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Psiche & Legge #9: Quando l’abbandono dell’incapace diviene reato?

PSICHE E LEGGE #9

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Quando l’abbandono dell’incapace diviene reato? E la vecchiaia, può essere equiparata, ai fini penali, all’incapacità?

Psiche e legge #9. - Immagine: © Dmytro Smaglov - Fotolia.comNel primo appuntamento di Rubrica, oggetto di analisi è stata la tematica inerente la sanità mentale del criminale, stante l’indubbia rilevanza che la stessa riveste nell’ambito del processo penale.

Si ricorderà, difatti, che a norma dell’articolo 85 del nostro codice, “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”, e che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

È evidente, dunque, come l’accertamento della salute psichica del reo, sarà imprescindibile al fine di decidere – una volta attestatane la responsabilità penale – l’eventuale soggezione a sanzione. L’indagine su tale condizione, tuttavia, sarà di fondamentale importanza anche con riferimento al vaglio di sussistenza di taluni reati. È noto, in effetti, come nel nostro apparato normativo, il legislatore abbia espressamente previsto – mediante la descrizione della condotta criminosa – che diverse fattispecie delittuose possano ritenersi integrate soltanto ove il comportamento del soggetto agente sia rivolto ad individui in possesso di determinati requisiti. Così, in relazione al reato di cui ci occuperemo nell’odierna trattazione, l’art. 591 del Codice Penale punisce a titolo di abbandono di persone minori o incapaci, la condotta di chi abbia abbandonato i soggetti elencati nella norma: “una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura. Disposizione che, in sostanza, interviene a ricondurre nell’alveo del penalmente rilevante, fermi i presupposti richiesti dal precetto incriminante, il disprezzabile comportamento di abbandono o incuria posto in essere nei confronti del soggetto “debole”. Trattasi, come si palesa, di norma che trova intuibile ratio nell’esigenza di offrire un’adeguata e rafforzata tutela a chi, per particolari condizioni – legate alla minore età, alla vecchiaia, o al cagionevole stato psicofisico – si trovi a necessitare dell’altrui ausilio, al fine di restare indenne da un concreto pericolo di danno derivante dalle attività quotidiane cui non riesce ancora, o non riesce più, a far fronte.

A conferma, si ponga attenzione alla collocazione del disposto, inserito nell’alveo dei delitti contro la vita e l’incolumità personale, appositamente formulato per rispondere con sanzione alla condotta del soggetto che – tenuto ad assistere l’incapace – se ne sia invece disinteressato, lasciandolo in balia degli eventi. Condanna che si aggraverà, per palesi motivazioni, nell’ipotesi in cui il delitto assuma contorni di maggiore biasimo, poiché perpetrato “dal genitore, dal figlio, dal tutore, o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato”. A ben vedere, pertanto, nonostante la norma esordisca con “chiunque…”, il reato in analisi non potrà essere perpetrato da qualsiasi persona, ma esclusivamente da colui che sia legato alla vittima da un obbligo di custodia.

A titolo esemplificativo, ne risponderà, tra gli altri, il familiare dell’incapace che non gli assicuri le dovute attenzioni, ponendolo in pericolo nella gestione quotidiana del suo vivere. Sul punto, poi, si annoti come la Cassazione sia costante nell’estendere la nozione di familiare anche al convivente more uxorio che abbandoni il compagno non autosufficiente, gravando sul primo, uno specifico dovere di cura in favore del secondo. Ancora, il crimine scatterà a carico del personale, medico o infermieristico, che non presti riguardo al degente che versi, dati alla mano, in discutibili condizioni igieniche. Di contro, andrà esente da sanzione penale per il suicidio del paziente borderline, il primario del servizio psichiatrico che abbia dimesso il malato in prossimità temporale con l’evento, laddove l’atto non poteva da questi ritenersi prevedibile, e dunque idoneo ad imporre la predisposizione di un trattamento sanitario obbligatorio.

Discussa, invece, è stata la questione – poi risolta in senso affermativo dai giudici di legittimità – inerente la responsabilità dell’ausiliario di una struttura sanitaria, non tenuto (per mansionario) alla vigilanza del ricoverato infermo. Ebbene, in tale evenienza, la Suprema Corte è giunta a riconoscerne la colpevolezza, in caso di attestata esposizione a rischio del malato, sul presupposto che l’obbligo di custodia, a prescindere da formali attribuzioni, fosse da ritenersi comunque legato al servizio notturno prestato. Ad ogni modo, esulando dall’odierna tematica ogni profilo più strettamente connesso all’elemento soggettivo del reato, al requisito del pericolo, ed all’evenienza in cui vittima del crimine sia un minore, ciò che interessa approfondire è l’aspetto concernente la nozione di incapace, rilevante ai fini integrativi dell’art. 591 c.p., con particolare riferimento al concetto di incapacità psichica.

Occorrerà, allora, ricordare come la definizione di malattia di mente possa e debba desumersi dalla più generale nozione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la descrive quale “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità. Ecco che la qualificazione dell’Uomo Sano, inerirà, è evidente, ad una condizione caratterizzata da equilibrio dell’umore, integrità della sfera cognitiva e comportamentale, capacità di relazionarsi con l’esterno, esplicare le abilità cognitive ed emozionali, soddisfare le esigenze quotidiane, e risolvere in maniera costruttiva eventuali conflitti interni.

Di conseguenza, se per patologico intendiamo ciò che esula dalla “norma”, l’attività diagnostica dovrà prendere a riferimento i canoni di “normalità” legati sia alla presenza di patologie mentali (psicosi e nevrosi), che ai dati statistici, o all’interazione fra la predisposizione allo sviluppo di un disturbo (diatesi) e un evento negativo o una particolare condizione ambientale/esistenziale che funga da agente scatenante (stress).

Di qui, l’inevitabile richiamo, in punto di valutazione, ai cinque assi individuati dal DSM nei Disturbi Clinici, Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale, Condizioni Mediche Generali, Problemi Psicosociali e Ambientali, Valutazione Globale del Funzionamento.

Può concludersi, pertanto, come l’incapacità mentale del soggetto – superato il modello nosografico, che la leggeva in necessario collegamento con il riscontro di catalogate patologie biologiche, del cervello o del sistema nervoso – andrà vagliata alla luce di una serie di fattori, inclusi quelli psicologici (con estensione dell’alveo a psicosi o nevrosi) o sociologici (influenzati dal contesto di vita dell’individuo). Da farsi confluire nell’alveo dell’incapacità, si badi, anche gli stati di indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica, nonché i disturbi della personalità, tanto gravi da incidere sulla capacità d’intendere e volere dell’individuo (Cass., Sez. Un., n. 9163/05).

Tuttavia, se alla luce degli esposti rilievi potremmo agilmente individuare il soggetto psichicamente “incapace” – indicato, dall’art. 591 c.p., quale vittima potenziale del reato, al pari dell’uomo incapace per motivazioni prettamente fisiche – occorrerà, per completezza espositiva, aggiungere un ulteriore tassello alla ricostruzione in parola, ponendosi un ultimo quesito. Logica esige che ci si domandi, in sostanza, se l’avanzata età del soggetto che sia lasciato esposto a pericoli, possa ritenersi equivalente alla condizione di incapacità prima disegnata. Il responso non è univoco. Va chiarito, difatti, come in linea di principio la “vecchiaia” possa senz’altro ricondursi nell’alveo dell’incapacità del soggetto passivo richiesta ai fini integranti del delitto ex art. 591 c.p., da intendersi come qualsiasi condizione – non necessariamente legata alla salute della vittima – da cui ne derivi uno stato d’inettitudine, inclusa l’età avanzata ove connessa alla concreta incapacità dell’offeso di provvedere a se stesso.

Ed è palese, come dal mero dato anagrafico (condizione fisiologica, e non patologica) non possa farsi conseguire, sempre e comunque, un giudizio d’inadeguatezza a restare indenne dai pericoli della vita quotidiana. Sarà il giudice, allora, a dover vagliare, caso per caso, e nel corso del processo, l’effettiva necessità di una costante vigilanza dell’anziano, in relazione alla lucidità ed alla capacità di autogestirsi, da cui possa eventualmente derivare l’affermazione di una responsabilità penale a carico di chi ne risultasse deputato alla custodia.

Presupposto indefettibile per la sussistenza del reato di abbandono d’incapace, dunque, sarà un’approfondita analisi processuale, condotta anche e soprattutto alla luce delle risultanze peritali, inerente le specifiche condizioni psicofisiche del soggetto lasciato, da chi ne fosse tenuto alla cura, in balia dei pericoli quotidiani.

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

LEGGI ANCHE:

VIOLENZATERZA ETA’ – PSICOLOGIA PENITENZIARIA

PSICHE & LEGGE: QUANDO LA MENTE CRIMINALE “SCRIVE” IL PROCESSO PENALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Cuore sacro – Cinema & Psicoterapia #14

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #14

Cuore Sacro (2005)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Cuore Sacro. - LOCANDINA

Un viaggio verso la scoperta di se stessa e verso una spoliazione altruistica estrema che diventa “follia”. 

Info:

Un film di Ferzan Ozpetek, con Barbora Bobulova, Andrea Di Stefano, Lisa Gastoni, Caterina Vertova, Massimo Poggio. Drammati co. Italia 2005.

Trama: 

Irene Ravelli è una cinica donna d’affari che gestisce le aziende immobiliari ereditate dal padre. Il dissequestro del palazzo di famiglia la porta a scoprire che la stanza dove ha abitato la madre è rimasta intatta. L’incontro con Benny, una ragazzina particolare, le fa conoscere una realtà caratterizzata da estrema povertà. Questi due eventi stravolgono la vita di Irene e provocano un profondo cambiamento, un viaggio verso la scoperta di se stessa e verso una spoliazione altruistica estrema che diventa “follia”. 

Motivi d’interesse:

Il cambiamento di Irene è così radicale che la porta ad uno stato quasi stuporoso, a un umore predelirante che culmina nella scena in cui si spoglia materialmente camminando nella stazione della metropolitana. Nella scena vengono riassunti gli elementi propri della derealizzazione e della depersonalizzazione. L’atteggiamento è distaccato, il corpo è estraneo, si avverte nella scena una sensazione di irrealtà. Irene è come se fosse in un sogno, il senso di realtà è così profondamente alterato che sembra in preda ad allucinazioni.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può offrire una traccia per discutere sul cambiamento, sull’incidenza che il giudizio degli accadimenti ha nella vita di ognuno e sul senso del vivere. Fornisce una rappresentazione esemplificativa di sintomi che possono appartenere a quadri clinici diversi: disturbo dissociativo, schizofrenia, disturbo di personalità schizotipico. 

Trailer:

 LEGGI:

PSICOSI DELIRIO

RECENSIONI – CINEMA 

 

Sullo stesso tema: 

  • Psycho. Un film di Alfred Hitchcock, con Anthony Perkins, Janet Leigh, Vela Miles, John Gavin, USA 1960.
  • Doppia personalità (Raising Cain). Un film di Brian De Palma, con John Lithgow, Steven Bauer, Lolita Davidovich. Thriller. USA 1992.
  • Dr. Jekyll e Miss Hyde (Dr. Jekyl and Ms. Hyde). Un film di David Price, con Sean Young, Tim Daly, Lysette Anthony, Timothy Daly, Stephen Tobolowsky. Horror. USA, GB 1995.

 

BIBLIOGRAFIA:

Il bilinguismo ritarda l’età di insorgenza della demenza

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori sostengono che ci sia qualcosa di interessante nel passare da una lingua ad un’altra nel corso di una conversazione, qualcosa che aiuta a spiegare perché le persone bilingui sviluppino la demenza 5 anni più tardi.

La prova del fatto che parlare più di una lingua sia vantaggioso per il nostro cervello deriva da un recente studio in cui si è riscontrato che la demenza si sviluppa più tardi in persone bilingui rispetto a persone che parlano una sola lingua.

Questo studio, condotto in India e pubblicato sulla rivista Neurology non è il primo che arriva a questo tipo di conclusioni, ma è il più ampio e introduce nuovi interessanti dettagli: i risultati si riscontrano anche in persone prive di cultura, il che significa che il possibile effetto non è necessariamente legato ad un’educazione ufficiale.

Infatti, i ricercatori sostengono che ci sia qualcosa di interessante nel passare da una lingua ad un’altra nel corso di una conversazione, qualcosa che aiuta a spiegare perché le persone bilingui sviluppino la demenza 5 anni più tardi. Quando si mettono a confronto tra loro persone prive di cultura, quelle che parlano più di una lingua sviluppano demenza 6 anni più tardi.

Sappiamo da altri studi che l’attività mentale porta a degli indiscussi effetti protettivi” afferma Thomas Bak, co-autore e neurologo presso l’Università di Edimburgo, e continua dicendo “Il bilinguismo combina insieme differenti attività mentali, come ad esempio cambiare suoni, nozioni, strutture grammaticali e concetti culturali. Esso stimola il cervello per tutto il tempo”.

In questo studio Bak e colleghi hanno analizzato 648 casi di pazienti con demenza ed è stata confrontata l’età di insorgenza dei primi sintomi in gruppi monolingui e gruppi bilingui.

La location è stata di importanza chiave poiché la maggior parte dei residenti in India parla 2 o 3 lingue, tipicamente un insieme della lingua ufficiale (Telugu), del dialetto e dell’Inglese.

Più della metà delle persone con demenza prese in esame erano bilingui o multilingui e i ricercatori hanno trovato che queste persone hanno sviluppato i loro primi sintomi ad un’età media di 65 anni, 5 anni dopo rispetto all’insorgenza a 61 anni nelle persone che parlavano una sola lingua. Queste differenze sono state riscontrate per diversi tipi di demenza, incluso l’ Alzheimer, la demenza vascolare e la demenza frontotemporale.

Anche due studi precedenti condotti in Ontario, Canada, avevano riscontrato un ritardo dell’insorgenza dell’Alzheimer in persone bilingui. Ma in questi studi, le persone bilingui erano prevalentemente immigrate, quindi il nuovo studio di Bak e colleghi risulta più convincente per il fatto che sono state studiate persone cresciute nella stessa nazione e con la stessa cultura.

In conclusione, tutte queste ricerche offrono un buon motivo ai genitori per far imparare ai figli lingue straniere durante la loro crescita e per incentivare le famiglie bilingui ad utilizzare più di una lingua a casa.

LEGGI:

BILINGUISMO DEMENZATERZA ETA’

Bilinguismo e Flessibilità Cognitiva negli Anziani

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation nei Disturbi di Personalità

Manuela Pasinetti 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation: implicazioni per il trattamento dei disturbi di personalità

 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation. -Immagine:© ra2 studio - Fotolia.com La mindfulness e l’acceptance sono risultati mediatori nella relazione tra capacità di differenziazione e alessitimia.

Nel corso degli ultimi anni stiamo assistendo ad un crescente interesse da parte del mondo scientifico all’influenza della mindfulness nella regolazione emotiva (Linehan, 1993), la riduzione dello stress (Kabat-Zinn, 1990) e nel trattamento di popolazioni cliniche (Baer, 2003; Segal et al, 2002).

Ancora pochi studi però si sono interessati, ad oggi, della relazione tra mindfulness, capacità di “self-differentiation” e alessitimia.

Il costrutto di self-differentiation può essere descritto a livello intrapsichico e interpersonale.

Parlando di differenziazione ci si può innanzitutto riferire alla capacità di poter ragionare sui propri stati mentali e di assumere da essi distanza critica, ovvero considerare che le proprie idee su di sé e gli altri sono soggettive e che le cose potrebbero essere diverse  viste da un’altra angolatura (Dimaggio e Lysaker, 2011; Dimaggio et al., 2013).

A livello interpersonale, la self-differentiation si riferisce alla capacità di mantenere presenti se stessi e i propri stati emotivi mentre si è coinvolti nell’interazione con altri (Bowen, 1978).

Una scarsa self-differentiation si manifesta nell’incapacità di autoregolazione emotiva e in una forte reattività e impulsività interpersonale. Individui con scarsa capacità di differenziazione del sé sono meno flessibili e capaci di adattarsi in condizioni di stress, in quanto meno abili nel moderare l’arousal emotivo derivante da tali situazioni (Skowron et al., 2004).

L’alessitimia consiste nell’incapacità di ragionare in termini emotivi, a partire dalla difficoltà di individuare e dare un nome alle proprie emozioni e comunicarle agli altri.

Le persone alessitimiche sembrano, quindi, essere meno capaci di dare un senso ai loro stati interni, con conseguenti ricadute negative sulle relazioni interpersonali e sulla gestione dell’attivazione neurofisiologica legata alle emozioni (Lysaker et al., in press).

 

I due costrutti appaiono, pertanto, correlati: problemi di self-differentiation, una scarsa conoscenza delle proprie emozioni sostiene probabilmente la difficoltà a distinguere il proprio mondo da quello degli altri. E’ emerso infatti che chi aveva tratti alessitimici aveva una minore self-differentiation (Blaustein e Tuber, 1998).

La mindfulness ha il potenziale di promuovere entrambe, aiutando la persona a focalizzare sugli stati interni e descriverli in modo non giudicante.

Un recente studio (Teixeira & Graça Pereira, 2013), pubblicato a luglio sulla rivista Mindfulness, si è quindi proposto di valutare il potenziale effetto della mindfulness sui due fattori illustrati precedentemente. In questo studio cross-sectional, un campione di 168 studenti universitari tra i 18 e i 50 anni (M=22) (72% di sesso femminile) è stato valutato sulla base di questionari che indagavano alcune dimensioni della mindfulness – consapevolezza e accettazione -, la differenziazione e l’alessitimia. I risultati hanno rivelato una correlazione positiva tra le diverse dimensioni della mindfulness e correlazioni negative tra queste dimensioni, la differenziazione e l’alessitimia.

La mindfulness e l’acceptance sono risultati mediatori nella relazione tra capacità di differenziazione e alessitimia. In altri termini, la pratica di mindfulness sembra incrementare la self-differentiation e diminuire l’alessitimia, migliorando così la capacità di porre attenzione ai propri stati interni (pensieri, emozioni, scopi, desideri, etc.) anche in un contesto relazionale e la regolazione emotiva.

I risultati conseguiti sembrano convalidare ancora di più l’idea che la mindfulness sia un costrutto con un grosso potenziale sia terapeutico sia di ricerca a diversi livelli. Alla luce di questi risultati è sensato ipotizzare che promuovere la mindfulness conduca a migliorare la capacità di “avere presente nella propria mente il proprio stato, i propri desideri, i propri fini quando ci si occupi della propria esperienza” (Coates, 2006).

A questo proposito, vorrei accennare che è stato sviluppato un protocollo di ricerca basato sulla mindfulness presso il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale con gruppi di pazienti con disturbi di personalità inibito-coartati – ovvero evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo, narcisista e paranoide (Metacognitive Interpersonal Mindfulness Based Training [MIMBT] for Personality Disorders – Ottavi et al., in press).

Questo tipo di pazienti presenta, infatti, deficit nella capacità di self-differentiation e spesso la co-presenza di alessitimia a vari livelli di gravità. Sulla base della nostra esperienza clinica con questa classe di pazienti abbiamo notato, e stiamo notando, quanto la mindfulness sia in grado di aiutarli a riconoscere, definire e ragionare sui propri stati mentali, ad imparare ad osservare gli effetti dei propri schemi interpersonali disfunzionali, a rimanere meno invischiati e bloccati nella ruminazione quando vengono vissute situazioni interpersonali difficili e dolorose.

LEGGI:

MINDFULNESSACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT  – DISTURBI DI PERSONALITA’ – DP

Daniel Siegel – La neurobiologia interpersonale – Report dal Workshop

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE DELL’ARTICOLO:

Manuela Pasinetti, Psicologa e Psicoterapeuta presso il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma

L’incontro con una versione di sé non conosciuta: La Storia Infinita

 

 

L’incontro con una versione di sé non conosciuta: la storia infinita

Il dubbio di Bastian: credere e, quindi, integrare la parte, in questo caso, “sognante” di lui oppure chiudere il libro e rimanere con i piedi per terra rende, a mio avviso, in chiave metaforica, rende bene l’idea di quel che accade in terapia.

La storia infinita è un film del 1984 diretto da Wolfang Petersen, ispirato al romanzo omonimo di Michael End.

Il giovane Bastian, appassionato del mondo dei libri, essendo venuto in possesso del libro “la storia infinita” decide, dopo aver marinato la scuola, di rifugiarsi in una soffitta per poterlo leggere. Il contatto con questo libro lo porterà a vivere una storia avventurosa e carica di significati che non mancheranno di influenzare la sua persona e la sua storia.

Ciò che ha suscitato il mio interesse riguardando la favola e rivisitando alcuni autori di epistemologia sistemica, è il frame dove Atreyu/Bastian, per salvare il mondo di Fantasia, si trova ad affrontare una prova importante: l’attraversamento delle due porte fino all’incontro con il desiderato Oracolo del Sud, meta ambita ma, a memoria del bizzarro scienziato Enchivuc, mai attraversata.

Ho colto in questo frame dei parallelismi con quanto avviene, a mio avviso, nel processo terapeutico dove paziente e terapeuta si ritrovano a ripercorrere gli eventi di vita del paziente particolarmente complessi e che non mancano di suscitare emozioni intense. L’incontro con la prima porta, quella dove è richiesta a colui che la attraversa, Atreyu/Bastian in questo caso,  volontà e fiducia in sé stesso ha rievocato in me la fase del processo terapeutico durante la quale il paziente ed il terapeuta, seguendo il fil rouge della reciprocità, pongono le basi per una alleanza terapeutica provando insieme a superare vari ostacoli, come gli occhi bollenti delle Sfingi nella favola.

Attraversata questa fase, che farà da prodromo agli sviluppi successivi, così come nella favola l’attraversamento della prima porta rappresenta l’anticamera che conduce poi a una nuova porta, ci si inoltra nella fase intermedia del processo terapeutico: l’incontro con una versione del sé di cui non si ha memoria esplicita ma che emerge in seguito alla co-costruzione di una versione della storia diversa rispetto la versione precedente. Questo passaggio nella favola è reso dalla metafora dello specchio dove Atreyu e Bastian hanno modo di scoprire di essere “versioni diverse di uno stesso sé”.

Questa fase del processo terapeutico, i cui tempi – considerando la duplice dimensione Kairos/ Kronos (tempo oggettivo e tempo soggettivo) – non sempre sono prevedibili  e congruenti, potrebbe favorire l’insorgenza di paure. Un esempio è il momento in cui nella favola il bizzarro scienziato Enchivuc dice al fortuna drago a proposito dell’incontro di Atreyu con il suo vero sé: “tutti sono convinti che sia facile, ma sovente i buoni scoprono di essere crudeli, eroi famosi scoprono di essere codardi”.

Nei momenti terapeutici in cui accade questo, il rischio è quello di non reggere l’impatto, come succede a Bastian nel momento in cui vede una versione diversa del suo sè, Atreyu,  e lancia il libro dicendo “questo non mi funziona!”.

Nella clinica è il contesto terapeutico stesso a fungere da elemento protettivo in quanto, essendo scevro di qualsivoglia giudizio e scenario di una buona alleanza tra paziente e terapeuta, consente a chi vi è  all’interno di poter esperire e prendere contatto con versioni di sé non conosciute e che, probabilmente, difficilmente emergerebbero in contesti esterni.

Tuttavia, nelle fasi finali del processo, quando sembra di “sapere tutto” ecco che ci si trova dinanzi ad una scelta, una scelta che stavolta deve compiere il paziente. Nella favola, questo momento potrebbe trovare un corrispettivo nel punto in cui Atreyu rivolge la domanda all’oracolo del sud:“come si può salvare Fantasia?” e l’oracolo risponde “l’imperatrice ha bisogno di un nuovo nome che solo un terrestre può dare” rimandando ad Atreyu il compito di trovare il terrestre Bastian.

Potrebbe accadere che il processo terapeutico rimanga fermo a questo dilemma amletico: “Divento protagonista della mia storia provando a integrare le versioni di me che non conoscevo o rimango fermo alla prima versione scritta a più mani e di cui, forse, a stento, si scorge la mia?” . Il dubbio di Bastian: credere e, quindi, integrare la parte, in questo caso, “sognante” di lui oppure chiudere il libro e rimanere con i piedi per terra rende, a mio avviso, in chiave metaforica, rende bene l’idea di quel che accade in terapia.  

LEGGI:

IN TERAPIA ALLEANZA TERAPEUTICA – CINEMA

Star wars – Analisi della coppia in uno scenario sistemico

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Friedman, E. H. “Teoria e terapia Boweiana” Manuale di terapia della famiglia cap.3 pp. 63-101 (ed.italiana a cura di Paolo Bertrando) collana “manuali di psicologia e psicoterapia” Bollati e Boringhieri Torino, 1995.
  • Wolfang, M. “ Die unendliche Geschichte” (trad. la storia infinita) a cura di Longanesi, 1979
  • Malagoli Togliatti, M. “La teoria generale dei sistemi”. La terapia sistemica cap.1 pp. 21-26 (a cura di Malagoli Togliatti, M. e Telfner, U.) collana “psiche e coscienza” Astrolabio Roma, 1983.
  • Bertrando, P. “i processi di cambiamento” rivista “Riflessioni sistemiche” n°6 pp. 154-165 Giugno, 2012. (DOWNLOAD)

 

La Memoria Episodica: lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta

Santina Leonardi

 

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Memoria Episodica – Lo sviluppo della capacità di codificare le informazioni è il riflesso di un miglioramento nelle capacità di prestare attenzione al contesto e di formare strutture relazionali complesse.

Con il termine memoria episodica (o memoria dei fatti) ci si riferisce all’abilità di ricordare un avvenimento (cosa è successo) e nello stesso tempo dove e quando questo fatto ha avuto luogo. Effettivamente un buon ricordo richiede che vengano legate tre informazioni – cosa, dove, quando – in una struttura relazionale coerente.

Molti studiosi ritengono che la memoria episodica abbia uno sviluppo tardivo e lento nel bambino soprattutto se messa a confronto con il rapido sviluppo della memoria semantica (o, più semplicemente, memoria delle parole), entrambe componenti della cosiddetta memoria verbale a lungo termine.

Anche gli studiosi che, invece, propendono per uno sviluppo precoce di tale abilità, riconoscono comunque che, intorno ai 4-6 anni, molti aspetti di tale memoria siano ancora piuttosto fragili. In effetti a questa età i bambini possono dimostrare eccellente memoria per eventi singoli, ma hanno difficoltà a riportare anche il quando e il dove di un episodio.

Ma cosa cambia veramente nel corso dello sviluppo? I bambini imparano a codificare strutture relazionali complesse oppure ciò che si sviluppa è la capacità di conservare tali strutture nella memoria a lungo termine? Se è una questione di codifica, le difficoltà potrebbero riguardare la capacità di prestare attenzione simultanea a componenti multiple o la capacità di organizzare una struttura relazionale complessa, oppure entrambi. Se la questione è la conservazione e il recupero del ricordo, le difficoltà potrebbero riguardare il fatto che strutture relazionali complesse decadono più facilmente nelle prime fasi dello sviluppo (l’episodio era stato codificato in memoria ma non è più recuperabile).

I risultati dello studio condotto da Hyungwook Yim, Simon J. Dennis, e Vladimir M. Sloutsky della Ohio State University indicano che i bambini di 7 anni dimostrano una maggiore abilità di usare strutture sia semplici che complesse rispetto ai bambini di 4 anni, questi ultimi inoltre falliscono nella codifica di strutture complesse. Gli adulti invece dimostrano di fare un uso spontaneo di strutture complesse anche quando il materiale da memorizzare potrebbe essere organizzato in maniera più semplice.

Le diverse prestazioni nella fase di recupero supportano l’ipotesi che la memoria episodica continui a svilupparsi fra i 7 anni e l’età adulta, con un sostanziale aumento nell’uso di strutture più articolate.

Le evidenze di questo nuovo studio hanno importanti implicazioni per le teorie sulla memoria episodica perché introducono la codifica quale nuovo fattore nello sviluppo della memoria. In particolare, gli autori sottolineano che lo sviluppo della capacità di codificare le informazioni sia il riflesso di un miglioramento nelle capacità di prestare attenzione al contesto e di formare strutture relazionali complesse.

Questi risultati possono inoltre avere implicazioni nella comprensione dei meccanismi neurali della memoria episodica. Due strutture principali sono associate a questa memoria, il lobo temporale mediale (MTL) e la corteccia prefrontale (PFC).

Secondo alcuni studiosi, l’MTL (incluso l’ippocampo e le cortecce che lo circondano, che si trovano nella parte più interna dell’MTL) è coinvolto nella conservazione delle tracce mnestiche, mentre la PFC è coinvolta nell’organizzazione delle molteplici informazioni in un’unica traccia di memoria episodica. Secondo altri invece, sia l’MTL che la PFC intervengono durante la codifica e i loro rispettivi ruoli cambiano durante lo sviluppo.

Il fatto che la PFC raggiunga il culmine della maturazione neurale nella prima età adulta, mentre si osservino piccoli cambiamenti a livello dell’ippocampo dopo i 4 anni di età, costituisce, per alcuni, un’evidenza a favore dello stretto legame fra sviluppo infantile-adolescenziale della memoria episodica e maturazione delle aree frontali del cervello. Altri studi però riportano che strutture come il giro paraippocampale posteriore svolgono un ruolo sostanziale nello sviluppo della memoria episodica.

Per poter dirimere la questione è quindi fondamentale comprendere quali componenti intervengono nell’apprendimento e nel mantenimento di un’abilità, la memoria, su cui si basa il nostro essere persone e la nostra storia. Comprendere come funziona la memoria episodica ha inoltre risvolti estremamente importanti anche nella comprensione di malattie come l’Alzheimer o la demenza fronto-temporale.

LEGGI:

MEMORIABAMBINI 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sperimentazione Animale: il Suicidio della Ricerca Italiana

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Il 22 Novembre 2013 Nature Neuroscience (parte del gruppo Nature), che assieme a Science è la rivista scientifica più importante a livello mondiale, ha pubblicato un editoriale particolarmente duro nei confronti dell’Italia in riferimento alla legge sulla sperimentazione animale votata dal Parlamento italiano l’8 agosto 2013 (http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2013-08-20;96); tale legge nasce da una direttiva dell’Unione Europea del 2010 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32010L0063:IT:HTML), direttiva che vuole rappresentare “un passo importante verso il conseguimento dell’obiettivo finale della completa sostituzione delle procedure su animali vivi a fini scientifici ed educativi non appena ciò sia scientificamente possibile.” e che riconosce come “Benché sia auspicabile sostituire nelle procedure l’uso di animali vivi con altri metodi che non ne prevedano l’uso, l’impiego di animali vivi continua ad essere necessario per tutelare la salute umana e animale e l’ambiente.” .

La legge italiana, che deve ancora essere approvata in Senato, prevede tra i vari punti di:

a)    vietare l’utilizzo di  primati,  cani,  gatti  ed  esemplari  di specie in via d’estinzione a meno  che  non  si  tratti  di  ricerche finalizzate alla salute dell’uomo o delle specie coinvolte;

b)    vietare  gli  esperimenti  e  le  procedure  che  non  prevedono anestesia o analgesia, qualora esse comportino dolore all’animale, ad eccezione dei casi di sperimentazione di anestetici o di analgesici;

c)     vietare l’utilizzo di animali per gli esperimenti  bellici,  per gli xenotrapianti e per le ricerche su sostanze d’abuso, negli ambiti sperimentali  e  di  esercitazioni  didattiche  ad  eccezione   della formazione  universitaria  in  medicina   veterinaria   e   dell’alta formazione dei medici e dei veterinari;

d)     vietare l’allevamento nel territorio nazionale di cani, gatti  e primati non umani destinati alla sperimentazione;

Nature Neuroscience denuncia come tali restrizioni, se approvate, avranno “conseguenze catastrofiche per la comunità di ricerca biomedica italiana”: la ricerca italiana, già vittima di una politica di tagli dei fondi,  non sarà più competitiva a livello internazionale e quindi non sarà più in grado di vincere sovvenzioni europee o di attirare investimenti  esteri; l’impossibilità di allevare animali per la sperimentazione costringerà gli scienziati ad abbandonare i propri progetti, a procurarsi animali al di fuori dell’Italia (con un ulteriore aumento dei costi per la ricerca) oppure ad andare a fare ricerca all’estero.  Nature Neuroscience sottolinea soprattutto come “questa normativa porrà fine alla possibilità di ricerca sulle cause e il trattamento della tossicodipendenza, nonché della ricerca volta ad indagare le potenzialità di terapie sostitutive di cellule staminali”; quest’ultimo rappresenterebbe un grandissimo ostacolo per la ricerca di nuove terapie contro il cancro, che al momento sono condotte per la maggior parte proprio tramite xenotrapianti.

Se da una parte la colpa è da attribuire ad una scarsa formazione e conoscenza scientifica di base dell’opinione pubblica, dall’altra la rivista punta il dito contro la comunità di ricerca italiana, colpevole di non aver  comunicato “in modo adeguato i mezzi con cui la ricerca biomedica viene condotta, portando così a malintesi e diffidenze da parte della popolazione.” Sarebbe pertanto auspicabile una “collaborazione tra il governo italiano e l’establishment scientifico per migliorare la formazione scientifica e la comunicazione” nel nostro Paese perché, essendo la sperimentazione animale un argomento che smuove emotivamente l’opinione pubblica,  “solo attraverso una chiara comprensione da parte dell’opinione pubblico del valore e dell’importanza della ricerca sugli animali si potranno evitare tali crisi in futuro”.

Qui di seguito potete leggere l’editoriale di Nature Neuroscience in lingua originale.

It is not difficult to see how these restrictions, if implemented, could have catastrophic consequences for the entire Italian biomedical research community. If laboratories are unable to breed research animals, scientists will be forced to either abandon current research projects or acquire animals from lab animal distributors based outside of Italy, making most experiments prohibitively expensive…

 

Italian biomedical research under fire : Nature Neuroscience : Nature Publishing GroupConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
A short-sighted bill introduced in the Italian parliament could cripple scientific research in that country. Scientists share some of the responsibility for this crisis. (…)

 

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Umorismo Genitoriale: la relazione tra Educazione e Autostima nei figli. Assisi 2013

Assisi 2013

Umorismo genitoriale:

relazione tra stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo e autostima nei figli.

Lorena Notarangelo, Sonia Abbondanza,

(Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto)

 

INTRODUZIONE: 

L’obiettivo della ricerca è quello di scoprire l’eventuale esistenza di una relazione tra uno stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo come strategia di coping e in modo autorinforzativo e una relativa buona autostima nei figli.

In un’atmosfera caratterizzata dalla serietà, ridere viene considerato come un disturbo, mentre proprio la risata, la comicità e l’umorismo potrebbero liberare energie, mettere in discussione la routine. Il buon senso dell’umorismo è una delle caratteristiche più desiderabili che un individuo possa sviluppare in quanto fornisce una strategia alternativa che rende capaci di cambiare prospettiva rispetto a una situazione stressante, reinterpretandola in un nuovo modo, cambiando punto di vista e rendendola meno minacciosa.

Il senso dell’umorismo, influendo positivamente sulla valutazione degli eventi, attenuerebbe le risposte emozionali e comportamentali negative, favorendo un decentramento e una risposta comportamentale positiva.

Secondo la letteratura attuale, l’umorismo e il ridere sarebbero potenti mezzi di comunicazione che permetterebbero:

  • di simulare e rinnovare le proprie origini;
  • di interrompere il corso ordinario delle cose per aprire una finestra su un mondo altro, dove è possibile abbandonare le maschere e viversi liberamente in una dimensione diversa, giocosa e gioiosa;
  • di “ritualizzare l’aggressività” e di trovare un suo canale di espressione necessario e riconosciuto dalla collettività;
  • di rinforzare le norme sociali, i valori della comunità e di dare in tal modo un senso pieno alle esistenze individuali.

L’obiettivo della ricerca è quello di scoprire l’eventuale esistenza di una relazione tra uno stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo come strategia di coping e in modo autorinforzativo e una relativa buona autostima nei figli.

Il campione è formato da 135 genitori e figli, 76 della Quarta e Quinta classe della Scuola Primaria e 59 della Prima e Seconda classe della Scuola Secondaria di Primo Grado dell’Ist. Comprensivo n° 2 di Vasto (Ch).

Sono stati somministrati:

ai genitori:

• Assessing Parenting Styles: per valutare lo stile genitoriale. Il questionario pone domande sui sentimenti di tristezza, paura e rabbia sia nei genitori che nei loro figli. È composto da 81 item a cui il soggetto deve rispondere vero o falso a seconda se l’affermazione sia per lui prevalentemente vera o prevalentemente falsa. I risultati delineano quattro tipologie di stili genitoriali: (A) Respingente – Distaccato, (B) Criticista, (C) Permissivo e (D) Coach Emozionale. (Simon and Schuster, 1997).

• CHS – Coping Humor Scale: per valutare l’utilizzo dell’umorismo come strategia di coping. Il questionario è ideato per misurare in maniera specifica la capacità del soggetto esaminatore di far fronte a situazioni di stress attraverso il ricorso all’uso dell’umorismo.

Composto da 7 item, rispetto ai quali il soggetto deve indicare, su una scala da 1 (forte disaccordo) a 4 (forte accordo), quanto si sente d’accordo con ciò che viene affermato in ciascuna voce (Martin e Lefcourt, 1983).

• HSQ – Humor Styles Questionnaire: misura le differenze individuali negli stili di umorismo. È un test di autovalutazione impiegato per identificare in che modo gli individui utilizzano l’umorismo nelle loro vite. È composto da 32 item, il soggetto deve indicare, su una scala da 1 (completamente in disaccordo) a 7 (completamente d’accordo), quanto si sente d’accordo con ciò che viene affermato in ciascun item. La combinazione di questi fattori crea quattro stili distinti: u. Affiliativo, u. di Automiglioramento, u. Aggressivo e u. Controproducente (Martin e Doris, 2003).

• CBCL – Child Behavior CheckList: consente di ottenere un quadro descrittivo globale emozionale del bambino. È uno strumento multi-assiale che permette la valutazione del bambino, dai genitori, dagli insegnanti e in modo autovalutativo. Tutti i 3 strumenti includono la misurazione di 8 costrutti: Ritiro Sociale, Lamentele Somatiche, Ansia/Depressione, Problemi Sociali, Problemi di Pensiero, Problemi di Attenzione, Comportamento Delinquenziale e Comportamento Aggressivo. Nella ricerca sono state prese in considerazione solo 3 costrutti:Ritiro Sociale, Ansia/Depressione e Comportamento Aggressivo (Thomas M. Achenbach, 1991)

Ai figli:

• TMA – Test Multidimensionale dell’Autostima: consente la misurazione dell’autostima in età evolutiva. Il test è articolato su 6 scale intercorrelate: Interpersonale, Competenza, Emotività, Scolastica, Familiare, Corporea. Il soggetto deve indicare quanto si sente in accordo con ciò che viene affermato in ciascun item, su una scala che va da AV (Assolutamente Vero) a NAV (Non Assolutamente Vero). Nella ricerca sono state prese in considerazione solo 2 scale: Competenza ed Emotività. (Bruce A. Bracken, 1992)

L’analisi delle correlzioni tra le variabili dipendenti (comportamenti problematici e autostima) e i predittori (stile di umorismo e stile di coping) non evidenzia nessun risultato significativo.

Nessuna delle scale dell’Umorismo (HSQ e CHS) è correlata con le sottoscale del CBCL e del TMA.

Non ci sono correlazioni con l’autostima dei figli, ma è interessante notare le associazioni tra stile genitoriale e tipo di umorismo.

Si può concludere che:

  • L’Umorismo Affiliativo è correlato a uno stile genitoriale D – Coach Emozionale;
  • L’Umorismo di Automiglioramento è correlato a uno stile genitoriale A- Respingente – distaccato e di poco ascolto;
  • L’Umorismo Controproducente è correlato a uno stile genitoriale C – Permissivo, ma anche D –Coach Emozionale.

 

 

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LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

BIBLIOGRAFIA:

La terapia Cognitivo-Comportamentale di J.S. Beck – Recensione

Diego Sarracino.

Recensione del libro:

La terapia cognitivo comportamentale

Judith S. Beck

(2013)

La terapia cognitivo comportamentale di J. S. BeckJudith S. Beck, come tutti i “figli d’arte”, ha dovuto fare i conti con il nome del padre, Aaron Beck, il principale esponente vivente della terapia cognitiva.

Senza dubbio questa pesante eredità è stata per lei una preziosa opportunità più che una gabbia, visti i risultati. Autrice di centinaia di articoli, libri e capitoli sulla terapia cognitiva, oggi può essere considerata a pieno titolo tra le voci più autorevoli dell’approccio CBT “standard”, come testimonia questo libro, che è stato tradotto in 20 lingue e che viene proposto per la prima volta, nella sua seconda edizione, anche in lingua italiana, che si avvale della traduzione di Roberta Borzì e dell’attenta supervisione di Antonella Montano.

In questo testo, con uno stile chiaro e accessibile, la Beck illustra passo dopo passo come accogliere il cliente, formulare il caso, pianificare il trattamento e strutturare le sedute efficacemente. Le diverse tecniche cognitive e comportamentali vengono spiegate in modo accurato e autorevole, e particolare attenzione viene posta al superamento delle difficoltà che possono presentarsi nella pratica clinica e alla prevenzione delle ricadute. Per esemplificare il trattamento standard in maniera fruibile anche al lettore meno esperto, la Beck si avvale di una paziente ideale, Sally, una giovane studentessa affetta da un singolo caso di depressione. Questo espediente le permette di illustrare con grande efficacia le diverse fasi della terapia e le tecniche più utilizzate. Inoltre, nel corso del testo, la Beck propone una serie di risposte pratiche ai quesiti clinici più comuni, per es.: “E se il cliente avesse difficoltà a capire il modello cognitivo nella prima seduta?”, “E se il cliente non svolge i compiti a casa?” e così via.

Il manuale è ben scritto e organizzato, e la parte più interessante è probabilmente quella centrale (capitoli 9, 11, 12 e 13), in cui viene mostrato come identificare e modificare diversi livelli di pensieri e credenze (pensieri automatici, credenze intermedie e credenze di base). La differenziazione fra i diversi livelli cognitivi è più articolata e gerarchica rispetto ad altri approcci (come la terapia razionale emotiva comportamentale di Ellis), e la Beck è molto abile a presentare questa strategia fondamentale del cognitivismo beckiano e le sue principali implicazioni cliniche.

Particolarmente apprezzabile è la costante applicazione dei principi della terapia cognitiva non solo ai clienti, ma anche ai terapeuti, soprattutto i meno esperti. Come giustamente ricorda la Beck, se un terapeuta è ansioso di applicare la terapia cognitiva ai clienti, dovrebbe prima di tutto analizzare e affrontare i “pensieri inutili” o le aspettative irrealistiche che ostacolano il suo lavoro. Il terapeuta potrebbe ripetere a se stesso, magari scrivendolo su un memo: “Il mio obiettivo non è curare questo paziente oggi. Nessuno se lo aspetta da me. Il mio obiettivo è di stabilire una solida alleanza terapeutica, di risolvere qualche problema, se posso, e di affinare le mie abilità terapeutiche cognitivo-comportamentali”.

Al libro possono essere mosse due principali critiche. La prima riguarda il fatto che gli esempi clinici si focalizzano principalmente sulla depressione in una cliente adulta, tralasciando quasi completamente altre tipologie di pazienti e altre problematiche cliniche. È pur vero che un trattato completo su tutte le applicazioni della terapia cognitiva avrebbe richiesto migliaia di pagine, ma una maggiore attenzione ad altri disturbi e problemi avrebbe arricchito ulteriormente il manuale. Inoltre, è criticabile la scelta di non menzionare approcci e strategie non beckiani che sono entrati di diritto nell’armamentario di ogni terapeuta cognitivo e cognitivo-comportamentale (ad es., l’ABC di Ellis). Fanno eccezione gli approcci di terza ondata come la mindfulness, che vengono sinteticamente presentati in un capitolo a parte.

In conclusione, questo manuale è un valido ausilio e non dovrebbe mancare nella libreria di ogni studente o esperto nel campo della salute mentale interessato alla terapia cognitivo-comportamentale.

Per superare una certa tendenza alll’ipersemplificazione e all’autoreferenzialità di questo libro, potrebbe essere utile integrarlo con altri testi sulla teoria e terapia cognitiva, in particolare con un testo critico che illustri le differenze fra l’approccio beckiano e altri orientamenti (Per es., G.M. Ruggiero, Terapia cognitiva: una storia critica).

LEGGI ANCHE:

PSICOTERAPIA COGNITIVA – CREDENZE – BELIEFS

DISPUTING E RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA – DEPRESSIONE

IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVA. DI G.M. RUGGIERO E S. SASSAROLI – FEBBRAIO 2013

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Report dal convegno “Gioco d’azzardo patologico: adolescenti e famiglie” – Roma

Manuela Pasinetti.

Report dal convegno

 “Gioco d’azzardo patologico: adolescenti e famiglie

Convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico”

15 novembre – Roma

Convegno Gioco d'azzardo patologico_adolescenti e famiglieVenerdì 15 novembre si è svolta a Roma la seconda edizione della conferenza “Gioco d’azzardo patologico: Adolescenti e famiglie. Convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico”, organizzata dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicosomatica dell’Ospedale Cristo Re, con la collaborazione dell’associazione Primo Consumo, il patrocinio del Consorzio Regionale del Lazio e la sponsorizzazione di Codere Italia, concessionario leader nella gestione di terminali di gioco, agenzie di scommesse, bingo, etc.

Il programma degli interventi prevede, nella prima parte della mattinata, la partecipazione di personaggi delle istituzioni, e, nella seconda, interventi prettamente clinici da parte di professori della Scuola di Specializzazione, psicologhe e psicoterapeute.

I personaggi politici si fanno un po’ attendere, tanto che il dott. Marino Nonis, direttore sanitario dell’Ospedale Cristo Re, apre i lavori con un’ora di ritardo, affiancato dal prof. Carlo Saraceni, direttore della Scuola di Specializzazione Cristo Re che sottolinea quanto il gioco d’azzardo patologico (GAP) possa essere inteso “come una malattia psicosomatica da affrontare con spirito di gruppo”.

I primi due interventi saltano, poiché sia il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin sia l’onorevole Paola Binetti non si presentano. Il Ministro Lorenzin invia però una lettera in cui porge le sue scuse per l’assenza obbligata da un consiglio dei ministri, e sottolinea come il GAP sia una tematica di estrema rilevanza oggigiorno, anche per il carattere sociale che sta avendo. Apre la prospettiva a politiche e azioni di prevenzione e propone l’idea di misure più restrittive per la pubblicità del gioco. Doveroso farlo, come sottolineano successivamente tutti i relatori nel corso della mattinata. Doveroso almeno proporlo, a sentire i numeri che vengon letti dall’avvocato Marco Polizzi, presidente dell’associazione Primo Consumo: la ludopatia coinvolge attualmente circa 1 milione di persone in Italia, 300.000 sono i giocatori a rischio e 170.000 gli adolescenti a rischio.

Tutti sottolineano l’importanza della prevenzione: l’avv. Polizzi ci elenca una lunga lista di proposte che dovrebbero essere avanzate in Parlamento, comprendenti sanzioni, divieti e campagne di prevenzione; il dott. Ricardo Agostini, consigliere della Regione Lazio, mette in luce le problematiche regionali in questa operazione di prevenzione e cura, date soprattutto dai tagli finanziari a livello sociosanitario. Interviene poi il senatore Riccardo Pedrizzi, intervento non previsto, ma necessario data la sua presenza in sala, che evidenzia come il gioco d’azzardo sia una ricchissima fonte di guadagno per lo Stato italiano – impossibile e impensabile, quindi, rinunciarvi -, ma una cosa che si potrebbe invece fare è destinare parte di queste entrate proprio alla cura del GAP.

Ancora, il dott. Mario Rusconi, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Presidi, si sofferma sulla situazione scolastica attuale e sulle problematiche che si riscontrano nella scuola, anche queste per la maggior parte dovute ai pochi fondi economici disponibili e alla mancanza di servizi di psicologia scolastica all’interno degli istituti, ma anche – e soprattutto secondo lui – nelle famiglie degli adolescenti di oggi.

Segue il dott. Massimo Ruta, country manager di Codere Italia, che si sofferma sull’importanza della promozione del gioco responsabile e della lotta al gioco illegale, che affligge una grossa percentuale di giocatori; chiude questa prima parte l’onorevole Margherita Miotto che ci ricorda gli impegni raccolti dal governo per regolare l’offerta del gioco, date le sue pesanti ricadute sociali e sanitarie, e invertire la rotta rispetto alla tendenza a promuoverlo degli anni precedenti.

Tante proposte insomma, più o meno concrete ma non troppo innovative, accomunate dall’idea che il GAP sia diventato effettivamente un problema, al pari, o forse più, delle dipendenze da sostanze.

Dopo il coffee break, aprono la seconda parte il prof. Andrea Castiglioni Humani, docente dell’Università Salesiana e della Scuola di Specializzazione Cristo Re, seguito dal prof. Gianluigi Conte, anch’egli docente della Scuola di Specializzazione Cristo Re. Entrambi si prendono molto più dei 20 minuti previsti per ogni intervento, senza che nessuno li interrompa, il che diventa deleterio per gli interventi successivi, considerato il ritardo con cui già si è iniziato.

Il primo intervento è molto poco clinico e molto evoluzionistico; il prof. ripercorre le teorie dell’evoluzione comportamentale, in maniera molto esaustiva e raffinata, ma in 50 minuti non arriva a spiegare come questa possa sfociare in comportamenti patologici, come auspicato inizialmente.

Il prof. Conte si sofferma unicamente sugli elementi psicodinamici – alla Winnicott maniera – implicati nel GAP, definendolo come un parossismo clinico della capacità naturale di integrare operatori simbolici” e un “meccanismo volto alla saturazione illusoria del dolore, in carenza di risorse intrapsichiche”, senza però fornire alcuna indicazione su quali siano queste risorse intrapsichiche carenti o su come trattare o aiutare un giocatore patologico a superare questa “saturazione illusoria del dolore”. La parola trattamento, in realtà, non compare praticamente in tutta questa seconda parte della conferenza, al di là di qualche vaga allusione alla necessità di un trattamento effettuato da terapeuti “formati”.

Interviene poi la dott.ssa Alessandra Gatto, psicologa, psicoterapeuta sistemico-relazionale e criminologa, con la presentazione di un caso clinico; sottolinea inizialmente l’importanza del gioco nel sistema familiare, come indicato da Winnicott, e come il GAP sia un tentativo di riprodurre una sfida con l’antico paterno e materno non particolarmente buoni”. Il gioco patologico di Sonia, adolescente di 13 anni avviata al gioco dalla nonna, viene infatti illustrato come un esempio di “un paterno sfidato e desiderato e un’espiazione del materno”.

Segue l’intervento delle dott.sse Chiaralisa Lupelli e Clotilde Marinacci, entrambe psicologhe e psicoterapeute, meno clinico ma più tecnico e concreto, le quali riportano i dati del Centro d’Ascolto Game Over, progetto di informazione, sostegno e orientamento nato nel 2011 dall’associazione Primo Consumo.

Gli ultimi interventi sono una corsa contro il tempo: la dott.ssa Tiziana Ficeto, psicologa, psicoterapeuta e psicodiagnosta della ASL RM E, illustra in maniera estremamente rapida due casi clinici, una donna di 46 anni dipendente dalle “macchinette” e un adolescente dipendente dai videogiochi, presentando due diagnosi – a mio avviso ‘non diagnosi’, ma ammetto di essere forse troppo cognitivista – dove il GAP è spiegato, ad esempio nel primo caso, comeespressione della simbiosi fusionale, una difesa dall’angoscia di frammentazione e come mezzo che le garantisce il suo esserci”. Continua a restarmi l’incognita della teoria di riferimento e di come questi pazienti siano poi stati trattati.

Una presentazione interessante quella successiva della dott.ssa Ilaria Intrieri, specializzanda della Scuola di Specializzazione Cristo Re, che tratta le analogie psicofisiologiche tra adolescenza e GAP. La dott.ssa elenca una serie di fattori, tra i quali ad es. l’impulsività, i bias cognitivi, la compromissione della capacità di prendere decisioni, etc., come determinanti della condotta patologica del gioco d’azzardo. Fattori evidenziati in numerosi studi scientifici e di neuroimmagine. Dall’altro lato, studi di risonanza magnetica funzionale su adolescenti mostrano come le stesse aree cerebrali implicate nel GAP – corteccia prefrontale e sistema limbico – siano le aree che maturano più lentamente. Pertanto, in adolescenza le nostre capacità decisionali sarebbero ancora deboli e ciò sarebbe un dato a supporto del fatto che gli adolescenti siano soggetti particolarmente a rischio, a prescindere dall’avere o no una “mamma sufficientemente buona”. Davvero un peccato che, a causa dei tempi ristretti, la dott.ssa Intrieri si sia solo potuta limitare a leggere i titoli delle slides senza poter approfondire i dati, i fattori e gli studi citati.

Chiude, infine, la conferenza la dott.ssa Anna Cipriani, docente della Scuola di Specializzazione Cristo Re presentando un caso di GAP in una coppia di conviventi e sottolineando, come aveva fatto il prof. Saraceni inizialmente, l’importanza di considerare il GAP come un disturbo psicosomatico.

In sintesi, niente di nuovo sotto il sole. Un convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico dove l’approfondimento non sembra esserci stato, così come è mancata un’informazione aggiornata su teorie, diagnosi e trattamento del GAP. Aspetteremo la terza edizione per vedere se qualcosa si muove…

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Un Evitante al Cinema: Bella Swan di Twilight. Cinema & Psicologia

Francesca Soresi

 

 

Twilight-Bella-Fan-wallpaper-twilight-movie. Immagine: © Summit Entertainment Un personaggio cinematografico/letterario può avere una personalità? Scopriamo quella di Bella Swan, protagonista femminile della saga di Twilight, famosa in tutto il mondo.

Twilight è una serie di romanzi scritti da Stephenie Meyer e raccontano la vita di Bella Swan, un’adolescente che si trasferisce da Phoenix a Forks, nella penisola di Washington, e che si innamora del vampiro Edward Cullen. I romanzi sono stati successivamente adattati e trasformati in pellicola a partire dal 2008.

Bella Swan è la protagonista femminile del racconto ed è descritta come timida, solitaria, goffa e maldestra. “Non sarei mai stata capace di inserirmi e non era colpa del mio aspetto. Non ero riuscita a ritagliarmi un posto in una scuola con tremila studenti, quante possibilità potevo mai avere, qui? Non ero capace di entrare in sintonia con le persone della mia età. Forse dovrei dire che non sapevo entrare in sintonia con le persone, punto. Non riuscivo a vivere in armonia nemmeno con mia madre, la donna che in assoluto sentivo più vicina, quasi non parlassimo mai davvero la stessa lingua. Ogni tanto mi chiedevo se i miei occhi e quelli del resto del mondo vedessero le stesse cose. Forse il mio cervello era difettoso.” (Twilight, 2006): queste frasi spiegano molto bene il senso di estraneità ed esclusione rispetto agli altri e al mondo che Bella sperimenta e la sua difficoltà nell’entrare in relazione con gli altri anche con i familiari, in linea con una personalità evitante.

L’emozione principale che Bella manifesta è la vergogna: quando vede per la prima volta Edward e i suoi fratelli si assiste ad un gioco di sguardi dove Bella è sempre quella che guarda furtivamente e poi distoglie lo sguardo diventando paonazza in volto.

Durante la prima lezione insieme ad Edward legge le smorfie del vampiro come conferma che ci sia qualcosa di sbagliato in lei: “Quando gli passai accanto, all’improvviso [Edward] si irrigidì. Mi fissò ancora una volta, con la più strana delle espressioni sul volto: era ostile, furioso. Guardai subito altrove, sbalordita, rossa di vergogna. Inciampai su un libro e per non cadere fui costretta a reggermi a un tavolo. La ragazza seduta lì rise sotto i baffi.” (Twilight, 2006).

Da dove nasce questa vergogna? Bella si sente inadeguata e incompetente e teme di essere rifiutata dagli altri. Osserva e valuta con molta attenzione i movimenti e le espressioni delle persone con cui entra in contatto e nello stesso tempo mantiene un contegno timoroso e teso nel tentativo di prevenire e minimizzare le critiche, ma questo contegno si trasforma inevitabilmente nella goffaggine che la caratterizza, perché la sua attenzione non è più su quello che sta facendo, ma su ciò che gli altri vedono e pensano mentre la osservano. Il suo desiderio sarebbe di scomparire tra la folla, di non essere notata, ma questo risulta impossibile nel momento in cui il suo atteggiamento appare strano e poco naturale.

Poi finalmente Bella diventa un vampiro. La trasformazione non è solo fisica, ma anche caratteriale: scompare la sua goffaggine, la sua autostima aumenta. La trasformazione è vissuta da Bella come una liberazione… ma cosa succede? La Meyer ci sta dicendo che quando ci sentiamo inadeguati e “fuori posto” l’unica soluzione è trasformarsi in un vampiro?!

Bhe, forse no: “Ricordavo che Edward una volta aveva detto […] che la sua specie, la nostra specie, si distraeva facilmente.” (Breaking Dawn, 2008).

La trasformazione rappresenta per Bella il mezzo che le consente finalmente di provare quel senso di appartenenza che da umana difficilmente riusciva a sentire: finalmente appartiene ad un gruppo, “la nostra specie”, con cui condivide caratteristiche fisiche, valori morali e regole sociali; e questo gruppo è inserito in un contesto conosciuto e fatto di rapporti con gli amici di sempre, il licantropo Jacob in primis, e con la propria famiglia.

Bella non si sente più estranea, rifiutata ed inetta, ma non perché “normale”, inteso come uguale agli altri, ma perchè pur essendo unica (come ciascuno di noi lo è), ha trovato la giusta dimensione per accettare se stessa.

 

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DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’ – IL RICONOSCIMENTO DELLE EMOZIONI

 

 

Essere e avere. Di Nicolas Philibert (2002) – Psicologia Film Festival – PFF2013

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Presenta: 

ESSERE E AVERE

Di Nicolas Philibert (2002)

Presenta la dott.ssa Marzia Cikada

Essere e Avere PFF - PSicologia Film Festival 2013

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con le Officine Corsare, presenta il

4° Appuntamento del Psicologia Film Festival (sezione DOC)

Martedì 3 Dicembre ore 21,00

presso il Cubo, via Pallavicino 35

con la proiezione del film

ESSERE E AVERE

di Nicolas Philibert (2002)

Ingresso libero con tessera Arci

Il Film

Francia, Auvergne, dipartimento di Puy Le Dome. La zona è talmente isolata che sopravvive l’istituzione della “classe unica”, dove si ritrovano bambini la cui età copre l’intero ciclo scolastico delle elementari. Un maestro prossimo alla pensione segue tutti i suoi alunni cercando di trasmettere, oltre a un po’ di sapere generale, anche qualche insegnamento etico e civico, dal rispetto reciproco all’inutilità della violenza. Nel frattempo la montagna segue, dall’inverno all’estate, i suoi ritmi. Nicolas Philibert, uno dei più grandi documentaristi contemporanei francesi, racconta la vita quotidiana e “straordinaria” di una classe unica che, guidata dal maestro Georges Lopez, impara realmente a muovere i primi difficili passi della propria vita. Nessun intento pedagogico, nessun trattato sul sistema scolastico, nessuna mira o ambizione “politica” di proporre soluzioni o di offrire alternative; Essere e Avere s’impone con forza e sospesa sulla difficoltà di crescere, sulle gioie delle prime conquiste e conoscenze individuali, sul valore dell’amore e il dignitoso senso di responsabilità di bambini chiamati a relazionarsi con il proprio passato e futuro. Niente di più semplice, intenso e commovente che vedere le emozioni e le ribellioni dei piccoli, la curiosità e i loro stupori ai primi incontri con il sapere.

 

Il regista

Philibert dopo aver studiato filosofia, inizia a lavorare nel mondo del cinema nel 1973 come assistente alla regia e scenografo per Alain Tanner, Claude Goretta e altri. Nel 1978 ha realizzato con Gérard Mortillat il lungo documentario La voix de son maitre, ma bisogna aspettare gli anni Novanta perché il lavoro di Philibert venga notato e apprezzato dalla critica. Nel 1989 ha girato La ville Louvre, mentre Nel paese dei sordi (1992) lo rende uno dei registi più originali del nuovo cinema francese. Successivamente ha diretto Un animal, des animaux (1994), Le moindre des choses (1996), Qui sait? (1998). Nel 2002 ha presentato Essere e avere fenomeno di incassi in Francia e vincitore del Festival “France Cinema” di Firenze.

 

Marzia Cikada

Psicologa, è Specializzata in Psicoterapia Relazionale presso l’ I.P.R. (Istituto di Psicoterapia Relazionale) di Roma. Nel 2003 ha fondato lo Studio di Psicoterapia “Elibra” nel cuore di Roma. Trasferitasi in Piemonte nel 2010, ha iniziato ad occuparsi di Consulenza Psicologica come professionista volontaria presso il Centro Consulenza Familiare di Torino (CCF) e, oltre all’attività privata a Torino, Pinerolo e Luserna, è consulente presso la Cooperativa “La Tarta Volante” presente nel territorio della Val Pellice, e fa parte dell’Associazione “Il salice ridente”.

Vi aspettiamo numerosi

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TRAILER DEL FILM:

Esercizio fisico in gravidanza e sviluppo cerebrale del bambino

Viviana Spandri

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Esercizio fisico in gravidanza-  In occasione del congresso Neuroscience 2013 a San Diego, gli autori della ricerca, concludono:”I nostri risultati mostrano che i bambini nati da mamme fisicamente attive hanno un’attivazione cerebrale più matura, e ciò suggerisce che i loro cervelli si sono sviluppati più rapidamente“.

E’ ormai noto che l’attività fisica influisca positivamente sullo stato cognitivo nei bambini, negli adulti e negli anziani.

Recentemente, studi condotti sugli animali, hanno dimostrato effetti positivi dell’esercizio fisico durante la gravidanza sullo sviluppo cerebrale del neonato, favorendo la neurogenesi ippocampale.

Nell’uomo, Clapp e collaboratori hanno confrontato bambini nati da donne che spontaneamente mantenevano una vita attiva o sedentaria: i primi, a 5 giorni di vita, mostravano un punteggio superiore alla Brazelton Neonatal Behavioral Assesment Scale nelle sottoscale dell’orientamento e dell’autoregolazione, ad un anno ottenevano punteggi superiori nella valutazione psicomotoria della Bayley Scales of Infant Development, e addirittura a 5 anni raggiungevano punteggi più elevati di intelligenza generale e linguaggio.

I risultati incoraggianti di questo studio però si scontrano con i limiti del suo disegno: non è stata eseguita nessuna misurazione dell’attivazione cerebrale e l’assegnazione volontaria al gruppo attive/sedentarie può riflettere uno stile relazionale differente della madre con il proprio figlio. Le Moyne e collaboratori hanno quindi progettato un protocollo di intervento randomizzato (RCT=randomized controlled trial) per suddividere le gestanti in gruppo “attivo” e “non attivo”, verificandone gli effetti attraverso la misurazione diretta dell’attività elettrica corticale (EEG=elettroencefalogramma).

Nello specifico, sono state reclutate 60 donne sane nel primo trimestre di gravidanza, con età compresa tra i 20 e i 35 anni, indice di massa corporea pre-gravidanza compreso tra 18 e 25 con un’anamnesi negativa per uso di droghe, alcolici o fumo. Di queste, 30 donne sono state assegnate al gruppo “attivo” che prevedeva esercizio fisico (nuoto, camminata, bicicletta, ellittica, aerobica, pattinaggio, tennis e wii sport) a partire dal secondo trimestre di gravidanza, per almeno 3 volte alla settimana, della durata minima di 20 minuti, con un’intensità superiore al 55% della capacità aerobica massima (Vo2max); le altre 30 donne sono state assegnate al gruppo “non attivo”. Dall’inizio del secondo trimestre tutte le donne hanno compilato un questionario giornaliero on-line indagante l’esercizio fisico eseguito, la qualità del sonno ed eventuali trattamenti farmacologici e hanno indossato un podometro.

Inoltre, con cadenza mensile hanno compilato questionari relativo al loro stato di salute, stile di vita e ansia (Beck Anxiety Inventory), in quanto negli studi animali è stato dimostrato che l’ansia materna diminuisce l’effetto dell’esercizio fisico. L’outcome primario nel neonato era costituito dall’ampiezza della MMN (mismatch negativity), una componente dei potenziali evento-correlati (ERP) uditivi che si ricava dal tracciato EEG in seguito alla percezione di un suono nuovo all’interno di una sequenza sonora ripetitiva standard; la MMN è attualmente ritenuta una misura oggettiva dello stato cognitivo del neonato: più precoce e più ampia è l’onda, più è avanzato lo sviluppo cognitivo del neonato, al contrario, nei bambini autistici ad esempio, è stata osservata una maggiore latenza di comparsa e una minore ampiezza.

La registrazione dell’EEG è stata effettuata tra il giorno 8 e il 12 del neonato con il montaggio di 124 elettrodi secondo il Sistema EGI. In questi giorni, in occasione del congresso Neuroscience 2013 a San Diego, gli autori hanno presentato i dati di questa ricerca, concludendo: “I nostri risultati mostrano che i bambini nati da mamme fisicamente attive hanno un’attivazione cerebrale più matura, e ciò suggerisce che i loro cervelli si sono sviluppati più rapidamente“.

Il gruppo di ricerca sta ora verificando se questi effetti sullo sviluppo cognitivo, motorio e linguistico si mantengano ad un anno di vita del bambino. 

LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ ATTIVITA’ FISICA BAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Terapeuta Consapevole di Daniel Siegel (2013) – Recensione

 

Recensione del Libro:

Il Terapeuta Consapevole

Guida per il terapeuta al Mindsight e all’integrazione neurale

Daniel Siegel

Istituto di Scienze Cognitive Editore, 2013

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

Il Terapeuta Consapevole  Guida per il terapeuta al Mindsight e all’integrazione neurale D.J. Siegel Istituto di Scienze Cognitive Editore, 2013 - copertina

Un libro che, pagina dopo pagina, mantiene il focus sul terapeuta, sul clinico inteso sia come persona in relazione che come professionista della salute mentale e della cura.

Le nostre librerie sono piene di manuali, di protocolli, di libri di auto aiuto da dare ai pazienti, di libri pieni di tecniche e strumenti, ma non sono tanti i libri che “si prendono cura dei curanti”, ed è proprio in questa cornice che emerge “Il terapeuta consapevole”, libro di D.Siegel edito dall’Istituto di Scienze Cognitive.

Un libro che, pagina dopo pagina, mantiene il focus sul terapeuta, sul clinico inteso sia come persona in relazione che come professionista della salute mentale e della cura. Mi piace immaginare questo libro come una lunga conversazione sul significato dell’essere terapeuta. Un dettagliato manuale sulla mente di chi aiuta le menti degli altri a crescere in maniera più armonica e funzionale. Un libro che offre diverse strategie esperienziali per lo sviluppo della “vista mentale”: capacità di percepire e dare forma al flusso di energia e informazioni che ci attraversano, e il Mindsight affinché si dia corpo a relazioni empatiche efficaci.

I contenuti di questo libro sono stati suddivisi in 15 capitoli, legati tra loro da un unico fil rouge: “essere terapeuti consapevoli”. Il lettore e il terapeuta potrebbero porsi questa domanda: “Qual è la parte essenziale che giochiamo nella relazione con l’altro per facilitare un miglioramento e la crescita della mente dell’altro, del nostro paziente?” E potrebbero ricevere una risposta nelle pagine di questo libro.

Un’altra riflessione importante che nasce dalla lettura, e nella lettura, di questo libro è che essere un terapeuta consapevole ci invita a portare integrazione e armonia nelle nostre vite mentre ci prendiamo cura delle vite e delle menti degli altri. Diventa poi normale chiedersi cosa significhi e in che accezione venga utilizzato il termine Mindfull: e allora partiamo dall’assunto che un terapeuta Mindfull è un terapeuta che integra gli aspetti consci, creativi e contemplativi della coscienza.

Essere Mindfull è uno stato di consapevolezza che ci permette di essere flessibili e recettivi e di avere presenza, fattore cruciale nel darci resilienza per affrontare le sfide che giorno dopo giorno ci sorprendono. Essere presente momento per momento, presenti e creativi.

L’autore pone l’accento sulle tecniche utili per poter sviluppare la Mindsight, un’abilità che stabilizza la lente percettiva attraverso cui si arriva a sentire il flusso di energia ed informazioni dentro noi e in relazione agli altri, fino ad arrivare alle terapie efficaci per stimolare l’attivazione e la crescita neuronale verso uno stato maggiormente integrato.

Il Dottor Siegel accompagna il lettore, passo dopo passo, alla scoperta della consapevolezza e all’importanza dell’integrazione. E, seguendo il cammino tracciato capitolo per capitolo, andiamo a vedere i contenuti e le skills necessarie per diventare un terapeuta Mindfull.

PRESENZA: il modo in cui siamo “saldi a noi stessi”, consapevoli nel momento presente, aperti agli altri e alla relazione; l’autore ci guida in alcuni esercizi di Mindfulness per allenare la nostra capacità di essere nel qui ed ora.

SINTONIZZAZIONE: partendo dal fatto che una comunicazione viene fatta tra due persone quando si inviano dei segnali, essere sintonizzati significa seguire pienamente il messaggio che riceviamo o che inviamo senza essere condizionati da distorsioni cognitive, bias e euristiche di pensiero. La sintonizzazione diventa fondamentale per il terapeuta: essere aperto a cogliere tutte le informazioni che arrivano dall’altro, non perdendo nulla di quello che il paziente ci vuole dire. Sintonizzazione come primo passo dell’alleanza terapeutica.

RISONANZA: in questo capitolo si parlerà di come, grazie alla presenza e alla sintonizzazione, il paziente si “senta sentito” dal terapeuta. Questa consapevolezza porta con sé la soddisfazione di un bisogno innato e profondo: quello di sentirsi al sicuro e di essere visti dall’altro.

FIDUCIA: La risposta “fisiologica” al sentirsi in risonanza, sentendosi cioè visti e al sicuro, fa sì che si aprano le porte all’altro, si crei uno spazio di apertura e fiducia, ed è in questo spazio che si possono creare le condizioni per stimolare la crescita della mente propria e dell’altro. In questo capitolo il dottor Siegel ci aiuta a comprendere come questo senso di apertura e fiducia nell’altro sia guidato da specifici circuiti neurali, che definiscono in qualche modo il nostro comportamento sociale.

VERITÀ: il cambiamento avviene quando abbiamo la possibilità di basarci sulle cose per quello che veramente sono; con la presenza, la sintonizzazione e la fiducia abbiamo preparato il terreno perché questo avvenga. Ragionare insieme, paziente e clinico, su come poter affrontare la realtà per quella che è, senza forzature impossibili rispetto al desiderato, fare i conti con quello che si ha.

TRIPODE: grazie a questa metafora visiva, supporto a tre piedi della lente della macchina fotografica, l’autore ci porta a vedere da un nuovo punto di vista la nostra mente. È in questo capitolo che Siegel ci illustra la mindsight e ci suggerisce alcuni esercizi utili per il clinico, per vedere la mente con più chiarezza e profondità.

TRICEZIONE: in questo capitolo si parla del triangolo del benessere: mente, cervello e corpo. Centrali rimangono la capacità di vedere il mondo interno con sempre maggiore chiarezza e trovare nuovi motori di cambiamento.

TRACKING: il percorso che creiamo con i nostri pazienti in terapia è un percorso che va verso il benessere della persona, che passa nelle prime fasi della relazione attraverso il continuo e costante monitoraggio del flusso di energia e dell’informazione che passano da uno all’altro. Il monitoraggio diventa la porta per la consapevolezza, consapevolezza del triangolo del benessere mente, cervello e corpo, che prepara la strada per l’integrazione. Sappiamo che un individuo integrato è un individuo in armonia.

TRATTI: la psicoterapia è cambiamento e crescita, tuttavia ognuno di noi nasce con dei tratti persistenti. In questo capitolo vengono sinteticamente passati in rassegna i pattern comportamentali che dall’infanzia si sviluppano sino alla vita adulta.

TRAUMA: in questo capitolo si vedrà nel dettaglio come gli eventi traumatici nella nostra vita vadano ad incidere negativamente sulla nostra capacità di adattarsi flessibilmente alla realtà; e allora il processo di cura e di risoluzione del trauma può essere inteso come l’integrazione degli elementi disconnessi nella memoria implicita.

TRANSIZIONE: quando le persone arrivano in terapia portano con sé i loro disagi e le loro difficoltà, spesso sono “ingabbiate” in pattern di vita disfunzionali, da cui non riescono a liberarsi. Spesso sono pattern di vita pieni di caos e rigidità. Il processo terapeutico, attraverso la relazione, si pone l’obiettivo di portare il soggetto all’integrazione neurale traghettandolo verso il benessere. Il passaggio dal caos all’integrazione non è sempre facile o lineare e occorrono fasi di transizione: di questo Siegel ci parla in questo capitolo.

TRAINING: la mente è come un muscolo e, in quanto tale, deve essere allenato. Così com’è necessario tenere allenato il nostro corpo per preservarlo e accompagnarlo nell’invecchiamento, così in questo capitolo ci viene fornito una possibile via di training per la nostra mente, un training per la presenza mentale e la Mindsight, così da mantenere attive le reti sinaptiche del nostro cervello.

TRASFORMAZIONE: in questo capitolo si affronta il tema della neuroplasticità promossa dalla consapevolezza. Vengono presi in esame i nove domini di integrazione e come questi possano essere visti come processi di trasformazione e integrazione, che determinano il funzionamento della nostra mente, del nostro cervello e del nostro corpo.

TRANQUILLITÀ: l’integrazione neurale promuove la coerenza nella nostra mente e noi ci sentiamo connessi, empatici, in armonia, aperti, impegnati, recettivi. Il concetto di integrazione ha in sé un sistema flessibile e adattivo che porta il soggetto in una condizione che potremmo chiamare di tranquillità. In questo capitolo ci vengono date diverse strategie e modalità per raggiungere questo stato.

TRASPIRAZIONE: questa parola significa “respirare con”; in questo capitolo il dottor Siegel ci aiuta a comprendere come sia possibile respirare attraverso i diversi domini di integrazione, che esploreremo in noi stessi come terapeuti e nella relazione terapeutica nei nostri pazienti. Qui l’autore si è focalizzato su come sentirsi, e cosa significa, parte di un tutto interdipendente; questo ci permette di vedere il potente ruolo che abbiamo nell’aiutare gli altri, partendo dal prenderci cura di noi stessi , stando in modo empatico e compassionevole in una relazione autentica.

Alla fine di questa immaginaria passeggiata, di questa profonda riflessione sulla mente, il cervello e le relazioni umane, appare evidente quanto il successo di una terapia derivi della capacità di entrare in connessione con il proprio paziente, quanto la capacità del terapeuta di essere Mindfull e di prendersi cura della relazione terapeutica stessa sia un fattore favorente il buon esito della terapia.

Buona lettura!

LEGGI:

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

IN TERAPIA MINDFULNESS

Daniel Siegel – La neurobiologia interpersonale – Report dal Workshop

 

BIBLIOGRAFIA:

Emicrania? Occhio all’umore

Emicrania e depressione. - Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.comL’emicrania è una malattia neurologica cronica caratterizzata da ricorrenti cefalee, spesso in associazione con una serie di sintomi del sistema nervoso autonomo.

In genere il dolore è unilaterale, colpendo cioè solo una metà della testa, e pulsante, con una durata variabile. I sintomi associati possono includere nausea, vomito, fotofobia (aumento della sensibilità alla luce) e fonofobia (aumento della sensibilità al suono). Fino a un terzo delle persone con emicrania sperimentano l’aura: un disturbo transitorio visivo, sensoriale, motorio o del linguaggio che precede di poco il verificarsi di un episodio di mal di testa e che a volte può verificarsi senza che un mal di testa ne succeda. Esiste ormai un generale accorto sul fatto che questa sia una malattia multifattoriale, ovvero che chiami in causa sia fattori di natura genetica che ambientale.

A livello mondiale, le emicranie colpiscono quasi il 15% della popolazione o circa un miliardo di individui. È più comune nelle donne (19% delle appartenenti a questo sesso) rispetto agli uomini (11%). Sono state descritte attualmente sette classi di emicrania, che si differenziano in base alla sede del dolore, durata, tipo di sintomatologia esperita dal soggetto.

In un recente studio pubblicato sull’importante rivista Internazionale Depression Research and Treatment un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto ha dimostrato come la depressione sia due volte più frequente nelle persone che soffrono di emicrania rispetto a chi non ne soffre. I risultati sono stati ottenuti a partire da un campione di più di 67 mila soggetti e sembra essere particolarmente significativo tra le persone di giovane età: le donne che soffrono di emicrania sotto i 30 anni hanno sei volte la probabilità di depressione rispetto alle donne di 65 anni o più. Inoltre, soffrire di emicrania, non essere sposati ed avere difficoltà nelle attività quotidiane sono condizioni che si associano a un maggior rischio di depressione.

Gli autori hanno osservato come la prevalenza dell’emicrania fosse più frequente nelle donne rispetto agli uomini emicranici, in un rapporto di 7:1 nelle donne e 16:1 negli uomini. Infine, soffrire di depressione e di emicrania sembra aumentare in modo significativo il rischio di ideazione suicidaria, in particolare nei giovani con età inferiore ai 30 anni rispetto ai soggetti di 65 anni e più. Nello spiegare i risultati gli autori hanno ipotizzato che i giovani con emicrania soffrano maggiormente di depressione e ideazione suicidaria perché non hanno ancora trovato un supporto terapeutico adeguato e sviluppato strategie di coping che possano essere utili al fine di ridurre il dolore e l’impatto che questa malattia cronica ha nella loro vita.

I base ai dati di ricerca diventa quindi fondamentale che i professionisti che hanno in cura il paziente svolgano un adeguato screening del paziente e mettano a punto interventi mirati e differenziati, che tengano conto del quadro sintomatologico complesso del paziente. Interventi di prevenzione della depressione dovrebbero essere quindi promossi per tutti quelle persone “a rischio” sulla base anche della presenza o meno, piuttosto che della familiarità e vulnerabilità per la patologia emicranica.

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MAL DI TESTA? MEDITATE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

The Walking Dead: tra tendenza storica ed universo umano

 

 

The-Walking-Dead. - Immagine: Locandina. © AMC 2013

Quando si verificano crisi economiche, la maggior parte delle persone si sentirebbe depotenziata, per cui sia travestirsi da “non morti” che guardare serie tv come “The Walking Dead” fornirebbero possibili vie di sfogo a sentimenti di frustrazione.

The Walking Dead è una serie televisiva americana nata nel 2010 e giunta ormai alla quarta stagione, a testimoniare il grande successo riscosso negli Stati Uniti e non solo (tanto che è stata comunicata la notizia di una quinta stagione in programma).

La serie, basata sull’omonimo fumetto di Robert Kirkman, si sviluppa sullo sfondo di un mondo post-apocalittico.

Lo sceriffo Rick Grimes si risveglia dal coma in ospedale e si trova immerso in un mondo radicalmente cambiato dove a dominare lo scenario sono rovine, cadaveri, creature letali e spaventose. Dopo la paura, l’incredulità ed il forte disorientamento iniziale, grazie all’incontro con un padre e suo figlio (le prime due persone con cui entra in contatto), Rick apprende che, mentre si trovava ricoverato in stato di incoscienza, una terribile epidemia ha infettato e trasformato le persone in cannibali privi di ogni caratteristica umana (the walkers – gli erranti).

I sopravvissuti si trovano pertanto a dover vivere sotto la minaccia di queste creature che non solo possono ucciderli e divorarli, ma con un solo morso possono infettarli avviando il processo irreversibile di mutamento.

Alla minaccia alla propria sopravvivenza si aggiunge anche il profondo dolore e il lutto per gli affetti persi, morti realmente o “non morti”, che i loro stessi cari sono a volte costretti ad uccidere per difendersi o anche solo per impedire che conducano un’esistenza da erranti.

Presa consapevolezza di quanto successo, Rick si lancia alla ricerca di sua moglie e di suo figlio nella speranza che siano ancora vivi. In seguito li ritroverà aggregati ad altri superstiti unitisi per cercare riparo. Rick assumerà il ruolo di leader con la missione di condurre il gruppo (a cui si aggregheranno via via nuovi personaggi) verso un posto sicuro.

Ben presto, Rick si troverà a confrontarsi con situazioni in cui la minaccia maggiore non sarà costituita dagli erranti ma dai superstiti stessi, con gruppi in lotta tra loro, in assenza di ogni forma di istituzione, dove il potere viene assunto da singoli che costituiscono forme di società regolate da leggi personali.

Il successo di questa serie rappresenta un esempio di quanto gli zombie abbiano “infettato” la cultura popolare, diventando protagonisti di film, serie tv, libri, fumetti e videogiochi. Tale popolarità è stata oggetto di studio da parte di Sarah Juliet Lauro, professoressa di inglese alla Clemson University (South Carolina). 

Al fine di comprendere la natura di questo fenomeno, la Lauro ha esaminato film, programmi televisivi, videogames e, in modo particolare, lo “zombie walk”, ossia un raduno organizzato di persone vestite e truccate da “non morti” che si ritrovano in luoghi pubblici e procedono con la tipica camminata barcollante. Secondo Lauro, tutto ciò non costituirebbe una semplice ossessione per la morte e la decadenza, ma parte di una tendenza storica che rispecchia un livello di disaffezione, di insoddisfazione culturale e di sconvolgimento economico.

In altre parole, è come se si trattasse di un’allegoria del tipo “ci sentiamo, in qualche modo, come fossimo morti”. Pertanto le persone si vestirebbero come zombie per rendere visibile la loro disaffezione verso un governo che credono non li stia ascoltando o verso un sistema economico che li rende consumatori “cerebralmente morti” e come incapaci di scelte e decisioni personali.

Lo zombie walk è un fenomeno iniziato nel 2003 a Toronto e la sua popolarità è aumentata negli Stati Uniti di pari passo ad un incremento dell’insoddisfazione per la guerra in Iraq. Secondo la Lauro, questo è stato il modo attraverso cui le persone hanno cercato di esprimere il loro sentirsi non ascoltati dall’amministrazione Bush su una guerra che non volevano si scatenasse.

Dal 2000 si è registrato un aumento di questa globale popolarità degli zombie, probabilmente favorita in parte dall’uscita di film come “Resident Evil”, “L’alba dei morti viventi” e “28 giorni dopo”. Dagli Stati Uniti, lo zombie walk si è poi largamante diffuso in altri stati, raggiungendo anche l’Italia. In base al Guinness World Records, il più grande raduno si è tenuto il 5 ottobre 2013 ad Asbury Park in New Jersey con 9.592 partecipanti.

La prof.ssa Lauro afferma quindi che si è maggiormente interessati agli zombie in tempi in cui ci sentiamo impotenti come civiltà.

Quando si verificano crisi economiche, la maggior parte delle persone infatti si sentirebbe depotenziata, per cui sia travestirsi da “non morti” che guardare serie tv come “The Walking Dead” fornirebbero possibili vie di sfogo a sentimenti di frustrazione. Tuttavia la Lauro specifica come ciò non sia sempre un atto consapevole e come non tutti i partecipanti di questi raduni abbiano una cognizione chiara di quanto stiano comunicando.

Concludendo, la passione per gli zombie potrebbe essere quindi considerata un segno dei nostri tempi come afferma Sarah Lauro, ma in realtà nelle vicende di “The Walking Dead” c’è anche dell’altro. Esse vedono infatti protagonisti non solo gli erranti ma anche un gruppo formato da un’ampia galleria di personaggi con varie caratteristiche.

Per citarne alcuni: Rick, la guida carismatica e coraggiosa; Shane, nella duplice veste di suo amico e di primo antagonista della serie, rivale in amore e nella leadership; Lori, moglie di Rick ed affettuosa madre di Carl, che si prende cura emotivamente del gruppo; Carl, il bambino alle prese con la sfida evolutiva di crescere in un mondo radicalmente mutato; Daryl, una sorta di cavaliere oscuro impegnato in un processo di emancipazione dal fratello maggiore; Carol, la donna vessata dal marito che rivela poi grande forza e determinazione; Andrea, testarda, impulsiva e pronta ad impugnare le armi per la difesa del gruppo; Dale e Hershel, i saggi anziani e depositari dei valori perduti della società civile.

Questi personaggi sono in grado di far scattare processi di identificazione tali per cui gli spettatori rivedono e riconoscono in essi aspetti di sé e si appassionano alle loro vicende.

La serie inoltre stimola una riflessione critica sull’uomo posto in condizioni estreme di vita, sulla varietà dei comportamenti che possono essere messi in atto, dai gesti egoistici e volti ai propri interessi, ai comportamenti prosociali fino ad arrivare ai grandi gesti eroici. In pratica, l’uomo nelle sue innumerevoli sfaccettature, nei suoi dilemmi, nelle sue debolezze e nei suoi punti di forza.

LEGGI:

MORTE TELEVISIONE E TV SERIES ANTROPOLOGIA & SOCIETA’ 

The Big Bang Theory – Analisi psicologica di Sheldon e compagni

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Comunicazione – Discorsi esitanti: che effetto hanno su chi ascolta?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Comunicazione – Del tutto in modo inaspettato, parrebbe che un discorso esitante (ma non troppo) risulti più efficace di un discorso fluente.

Quando parliamo, quali sono gli effetti delle nostre esitazioni, ripetizioni e auto-correzioni in chi ci ascolta? Ogni 100 parole pronunciate, circa 6 sono colpite da disfluenze verbali.

Tra i diversi “inceppi” verbali, particolarmente interessanti sono i riempitivi sonori come “ehm” o “uhm”. Questi infatti non si verificano a caso, ma tendono a precedere l’emissione di parole di uso poco comuni, inaspettate o poco inerenti al significato generale della frase.

A partire da dal meccanismo che ci guida nel loro uso, MacGregor e colleghi (University of Edinburgh) si sono domandati cosa accade quando ascoltiamo frasi esitanti. Che effetto hanno gli “ehm” e gli “uhm” sulla comprensione e memorizzazione del discorso?

Per rispondere a questa domanda i ricercatori sono riscorsi ai potenziali evocati, ovvero modificazioni elettriche che avvengono nel sistema nervoso centrale a seguito di uno stimolo esterno, focalizzandosi in particolare sull’ERP N400. Questo potenziale evocato si manifesta con un cambiamento negativo nel voltaggio di una particolare regione. Quando ci troviamo di fronte a un’incongruenza semantica tale cambiamento si verifica specificatamente nella regione centro-parietale.

Quindi davanti alla frase :”Mi piace bere il tè con zucchero e calza” (o quando figure anomale o incongruenti sono mostrate durante l’ascolto di una frase, o quando la frase presenta una violazione sintattica) si avrà un cambiamento negativo in questa specifica area cerebrale.

Per questa ricerca, sono stati coinvolti 12 soggetti ai quali è stato chiesto di ascoltare diverse frasi dove l’ultima parola poteva essere congruente con il contesto della frase (Es. Mi piace bere il tè con zucchero e limone) oppure incongruente (Mi piace bere il tè con zucchero e calza). Inoltre nella metà dei casi, prima delle parole limone e calza, venivano inseriti riempitivi sonori come “ehm”.

Dai risultati è emerso che nei casi in cui la parola non era congruente, se questa era preceduta da un “ehm”, l’ atteso effetto N400 si riduceva. Sembra quindi che in qualche modo l’esitazione renda la parola inaspettata più facile da processare e che forzi il cervello a porre più attenzione al discorso, percependo l’ehm come un segnale di allerta.

Ecco quindi che la parole incongruente (“calza”), benchè inattesa e imprevedibile, viene accettata più facilmente dalla nostro cervello.

 Ancora più sorprendente, l’esitazione sembra avere anche un effetto a lungo termine: attraverso un successivo test di memoria le parole (congruenti o incongruenti) che erano state precedute da un riempitivo verbale venivano ricordate più facilmente. Questa sintonizzazione preventiva (o allerta attenttivo) fornirebbe quindi anche un vantaggio nella memorizzazione della parole.

Del tutto in modo inaspettato, parrebbe così che un discorso esitante (ma non troppo) risulti più efficace di un discorso fluente.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE STILI DI COMUNICAZIONE – MEMORIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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