma intrisi di pessimismo e disillusione. Rappresentano la testimonianza di come Gaber e Luporini abbiano assistito all’appassirsi dei sogni di cambiamento degli anni settanta, siano stati testimoni appassionati di tante battaglie sociali che aspiravano alla conquista di nuova morale, ma alla fine si siano arresi alla delusione di fronte a un mondo sempre più individualista e spoglio di valori. 

Ci sono alcuni capolavori di “psicologia musicata” come I mostri che abbiamo dentro, che descrive le istanze psichiche pulsionali e istintuali (“silenziosi e insinuanti sono il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”), che ricordano molto l’Es freudiano (Freud, 1985). L’uomo è destinato a vivere nel conflitto tra le aspirazioni di altruismo e di solidarietà e questi mostri atavici che ci spingono all’odio, alla violenza e all’egoismo.

Sì può descrive uno spaccato spietato e lucidissimo delle libertà del nostro tempo (Si può fare i giovani a sessant’anni…Si può trasgredire qualsiasi mito…), che possono paradossalmente portare  all’ossimoro della “libertà obbligatoria”, dove “Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale”. L’obeso racconta l’uomo moderno, ingordo di cibo, idee, esperienze, che viene stigmatizzato con la splendida metafora “l’obeso è l’infinito di un leopardi americano”.

Ancora in tema di ideali e disillusione Qualcuno era comunista descrive “una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita”, ma “senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici”. La metafora dei “gabbiani ipotetici” è a mio avviso potentissima e contiene tutta la tensione tra un io ideale e un io reale.

Quando sarò capace di amare accenna al superamento del complesso di Edipo freudiano   (“non avrò bisogno di assassinare in segreto mio padre, né di far l’amore con mia madre in sogno”), come indice di crescita e maturazione da un “uomo bambino” a un individuo adulto.

Non insegnate ai bambini è un piccolo trattato di pedagogia, in cui il cantautore consiglia ai genitori di “coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore il resto è niente”, piuttosto che cercare di trasmettere ai figli norme morali, pensieri, ideali sociali.

La rabbia e l’amarezza verso questo mondo da alcuni è stato etichettato come disfattismo. Potrebbe anche essere, ma credo che gli italiani abbiano un grande debito di riconoscenza verso Gaber e Luporini, per le perturbazioni emotive e per i tanti utilissimi dubbi suscitati. O no?

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ARTE MUSICA LETTERATURA

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PSICOLOGIA & MUSICA: IL SUICIDIO NELLA CANZONE ITALIANA#2

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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