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Adolescenti e Gambling: Centro di ascolto telefonico per genitori e insegnanti

COMUNICATO STAMPA 17-12-2013

PRIMO CONSUMO APRE IL CENTRO D’ASCOLTO  TELEFONICO  ALLA SCUOLA

L’associazione per i consumatori Primo Consumo con il suo progetto – Game Over  la dipendenza dal gioco non è un gioco – è da anni impegnata nella lotta alla ludopatia.
Sulla base dell’esperienza maturata dalle psicologhe del centro in questi anni, avvalorata peraltro dalle recenti statistiche relative al pericoloso coinvolgimento dei giovanissimi nel gioco d’azzardo (Relazione Annuale Dip. Politiche Antidroga, 2013; Studio Espad-Italia, 2012 Ifc-CNR), Primo Consumo decide di aprire il centro d’ascolto telefonico, GRATUITO a genitori e insegnanti.
Gli adolescenti infatti, proprio per le caratteristiche specifiche di questa fase evolutiva quali l’impulsività e la ricerca di novità e di emozioni nuove, costituiscono una tra le fasce di età più coinvolta nel gioco d’azzardo.
Insegnanti e genitori hanno bisogno di aiuto. Ora possono usufruire di uno strumento concreto, anonimo e gratuito per essere supportati nella guida di figli o alunni. Trascorrendo infatti molte ore al giorno vicino ai giovani hanno modo di cogliere quei segnali che, se  sottovalutati, possono portare allo sviluppo di un problema molto serio.
Come dimostra la vicenda del diciannovenne di Ischia suicidatosi per debiti di gioco, la cui storia ha ispirato la realizzazione di un corto premiato al Torino Film Festival: “Chasing” diretto da Renato Porfido,  a cui l’Associazione Primo Consumo, sensibile al tema dei giovani, ha recentemente collaborato.

L’Associazione Primo Consumo, a nome del presidente, Avv. Marco Polizzi, per rispondere in modo sempre maggiore alla necessità di far fronte al problema ludopatia, si rende disponibile ad effettuare interviste e interventi al fine di far conoscere maggiormente la propria presenza sul territorio nazionale.

Associazione Primo Consumo
Sito web: www.primoconsumo.it.(sezione progetti – Game Over)
Tel. 0639738239.

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DIPENDENZEGIOCO D’AZZARDO PATOLOGICOADOLESCENTI

Leadership negli Sport di Squadra #12: I compiti del Leader

 

Leadership negli Sport di Squadra #12:

I compiti del Leader – I leader e la prestazione

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra #12- I compiti del Leader. -Immagine:© L.F.otography - Fotolia.com

Al di sopra di ogni strategia è indispensabile, per impedire il tracollo motivazionale ad opera della pigrizia sociale, che venga data a ciascun atleta l’opportunità di soddisfare i propri bisogni di realizzazione individuale, e che questi rappresentino la base per il raggiungimento degli obiettivi di tutto il gruppo.

L’allenatore è il leader istituzionale della squadra sportiva; il suo ruolo è caratterizzato da funzioni e attività varie e complesse che richiedono competenze in vari campi (educativo, tecnico, psicologico, manageriale) e presuppongono un grande equilibrio emozionale”. [Giovannini e Savoia, 2002, p.123]

Questa è la definizione di allenatore che Giovannini e Savoia [2002] espongono nel loro testo dedicato alla psicologia dello sport. Come è stato chiarito dalle teorie presentato nel capitolo precedente risulta impossibile definire in modo universale le caratteristiche ideali che un allenatore dovrebbe possedere. Anzi ogni leader, e quindi anche l’allenatore, deve affrontare situazioni sempre diverse che richiedono l’utilizzo di specifiche abilità. L’assenza di questa versatilità può portare alcuni allenatori a realizzare ottimi risultati in certe realtà, che si adattano ai limiti imposti dalle proprie capacità, ed esclusivamente insuccessi in altre, che richiederebbero un comportamento e uno stile diverso da quello proprio e rigido [Mazzali, 1995]. Detto questo è naturale conseguenza affermare che la sua capacità di adattamento alle condizioni e alle esigenze più svariate è anche direttamente proporzionale all’effettivo rendimento della squadra, alla sua prestazione.

L’allenatore-leader è quindi la componente da cui dipende una buona parte dei risultati ottenuti. Se da un lato è vero che chi scende in campo sono i giocatori, dall’altro è altrettanto vero che l’organizzazione e la preparazione della prestazione è affidata all’allenatore e che quest’ultimo, in virtù del potere che gli è concesso dalla sua posizione è in grado di influenzare, in modo anche molto incisivo, la prestazione dei suoi atleti. In che modo? Sicuramente non prestando attenzione solo all’aspetto puramente tecnico e tattico ma preoccupandosi sia dei singoli individui, sia del gruppo come entità a sé stante, e, in particolar modo, a quelle caratteristiche importanti per massimizzare i risultati di quest’ultimo. Diverse ricerche hanno individuato alcune di queste caratteristiche particolarmente sensibili all’intervento dell’allenatore. Tra queste, oltre all’importanza dell’organizzazione degli obiettivi e del lavoro della squadra, risultano importanti: il livello di motivazione individuale, la presenza di pigrizia sociale,la coesione interna al gruppo e l’andamento della squadra nel corso della stagione.

La funzione principale del leader è legata inevitabilmente al compito e all’obiettivo imposto dalla dirigenza della squadra e l’allenatore deve utilizzare tutte le risorse disponibili al fine di portare gli atleti ai massimi livelli delle loro possibilità tenendo in considerazione le capacità tecniche, fisiche e psicologiche di ciascuno.

Per fare ciò non deve svolgere solo il compito di leader ma anche quello di formatore/educatore (che deve conoscere e sviluppare modalità idonee per favorire l’apprendimento di aspetti motori e tattici) e di tecnico/organizzatore del gioco (che deve preparare l’atleta a prendere le proprie decisioni e valutazioni al momento della prestazione). L’importanza della versatilità dell’allenatore si manifesta anche in questo, e cioè nella capacità di scegliere di interpretare il ruolo (tra quello di leader, formatore o organizzatore) più adatto a una situazione o a uno specifico problema [Antonelli e Salvini, 1987].

Una volta che gli obiettivi specifici che si propone di raggiungere sono chiari non solo a sé stesso e alla dirigenza ma anche ai giocatori della squadra, l’allenatore deve iniziare a predisporre le condizioni che possono permettere di avere successo attraverso:

– l’individuazione degli strumenti necessari (che comprendono particolari modalità di insegnamento, tecniche di allenamento, tattiche specifiche ecc…),

– l’indagine delle risorse umane disponibili e utili al compiere le azioni necessarie per procedere con successo verso gli obiettivi,

– l’analisi delle strategie adatta per superare ostacoli prevedibilmente presenti sul cammino della squadra verso un risultato positivo.

Un altro campo in cui l’allenatore può intervenire, per migliorare le prestazioni della squadra è il controllo e l’influenza sulla motivazione degli atleti, una variabile di estrema importanza che, seppur limitatamente, può essere influenzata dal suo comportamento.

Carron [1984] individua quattro tipologie di variabili influenzanti la motivazione individuale determinate dall’incrocio di due assi che sono: il livello di controllabilità e l’origine situazionale/personale del fattore. Il modello di Carron sulla motivazione nello sport può essere riassunto nella tabella seguente:

 

Tab3 – Rappresentazione del modello di Carron per la motivazione nello sport

  Rappresentazione del modello di Carron per la motivazione nello sport

Secondo l’autore possiamo, quindi distinguere:

Fattori situazionali soggetti al controllo dell’allenatore: all’interno dei quali bisogna distinguere quelli dipendenti da una situazione oggettiva o da un percezione soggettiva da parte degli atleti. Alcuni esempi di fattori di questo tipo su cui l’allenatore può agire possono essere: la promessa e l’uso di ricompense oppure un saggio processo di definizione degli obiettivi (goal-setting) che rappresentino sfide realistiche, né disperate, né banali. A livello motivazionale queste strategie dell’allenatore-leader possono influire generando quattro diversi meccanismi [Locke e al., 1981]: direzionamento di attenzione e azione verso chiari e specifici target, mobilitazione dell’energia dell’atleta per lo svolgimento del compito ad esso attribuito, persistenza di questo direzionamento e di questa mobilitazione energetica per un lungo periodo di tempo, motivazione allo sviluppo di una strategia individuale per raggiungere la propria meta.

Fattori personali soggetti al controllo dell’allenatore: che rappresentano l’insieme delle variabili legate al singolo atleta su cui l’allenatore può interagire. Un esempio possono essere le esperienze incentivanti, in cui può mostrare al giocatore i vantaggi conseguenti al successo, o lo stile attributivo che l’atleta utilizza spiegando le esperienze vissute con la squadra, che l’allenatore può contribuire a modificare.

Fattori personali e situazionali non soggetti al controllo dell’allenatore: rappresentano le altre due categorie, quelle che contengono variabili influenzanti la motivazione individuale sulle quali però l’allenatore ha poco potere. I fattori situazionali di questo tipo possono essere ad esempio: il comportamento degli spettatori, le caratteristiche dell’avversario, la storia recente della squadra, le esperienze che ha vissuto ecc… Mentre tra i fattori personali si possono distinguere: il livello di ansia, la capacità attentiva di ogni atleta e la motivazione al successo [Carron, 1984].

Per poter migliorare le prestazioni della squadra l’allenatore non solo deve occuparsi di incentivare la motivazione dei singoli atleti agendo su quei fenomeni, individuali o situazionali, che possono essere sensibili al suo intervento, ma deve anche impedire che si determini, nel medesimo livello, quel naturale calo nell’impegno di ogni giocatore definito “pigrizia sociale” [Harkins, Latanè e Williams, 1980; Harkins e Latanè, 1981].

Questi autori hanno osservato come la tendenza generale delle persone le porti a diminuire il proprio impegno nello svolgere un compito all’aumentare delle dimensioni del gruppo di compagni con i quali devono collaborare. Un atleta sarebbe, quindi, naturalmente portato a non dare il meglio di sé quando lavora assieme al resto dei componenti della squadra. Perché? Harkins, Latanè e Williams [1980] hanno proposto quattro possibili interpretazioni:

strategia allocativa: secondo cui gli atleti darebbero il meglio di sé in una prestazione individuale piuttosto che in quella di gruppo semplicemente perché risulta più facilmente identificabile e quindi premiato il proprio lavoro.

strategia minima: in cui i soggetti mirano semplicemente a spendere il minor quantitativo di energia possibile per non essere identificati come individui pigri.

free rider: secondo cui le persone riducono il proprio impegno perché non lo ritengono indispensabile ai fini del risultato.

sucker effect: secondo cui le persone riducono il loro impegno per evitare di lavorare anche per coloro che si impegnano poco.

Qualsiasi strategia, tra queste, è in grado di spiegare la pigrizia sociale,che, in generale, risulta molto dannosa ai fini della prestazione del gruppo intero, anche perché il sucker effect non fa altro che determinare una spirale discendente nell’impegno da parte degli atleti che porta sempre più lontano dagli obiettivi comuni e dal successo. Come deve comportarsi l’allenatore-leader davanti a palesi manifestazioni di questo fenomeno nei suoi atleti? Hardy [1990] ha individuato alcune strategie che possono essere messe in atto con successo per poter tenere sotto controllo l’instaurarsi di fenomeni di pigrizia sociale. Tra questi:

1. migliorare il livello di autoconsapevolezza dell’atleta, rendendo identificabile l’impegno individuale,

2. migliorare il senso di responsabilità di ciascun atleta attraverso un aumento delle interazioni e della coesione di gruppo;

3. rendere i compiti coinvolgenti;

4. impiegare un programma sistematico di goal-setting, definendo specifici obiettivi individuali e di squadra;

5. condurre riunioni e incontri collettivi al fine di risolvere eventuali cadute motivazionali e comprendere la discontinuità di alcune prestazioni;

6. attribuire a ciascuno un determinato ruolo identificabile da tutti e contraddistinto positivamente;

7. permettere agli atleti di esprimersi in modo creativo e appoggiarli nelle loro assunzioni di rischi;

8. fornire la possibilità agli atleti di svolgere attività , meno intense e impegnative che concedano momenti di divertimento e svago al team.

Al di sopra di ogni strategia è indispensabile, come afferma Cei [1998], per impedire il tracollo motivazionale ad opera della pigrizia sociale, che venga data a ciascun atleta l’opportunità di soddisfare i propri bisogni di realizzazione individuale, e che questi rappresentino la base per il raggiungimento degli obiettivi di tutto il gruppo.

L’allenatore non deve essere confuso a priori con la figura del leader centrato sul compito, anche se in alcuni casi può identificarsi con questo. Questo è ancor più vero se si prende in considerazione una sua ulteriore funzione importante che, pur essendo associata al sistema relazionale della squadra, è strettamente correlata alle prestazioni di quest’ultima.

La funzione in questione riguarda la coesione di gruppo intesa come: “il campo totale delle forze che agiscono sui membri per farli rimanere nel gruppo” [Festinger, Schachter e Back, 1950]. Hogg [1992], riprendendo l’idea di Festinger, individua nella teoria dell’identità sociale di Tajfel [1981] e nella teoria della categorizzazione del sé di Turner [1987] due contributi per permettere una definizione della coesione che, ponendosi lungo un continuum interpersonale-intergruppi, è associabile all’attrazione sociale esercitata dalle persone, non per loro caratteristiche, ma per la loro appartenenza alla squadra.

Solo in questo caso si può parlare di coesione perché solo in questo caso è un fenomeno riferito al gruppo [Speltini e Polmonari, 1999]. Molte ricerche hanno infatti dimostrato [Widmeyer, Carron e Brawley, 1993], l’esistenza di una correlazione positiva tra una forte coesione che rende il gruppo stabile, unito e pronto a sostenersi nei momenti di difficoltà, e le prestazioni effettivamente raggiunte. E’ importante per il leader istituzionale fare in modo che tutti i membri del gruppo vengano stimolati ad orientare i loro sforzi verso ciò che Mazzali [1995] definisce “noi di gruppo” costruendo così la possibilità di compiere un lavoro cooperativo ed integrato che possa condurre al successo.

La coesione di una squadra viene quindi analizzata da un punto di vista multidimensionale in cui le caratteristiche e il comportamento del leader rappresentano alcune delle grandezze che ne possono influenzare le caratteristiche. Riguardo la relazione tra coesione e prestazione il dibattito rimane comunque aperto. In una rassegna di 30 ricerche sull’argomento Zanna e Fazio [1982] individuano, in tutte, l’esistenza di una relazione tra le due dimensioni ma, mentre su 24 (80%) questa era caratterizzata positivamente, le rimanenti mettevano in evidenza una correlazione negativa.

Questa possibilità, quella cioè di una correlazione negativa tra coesione e prestazione, è ancor più evidente in alcuni casi, storici nell’ambito della psicologia dello sport, presentati di Lenk [1966] in cui l’autore descriveva come una squadra nazionale di canottaggio, nonostante l’assenza di coesione tra i membri che la componevano, riuscì a imporsi alle olimpiadi prima e ai campionati mondiali poi. Questa ambiguità ha portato i ricercatori a cercare di comprendere in quali condizioni il legame positivo o negativo si verifica [Grieve, Whelan, Meyers, 2000]. Alcune delle ricerche orientate in questa direzione [Landers e Luschen, 1974; Steiner, 1972, 1976; Widmeyer, Carron, Brawley, 1993; Carron, Chelladurai, 1979; Widmeyer, Williams, 1991; Guicciardi, Staffa e Meleddu, 2001] hanno associato le caratteristiche della relazione tra coesione e prestazione a diverse variabili tra le quali: il tipo di compito, la struttura del gruppo, il tipo di disciplina ecc… E’ probabile che gli stessi comportamenti dell’allenatore-leader, seppur non ancora descritti in alcuna ricerca, possano essere una variabile importante per determinare in che modo queste due dimensioni interagiscono tra di loro.

E’ stato descritto finora che l’allenatore, in quanto leader istituzionale, deve preoccuparsi di delineare gli obiettivi specifici e renderli chiari anche ai componenti del team, deve individuare gli strumenti, indagare le risorse umane e analizzare le strategie generali che possono renderne possibile il raggiungimento. Per lo stesso fine deve anche prestare attenzione e intervenire sui fattori situazionali e individuali che influenzano la motivazione dei componenti della squadra, evitare la diffusione della pigrizia sociale e promuovere la coesione del gruppo in ciascuno atleta.

Tutto ciò rappresenta il terreno iniziale necessario per affrontare una stagione sportiva ma non è sufficiente per oltrepassare gli ostacoli, sempre diversi, che si presenteranno nel corso dell’anno. Per questo l’allenatore deve anche essere pronto ad affrontare problematiche sempre nuove, spesso dipendenti dai risultati ottenuti, ma che, a loro volta, possono trascinare la squadra in una spirale di ancor maggiori fallimenti, se non vi viene posto un freno. Mazzali [1995] fa riferimento a cinque specifiche condizioni in cui la squadra può venire a trovarsi nel corso della stagione, che l’allenatore deve gestire per evitarne le conseguenze negative:

1. Periodi di vittorie: caratterizzati da successo ed entusiasmo da parte del gruppo. L’autore mette in guardia da crogiolarsi nel piacere della vittoria rischiando di perdere la concentrazione necessaria nelle prestazioni di squadra e rischiando di sottovalutare gli avversari. L’allenatore-leader deve essere in grado di smorzare gli animi, sdrammatizzare un’eventuale mitizzazione del team analizzando il momento con estrema cautela e con una certa dose di sospetto. Può sfruttare comunque la condizione del gruppo per investire in senso tecnico, tattico e di preparazione al fine di mantenere elevata la concentrazione e l’impegno in allenamento.

2. Periodi di sconfitte: rappresenta esattamente la condizione opposta alla precedente. In questo caso gli atleti sviluppano una sorta di depressione e apatia di gruppo o possono reagire facendo esplodere l’aggressività individuale e facendo emergere ingigantiti i dissidi interni alla squadra. Non porre freno a questa situazione vuol dire lasciare che la squadra si disintegri. E’ importante che l’allenatore-leader eviti, per primo, di cercare alibi o scusanti ma cerchi di individuare con raziocinio dove è il problema e di affrontarlo con decisione. L’obiettivo è quello di impedire che l’aggressività si sfoghi contro arbitri, sorte o compagni ma si canalizzai nell’affrontare il problema della squadra.

3. Nuove vittorie dopo periodi di sconfitte: è uno dei periodi più favorevoli per condurre una squadra. La serie di vittorie da sicuramente sfogo alla frustrazione accumulata dalle sconfitte non cancellando però una certa modestia dipendente dai risultati precedenti che permette di non sottovalutare gli avversari e di fornire prestazioni altamente competitive. L’allenatore non deve far altro che comportarsi come nei periodi di vittoria prestando attenzione che questa modestia non vada a ridursi e investendo tatticamente sulla squadra.

4. Nuove sconfitte dopo periodi di vittorie: secondo l’autore questa situazione pone la squadra in una condizione dura da risollevare. La serie di vittorie aveva determinato inconsciamente delle aspettative a cui ora è difficile rinunciare, ma che i risultati rendono sempre più irrealizzabili. L’allenatore deve, però, cercare di riadattare sia il lavoro che la mentalità della squadra a nuovi obiettivi più modesti. Il tempo di convincimento a livello individuale è lungo ma se l’allenatore non riesce a creare questa mentalità, corre il rischio di veder sfuggire la possibilità di raggiungere anche gli obiettivi modesti.

5. Periodi “senza infamia e senza lode”: vengono definiti come i periodi peggiori in assoluto per condurre una squadra. Sono caratterizzati dall’alternarsi saltuario di vittorie e sconfitte che portano ad un andamento nel complesso né positivo né negativo. Ciò può determinare la mancanza di una reazione emotiva da parte dei membri della squadra e se questa non è una conseguenza negativa in sé stessa, è facile, però, che porti a uno scoramento il più delle volte seguito da una serie di sconfitte pesanti. In questa pericolosa posizione l’allenatore deve cercare, agendo sulla motivazione, la coesione, e l’allenamento della squadra di elevare il livello delle prestazioni in termini tecnici e caratteriali allo scopo di uscire al più presto da questa condizione che, nonostante sembri caratterizzata da un andamento regolare è, in realtà, estremamente precaria perché da un momento all’altro può far cadere i risultati della squadra

Anche il leader intimo svolge un ruolo importante nell’influenzare le prestazioni della squadra. In linea di massima i fattori sui quali può intervenire sono molto simili a quelli esposti riguardo le funzioni del leader istituzionali ma esistono, tra i due, alcune importanti differenze. Prima fra tutte è quella collegata alla diversa posizione assunta dal leader istituzionale e da quello intimo rispetto alla prestazione stessa. Il primo si occupa dell’organizzazione preventiva della prova che il team deve affrontare e gestisce le risorse e gli strumenti della sua squadra, anche durante la prestazione, mantenendosi su un livello di andamento generale. Al contrario, il leader intimo, ancor di più se è anche leader tecnico, organizza le risorse e fornisce supporto principalmente nel corso della prestazione e della partita che la squadra sta affrontando agendo e prendendo decisioni più che altro a livello di azioni particolari, spesso attraverso un linguaggio gestuale conosciuto dai suoi compagni.

Da questo risultano chiare due considerazioni. Per prima cosa questi due ruoli, in relazione all’organizzazione e alla gestione di una prova da affrontare per la squadra appaiono essere  complementari. Di conseguenza una squadra può ottenere prestazioni molto positive se entrambe le figure di leader sanno svolgere al meglio il proprio compito. Secondariamente si può osservare come le differenze nelle mansioni svolte possano essere connesse ai diversi punti di vista con cui affrontano sia la preparazione che la partita.

Oltre a ciò il capitano dovrebbe, al pari dell’allenatore, cercare di impedire che la pigrizia sociale dilaghi tra i membri del gruppo rendendosi fonte di sostegno motivazionale per i suoi compagni agendo sui quegli stessi fattori considerati sotto il controllo dell’allenatore. Lo stesso discorso può essere fatto per i fattori che influenzano il livello di coesione della squadra.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Tre caffè al giorno aiutano a scacciare il tumore al fegato di torno!

 

Tre caffè al giorno aiutano a scacciare il tumore al fegato di turno!. -Immagine:© red2000 - Fotolia.comL’effetto positivo del caffè sul rischio di tumore al fegato potrebbe essere mediato dalla ormai dimostrata capacità di tale sostanza di prevenire il diabete, fattore quest’ultimo di rischio per il tumore, oppure dai suoi effetti benefici sulla cirrosi e sugli enzimi epatici. 

È ormai noto come le patologie tumorali abbiano una origine multifattoriale, nella misura in cui sono coinvolti nel loro sviluppo non solo fattori di rischio genetici, ma anche di natura ambientale e psicologica, i così detti “stressors”.

Non a caso i programmi di prevenzione dell’insorgenza dei tumori più all’avanguardia ai giorni nostri prevedono che la persona, una volta entrata nell’età di rischio per il potenziale sviluppo della malattia, effettui dei controlli medici specifici e costanti negli anni al fine di verificare la corretta funzionalità dell’organo in questione. Ne sono un esempio il Pap Test e la Mammografia nella donna e l’ esame del PSA nell’uomo, volti a valutare i primi due la possibile presenza di un tumore all’utero o al seno e il terzo il rischio tumorale prostatico.

Ma è la natura stessa del tumore che impone la necessità per l’individuo di prendersi cura e limitare il più possibile di esporsi agli stressors che possono, in condizioni favorevoli di vulnerabilità biologica, favorire lo sviluppo della malattia. L’attività fisica regolare, una corretta alimentazione e in generale l’adozione di tutti quei comportamenti che promuovono il benessere psichico e fisico dell’individuo rappresentano dei veri e propri fattori protettivi contro la malattia. La ricerca scientifica in questo campo ha fatto negli ultimi anni passi da gigante nell’individuazione dei fattori di rischio e protettivi, nonché dei trattamenti più efficaci al fine di curare la malattia e migliorare in generale il benessere delle persone che ne sono affette.

Tra le varie forme tumorali quella al fegato rappresenta la sesta più frequente tipologia di cancro nel mondo, e la terza causa di morte tra i tumori. Il Carcinoma Epatocellulare è la più frequente tipologia di tumore al fegato, causato con maggior frequenza dalle infezioni croniche dovute ai virus dell’epatite B o C. Altri fattori di rischio di elevata rilevanza sono l’alcol, il tabacco, l’obesità e il diabete.

Un recente studio di meta-analisi  di un gruppo di ricercatori tutto italiano, proveniente dall’ Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e del Dipartimento di Scienze Cliniche e Salute dell’ Università degli Studi di Milano ha dimostrato come l’assunzione di caffè riduca il rischio di cancro al fegato, in particolare il carcinoma epatocellulare.

Gli autori hanno analizzato più di 16 lavori di elevata qualità scientifica pubblicati dal 1996 al 2012, concludendo che tre tazze di caffè al giorno sembrerebbero in grado di ridurre del 50 % il rischio di tumore al fegato.  

Scoperta interessante se si considera che il caffè rappresenta una delle bevande più consumate nel nostro paese. Ma come si spiega questo risultato? Gli autori affermano che l’effetto positivo del caffè sul rischio di tumore al fegato potrebbe essere mediato dalla ormai dimostrata capacità di tale sostanza di prevenire il diabete, fattore quest’ultimo di rischio per il tumore, oppure dai suoi effetti benefici sulla cirrosi e sugli enzimi epatici. 

Nonostante il risultato necessiti di ulteriori studi che ne verifichino la validità esso risulta interessante almeno per due ordini di motivi.

In primo luogo perché mostra come fattori più propriamente associati allo stile di vita della persona abbiano un peso sia in termini protettivi che di rischio del tumore al fegato. In altre parole se è vero che non è ancora noto l’esatto meccanismo con il quale si sviluppa il tumore del fegato e restano molti punti da chiarire, alcuni elementi costituiscono un indubbio fattore di rischio, quali ad esempio il contrarre un’infezione da virus epatico di tipo B o C o una cirrosi, oppure ancora il condurre uno stile di vita poco sano e regolare.

Rispetto a quest’ultimo punto se da un lato il seguire un’alimentazione sana, evitando l’eccesso di alcol e il fumo, accompagnata da una regolare attività fisica rappresentano dei fattori protettivi importanti, il risultato della ricerca identifica il caffè come potenziale fattore protettivo per il tumore al fegato.

In secondo luogo i risultati ribadiscono e segnalano un nuovo effetto benefico del caffè, che se assunto nelle dosi adeguate non solo ha un effetto antiossidante, stimolante dell’attività celebrale, lipolitico e facilitante i processi digestivi ma ha anche una funzione di prevenzione delle malattie, tra cui il diabete e il tumore al fegato.

Per cui godiamoci il caffè, perché non solo è buono, ma fa anche bene!

LEGGI:

ONCOLOGIA-TUMORI – ALIMENTAZIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

E se facessimo Mindfulness online? – Tecnologia & Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa ricerca ha ormai dimostrato che adeguati percorsi di mindfulness possono ridurre stress, ansia e depressione.

Come in tutti i percorsi terapeutici anche per la mindfulness spesso la richiesta è superiore all’offerta o poco accessibile a causa di prezzi poco abbordabili. In alcuni casi, invece, la non possibilità di intraprendere una terapia è dettata da altre motivazioni, (orario e luogo), o dall’impossibilità della persona di recarsi in uno studio (o struttura) a causa di una particolare condizione clinico/fisica.

La creazione di interventi terapeutici online può quindi fornire a tutti la possibilità di usufruire di servizi altrimenti inaccessibili e di svolgere la terapia all’interno di un luogo familiare e confortevole come la propria casa.

I trials condotti sulla possibilità di effettuare terapie cognitivo comportamentali online sembrano promettenti, soprattutto nell’ambito della sintomatologia ansiosa e depressiva. Sono quindi ormai diverse le ricerche a supporto del dato secondo cui i corsi online risultano efficaci tanto quelli “faccia a faccia” condotti in uno specifico luogo terapeutico, in cui uno dei fattori fondamentali è l’alleanza terapeutica e ciò che i ricercatori si domandano è se tale efficacia si possa verificare anche nel caso di terapia mindfulness.

Sebbene ancora non siano del tutto chiari i meccanismi alla base dell’efficacia delle terapie mindfulness, molti clinici concordano sul fatto che siano due i fattori principali implicati nella diminuzione di ansia, stress e depressione, ovvero consapevolezza e accettazione, e che tale diminuzione sia proporzionale alla quantità di pratica svolta. Su questo ultimo punto è bene però notare che non tutti gli studi riportano i medesimi risultati, per cui talvolta appare che stress, ania e depressione diminuiscono indipendentemente dal numero di esercizi svolti.

A partire da questi dati, Krusche, Cyhlarova e Williams hanno deciso di verificare le seguenti tre ipotesi: i corsi di pratica mindfulness online sono efficaci nella riduzione di stress, ansia e depressione? Questa (eventuale) diminuzione è mantenuta al follow-up? L’umore negativo diminuisce proporzionalmente alla quantità di esercizi svolti? Questa diminuzione è paragonabile a quella già osservata in altri tipi di intervento? Se e come il tempo necessario per il completamento degli esercizi influisce su i risultati finali?

Riassumendo le diverse ipotesi, gli autori hanno deciso di valutare la fattibilità e l’efficacia dei corsi mindfulness online nella diminuzione di stress, ansia e depressione. Per lo studio sono stati selezionati 273 soggetti. Il programma mindfulness prevedeva 10 lezioni, video di meditazione guidata e ricezione di e-mail, con elementi della Mindfulness-Based Stress Reduction and Mindfulness-Based Cognitive. Il programma prevedeva una durata totale di 4 settimane e i soggetti erano liberi di completarlo secondo le loro tempistiche.

Confrontando i livelli di ansia, stress e depressione pre e post programma gli autori hanno evidenziato una forte diminuzione in tutte e tre le variabili e un ulteriore decremento al follow-up di un mese. Tali effetti potevano essere comparati a quelli ottenuti nei gruppi mindfulness “face-to-face“.

In conclusione i primi risultati sembrano aprire le porte verso un possibile futuro di pratiche mindfulness online e (forse) verso un rivoluzionario modo di fare terapia.

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MINDFULNESS TECNOLOGIA E PSICOLOGIA – STRESS

CURARE LA DEPRESSIONE POST – PARTUM TRAMITE TRATTAMENTO ONLINE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Uno studio sui musicisti: Forme d’ ansia e Predittori di personalità

 

FORME DELL’ANSIA E PREDITTORI DI PERSONALITA’ NEGLI ARTISTI:

UNO STUDIO SUI MUSICISTI

Anna Colazilli, Simona Napoletano, Daniela Martino

(Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto)

 

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FORME DELL’ANSIA E PREDITTORI DI PERSONALITA’ NEGLI ARTISTI: UNO STUDIO SUI MUSICISTISi vuole dimostrare che l’ansia da palcoscenico è un fenomeno autonomo e indipendente rispetto all’ansia da prestazione e all’ansia sociale e quindi da considerarsi normale e non patologica nella vita di un musicista.

È ampiamente riportata in letteratura l’incidenza dell’ansia in persone che svolgono lavori particolarmente stressanti. Grande interesse è stato riservato agli artisti, che vivono con la costante pressione di doversi esibire in pubblico. Le ricerche hanno tentato una analisi dei processi e delle variabili in gioco ma il quadro risulta poco chiaro, a causa  di alcune incomprensioni terminologiche.

Gli autori parlano indistintamente di “ansia da palcoscenico”, “ansia da prestazione” e “ansia sociale”,  fornendo una descrizione univoca del fenomeno.

Obiettivo della ricerca è indagare meglio la natura dell’ansia negli artisti, operando al contempo una distinzione tra le categorie nosografiche menzionate. Considerata la vastità della popolazione target, si è deciso di restringere il campo alla sola categoria dei musicisti (compreso i cantanti). Il campione riguarderà studenti di musica e diplomati presso il Conservatorio, di entrambi i sessi, dai 18 anni in su.

Verrà somministrata una STAI-Y opportunamente modificata a cui i soggetti dovranno rispondere immaginando di trovarsi in 3 situazioni specifiche: suonare davanti ad un pubblico, incontrare nuove persone ad una festa e svolgere un importante esame scritto all’università, al fine di valutare rispettivamente l’ansia da palcoscenico, l’ansia sociale e l’ansia da prestazione.

Si vuole dimostrare che l’ansia da palcoscenico è un fenomeno autonomo e indipendente rispetto all’ansia da prestazione e all’ansia sociale e quindi da considerarsi normale e non patologica nella vita di un musicista. A conferma dell’ipotesi, ci aspettiamo che i soggetti riportino i livelli più alti nell’ansia da palcoscenico.

Ulteriore obiettivo è verificare se esiste un tratto di personalità maggiormente predittivo dell’ansia nei musicisti tra quelli ritenuti più plausibili: timore dell’errore, timore del giudizio e timore dell’attivazione fisiologica. A tale scopo saranno somministrati rispettivamente  l’MPS (Multidimensional Perfectionism Scale), il BSPS (Brief Social Phobia Scale )  e l’ACS (Affective Control Scale).

 

SLIDES DI PRESENTAZIONE DELLO STUDIO:

 

POSTER:

 

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MUSICA ANSIA PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

Report: Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva

Teresa Costanza.

Report dal convegno

Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva.

 

Locandinaa Giornate Seminariali 2013 MasterSi è conclusa il giorno 7 dicembre, in un generale clima di soddisfazione, la terza edizione di Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva.

Terza edizione che segue quelle del 2011 a Catania presso Le Ciminiere sul tema dell’intervento psicologico e forense nei casi di abuso sessuale e del 2012 a Palermo presso il Cristal Palace Hotel sul tema delle nuove strategie di psicoterapia nei disturbi di personalità.

L’evento, che quest’anno si è svolto a Caltanissetta, sempre con il patrocinio dalla sezione regionale della SITCC, ha visto succedersi relatori provenienti da gran parte delle città siciliane: Tullio Scrimali e Massimo Sciuto da Catania, Simona Tedesco da Palermo, Damiana Tomasello e Cristian Tinebra da Enna, Alessia Di Liberto e Mariangela La Lisa da Ragusa e Siracusa, Lisa Alaimo, Teresa Costanza, Laura Carbone e Giovanni Duminuco da Caltanissetta.

Il tema di questa terza edizione è stato incentrato sulla Metacognizione, nel duplice versante dell’assessment e dell’intervento psicoterapico centrato sullo sviluppo delle capacità di metacognizione.

Sebastiano Maurizio Alaimo, ideatore e direttore scientifico delle Giornate Seminariali Siciliane (GSS), ha aperto i lavori facendo il punto sulle attività che sono state svolte in questi ultimi anni dal Centro Clinico e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive (nato originariamente come Unità Clinica e di Ricerca dell’Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin” (ISPEM) di Caltanissetta). Ha ricordato gli studi su metacognizione e terapia dei Disturbi di personalità, l’importanza dei contributi del Terzo centro romano e i contatti, seppur al momento sporadici, con il conterraneo Antonino Carcione e con Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo.

Un Centro Clinico che si è speso molto nella ricerca e che ha proposto tre nuovi strumenti per la valutazione di specifiche aree della metacognizione (uno dei quali in press, Rivista Psichiatria & Psicoterapia, ed. G. Fioriti).

Particolarmente coinvolgente il lavoro presentato da Giovanni Duminuco, laureato in Filosofia e perfezionato in Bioetica, componente del Gruppo di studio sulla epistemologia della complessità dell’ISPEM. Duminuco ha compiuto un dovizioso excursus sul grande tema della metacognizione a partire dal concetto di mente e di consapevolezza del se cominciando dall’antica Grecia, attraverso Platone, Aristotele, Democrito, Cartesio, Locke, Hobbes, Cabanis, Bateson via via fino al pensiero dei filosofi moderni giungendo alle porte delle scienze cognitive e delle neuroscienze.

Ha subito dopo preso la parola Tullio Scrimali, ribadendo lo spirito di collaborazione con i colleghi che da molti anni si occupano di metacognizione in Italia e preannunciando una serie di iniziative in ambito didattico da concertare tra la Scuola in psicoterapia cognitiva Aleteia, da lui diretta, e il Centro Clinico e di Ricerca di Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive di Caltanissetta, diretto da Sebastiano Maurizio Alaimo.

 Tullio Scrimali e Damiana Tomasello hanno illustrato un nuovo strumento iconico per l’assesment di cognizione e metacognizione che ha la duplice funzione di valutare il deficit nella ToM (teoria della mente) e al contempo di avviare, dopo la valutazione, un percorso di riabilitazione. Scrimali ha altresì illustrato diffusamente i gap della metacognizione nel paziente schizofrenico e l’importanza degli interventi riabilitativi in tale direzione.

Altrettanto interesse ha suscitato la relazione dal titolo Psicoterapia Cognitiva del paziente difficile: Training metacognitivo e incremento delle abilità deficitarie nel setting di gruppo presentata da Simona Tedesco, psicoterapeuta impegnata a Palermo, nel versante occidentale dell’isola. Durante il suo intervento a presentato il Protocollo Cnosso e la sua applicazione su sei pazienti afflitti da gravi Disturbi della personalità.

Nel pomeriggio è stata la volta di giovani ricercatori che, con grande entusiasmo hanno presentato delle ricerche di particolare interesse, in diversi ambiti. Lisa Edvige Alaimo e Teresa Costanza hanno parlato dello sviluppo delle capacità di ToM in soggetti con ritardo mentale, evidenziando come nello studio il diverso livello di funzionalità non può essere spiegato solo a partire dal tipo di deficit mentale e che probabilmente l’attenzione e le premure dei genitori insieme a interventi abilitatiivo-riabilitativi potrebbero spiegare la variabilità registrata.

Laura Carbone ha messo in luce con la sua ricerca, condotta su soggetti in età evolutiva, l’importanza e l’efficacia di alcuni strumenti, come quello proposto dalla Main (Cos’è un pensiero?) utilizzato insieme al più celebre compito di falsa credenza di Sally e Anne insieme ancora al disegno della famiglia (per valutare la tipologia dell’attaccamento, interpretazione secondo Attili e Vermigli), e alle Favole di Duss. Lo studio, confermando quanto presente in letteratura, mostra alte correlazioni tra il tipo di attaccamento e lo sviluppo di adeguate funzioni metacognitive.

Mariangela La Lisa e Alessia Di Liberto hanno parlato di metacognizione e pazienti psichiatrici gravi. Anche le due giovani ricercatrici hanno illustrato uno studio su 50 soggetti, descrivendo i punteggi ottenuti ai diversi test e cercando di spiegarne, attraverso l’analisi statistica, il rapporto con la tipologia e gravità della malattia mentale.

Infine, molto interesse e curiosità in sala ha suscitato il lavoro del criminologo Cristian Tinebra che ha compiuto una lunga disanima sulle “capacità metacognitive” del mostro di Rostov, Andreij Romanovic Chikatilo.

Le due sessioni, quella mattinale e quella pomeridiana, sono state seguite da un vivace dibattito (molti, tra il pubblico, insieme ai professionisti, gli studenti di psicologia delle Università di Catania, Enna e Palermo), a testimonianza del crescente interesse per l’argomento trattato.

Discussione che si è protratta anche durante la pausa pranzo in un clima di piacevole confronto tra le “vecchie” e le giovani generazioni di professionisti della salute mentale.

Sull’onda dell’ottimismo e del rinforzo ricevuto dall’esito anche di questa edizione di Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva, i colleghi del Centro Clinico e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive e dell’ISPEM di Caltanissetta, insieme al suo ideatore e direttore scientifico Alaimo, dalla prossima settimana si dicono già pronti per la organizzazione della quarta edizione che avrà luogo, dopo Catania, Palermo e Caltanissetta, in un’altra delle splendide città siciliane.

 

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METACOGNIZIONETERAPIA METACOGNITIVA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

LE MOLTE ANIME DELLA METACOGNIZIONE: REPORT DAL CONGRESSO NAZIONALE DI RIMINI

 

 

 

 

 

DSM 5: Disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi correlati

 

 

DSM5 . - Immagine @ o-DSM-5-facebookTra pochi mesi anche noi avremo la versione italiana del nuovo DSM 5 e nell’attesa, tra numerose polemiche e criticità, ecco un nuovo importante cambiamento nella diagnosi e classificazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo e nei disturbi associati (www.dsm5.org).

Innanzitutto il DOC esce dal capitolo dei disturbi d’ansia per guadagnarsi un nuovo capitolo dedicato e un’entità nosografica autonoma insieme a ad altri disturbi ad esso correlati (Obessive-Compulsive and Related Disorders) a sostegno del sempre maggior numero di ricerche che sottolineano i tratti comuni che caratterizzano i disturbi legati allo spettro ossessivo compulsivo caratterizzati, quindi, dalla presenza di pensieri ossessivi e comportamenti ripetuti.

Acquisiscono una propria identità diagnostica il disturbo da accumulo patologico “Hoarding” (o disposofobia o accaparramento compulsivo) e il disturbo da escoriazione della pelle “Skin-Picking Disorder”. Rietrano poi nel medesimo capitolo il distrubo da dismorfismo corporeo e la tricotillomania.

Il disturbo da dismorfismo corporeo resta quasi invariato nei criteri diagnostici rispetto alla precedente versione del Manuale Psichiatrico, ma con l’aggiunta di un criterio che implica la presenza di comportamenti ripetitivi (o azioni mentali) in risposta alla preoccupazione di un presunto difetto fisico, mentre il termine trichitillomania viene ad affiancarsi al forse più comprensibile “Hair-Pulling Disorder” restando pressochè invariato nei criteri diagnostici.

Dunque due nuovi disturbi del quinto manuale rientrano nella categoria dei disturbi legati allo spettro ossessivo-compulsivo, in particolare dopo numerosi anni di ricerche e studi a riguardo l’accumulo compulsivo diventa una vera e propria patologia cessando di essere un sintomo della personalità Ossessivo-Compulsiva o un sottotipo di DOC.

Tale disturbo si caratterizza per la persistente difficoltà a disfarsi o gettare oggetti personali indipendentemente dal valore di questi. Questo tipo di comportamenti ha effetti dannosi per l’individuo e per i suoi familiari dal punto di vista emotivo, fisico, finanziario, sociale e persino legale. Questi soggetti “accumulatori” si distinguono dal normale collezionismo. Infatti la tendenza all’accumulo e il successivo non riuscire a gettare gli oggetti in loro possesso spesso portano a dover riempire i luoghi di vita e di lavoro creando disordine e rendendo impossibile l’utilizzo di tali aree.

L’importanza di tale disturbo è tale da creare disagio clinicamente significativo, o una compromissione nel piano sociale, lavorativo o in altre importante aree compresa la possibilità di preservarsi un ambiente di vita per sè o per altri. Nonostante per alcuni l’accumulo compulsivo sia egosintonico, questo comportamento può però essere fonte di disagio per altre persone come i familiari.

La ragione della nuova diagnosi risiede in una sempre più crescente mole di ricerche relative a questo disturbo condotte negli ultimi anni che riscontrano come tali soggetti affetti dalla patologia dell’accumulo non manifestano allo stesso tempo altri sintomi per la diagnosi di DOC nonchè la percentuale di casi presenti nella popolazione generale risulta essere maggiore rispetto al Disturbo Ossessivo (Mataix-Cols, Frost et all, 2010). In più altri studi suggeriscono che nonostante tali disturbi possano coesistere sono neurologicamente distinti (Saxena, Brody et all., 2004)

Il secondo disturbo inserito è quello di “Escorazione” (Skin Picking) che si stima essere presente tra il 2 e il 4 percento della popolazione che causa delle vere e proprie lesioni cutanee. L’accento dei criteri diagnostici così come vengono riferiti in una serie di video legati alle novità del nuovo manuale condotti dalla Dottoressa Katharine Phillips del Anxiety Disorder Work Group (http://www.psychiatry.org/) va, in particolar modo, sui tentativi del soggetto affetto da tale patologia di controllare o cercare di interrompere il proprio comportamento e pertanto sul disagio clinicamente significativo che questo causa, nonchè sulle compromissioni sul piano sociale e lavorativo o in altre importanti aree del funzionamento della persona.

Cambiano e si rivoluzionano anche alcune specifiche rispetto all’ormai vecchio manuale sia per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, per il Disturbo da Dismorfismo Corporeo e per l’Hoarding per quanto riguada l’Insight.

Il DSM-IV riportava la specifica “con scarso insight”, mentre adesso anche la dimensione dell’Insight cessa di essere dicotomizzata in una prospettiva bianco o nera, per spalmarsi lungo un continuum: insight buono, insight povero, fino all’assenza di insight e alla presenza di veri e propri deliri legati al disturbo ossessivo garantendo la possibilità di una diagnosi in questa area piuttosto che di disturbo psicotico o dello spettro schizofrenico. Le stesse specifiche vengono incluse anche per il disturbo da dismorfismo corporeo e per l’accumulo compulsivo ad indicare l’importanza della componente di insight anche per queste patologie.

Inclusi nel capitolo anche il Disturbo Ossessivo-Compulsivo indotto da sostanze o a seguito di condizione medica e la categoria “altri specificati/non specificati distubi Ossessivo-Compulsivi e correlati” (Other Specified and Undspecified Obssessive-Compulsive and Related Disorder ) che includono sia le condizioni di comportamenti ripetitivi legati ad una particolare focalizzazione nel corpo (oltre a strapparsi i capelli e all’escorazione della pelle) come il mordersi le unghie, mordersi le labbra e le guance sempre accompagnati da ripetuti tentatvi del soggetto di controllare o fermare il comportamento in questione, sia l’ossessione di gelosia caratterizzata dalla preoccupazione (che non assume le caratteristiche del delirio) circa l’infedeltà del partner.

Queste le novità che vedremo comparire nella nuova edizione con il fine di dare un valido contributo ai clinici e ai ricercatori, tuttavia le controversie sulle nuove diagnosi e sull’assetto del prossimo manuale sottolineano la preoccupante possibilità di una sovra diagnosi della patologia mentale e dello stigma correlato. Ai posteri l’ardua sentenza.

LEGGI:

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM 5 –  DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – OCD – DISMORFOFOBIA – DISTURBO DI DISMORFISMO CORPOREO

Misurare la patologia mentale con il DSM 5… Ecco le novità!

Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

BIBLIOGRAFIA:

 

Stress e Alimentazione: quali connessioni? – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Spesso nelle situazioni di stress le persone possono dividersi in due tipologie: quelle che gestiscono lo stress mangiando di più, talvolta snack o cibi “spazzatura”, e quelle che invece perdono l’appetito e mangiano meno.

Il buon senso, però, consiglia di regolare queste cattive abitudini promuovendo un regime alimentare equilibrato. Una nuova ricerca mette in discussione questo assunto in quanto mostra che coloro che sono più sensibili alla variazione di appetito in situazioni stressanti presentano un modello di comportamento alimentare che può avere dei benefici nelle situazioni non-stressanti.

Sproesser e colleghi hanno reclutato dei volontari per partecipare ad un compito in cui venivano presentate sia delle situazioni gratificanti che situazioni spiacevoli. L’ipotesi di partenza era che esperienze sociali positive possono modulare il comportamento alimentare.

I ricercatori proposero un compito in cui coinvolgevano i partecipanti in situazioni di esclusione sociale, di inclusione e in situazioni neutre. Essi dovevano interagire con persone sconosciute attraverso un video, prima di incontrarle di persona. Dopo la conoscenza virtuale, ogni partecipante riceveva dal partner un video di diverso tipo. Nel primo, il partner era felice di avere un incontro di persona, nel secondo invece rifiutava l’incontro ed infine, nel gruppo di controllo, si diceva al partecipante che l’esperimento era stato cancellato.

In un secondo momento, i soggetti partecipavano ad un altro test, apparentemente non collegato al primo. Questo compito mirava a testare il gusto di tre diversi tipi di gelato e i soggetti potevano mangiarne quanto volevano. Da questo studio i ricercatori hanno identificato due gruppi di soggetti caratterizzati da abitudini alimentari diverse, sia rispetto a situazioni sociali negative, come ad esempio in momenti di stress, sia rispetto a quelle positive. Da una parte ci sono i “munchers” (da “munch”, sgranocchiare) quelli che mangiano di più sotto stress e meno in situazioni gratificanti, dall’altra i cosiddetti “skippers”, gli inappetenti da stress, che mostrano il pattern opposto, mangiando di più in situazioni positive.

I risultati mostrano che, dopo una situazione socialmente negativa i soggetti del primo gruppo mangiano più gelato rispetto al gruppo di controllo, mentre quelli del secondo gruppo ne mangiano meno. In media, i primi hanno assunto circa 120 kcal in più rispetto ai soggetti dell’altro gruppo. Inoltre, dopo aver ricevuto un feedback positivo da parte del partner, i “munchers” hanno mangiato meno cibo rispetto al gruppo di controllo, mentre gli “skippers” hanno mostrato la tendenza a cibarsi mediamente di più.

“E’ sorprendente – sottolinea Sproesser – l’immagine speculare fra consumo di gelato e la condizione di esclusione sociale“.

Questo studio getta luce, quindi, sul rapporto tra condotta alimentare e stress e rappresenta un valido strumento per professionisti e medici al fine di considerare meglio gli approcci educativi all’alimentazione finora utilizzati. Sia i “munchers” che gli “skippers”, infatti, sono a rischio di aumento del peso nel lungo tempo e non di “default”. Ciò che occorre, afferma Sproesser, è una “visione dinamica dell’assunzione di alimenti in più situazioni, negative e positive“, che tenga in considerazione la variabilità nel consumo di cibo e i comportamenti compensatori utilizzati a seconda delle situazioni.

 

LEGGI ANCHE:

STRESSALIMENTAZIONE

NUOVE TECNOLOGIE CONTRO LE ABBUFFATE DA STRESS – ALIMENTAZIONE/BINGE EATING

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia: i vincitori

 

Premio State of Mind 2013

per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

Vincitori Premio State of Mind 2013 - © Maksim Pasko - Fotolia.com

 

 

La seconda edizione del Premio State of Mind per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia si è conclusa Venerdì 13 Dicembre 2013 con l’assegnazione dei 2 premi per le sezioni Junior (600€) e Senior (1000€).

Ricordiamo che alla sezione Junior erano ammessi elaborati direttamente derivati da tesi sperimentali di laurea magistrale degli anni accademici 2011-2012-2013 con un età massima per i partecipanti di 30 anni.
La sezione Senior prevedeva la partecipazione di articoli pubblicati o già accettati per la pubblicazione su riviste peer reviewed negli anni 2012-2013 in cui il primo autore non avesse superato i 40 anni di età.

Gli elaborati sono stati valutati da una giuria composta da: Nino Dazzi, Franco Del Corno, Ettore Favaretto, Marcello Gallucci, Giorgio Caviglia, Eleonor Romero Lauro, Giovanni M. Ruggiero, Diego Sarracino e Sandra Sassaroli.

A questa seconda edizione del Premio State of Mind, hanno partecipato più di 100 candidati da tutta Italia e questo è, a parere della redazione, un ottimo e incoraggiante segnale. Speriamo per i prossimi anni di riuscire a garantire e ampliare le successive edizioni del Premio, per favorire e sostenere una ricerca scientifica evidence-based di alta qualità in Italia.

 

SEZIONE JUNIOR:

VINCITORE: Roberta Bettoni (1,2)

Che ha presentato il lavoro: Paternal Autistic Traits are Predictive of Infants Visual Attention

(1) Developmental and Cognitive Neuroscience Lab, Department of General Psychology, University of Padua, Italy;

(2) Developmental Neuropsychology Unit, Scientific Institute “E.Medea”

ABSTRACT

Since subthreshold autistic social impairments aggregate in family members, and since attentional dysfunctions appear to be one of the earliest cognitive markers of children with autism, we investigated in the general population the relationship between infants’ attentional functioning and the autistic traits measured in their parents. Orienting and alerting attention systems were measured in eight-month-old infants using a spatial cueing paradigm. Results showed that only paternal autistic traits were linked to their children’s: (i) attentional disengagement; (ii) rapid attentional orienting and (iii) alerting. Our findings suggest that an early dysfunction of orienting and alerting systems might alter the developmental trajectory of future ability in social cognition and communication.

Keywords: broader autism phenotype, spatial attention, temporal attention, frontoparietal network, social brain development.

 

 

 

I dieci candidati finalisti che si sono distinti per la qualità dei lavori sottoposti: 

  • Aioub Nadia (Terzo Classificato) – Articolo: Stili di personalità sadici, masochistici e dipendenti nella diagnostica PDM
  • Alessandrini Angela – Articolo: Voi siete belle ma noi siamo adoni: l’uso della metafora nei contesti intergruppi
  • Bettoni Roberta (Vincitore)  – Articolo: Paternal Autistic Traits are Predictive of Infants Visual Attention
  • Cavicchioli Marco  – Articolo: DBT skills training in  alcohol dependence treatment: emotional dysregulation, mindfulness and lapses
  • Cian Veronica  – Articolo: fMRI investigation of moral judgment: differences between major psychosis and healthy subjects.
  • Citro Sara  – Articolo: Interdipendenza tra fattori terapeutici: metacognizione e alleanza terapeutica a confronto
  • Miscali Valentina  – Articolo: Caratteristiche psicologiche nella sindrome fibromialgica: un’indagine esplorativa
  • Strada Irene  – Articolo: La stimolazione magnetica transcranica nella fibromialgia: potenziamento del trattamento farmacologico e variabili psicologiche implicate nella malattia
  • Vacchi Laura  – Articolo: Developmental dyslexia: a visual magnocellular impairment?
  • Vinciullo Francesca (Secondo classificato) – Articolo: Temperamento, carattere e stili parentali come predittori della tendenza alla ruminazione rabbiosa 

 

 

SEZIONE SENIOR:

VINCITORE: Simone Gori (1,2)

Che ha presentato il lavoro: Action Video Games Make Dyslexic Children Read Better

(1)Developmental and Cognitive Neuroscience Lab, Department of General Psychology, University of Padua, Padua 35131, Italy – (2)Developmental Neuropsychology Unit, Scientific Institute E. Medea, Bosisio Parini, Lecco 23842, Italy

ABSTRACT

Learning to read is extremely difficult for about 10% of chil- dren; they are affected by a neurodevelopmental disorder called dyslexia [1, 2]. The neurocognitive causes of dyslexia are still hotly debated [3–12]. Dyslexia remediation is far from being fully achieved [13], and the current treatments demand high levels of resources [1]. Here, we demonstrate that only 12 hr of playing action video games—not in- volving any direct phonological or orthographic training— drastically improve the reading abilities of children with dyslexia. We tested reading, phonological, and attentional skills in two matched groups of children with dyslexia before and after they played action or nonaction video games for nine sessions of 80 min per day. We found that only playing action video games improved children’s reading speed, without any cost in accuracy, more so than 1 year of sponta- neous reading development and more than or equal to highly demanding traditional reading treatments. Attentional skills also improved during action video game training. It has been demonstrated that action video games efficiently improve attention abilities [14, 15]; our results showed that this atten- tion improvement can directly translate into better reading abilities, providing a new, fast, fun remediation of dyslexia that has theoretical relevance in unveiling the causal role of attention in reading acquisition.

 

 

 

I dieci candidati finalisti che si sono distinti per la qualità dei lavori sottoposti: 

  • Agrillo Christian – Articolo: Musicians outperform nonmusicians in magnitude estimation: Evidence of a common processing mechanism for time, space and numbers
  • Basile Barbara – Articolo: Abnormal processing of deontological guilt in obsessive-compulsive disorder 
  • Bechi Margherita – Articolo: Theory of mind and emotion processing training for patients with schizophrenia: Preliminary findings
  • Colli Antonello (Secondo classificato) – Articolo: Patient Personality and Therapist Response: An Empirical Investigation
  • Dazzi Federico (Terzo classificato) – Articolo: Alterations of the Olfactory–Gustatory Functions in Patients with Eating Disorders
  • Fornasari Livia – Articolo: Navigation and exploration of an urban virtual environment by children with autism spectrum disorder compared to children with typical development
  • Gori Simone (Vincitore) – Articolo: Action Video Games Make Dyslexic Children Read Better
  • Grecucci Alessandro – Articolo: Reappraising social emotions: the role of inferior frontal gyrus, temporo-parietal junction and insula in interpersonal emotion regulation
  • Gugliandolo Maria Cristina – Articolo: A psychological pre-operative program: effects  on anxiety and cooperative behaviours
  • Ronconi Luca – Articolo: Zoom-out attentional impairment in children with autism spectrum disorder
     

 

Un grande ringraziamento ai membri della Giuria: Nino Dazzi, Franco Del Corno, Ettore Favaretto, Marcello Gallucci, Giorgio Caviglia, Eleonor Romero Lauro, Giovanni M. Ruggiero, Diego Sarracino e Sandra Sassaroli.

Si Ringrazia in particolare Studi Cognitivi (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale) Sponsor del Premio.

Ringraziamo tutti i partecipanti al Premio, invitandoli a collaborare con State of Mind: chi avesse piacere di cimentarsi nella scrittura giornalistica e divulgativa e nel dialogo tra colleghi, può proporsi come autore per il giornale.

State of Mind é un luogo di incontro tra professionisti di tutte le aree della salute mentale e della ricerca in psicologia e un promotore di una cultura psicologica informata e aperta anche ai non addetti ai lavori.

Crediamo che questo possa portare un utile servizio alla società e al tempo stesso migliorare la visibilità professionale per gli autori del Journal. 
INFORMAZIONI SU COME COLLABORARE CON STATE OF MIND:

I VINCITORI DELLA PRIMA EDIZIONE (2012) 

Tutte le manie di Bob (1991) – Cinema & Psicoterapia

Tutte le manie di Bob sembrerebbe il classico setting in cui un terapeuta cura un paziente fobico, ma la trama del film si sposta presto su altri temi: con toni cari­caturali rappresenta la violazione del rapporto medico-paziente. Bob rompe i confini della relazione ed entra nella vita privata del terapeuta…

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Tutte le manie di Bob

1991, film diretto da Frank Oz, interpretato da Bill Murray e Richard Dreyfuss. 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #15

 

Trama del film

Bob Wiley è un paziente fobico che viene inviato ad un collega dal terapeuta che lo segue. Leo Marvin, noto psichiatra di New York, lo prende in cura e gli consiglia la terapia “Baby Steps” sulla quale ha scritto il suo ultimo libro.

Quando Marvin decide di andare in vacanza con la famiglia, Bob si sente smarrito. La sua dipendenza lo spinge a raggiungere il terapeuta in villeggiatura. Marvin viene scovato nella casa in cui soggiorna con tutta la sua famiglia e prescrive a Bob di prendersi una vacanza dai suoi pro­blemi. Il paziente, invece, gli invade la casa, gli scompiglia la vita, giun­gendo a dormire con il suo pigiama nella camera del figlio. Bob trova la pace con se stesso e conquista la simpatia della sua famiglia, fino a spo­sare la sorella di Leo, mentre il povero Marvin, dopo una serie di tenta­tivi falliti di liberarsi del suo paziente, perde la testa.

 

Motivi di interesse

Richard Dreyfuss cura Bill Murray:

T: Di che cos’è che lei ha VERAMENTE paura, Bob?

P: E se smette di battermi il cuore? E se cerco un gabinetto e non riesco a trovar­lo? E se la vescica mi esplode?

Sembrerebbe il classico setting in cui un terapeuta cura un paziente fobico, ma la trama del film si sposta presto su altri temi: con toni cari­caturali rappresenta la violazione del rapporto medico-paziente. Bob rompe i confini della relazione ed entra nella vita privata del terapeuta. La sua dipendenza determina un comportamento sottomesso con timore di separazione che lo porta a invadere la privacy del suo tera­peuta. Una scena emblematica è quella in cui il Dr. Marvin, ormai esa­sperato dall’invadenza di Bob, lo lega insieme a diversi chili di esplosi­vo, senza che lui accenni alla minima protesta. Le rassicurazioni offerte dal terapeuta per Wiley sono più che sufficienti e naturalmente si guar­da bene dall’esprimere il pur minimo disaccordo, potrebbe perdere sup­porto e approvazione.

Bob pur di evitare di essere lasciato a provvedere a se stesso cerca di ottenere supporto accattivandosi le simpatie dei figli di Marvin e della stessa moglie che diventano molto accudenti nei suoi confronti, indi­spettendo Leo, messo sempre più ai margini. Quando il paziente con­quista anche la sorella dello psichiatra arriva il tracollo psichico e Marvin viene ricoverato in una clinica.

Il ribaltamento dei ruoli è abbastanza meccanico e grossolano, anche se il paradosso, sappiamo, qualche volta, senza giungere alle estreme conseguenze presentate dal film, è più verosimile di quanto si possa immaginare.

Il film si conclude con Bob che decide di studiare psicologia e prati­care la professione: ce l’ha fatta ed ora Leo avrà la concorrenza di un giovane collega.

 

Indicazioni terapeutiche:

  • La terapia è stata efficace?
  • La sofferenza del terapeuta che si spende per i suoi pazienti dà sempre frutti?
  • Fin dove ci si può spingere per aiutare un paziente?
  • I terapeuti hanno più ferite dei loro pazienti?
  • Cosa si può fare per non oltrepassare i confini?
  • Come si può regolare la distanza?…

Le domande aperte sopra riportate sono un ottimo canovaccio di discussione sia con gli allievi che eventualmente con alcuni pazienti che tendono a forzare il setting.

 

Una scena dal film:

 

Tutte le manie di Bob - Cinema & Psicologia

Dalla Manipolazione alla Dipendenza Affettiva – Psicologia & Relazioni

La dipendenza affettiva . - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comRicordate quanto detto sul manipolatore affettivo? Beh, esistono persone che facilmente ne diventano prede. Si tratta principalmente di coloro che percepiscono le cose con occhiali diversi a seconda delle occasioni, che falsano la realtà al punto da non accorgersi che si è finiti nella tela del ragno. Stiamo parlando di dipendenza affettiva.

La dipendenza affettiva è uno stato patologico nel quale la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria, per la propria esistenza. È la conditio sine qua non aldilà della quale non è possibile sopravvivere. Diventa la linfa vitale di cui quotidianamente nutrirsi.

Chi vive questo tipo di dipendenza attribuisce all’altro, oggetto d’amore, una importanza tale da annullare se stessi, non ascoltando i propri bisogni e le proprie necessità. Tutto questo per evitare di affrontare la paura più grande: la rottura della relazione!

I sintomi della dipendenza affettiva sono i seguenti:

  • terrore dell’abbandono e della separazione
  • evidente mancanza di interesse per sé e per la propria vita
  • paura di perdere la persona amata
  • devozione estrema
  • gelosia morbosa
  • isolamento
  • incapacità di tollerare la solitudine
  • stato di allarme e di panico davanti alla minima contrarietà
  • assenza totale di confini con il partner: la relazione è simbiosi e fusione
  • paura di essere se stessi
  • senso di colpa e rabbia

Le relazioni che instaurano queste persone non sono casuali, ma soddisfano il bisogno di avere a tutti i costi una relazione, quindi il luccicore delle false lusinghe mosse dall’altro funge da trappola che li induce ad intraprendere una nuova relazione. L’altro, persona forte e sicura di sé, tronfio del suo enorme ego, funziona da specchietto per le allodole.

La dipendente affettiva pensa al brillante futuro di protezione che potrebbe avere con questa persona, che a sua volta si ingaggia in una relazione affettiva con questa tipologia di soggetto solo perché ha bisogno di sottomettere qualcuno su cui esercitare la propria superiorità.

Sono dunque atteggiamenti e comportamenti che si incastrano perfettamente come la chiave alla serratura: ogni vittima esiste perchè esiste un carnefice e viceversa. Quindi, il manipolatore sceglierà una compagna sottomessa e insicura nella quale saprà trovare a poco a poco la zona vulnerabile che consentirà l’instaurarsi di un rapporto di dipendenza. L’area di vulnerabilità funge da gancio di traino, più lo aggancio bene più sottometto l’altro, che a sua volta soffre e per paura di sganciarsi si lascia tirare sempre di più, spesse volte fino al punto di ricevere danni fisici.

Il partner del dipendente avvilisce le debolezze di questa persona, sul piano del fisico, del carattere, della bellezza, dell’intelligenza, operando un costante confronto con un ipotetico altro sempre migliore. Alla lunga questo atteggiamento determina nel dipendente una maggiore insicurezza che porterà a reazioni di gelosia, di paura, “sicuramente sceglierà chi è meglio di me”.

Tutto questo porta nel dipendente alla formazione di un circolo vizioso che si autoalimenta, ovvero totale perdita di autostima e di autoefficacia, allerta continua, terrore della perdita, che si manifesta con un senso di ansia costante e un aumento nel controllo nella relazione.

Le radici di questo disturbo sono ataviche e infantili, ferite mai guarite, basate sull’apprendimento di un rifiuto precoce legato alla propria inadeguatezza, e per questo si perpetuano nella relazione di coppia. Il dipendente ama l’altro idealizzato, lo stesso amore che ha provato nella propria infanzia per un genitore irraggiungibile, che lo ha abbandonato, dal quale si è sentito tradito.

Per questo, la dipendenza si alimenta e si nutre del rifiuto, della svalutazione, dell’umiliazione, del dolore: non si tratta di provare piacere nel vivere tali difficoltà, ma di dare corpo al desiderio di essere in grado di cambiare l’altro, di convincerlo del proprio valore, di salvarlo, riuscendo a farsi amare da chi ama solo se stesso. Amare un partner realmente affettuoso e gentile porta ad annoiarsi, invece lo stare sulla corda, il rifiuto, la mancanza di certezza muove il desiderio. Naturalmente, si tratta di valutazioni errate che alimentano e mantengono il disturbo.

Questo comportamento è ulteriormente aggravato da una attribuzione di colpe che non si hanno: “io sbaglio e per questo lui si comporta in questo modo”, “se solo fossi meno gelosa tutto questo non succederebbe”, “se ha urlato e mi ha offeso così è perchè io l’ho fatto innervosire, ho tirato la corda”.

La soluzione? Difficile è il percorso e molto tortuoso, ma consiste nel vedere l’altro per quello che è, ovvero un manipolatore affettivo. Solo così è possibile uscire dalla trappola e liberarsi della dipendenza costruendo relazioni più sane.

Amare se stessi e a mettersi al centro della propria vita è la strada da intraprendere per passare dalla dipendenza all’indipendenza, ovvero concedersi la possibilità di farsi amare in modo sano e diventare sereni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Scienziati: personalità, processi di pensiero e disturbi!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ in gioco un’ottica di metaricerca e metaempirismo: che si può dire empiricamente di cosa è e come si operazionalizza, come si differenzia il pensiero degli scienziati rispetto ai non scienziati?

Se la psicologia si occupa di pensieri e comportamenti, se la scienza è una delle forme più importanti e interessanti di pensiero (e anche comportamento) allora la psicologia empirica può avere qualcosa da dire rispetto al pensiero scientifico in quanto fenomeno umano e squisitamente anche psicologico.

Una review interesante pubblicata sul British Journal of Psychology a nome di Gregory J. Feist fa il punto sulle ricerche chiave e contributi dell’ultimo ventennio riguardo lo studio empirico del pensiero scientifico e relativi correlati comportamentali.

E’ in gioco un’ottica di metaricerca e metaempirismo: che si può dire empiricamente di cosa è e come si operazionalizza, come si differenzia il pensiero degli scienziati rispetto ai non scienziati?

Si riconosce a Kevin Dunbar e Jonathan Fugelsang il coraggio di intraprendere questo innovativo tema di ricerca, con studi che si domandano quali sono i meccanismi neurali specificamente coinvolti del pensiero scientifico.

La review spazia dall’ambito della psicologia cognitiva –  in che modo il problem solving, i bias confirmatori, la creatività, il pensiero ipotetico deduttivo trovano specificità nel pensiero scientifico? – alla personalità: Quali variabili personologiche favorirebbero l’emergere del pensiero scientifico, l’impegno e il successo nell’ambito della ricerca? E infine spazio alla psicologia clinica, quali disturbi psicologici colpiscono maggiormente i ricercatori scientifici?  I ricercatori sono più o meno vulnerabili alla psicopatologia rispetto agli artisti?  

Un nuovo segmento di ricerca, carino per quei riceratori che si interrogano sui propri processi di pensiero e di azione scientifica.

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PSICOTERAPIA COGNITIVA PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’BIAS -EURISTICHE –

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Le madri interrotte di L. Bulleri e A. De Marco – Recensione

Recensione del libro

Le madri interrotte

Franco Angeli

(2013)

 

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Le madri interrotte Il libro “Le madri interrotte”, scritto da Laura Bulleri (giornalista) e Antonella De Marco (psicologa psicoterapeuta), edizione Franco Angeli, è pensato per tutte quelle donne che non hanno potuto vivere appieno le legittime gioie (e le naturali paure) di una gravidanza, a causa proprio di un lutto pre-natale o perinatale

L’attesa di un figlio è una delle fasi più importanti nella vita di una donna e certamente anche di un uomo, i progetti sembrano prendere forma dal momento della scoperta di una gravidanza fino alle ultime settimane: le aspettative proiettano la coppia in un futuro fatto di tante speranze.

Si comincia a pensare al nuovo bambino, a come sarà, a cosa farà e si comincia a immaginarsi genitori, a porsi mille interrogativi e a cercare un modo per accogliere al meglio la nuova vita. Tale clima di felice attesa viene però a frantumarsi nel modo più brusco quando, purtroppo, il feto non ce la fa a sopravvivere o è gravemente malato o malformato (andando incontro quindi ad aborti spontanei o volontari), oppure quando il bambino non supera i primi giorni di vita. Tali perdite privano la coppia della dimensione genitoriale, lasciando un grande vuoto e un grande dolore, reso più acuto dai sensi di colpa. Il sostegno sociale sembra venir meno poiché vi è la diffusa illusione che a volte sia meglio non parlare e non soffrire per tale perdita e far finta che nulla sia successo.

Il libro “Le madri interrotte”, scritto da Laura Bulleri (giornalista) e Antonella De Marco (psicologa psicoterapeuta), edizione Franco Angeli, è pensato per tutte quelle donne che non hanno potuto vivere appieno le legittime gioie (e le naturali paure) di una gravidanza, a causa proprio di un lutto pre-natale o perinatale. Le autrici cercano di raccontare, dando dapprima voce ai genitori interrotti e fornendo poi una descrizione dei vari processi psicologici attivi durante un lutto pre o perinatale, cosa può accadere a una coppia devastata da un tale lutto e, soprattutto, sottolineano l’importanza di darsi del tempo per accogliere il dolore, elaborarlo e, infine, trasformarlo.

Non a caso le autrici, nella prima parte del libro, raccolgono le testimonianze di alcune madri interrotte, dividendole in due parti: la prima che comprende il racconto vero e proprio di quanto accaduto durante o dopo la gravidanza e la seconda parte, chiamata “Il dono”, che fa riferimento a come è stato possibile per queste madri elaborare il lutto e averlo trasformato, talvolta, in qualcosa di positivo per le loro vite.

Un aspetto da apprezzare notevolmente di questo libro è il non aver pensato alle conseguenze di un lutto pre o perinatale sulle sole donne, le autrici danno infatti voce anche ai padri, a come loro hanno vissuto il lutto, al crollo delle loro aspettative e al loro “dono”, in che modo hanno cioè elaborato e trasformato la perdita.

Il libro si dispiega successivamente lasciando spazio ai vari processi psicologici coinvolti in un lutto pre o perinatale. Attraverso la spiegazione di ciò che un lutto comporta si ha come l’impressione di scorgere, tra le righe, il tentativo delle autrici di accogliere il dolore di tutte le madri interrotte, descrivendo ciò che è normale provare e vivere a seguito di un lutto, nonostante a volte ci si senta incomprese e confuse da tali sentimenti.

La parte relativa ai processi psicologici tocca, senza allontanarsi dall’argomento, altre tematiche importanti della maternità e di come queste si trasformino dopo un lutto pre o perinatale: dall’attaccamento agli altri parenti, dall’importanza del supporto sociale alla necessità di risolvere nodi problematici con le famiglie d’origine, da cosa succede a una coppia colpita dal lutto alle conseguenze sulla sessualità, dall’importanza di trasformare il dolore alle psicoterapie più idonee a sostenere una madre interrotta.

Molto raramente si nota un linguaggio forse un po’ scientifico per lettori con poca dimestichezza in campo psicologico. Tuttavia l’obiettivo delle autrici di riconoscere quanto il dolore per i lutti pre o perinatali, spesso ignorato, sia importante da conoscere ed elaborare al pari di qualsiasi altro lutto o trauma, sembra essere pienamente raggiunto.

La lettura è consigliata a tutte le madri e i padri interrotti e a tutte quelle figure professionali che ruotano intorno alla coppia e alla loro sofferenza, tra cui ginecologi, ostetrici, infermieri e psicologi.

 

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GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ FAMIGLIAACCETTAZIONE DEL LUTTO

AFFRONTARE LA MALATTIA E IL LUTTO (2013) – RECENSIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale nei pazienti con disturbo ossessivo compulsivo

 

 

Tcc per pazienti DOC. - Immagine: ©-fotovika-Fotolia.comIl Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) rappresenta uno dei disturbi d’ansia maggiormente invalidanti per i pazienti che ne soffrono, con notevole impatto sul funzionamento interpersonale e lavorativo.

Le più accreditate linee guida internazionali per il trattamento del DOC indicano come trattamenti first-line sia la terapia cognitiva comportamentale (TCC), sia la terapia farmacologica con inibitori della ricaptazione della serotonina (SRI). Purtroppo nella pratica clinica accade molto spesso che i pazienti, soprattutto quelli che hanno effettuato terapia farmacologica, non abbiano una adeguata risposta clinica; in questi casi si procede con 2 strategie alternative di augmentation alla terapia con SRI: l’aggiunta di un secondo farmaco, nello specifico un antipsicotico di seconda generazione (Risperidone, Quetiapina, Aripiprazolo, etc.) oppure l’aggiunta di una terapia cognitiva comportamentale. Le 2 strategie, volte ad ottenere un miglioramento della risposta, fino ad ora, venivano considerate ugualmente efficaci, anche se nessuno studio si era mai preoccupato di metterle a confronto.

In un recente lavoro, pubblicato su JAMA Psychiatry, un gruppo di ricercatori coordinati da Helen Blair Simpson, professoressa di Psichiatria presso il Columbia University Medical College della Columbia University di New York, ha effettuato, per la prima volta, questo confronto, con risultati davvero interessanti.

Lo studio clinico randomizzato, condotto dal gruppo statunitense, ha previsto il reclutamento di 100 pazienti con diagnosi prevalente di DOC, da almeno 12 mesi, di gravità moderata (punteggio alla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale [Y-BOCS] ≥ 16), in trattamento farmacologico con un SSRI alla dose massima tollerabile, da almeno 12 settimane. I pazienti arruolati sono stati quindi suddivisi, in modo casuale, in 3 diversi gruppi che, per 8 settimane, hanno aggiunto alla terapia farmacologica:

  • TCC basata sulla Esposizione combinata con Prevenzione della Risposta (40 soggetti);
  • Risperidone, un antipsicotico di seconda generazione (40 soggetti);
  • Placebo, in forma di compresse (20 soggetti).

La TCC basata sull’Esposizione combinata con Prevenzione della Risposta prevede: a) il contatto o esposizione, graduale o prolungata, con lo stimolo o la situazione che generalmente innesca i sintomi per un intervallo di tempo maggiore di quello generalmente tollerato; b) la prevenzione della risposta ossia l’interruzione dei comportamenti generalmente messi in atto dopo il contatto con lo stimolo o la situazione, per un tempo maggiore di quello generalmente tollerato. Il gruppo che ha ricevuto il trattamento psicoterapeutico, ha effettuato complessivamente 17 sedute con frequenza bisettimanale, con 2 sedute introduttive, 15 sedute con esposizioni e homework quotidiano rappresentato da almeno 60 minuti di auto-esposizioni.

Il gruppo trattato con Risperidone ha assunto una dose progressivamente crescente del farmaco fino ad un massimo di 4 mg al giorno. Anche il gruppo che ha assunto placebo è stato trattato con compresse di forma, colore e dimensioni uguali a quelle del Risperidone, in modo tale che né i pazienti né gli sperimentatori fossero in grado di distinguere i 2 gruppi (doppio cieco).

L’outcome primario è stato misurato in termini di gravità sintomatologica attraverso l’ Y-BOCS, la scala che rapidamente è diventata il punto di riferimento per la valutazione della gravità del DOC. La Y-BOCS, valutando la gravità piuttosto che il tipo o la frequenza dei sintomi, è in grado di fornire una buona misura del loro cambiamento; inoltre, essendo una scala di etero-valutazione, consente di evitare i bias tipici delle scale di autovalutazione.

I risultati più significativi dello studio sono stati 2.

Il primo è rappresentato dal primato della TCC con Esposizione combinata e Prevenzione della Risposta rispetto al placebo e al Risperidone; la terapia cognitiva in 8 settimane è in grado di fornire outcome superiori sia in termini di riduzione della gravità dei sintomi, sia in termini di miglioramento della qualità di vita e del funzionamento generale.

Forse, ancora più sorprendente il secondo dei risultati, che ha evidenziato assenza di differenze statisticamente significative tra Placebo e Risperidone, rispetto agli outcome considerati (fig. 1).

In termini clinici lo studio evidenzia che l’80% dei pazienti trattati con terapia di esposizione e prevenzione dei rituali risponde dopo 8 settimane di trattamento (il 43% ha presentato sintomi lievi), mentre solo il 23% dei pazienti che hanno assunto Risperidone e il 15% di quelli che hanno assunto placebo hanno presentato una risposta clinica.

Questi risultati suggeriscono che la migliore strategia di trattamento nei pazienti con OCD che risponde parzialmente ai farmaci SRI è la TCC basata sulla Esposizione e Prevenzione dei Rituali, migliore in termini di efficacia, migliore in termini di accettabilità e tollerabilità.

Sebbene lo studio sottolinei l’efficacia della TCC nel DOC, non bisogna dimenticare che esistono molti pazienti non-responder, così come pazienti nei quali permangono sintomi residui in grado di limitare pesantemente la qualità di vita. In tutti i casi di risposta non adeguata è necessario prendere in considerazione la possibile e frequente comorbilità con altri disturbi, in particolare con i disturbi di personalità, che, come ampiamente dimostrato, peggiorano gli outcome del trattamenti del DOC (Thiel et al., 2013).

Per ottimizzare la terapia del DOC bisogna quindi valutare in modo approfondito la co-occorrenza di disturbi di personalità e affrontare, in parallelo all’uso coerente di tecniche CBT, aspetti di questa patologia che possono permettere di interrompere fattori di mantenimento del DOC legati a problemi di personalità, o aumentare la collaborazione terapeutica, con la ragionevole speranza di ottenere risultati migliori e stabili.

 

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DISTURBO OSSESSIVO – COMPULSIVO – OCD – DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD

FARMACI – FARMACOLOGIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

Figura 1 - Grafico outcomes

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Esercizio fisico & Creatività – L’Ispirazione? Arriva con lo Sport!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori si sono domandati se l’esercizio fisico – praticato in maniera costante- potesse promuovere due ingredienti fondamentali della creatività: il pensiero divergente e convergente. 

Chi fa esercizio fisico regolarmente beneficerebbe di un maggior pensiero creativo. Questo l’esito di una ricerca da poco pubblicata su Frontiers in Human Neuroscience.

I ricercatori si sono domandati se l’esercizio fisico – praticato in maniera costante- potesse promuovere due ingredienti fondamentali della creatività: il pensiero divergente e convergente. 

Due tipologie di soggetti sono state reclutate per lo studio: da una parte coloro che effettuavano esercizio fisico con regolarità almeno quattro volte la settimana e persone non molto attive dal punto di vista sportivo.

I soggetti sono stati sottoposti a diversi test di pensiero e creatività, tra cui per esempio enunciare tutti i possibili usi di un oggetto (ad esempio una penna) e altri compiti associativi.

Le persone facenti parti del gruppo degli “sportivi” hanno ottenuto punteggi di performance significativamente superiori rispetto a coloro che non attuavano regolare esercizio fisico. In qualche modo dunque sembra che una regolare attività fisica possa favorire la flessibilità e la creatività del pensiero.

LEGGI:

ATTIVITA’ FISICA PSICOLOGIA DELLO SPORT

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: intervista a Giancarlo Dimaggio

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta, Co-Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Giancarlo Dimaggio, Psichiatra e Psicoterapeuta e Co-Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

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I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Stress e Salute: l’importanza di un approccio integrato

 

 

Stress e Salute- l'importanza di un approccio integrato. -Immagine: © Schlierner - Fotolia.comLe numerose evidenze scientifiche  fanno riflettere sull’importanza di adottare un approccio integrato nella prevenzione e nel trattamento delle patologie correlate allo stress, che miri al rilevamento degli indici non solo fisici, ma anche comportamentali e psicologici  potenzialmente responsabili dell’alterazione delle condizioni di salute.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un incremento delle cause di stress e appare chiaro quanto ognuno di noi possa essere esposto ai danni fisici e psicologici che da esso derivano.

Le evidenze scientifiche dimostrano l’impatto dello stress sull’alterazione delle condizioni di salute e l’importanza di un approccio integrato (Gaston et al., 1987; King et al., 1991; Chiu et al., 2003; Rosenkranz et al., 2003; Ross, 2005; Levy et al., 2006; Drossman, 2011).

Lo stress è sempre più diffuso, tanto da essere considerato la nuova patologia del secolo.

Per stress s’intende “La risposta non specifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata ad esso e proveniente dall’ambiente”. Dalle parole di Hans Selye (1956), considerato il padre del concetto di stress, si intuisce che di per sé lo stress non ha una connotazione negativa.

Esiste una forma positiva, detta “eustress”, che allena la capacità di adattamento individuale e permette il raggiungimento di obiettivi specifici. I problemi insorgono quando l’organismo entra in una condizione di “distress”, nel momento in cui le richieste dell’ambiente superano le risorse a disposizione. Se questa situazione si protrae nel tempo, l’organismo può produrre forme di risposta patologiche e difficilmente reversibili.

Secondo l’ AISIC (Associazione Italiana contro lo Stress e l’Invecchiamento Cellulare) il 70% delle morti in Italia sarebbe causata da malattie cardiovascolari, cirrosi epatiche, tumori, broncopatie cronico-ostruttive, malattie intestinali, tutte patologie legate allo stress o a comportamenti disfunzionali dovuti alla condizione di stress.

Questi dati fanno riflettere su quanto siano onerosi i costi individuali che ciascun individuo deve sostenere in termini di visite specialistiche, farmaci, giorni lavorativi persi, e danno l’idea della complessità e della gravità del fenomeno.

Negli ultimi anni stiamo assistendo all’aumento di patologie la cui origine pare essere un disturbo del funzionamento dei sistemi interni di autoregolazione, che provoca alterazioni in tutto l’organismo. L’ipotesi è che lo stress prolungato rappresenti il motore di questo circuito a cascata. Studi longitudinali hanno indagato il ruolo dello stress sul decorso delle malattie cutanee, in particolare due studi condotti su piccolo gruppi suggeriscono una correlazione tra il livello dello stress percepito e l’andamento clinico della psoriasi (Gaston et al., 1987) e della dermatite atopica (King et al., 1991), mentre uno studio condotto su studenti universitari ha evidenziato una correlazione stress e l’andamento clinico dell’acne (Chiu et al., 2003).

Alcuni studi mettono in relazione i disturbi funzionali digestivi con esperienze stressanti precoci vissute durante l’infanzia, ad esempio la morte di un genitore, l’abuso sessuale o la presenza di una relazione disfunzionale con il caregiver: tra pazienti con tali disturbi coloro che riferiscono storie di abuso fisico e psicologico risultano maggiori rispetto ai pazienti con disturbi gastroenterologici organici senza la presenza di tali esperienze traumatiche (Drossman, 2011; Ross, 2005).

In particolare, sembra che nei pazienti con sindrome da intestino irritabile la percentuale di anamnesi positiva per abuso sessuale  raggiunga una percentuale che varia dal 30 al 56 % (Levy et al., 2006). Tuttavia, i dati non sono ancora stati confermati e necessitano di ulteriori approfondimenti.

Le malattie cardiovascolari sembrano legate a fattori psicosociali che possono influenzare il verificarsi di un’aterosclerosi o di un evento cardiaco. In particolare, le Linee Guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari (Fourth Joint of the European Society of Cardiology, 2007)  fanno riferimento al livello socio-economico basso, presenza di stress lavorativo e familiare, mancanza di supporto sociale, tendenza all’ostilità.

Infine, per quanto riguarda il sistema immunitario, uno studio condotto nell’Università del Wisconsin ha dimostrato che uno stato psicologico negativo è correlato a una peggiore risposta al vaccino antinfluenzale (Rosenkranz et al., 2003), evidenziando come l’iperattivazione delle cortecce prefrontali determini l’attivazione dell’asse dello stress, con sovrapproduzione di cortisolo e conseguente inibizione della risposta immunitaria.

Le numerose evidenze scientifiche  fanno riflettere sull’importanza di adottare un approccio integrato nella prevenzione e nel trattamento delle patologie correlate allo stress, che miri al rilevamento degli indici non solo fisici, ma anche comportamentali e psicologici  potenzialmente responsabili dell’alterazione delle condizioni di salute.

LEGGI:

STRESS ABUSI E MALTRATTAMENTI NEUROPSICOLOGIA

Lo Stress come causa dei disturbi dell’umore

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Vergogna e Memorie Autobiografiche: l’impatto su Depressione, Ansia sociale e ideazione paranoide.

Caterina Conti.

 

 

Vergogna e memorie autobiografiche. - Immagine: ©-Yael-Weiss-Fotolia.comLa vergogna ha una funzione adattiva nel normale sviluppo, con un ruolo significativo nella promozione di comportamenti socialmente accettabili.

Nonostante il significato evolutivo, quando si presenta come emozione dominante e pervasiva, può contribuire all’evolversi di quadri di sofferenza psicologica.

Esperienze precoci con i caregivers connotate da vergogna come, per esempio, situazioni caratterizzate da umiliazioni, critiche, atteggiamenti degradanti o di sottomissione, hanno un impatto significativo sullo sviluppo dell’identità e sulle rappresentazioni di sé. Diversi studi mostrano l’associazione tra vergogna e sintomi psicopatologici nell’area dei disturbi alimentari, dell’ansia sociale, della depressione e del disturbo post-traumatico da stress. Le esperienze precoci di vergogna possono infatti avere valenza traumatica e generare elevati livelli di arousal, pensieri intrusivi, evitamento.

Infine, memorie legate a situazioni che hanno generato intensa vergogna possono essere integrate come parte centrale delle memorie autobiografiche e, come ampiamente discusso nella letteratura sulle esperienze negative con i caregivers, possono condizionare lo sviluppo di strategie di regolazione emotiva.

Un recente studio (Carvalho et al., 2013) analizza il ruolo delle strategie di evitamento esperienziale nel mediare l’impatto sui sintomi depressivi delle memorie di vergogna, considerando la natura delle esperienze negative che coinvolgono i caregivers e la centralità delle esperienze di vergogna vissute durante l’infanzia e l’adolescenza.

Il concetto di centralità si riferisce alla misura in cui queste memorie divengono punto di riferimento per l’identità personale e per lo sviluppo di aspettative e significati durante le successive esperienze di vita. I risultati mostrano che individui con memorie autobiografiche legate alla vergogna centrali presentano un maggior numero di sintomi depressivi, così come un ruolo altrettanto significativo e indipendente rivestono la frequenza e la natura delle esperienze di vergogna vissute con i caregivers.

 Emerge, inoltre, una maggiore tendenza a controllare o evitare emozioni, sensazioni, pensieri, sia da parte dei soggetti che percepiscono le esperienze di vergogna come fondamentali per la propria identità e storia di vita, sia da parte di coloro che ricordano un maggior numero di esperienze di vergogna e sottomissione legate a critiche e altri comportamenti problematici dei caregivers.

Come ipotizzato dagli autori, il tentativo di evitare le esperienze interne dimostra un ruolo chiave nel determinare l’impatto delle memorie di vergogna e della loro centralità sulla psicopatologia. Ricorrere in modo pervasivo all’evitamento di situazioni che possono evocare vergogna è emerso come un importante mediatore tra memorie di vergogna e sintomi. I risultati dimostrano che l’evitamento media sia l’impatto delle esperienze di vergogna vissute con i caregivers sui sintomi depressivi, sia l’associazione tra la centralità delle memorie di vergogna e lo sviluppo di sintomi depressivi.

Nonostante il campione sia composto da 161 soggetti provenienti dalla popolazione generale, quindi una popolazione non-clinica, questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche. Aprono una riflessione sull’importanza di esplorare queste esperienze all’interno della cornice del trattamento di pazienti che presentano una sintomatologia depressiva, e mettono in luce la funzione terapeutica della riduzione dell’evitamento degli stati interni, allo scopo di favorire nel paziente una diversa relazione con le memorie di vergogna e con i correlati emotivi, sensoriali e cognitivi che le costituiscono.

Ulteriori riflessioni sulla valenza clinica di un lavoro mirato su queste memorie emergono da un altro recente studio (Matos et al., 2013) che mette in luce l’impatto della vergogna e delle memorie di esperienze di vergogna su diverse forme di paura sociale: l’ansia sociale e la paranoia.

Lo studio pone in analisi la relazione tra la vergogna, la natura traumatica e la centralità delle memorie di vergogna e ansia e paranoia, su un campione non clinico di 328 soggetti. Gli autori si propongono lo scopo di esplorare i percorsi attraverso i quali esperienze precoci negative conducono allo sviluppo di una forma di ansia focalizzata sulla rappresentazione di sé come vulnerabile di fronte ad un altro ostile, minaccioso, dominante (paranoia) o focalizzata su vissuti di inadeguatezza, difettosità, scarsa attrattiva del sé e sul pericolo del rifiuto o del giudizio dell’altro (ansia sociale).

Gli esiti del lavoro suggeriscono l’esistenza di differenti storie evolutive, diverse funzioni e processi psicologici alla base della paranoia e dell’ansia sociale, pur essendo presenti aree di sovrapposizione tra le due dimensioni.

Dai risultati emerge una maggiore correlazione tra “vergogna esterna” (termine che denota una maggiore attenzione alla mente dell’altro e a come il sé è rappresentato al suo interno) e ideazione paranoide. D’altra parte, la “vergogna interna” (focalizzata sul sé e sugli stati interni) si rivela maggiormente associata all’ansia sociale.

Un altro interessante dato mette in luce che quanto più le memorie sono traumatiche e centrali per l’identità e la storia di vita, più alta è l’associazione con la dimensione della paranoia. La caratteristica traumatica e la centralità delle memorie sembrano essere fattori predittivi della paranoia, ma non dell’ansia sociale, indipendentemente dai vissuti di vergogna attuali.

Queste evidenze contribuiscono alla comprensione dei meccanismi che interagiscono con diversa intensità nel continuum su cui si dipana il pensiero paranoide e al cui estremo patologico troviamo il delirio persecutorio. Una lettura dei risultati alla luce del recente modello proposto da Salvatore (Salvatore et al., 2012) – al quale gli autori degli studi menzionati fanno riferimento -, porta a considerare il significativo ruolo delle precoci e traumatiche esperienze di vergogna nell’evoluzione delle rappresentazioni di sé.

In pazienti proni a vergogna e ansia sociale si è strutturata la rappresentazione di un sé vulnerabile, debole, inferiore, sottomesso, privo di potere e indesiderato a fronte di un altro percepito come dominante, ostile, che può ferire, rifiutare o perseguitare. Le memorie autobiografiche di vergogna contribuiscono a gettare le basi sulle quali si radica un costante senso di minaccia, nutrito dall’alterazione della capacità di comprendere la mente degli altri in modi che permetta di tenere in disparte le attribuzioni automatiche agli altri di intenzioni ostili.

Secondo Salvatore et al. (2012) il senso basico di vulnerabilità e le significative difficoltà di comprendere la mente dell’altro comportano un iperfunzionamento del threat/self protection system e impediscono l’accesso a sentimenti di sicurezza, elevando la vulnerabilità ai sintomi paranoidi.

La riflessione sui risvolti clinici dello studio invita i clinici a focalizzarsi, in pazienti con ansia sociale, depressione legata alla vergogna, e aspetti paranoidi, sulla ricostruzione delle memorie autobiografiche di vergogna e dei loro significati. Il paziente può essere invitato a focalizzare come principale obiettivo terapeutico sull’idea che il senso di vergogna sia legato all’idea di sé vulnerabile e oggetto di derisione o aggressione. Aiutare il paziente a prendere distanza critica da questa prospettiva accedendo a memorie di sé cariche di affetti positivi, discrepanti dallo schema, può essere una strategia fruttuosa (Dimaggio et al., 2013).

 

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BIBLIOGRAFIA:

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