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Mark Frank – Comportamento e inganno, refresh, review & update

 

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MARK FRANK – COMPORTAMENTO E INGANNO. REFRESH, REVIEW & UPDATE

MARK FRANK 2° SEMINARIO PADOVASapere leggere il comportamento non verbale e identificare indizi di possibile menzogna sono infatti capacità che possono tornare utili non solo in ambito professionale, ma anche nella vita di tutti i giorni.

Mark Frank, uno dei più illustri esperti di comunicazione non verbale al mondo, collega di Paul Eckman, che ha istruito il consulente scientifico della Casa Bianca, il Congresso degli Stati Uniti e le Accademie Nazionali delle Scienze sull’inganno e contro il terrorismo, è tornato in Italia con un imperdibile aggiornamento del 1° seminario tenutosi a giugno a Gorizia. 

In quest’occasione il Dott. Frank ha riproposto il training sul riconoscimento delle micro-espressioni facciali, che consiste nell’imparare ad individuare i movimenti facciali distintivi delle principali emozioni (paura, disgusto, disprezzo, gioia, tristezza, sorpresa, rabbia) per poter poi riconoscere tali espressioni quando compaiono sul volto di una persona in un brevissimo lasso di tempo (meno di mezzo secondo); spesso le micro-espressioni facciali  sono infatti il risultato del tentativo mal riuscito di celare la reale emozione provata e rappresentano quindi un segnale rivelatore che qualcosa non quadra.

È interessante il fatto che il miglioramento nel riconoscere le micro-espressioni, ottenuto in situazione sperimentale a seguito del training, si mantenga (seppur in percentuale minore) anche al di fuori del contesto di laboratorio. Il training quindi ha una sua utilità per tutte quelle professioni in cui è importante riuscire a capire se l’interlocutore sta mentendo o meno (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, poliziotti, etc.).

Il seminario ha inoltre affrontato l’applicazione dell’analisi del comportamento non verbale in differenti ambiti:

I rapporti interpersonali.

Il Dr. Frank ha illustrato come i segnali non verbali si modifichino nel corso dello sviluppo di una relazione, dal primo approccio indicativo di interesse (es. aumento della frequenza e della durata del contatto visivo, l’inclinazione del corpo l’uno verso l’altro, la presenza di contatto fisico…), ai primi appuntamenti (sincronizzazione dei comportamenti, aumento di sorrisi veri…) fino ad arrivare al matrimonio, in cui si osserva per esempio una maggiore reciprocità emotiva.

Il campo medico.

Il Dr. Frank ha mostrato casi in cui l’espressione delle emozioni è compromessa (es. chirurgia plastica, botulino…) e analizzato alcuni disturbi in cui il comportamento non verbale presenta delle caratteristiche particolari, come nella Personalità di tipo A (sopracciglia aggrottate, sguardo più intenso), nella depressione (tentativi di nascondere le emozioni negative e simulare quelle positive, espressività emotiva rallentata, comparsa di una maggiore percentuale di sorrisi veri con il progredire della terapia) e nella schizofrenia (espressioni emotive meno fluide e meno sincronizzate, non congruenti con il contesto).

Inoltre ha indicato quei segnali che, attraverso un’accurata analisi dell’ambiente, dell’aspetto del paziente, del suo approccio ai presenti e delle sue modalità di interazione, se integrati con una buona conoscenza psicopatologica, possono aiutare ad identificare i pazienti pericolosi. 

Il campo business. 

In questo ambito è importante saper cogliere, in caso di negoziazione, segnali di informazioni fasulle (nel caso di una contrattazione distributiva) oppure segnali di tipo emotivo (nel caso di una negoziazione cooperativa). Inoltre in caso di più soggetti in gioco, la capacità di saper leggere il comportamento non verbale può dare indizi su chi sia, nel gruppo, realmente il capo.

Il campo giuridico e legislativo. La capacità di saper interpretare correttamente i segnali non verbali ha un’indiscutibile importanza quando si devono intervistare dei testimoni o dei sospetti; a tal proposito il Dr. Frank ha mostrato quei segnali rilevatori che potrebbero indicare la possibile (mai certa) presenza di una menzogna e che, quindi, posso guidare l’intervistatore nella conduzione di un colloquio più mirato.

Sempre in campo giuridico-amministrativo gioca un ruolo fondamentale la capacità di individuare potenziali atti di violenza; si pensi alla lotta contro il terrorismo. Mark Frank ha illustrato alcuni interessanti studi recenti che hanno evidenziato il ruolo della presenza contemporanea di rabbia, disgusto e disprezzo all’interno di un discorso nel predire comportamenti violenti (Matsumoto et Al., 2012; 2013)

In conclusione, il seminario tenuto da Mark Frank a Padova non ha deluso le aspettative: interessante, molto utile, con la presentazione di una letteratura scientifica aggiornata di livello, in grado di trasmettere competenze trasversali a differenti ambiti professionali. Se dovesse tornare in Italia vi consigliamo di non perdere l’occasione di andarlo ad ascoltare: sapere leggere il comportamento non verbale e identificare indizi di possibile menzogna sono infatti capacità che possono tornare utili non solo in ambito professionale, ma anche nella vita di tutti i giorni.

LEGGI:

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE –  ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSION – CONGRESSI

 

Mi stai mentendo? Mark Frank insegna a smascherare le bugie

Intervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Pt.3

 

Il conflitto pt. 3

Il conflitto: componenti e processi cognitivi.

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2

 

Il conflitto- da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 3. -Immagine: © DreanA - Fotolia.comLa percezione che le azioni e opinioni altrui siano erronee e irrealistiche (ovvero dettate da bias) e che le proprie siano al contrario veritiere ed oggettive, gioca un ruolo importante nella progressiva evoluzione verso l’escalation nei conflitti interpersonali.

La caratteristica saliente dell’escalation a livello cognitivo è rappresentata dal fatto che gli agenti presentano una estrema polarizzazione delle proprie opinioni e posizioni (Winstok e Eisikovits, 2008); il meccanismo centrale della polarizzazione cognitiva è il bisogno estremo da parte degli agenti di mantenere un’immagine positiva di sé e, maggiore è tale bisogno, maggiore è parallelamente la resistenza nell’entrare in contatto con le opinioni altrui.

Il conflitto diventa una vera e propria invasione dello spazio mentale altrui (Martello, 2006b) e la relazione tende alla simmetria estrema (Arielli e Scotto, 2003). La comunicazione assume la forma di una struttura ricorsiva e gli atteggiamenti tendono a diventare simili, rispecchiandosi a vicenda (Coleman et al., 2007); il conflitto si trasforma in una gara alla conservazione del proprio vantaggio e le possibilità di uscirne senza costi o senza “perdervi la faccia” sono minime (Arielli e Scotto, 2003).

La polarizzazione del conflitto e l’escalation sono favoriti e alimentati da alcuni importanti biases cognitivi e percettivi (Anderson, Buckley e Carnagey, 2008). Con “bias” si intende una tendenza cognitiva sistematica ed erronea che permette di attribuire tendenziosamente caratteristiche positive e desiderabili a componenti salienti del proprio sé, come il proprio comportamento, i propri schemi conoscitivi, le proprie appartenenze sociali (Arcuri, 1995); per quanto erronei e parziali, i bias assolvono a importanti funzioni di salvaguardia dell’autostima, economizzazione di risorse cognitive e conoscenza sociale (ibid.).

In una recente rassegna, Pronin (2007) descrive i principali bias attivi durante i conflitti interpersonali.

Il Self-enhancement bias e il Self-interest bias svolgono entrambi una funzione protettiva nei confronti del Sé; il primo consente infatti alle persone di percepire le proprie caratteristiche di personalità come positive e desiderabili, il secondo influenza la tendenza a percepire le azioni come motivate da incentivi interni (autostima, successo) quando proprie e da incentivi esterni (ricavo economico) quando altrui. Entrambi permettono ai singoli individui di garantire una valutazione positiva alle proprie motivazioni e opinioni, mantenute e difese per la loro genuinità e veridicità, opponendole alle opinioni altrui, percepite come dettate da interessi ideologici o personali.

I bias rappresentano una fonte di ancoraggio per leggere e interpretare le informazioni provenienti dal contesto sociale e relazionale e permettono di guidare il proprio comportamento (Arcuri, 1995); essi sono già attivi durante l’infanzia, come dimostrato da una ricerca di David e Kistner (2000), in cui bambini di 8-11 anni mostravano una maggiore attribuzione di biases positivi rivolti al proprio Sé quando percepivano una maggiore accettazione da parte dei pari.

Sebbene i bias siano riconosciuti come indesiderabili, le persone tendono a non identificarli quando messi in atto da loro stesse ma, al contempo, a rintracciarli con molta facilità nelle altre persone, soprattutto in quelle con cui entrano in conflitto; le persone tendono cioè ad attribuire la presenza di bias tendenziosi solo alle azioni e intenzioni altrui e raramente alle proprie. Secondo Pronin (2007) questo errore sistematico nella percezione e attribuzione dei bias costituisce la prova del fatto che gli esseri umani, all’interno delle dinamiche relazionali, tra cui anche il conflitto, pensano e agiscono come “realisti naïf”.

Il realismo naïf consiste nella credenza da parte degli individui di vedere la realtà circostante in maniera oggettiva e senza pregiudizi; questa credenza induce ad assumere che il motivo per cui le altre persone non condividono la stessa visione del mondo e della realtà risiede nella loro mancanza di capacità o di volontà nel vedere i fatti in maniera realistica e oggettiva.

 

Questa attribuzione arbitraria rende inclini le persone a ritenere, come già anticipato sopra, che le opinioni altrui siano influenzate da interessi personali, ideologie, appartenenze sociali e/o politiche.

Partendo da questa base teorica, Kennedy e Pronin (2008) in un recente studio hanno esplorato l’ipotesi secondo cui la percezione che le azioni e opinioni altrui siano erronee e irrealistiche (ovvero dettate da biases) e che le proprie siano al contrario veritiere ed oggettive, giochi un ruolo importante nella progressiva evoluzione verso l’escalation nei conflitti interpersonali.

L’impianto di ricerca delle autrici prevede quattro steps.

Il primo studio ipotizza che maggiore è la percezione di distanza e divergenza tra agenti maggiore sarà la tendenza ad imputare bias alle altrui opinioni.

Il secondo esplora l’ipotesi per cui la scelta di cooperare piuttosto che di competere sia preferibilmente messa in atto quanto più si percepisce minore distanza tra opinioni.

Il terzo studio si basa sulla supposizione che l’attribuzione di bias tra due agenti sia reciproca e bidirezionale e che questo provochi un circolo vizioso tra attribuzioni negative e azioni aggressive.

Il quarto studio, infine, ipotizza che la tendenza a cooperare sia dettata dalla percezione del proprio oppositore come obiettivo e a sua volta disposto alla cooperazione, e che, al contrario, la tendenza a competere sia maggiore quando le intenzioni del proprio oppositore sono percepite come provocatorie e competitive.

In tutti e quattro gli studi i partecipanti sono invitati a esprimere il proprio grado di accordo/disaccordo su tematiche sociali o politiche importanti e a confrontarsi con alcuni oppositori  non presenti ma che essi ritengono reali; le opinioni degli oppositori, divergenti a diversi gradi da quelle dei partecipanti, rappresentano in realtà la variabile indipendente degli autori e sono state create ad hoc per la condizione sperimentale. Le ipotesi iniziali delle autrici sono state tutte confermate. In particolare, i risultati permettono di affermare che:

– le persone sono inclini ad attribuire a coloro con cui entrano in conflitto la presenza di bias e a ritenere che questi errori cognitivi sistematici impediscono ai loro oppositori una visione oggettiva della realtà;

– maggiore è la distanza percepita tra opinioni proprie e altrui, maggiore sarà la tendenza a mettere in atto strategie comunicative e comportamentali competitive (tra cui l’aggressività fisica e verbale) piuttosto che cooperative;

– l’attribuzione di bias e di opinioni irrealistiche non è mai bidirezionale bensì circolare e reciproca, per cui entrambe le parti coinvolte in un conflitto ritengono che le proprie opinioni siano oggettive e scevre da bias, in maniera diametralmente opposta a quanto pensano delle opinioni altrui.

Le autrici descrivono l’escalation come una vera e propria spirale del conflitto, alimentata dalla reciproca attribuzione di bias e dall’irrigidimento sulla propria posizione; l’inclinazione a percepire le ragioni altrui come dettate da convinzioni erronee favorisce la messa in atto di strategie competitive che inaspriscono il conflitto piuttosto che portarlo a una risoluzione e questo, in maniera ricorsiva, favorisce la stessa percezione e la stessa scelta comportamentale da parte dell’oppositore, mantenendo viva la spirale dell’escalation (Pronin, 2007; Kennedy e Pronin, 2008).

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE – 

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – BIAS – EURISTICHE

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

State of Mind intervista:

Allen Frances

Chair della task force del DSM IV, Professore Emerito alla Duke University.

 

LEGGI TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

State of Mind videointervista il Dr. Allen Frances, supervisore della task force per la stesura del DSM-IV, che nel suo nuovo libro intitolato Primo, non curare chi è normale (Bollati Boringhieri), da noi recensito in anteprima, lancia un grido di allarme nei confronti del DSM-5, definito un autentico fiasco.

 

Il DSM-5 porta con sé il rischio di un’iperinflazione diagnostica e ad una conseguente medicalizzazione di quei problemi di vita quotidiana che fanno parte dell’esistenza umana arrivando a curare anche chi è normale.

 

Prof. Frances, qual è la differenza tra il DSM-IV e il DSM-5?

Per quanto riguarda il DSM-IV eravamo tremendamente preoccupati per l’inflazione diagnostica, pertanto abbiamo stabilito dei criteri molto alti per i cambiamenti. Non volevamo che il sistema si espandesse ancora. Per tenere gli esperti sotto controllo abbiamo detto loro che dovevano portare a supporto delle proprie ipotesi una rassegna accurata della letteratura, una rianalisi dei dati, trial sul campo… tutto ciò a sostegno del fatto che queste nuove diagnosi fossero più d’aiuto che dannose. Ricevemmo 94 suggerimenti per nuove diagnosi e ne accettammo solamente 2. Non volevamo essere diversi, volevamo contenere la crescita delle diagnosi psichiatriche, non espanderla.

Il DSM-5 all’inizio aveva una fortissima ambizione: voleva rappresentare un cambiamento di paradigma nella psichiatria. Così ha dato agli esperti completa libertà: “Si può discutere di ogni cosa, siate innovativi”. E gli esperti lo sono stati. Se lasci controllare agli esperti il sistema diagnostico, lo espanderanno sempre di più. Lavoro con esperti da 35 anni, non ne ho mai visto uno saltar su e dire: “Sai, penso che la mia area diagnostica sia troppo vasta, perché non la riduciamo?”. Vogliono sempre allargarla, pensano sempre alla propria pratica. Lavorano in cliniche di ricerca, trascorrono molto tempo con i loro pazienti, hanno grande competenza riguardo al problema, e ciò che scrivono nel manuale forse può avere un senso per loro, ma è un disastro nella pratica comune.

Il DSM-5, espandendo il sistema, ha creato l’attuale inflazione diagnostica e il rischio è che l’attuale inflazione diagnostica diventi un’iperinflazione diagnostica, e sempre più persone saranno erroneamente diagnosticate affette da un disturbo.

Nella prefazione al Suo libro, “Primo, non curare chi è normale” scrive che il testo è in parte un mea culpa, in parte un j’accuse. Può spiegarci come mai?

In realtà ho detto di più: è un mea culpa, un j’accuse e un grido d’allarme. È un mea culpa perché quando abbiamo completato il DSM-IV pensavamo di aver fermato l’inflazione diagnostica, pensavamo di aver fatto davvero un buon lavoro. Il risultato è stato che negli USA sono scoppiate tre epidemie dall’uscita del DSM-IV: un’epidemia di ADHD, un’epidemia di Autismo e un’epidemia di Disturbo Bipolare. Il Disturbo Bipolare negli USA è raddoppiato in questi anni, l’Autismo è aumentato di quaranta volte e l’ADHD è triplicato. Pensavamo di aver contenuto l’inflazione diagnostica, ma abbiamo fallito. Questo è il mea culpa: non abbiamo previsto quanto fossero potenti le case farmaceutiche e 3 anni dopo la pubblicazione del DSM-IV hanno ottenuto il diritto di fare pubblicità diretta presso i consumatori. Immagina di guardare la tv o navigare su internet e vedere costantemente pubblicità inerente malattie mentali. Ciò dà una fortissima spinta alle vendite di farmaci, dando alla persone l’idea che ogni disturbo mentale ha a che fare con un equilibrio chimico e che la cura è quindi prendere le loro pillole, che la diagnosi psichiatrica è facile da formulare, largamente sottostimata, e che il medico di base può velocemente, in 7 minuti, formulare una diagnosi e prescrivere il farmaco. L’80% dei farmaci prescritti per pazienti psichiatrici è prescritto da medici non psichiatri, solitamente in 7 minuti. Credo che noi pensassimo di aver contenuto l’inflazione diagnostica, ma non è stato così, e questo è il mia culpa.

Il j’accuse è rivolto all’industria farmaceutica che confonde il pubblico, ai medici che sovra-prescrivono i farmaci per problemi di ogni giorno, e al DSM-5 che anziché contenere l’inflazione diagnostica ha spalancato le porte e ci saranno sempre più persone, milioni di persone normali – forse decine di milioni -, che riceveranno diagnosi di cui non hanno bisogno e trattamenti che probabilmente faranno loro più male che bene.

Il grido di allarme invece riguarda una questione molto triste; noi abbiamo questo tremendo paradosso: sovra-diagnostichiamo e sovra-trattiamo persone che non ne hanno bisogno, ma al tempo stesso ignoriamo terribilmente persone che soffrono di gravi malattie mentali che hanno un disperato bisogno di aiuto. Abbiamo chiuso un milione di posti letto per malati psichiatrici negli USA negli ultimi quindici anni, come per la deistituzionalizzazione in Italia. Ma c’è un’enorme differenza: in Italia i soldi risparmiati con la riduzione delle ospedalizzazioni sono stati utilizzati per prendersi cura dei pazienti nella comunità, dando loro un posto decente dove vivere; in tutto il mondo il miglior sistema che si prende cura dei pazienti gravi è quello italiano. Fate molto di più per curare i pazienti gravi in condizioni di dignità di quanto abbia mai visto fare nel resto del mondo. Negli USA accade esattamente l’opposto. Il denaro risparmiato con la chiusura dei posti letto non è stato utilizzato per prendersi cura dei pazienti, ma è stato usato in modo davvero strano: abbiamo chiuso un milione di posti letto psichiatrici e abbiamo aperto un milione di posti letto in prigione per pazienti psichiatrici che hanno commesso crimini minori, non particolarmente violenti, ma per i quali non esiste un posto dove andare per essere curati come pazienti. La polizia, la prima ad essere contattata, sa che dovrebbe portarli al pronto soccorso psichiatrico, ma non vengono accettati, non ottengono una visita; li portano invece in prigione. Abbiamo un milione di pazienti psichiatrici in prigione che sono terribilmente umiliati, che sono vulnerabili, che subiscono frequentemente violenza sessuale – 200000 abusi sessuali all’anno, la maggior parte dei quali ai danni di pazienti psichiatrici. Stiamo trattando la parte più svantaggiata di malati mentali ignorandoli e mandandoli in prigione e allo stesso tempo iper-curiamo persone che guarirebbero da sole, spendendo 18 miliardi di dollari in antipsicotici all’anno, 12 miliardi di dollari all’anno in antidepressivi, 7 miliardi all’anno in stimolanti…dovremmo spendere denaro per le persone realmente malate, non dovremmo spenderlo per persone che non ne hanno bisogno. Questo è il mio grido di allarme.

Il DSM-5 si è posto la grande ambizione, Lei ha scritto esagerata, di un cambiamento di paradigma della diagnosi psichiatrica (introducendo il contributo delle neuroscienze, la prevenzione e la valutazione dimensionale), ma ha fallito. Perché?

Riguardo ai test biologici non puoi dire “voglio dei marker biologici” e aspettarti che semplicemente compaiano. Il cervello è la cosa più complicata al mondo, abbiamo tanti neuroni nel nostro piccolo cervello da 1300 gr quante sono le stelle in una galassia (centinaia di miliardi), ognuno dei quali è connesso con altri migliaia di neuroni, ognuno dei quali scarica un migliaio di volte al secondo. E per raggiungere il posto in cui si trovano, vanno incontro ad una strana coreografia e ad una migrazione cellulare molto complicata, e sapersi connettere al giusto posto è un sistema meravigliosamente molto complesso. Stiamo gradualmente comprendendo come funzionano i neuroni, ma non abbiamo ancora trovato alcun modo per ottenere dei test biologici per i disturbi psichiatrici…siamo molto lontani dal riuscirci. È molto difficile con il cancro al seno! Venti anni fa abbiamo scoperto i geni coinvolti nel cancro al seno, eppure ancora capiamo molto poco del tumore al seno ed il seno è l’organo più semplice del corpo umano; il cervello è la cosa più complicata dell’intero universo. Ci vorrà molto tempo prima di poter comprendere biologicamente i disturbi mentali. Non esiste una sola schizofrenia, ma esistono centinaia e centinaia di cause per la schizofrenia. Non dovremmo attenderci una rivoluzione biologica nella diagnosi psichiatrica prima del tempo, il momento non è ancora arrivato. Quindi il DSM-5 ha fallito perché si è posto un’ambizione ridicola.

L’ambizione di un sistema dimensionale era utile. I numeri funzionano meglio dei nomi nel descrivere le cose, ogni qual volta si è in grado di fornire dei numeri. Ma il cervello non funziona in questo modo: i computer pensano con i numeri, ma il nostro cervello pensa con le parole. Quella che indosso è una maglietta blu…questa è sicuramente una descrizione molto vaga della maglietta, ma raggiunge il suo scopo. Se tu stessi conducendo un esperimento di fisica, ti interesserebbe sapere la lunghezza d’onda del colore della maglietta e certamente sarebbe molto più accurato. Il problema è che è molto più difficile pensare in lunghezze d’onda, la mente non lo fa! I clinici non pensano per numeri, ma per nomi (gli psicologi forse usano più i numeri rispetto agli psichiatri…).

Il DSM-5 ha cercato di sviluppare un sistema diagnostico dimensionale, soprattutto per quanto riguarda i disturbi di personalità, e questa è davvero una bella idea. Una delle prime cose che scrissi fu proprio sulla diagnosi dimensionale vs categoriale dei disturbi di personalità. Vent’anni fa scrissi un articolo intitolato Dimensional Diagnosis for Personality Disorder – Not Whether But When. L’approccio dimensionale è chiaramente superiore perché i disturbi di personalità si fondono impercettibilmente con la normalità, con i disturbi di Asse I, con le condizioni di stress situazionale… Non hanno dei confini chiari e in questo caso i numeri sono una soluzione migliore rispetto ai nomi perché le etichette implicano l’assenza di sfumature (o è bianco o è nero), mentre le dimensioni permettono di descrivere anche le sfumature di grigio. Il problema è che il DSM-5 ha sviluppato un sistema di diagnosi talmente complicato che nessuno, a parte le persone che vi hanno lavorato sopra, sarebbe stato in grado di capirlo; un sistema che non è stato mai testato, così fatto male che alla fine all’ultimo minuto è stato escluso dalla nomenclatura ufficiale, tant’è che il DSM-5 è rimasto esattamente uguale al DSM-IV per quanto riguarda i disturbi di personalità. Sarebbe stato meglio avere un sistema dimensionale molto semplice da introdurre gradualmente, permettendo alle persone di prendervi confidenza, anziché cercare di introdurre qualcosa di così rivoluzionario che alla fine si è dovuto accantonare.

I due punti di cui abbiamo parlato non procurano comunque alcun danno. Il fatto che non ci siano test biologici nel DSM-5 ce lo aspettavamo. Il fatto che la valutazione dimensionale non sia stata inclusa non determinerà la morte di nessun paziente. Ma il terzo tentativo di creare una modifica di paradigma credo crei dei danni: sto parlando del tentativo di introdurre una sorta di psichiatria preventiva. Siamo afflitti? Allora abbiamo un “Disturbo Depressivo Maggiore”. Abbiamo preoccupazioni per la salute fisica? Questo diventa “Disturbo Da Sintomo Somatico”. I miei problemi nel ricordare le cose ora che ho 71 anni? Questo diventa “Disturbo Cognitivo Minore”. La mia tendenza a mangiare tutti questi biscotti e qualsiasi cosa ci sia su questo tavolo diventa “Disturbo da Abbuffata Compulsiva”, i miei nipoti capricciosi soffrono di “Disturbo del Temperamento Irregolare”. Le definizioni dei disturbi sono state rese più lasse rendendo più facile per le persone normali essere mal etichettate. L’idea era di seguire le orme della medicina. In medicina negli ultimi 30 anni c’è stato il desiderio di diagnosticare in anticipo e di conseguenza trattare in anticipo: se riesci a prendere in anticipo il problema è meglio che prenderlo una volta che si è sviluppato; sarebbe più semplice prevenire che curare. Questa è una grande idea sulla carta, ma una terribile idea in pratica e troviamo sempre più in medicina una rivoluzione contro gli interventi precoci che sono risultati molto spesso più dannosi che di aiuto. Dieci associazioni professionali mediche hanno fatto partire una campagna di «Scelta oculata» cercando di identificare quei test e quei trattamenti che sono eccessivi. Il British Medical Journal si sta fortemente impegnando a correggere la tendenza dei giornali a pubblicare sempre risultati positivi che incoraggiano sempre più trattamenti focalizzandosi sulla sovra-diagnosi e sul sovra-trattamento in generale in medicina. La psichiatria con il DSM-5 ha imboccato la via della prevenzione proprio quando il resto della medicina si è accorta che tale via è stata ampiamente sopravvalutata. Molto spesso la prevenzione è più dannosa che d’aiuto. Per esempio, i test per lo screening del cancro alla prostata oggi sono sconsigliati a meno che non ci siano fattori di rischio particolari; questo perché il trattamento per il cancro alla prostata è peggiore del cancro stesso.

 

A proposito di cambiamenti di paradigma, come ha affermato in precedenza, riguardo i disturbi di personalità sembrava dovesse esserci una grande rivoluzione che ha scatenato molte polemiche riguardo il passaggio da un sistema categoriale ad uno dimensionale e riguardo i disturbi da mantenere. Alla fine, però, come ha detto anche Lei, nulla è cambiato perché nel DSM-5 leggiamo: “I criteri per i Disturbi di Personalità nella Sezione II del DSM-5 non sono cambiati rispetto a quelli del DSM-IV. È stato sviluppato un approccio alternativo per la diagnosi dei Disturbi di Personalità per studi futuri”, quindi per la ricerca. Secondo lei questo è un bene o un male per la psicologia clinica e per la psichiatria?

È stata un’opportunità mancata, hanno finito col dare un nome sbagliato alla dimensionalità. Se fosse stato introdotto nel DSM-5 un sistema semplice di dimensionalità, questo sarebbe stato un passo avanti nell’insegnare ai clinici ed ai pazienti a pensare in termini di sfumature di grigio, non solo in termini bianco o nero. Purtroppo è stata un’opportunità mancata e la cosa peggiore è che probabilmente scoraggerà le persone in futuro dall’includere le dimensioni nel sistema, che è il modo migliore per descrivere le persone; perché non abbiamo confini definiti per distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è, e le sfumature possono fornire una descrizione migliore.

 

Il Prof. Kernberg in una lectio magistralis tenutasi a Milano 2 anni fa in cui si discuteva della nuova concettualizzazione proposta per i Disturbi di Personalità, ha dichiarato “Lasciatemi dire che il sistema di classificazione americano finge di essere un sistema scientifico. Non lo è. È un sistema politico e riflette la forza dell’impegno ideologico dell’American Psychiatric Association”. Qual è la Sua opinione in merito?

Non è né un sistema scientifico né solo un sistema politico. È un sistema clinico. La psichiatria descrittiva non è il modo migliore per descrivere le persone, sarebbe molto meglio avere una comprensione base delle forze biologiche, psicologiche e sociali che concorrono a creare la malattia mentale, ma non l’abbiamo. A questo punto noi facciamo una cosa molto semplice: prendiamo una descrizione molto superficiale di una persona e creiamo delle categorie. Questo perché è ciò che di meglio abbiamo, non è fantastico, ma è ciò che di meglio abbiamo. Avere un sistema descrittivo categoriale permette valutazioni affidabili tra clinici differenti e facilita la comunicazione. Tutto ciò è limitativo, ma valido. Non mi fiderei di qualcuno che crede esclusivamente nelle diagnosi del DSM e non cerca di comprendere qualcosa in più della persona, del contesto sociale; focalizzarsi solamente sui criteri è un lavoro assolutamente incompleto per comprendere l’essere umano. Ippocrate ha detto: “è molto più importante conoscere il paziente che ha la malattia che non la malattia che ha il paziente”. Abbiamo bisogno di capire i nostri pazienti, non semplicemente categorizzarli nel DSM. D’altra parte non credo mi fiderei nemmeno di chi non conosce il DSM. Capire le cose che le persone hanno in comune quando facciamo una valutazione è importante tanto quanto capire cosa li rende unici e speciali in quanto individui singoli. La diagnosi attraverso il DSM è il primo step in un processo di valutazione, uno step importante, ma non l’unico.

 

Sempre in riferimento ai Disturbi di Personalità, il Prof. Kernberg denunciava che la stesura del DSM-5 ha fortemente risentito della diatriba tra la psicologia clinica e la psicologia sperimentale e della tendenza odierna a sposare una visione neurobiologica radicale fortemente influenzata dall’industria farmacologica, alla ricerca di caratteristiche che permettano il trattamento dei sintomi con psicofarmaci. Cosa ne pensa? Si sta tentando una medicalizzazione anche dei Disturbi di Personalità?

Credo che il modello migliore sia il modello biopsicosociale che riconosce che il cervello è importante, soprattutto nei casi di malattie gravi, che i fattori psicologici hanno una forte influenza sullo sviluppo del disturbo e sul trattamento, così come il ruolo del contesto sociale. La NIH (National Institute Of Health in USA) ha criticato il DSM perché non è abbastanza biologico e voleva che si passasse ad un paradigma strettamente biologico per i disturbi psichiatrici. Che idea stupida! L’American Psychological Association e la British Psychological Society hanno suggerito che il modello biologico venisse abbandonato assieme alla diagnosi psichiatrica, e che ci si focalizzasse sui fattori psicosociali. Se ciò può avere un senso per alcuni modelli, non ha assolutamente senso per i disturbi gravi che hanno una forte componente biologica. Tutti vogliono cambiare paradigma, ma il paradigma biopsicosociale, per quanto incompleto, è il migliore che abbiamo. Credo che il problema degli USA sia che gli psichiatri si muovono verso un modello più biomedico, gli psicologi tendono a muoversi più verso un paradigma psicosociale. Entrambi sono errati ed incompleti, i tre aspetti devono essere uniti tra loro per poter realmente capire i pazienti.

Credo che l’idea che l’industria farmaceutica influenzi il DSM sia sbagliata. Le case farmaceutiche, nella mia esperienza, non lo hanno mai influenzato. Gli esperti invece hanno dei conflitti di interesse intellettuali, ma non credo che abbiano dei conflitti di interesse finanziari. Le persone che lavorano alla stesura del DSM portano dei suggerimenti che io ritengo essere pericolosi: ogni esperto ritiene che la propria area di competenza sia la più importante e vuole espanderla. Le case farmaceutiche stanno già sfruttando a proprio vantaggio il DSM-5, stanno già dicendo ai medici che l’essere afflitti spesso è un Disturbo di Depressione Maggiore. Ho visto che farmaci che vengono utilizzati per curare l’ADHD sono risultati efficaci anche nel trattamento del Binge Eating Disorder ed il fatto che il Binge Eating Disorder compaia nel DSM-5 dà la possibilità alle case farmaceutiche di promuovere gli psicostimolanti, che già sono utilizzati per l’ADHD più del dovuto, anche per il Binge Eating Disorder, anche in questo caso più del dovuto.

Perciò credo che il DSM-5 possa essere facilmente mal utilizzato dalle case farmaceutiche e questo è un grave problema che porterà allo svilupparsi di nuove epidemie. Credo che la soluzione sia fermare il marketing delle case farmaceutiche che confonde i pazienti. Ma non credo che le persone che lavorano per il DSM siano influenzate dalle case farmaceutiche.

 

Se fosse stato Lei a capo della task force del DSM-5, quali modifiche avrebbe apportato al DSM IV?

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Articolo consigliato: recensione di: Primo, non curare chi è normale.

Credo che il problema più grande in questo momento sia che il sistema è stato abusato. Sarebbe bello avere dei grandi warning box per quelle diagnosi di cui i clinici hanno abusato ampiamente con la conseguenza di eccessivi trattamenti. Penso al Disturbo Bipolare Infantile che il DSM-IV aveva rifiutato, ma che sotto la spinta delle case farmaceutiche è diventato 40 volte più comune. Io proporrei di prendere il DSM e guardare disturbo per disturbo quali sono le diagnosi più abusate, segnalare di fare attenzione indicando quali sono i criteri per un’appropriata diagnosi nel tentativo di sopprimere l’inflazione diagnostica. Credo che il problema più grosso che emerse nel DSM-III fu Il Disturbo Depressivo Maggiore: per come è descritto nel DSM, spesso non è maggiore, spesso non è depressivo, spesso non è un disturbo. Questo perché nel DSM-III erano legate insieme le forme di depressione più lieve e le forme più gravi di melanconia e depressione delirante che hanno una forte componente biologica. Queste furono messe insieme nella stessa categoria e le differenze all’interno della categoria espresse da sottotipi: sottotipo melanconico, sottotipo delirante… e dalla gravità. Ma le case farmaceutiche hanno trattato i singoli disturbi come se fossero un unico disturbo ed era facile riconoscersi nel Disturbo Depressivo Maggiore: tristezza, perdita di interesse, perdita di appetito, perdita di energia, insonnia per almeno due settimane. Facile riconoscersi! Le persone che soffrono di depressione stagionale non dovrebbero essere inserite nella stessa categoria dei pazienti che soffrono di grave depressione delirante o di melanconia. Io avrei cercato di separarle, togliendo la possibilità alle case farmaceutiche di dire che è tutto una questione di equilibrio chimico. L’11% della popolazione adulta fa uso di antidepressivi, il 25% ne ha fatto uso. La depressione è ampiamente sovra-diagnosticata nelle forme più lievi e sovra-trattata, in parte a causa dei difetti del DSM. E allo stesso un tempo un terzo delle persone che soffrono di grave depressione non è giunto all’attenzione del sistema sanitario nell’anno precedente. Io avrei focalizzato il sistema diagnostico sui disturbi più severi, che spesso vengono mancati, dando minore attenzione alle manifestazioni più lievi che fanno alla fine parte della vita di ogni giorno e vengono invece ingigantite.

 

Il grande pericolo che il DSM-5 porta con sé è l’iperinflazione diagnostica. Nel suo libro rimarca più volte il ruolo giocato dalle case farmaceutiche. Non ritiene che mettersi contro i colossi farmaceutici sia una lotta contro i mulini a vento?

È la battaglia di Davide contro Golia, ma alla fine Davide ha vinto! Davide ha recentemente vinto la battaglia contro le compagnie del tabacco, una battaglia molto simile a quella contro le case farmaceutiche. Se si togliesse alle case farmaceutiche la possibilità di fare pubblicità e marketing nel modo in cui lo fanno, si darebbe un grosso taglio al loro potere e alle loro vendite. Stanno già abbandonando la psichiatria, gli sforzi per la ricerca ridotti di molto, perché non è facile trovare nuovi farmaci: non abbiamo veramente più avuto nuovi farmaci efficaci negli ultimi 60 anni. I primi farmaci non sono stati sviluppati dalle case farmaceutiche, ma scoperti per caso: un chirurgo francese diede della Torazina ai propri pazienti per evitare che vomitassero durante l’operazione e osservò che si calmavano, così la suggerì a suo cognato come potenziale tranquillante e nacque l’uso odierno della Torazina. Il litio aveva un effetto calmante sugli animali da laboratorio. Gli antidepressivi cominciarono a diffondersi perché, usati per trattare la tubercolosi, tiravano su i pazienti. I primi farmaci sono comparsi 65 anni fa e da allora non ne sono stati sviluppati altri che siano effettivamente più efficaci. Io credo che le compagnie farmaceutiche abbiano fatto una grande fortuna con gli psicofarmaci e ora abbiano realizzato che non ci sia nient’altro da sviluppare.

Non dobbiamo aspettarci dei miracoli, non credo che ci saranno nei nuovi farmaci miracolosi nei prossimi 20 anni per trattare disturbi biologici mentali. Abbiamo già dei farmaci e delle psicoterapie estremamente efficaci che devono solo essere applicate in maniera appropriata. Dobbiamo identificare il miglior trattamento per il paziente che abbiamo di fronte, assicurandoci di considerare gli aspetti biologici, psicologici e sociali, e dobbiamo smetterla di attribuire etichette errate alle persone normali fornendo loro trattamenti che fanno più male che bene.

 

Nel suo libro attacca non solo le case farmaceutiche, ma critica anche l’APA e la gestione della stesura del DSM-5. Ci sono state reazioni dall’altra parte? Quali critiche o risposte ha ricevuto?

Che cosa divertente…avevo degli amici che lavoravano al DSM-5 e ne ho perso qualcuno che non ha apprezzato le mie critiche! Quasi tutte le persone con cui ho parlato di ciò hanno riconosciuto che tutto ciò è ovvio, le uniche persone che non se ne sono rese conto e che non sono riuscito a convincere sono gli esperti che hanno lavorato sul DSM-5. Quando sei un esperto non realizzi quanto le tue idee potranno essere utilizzate impropriamente nel mondo reale. Spesso mi hanno risposto che stavano solo facendo scienza, che sapevano che le loro idee sarebbero state di aiuto a chi le avrebbe utilizzate nel modo corretto, e che se fossero state usate in malo modo quello non era un problema loro, ma di educazione. Io non la vedo così: questo manuale ha fin troppa influenza nell’aiutare le persone a curare le malattie mentali ed è molto importante fare in modo di proteggerlo dalla possibilità che ne venga fatto un cattivo uso. Se la vita delle persone viene danneggiata da un’errata medicalizzazione, questo è molto più importante dell’ambizione mancata di un ricercatore di vedere inserita una nuova diagnosi nel manuale. Il mio j’accuse è che l’American Psychiatry Association è stata fin troppo insensibile ai rischi di ciò che stava facendo; si stava focalizzando solo sui possibili benefici e per come funziona il mondo reale il manuale farà molti più danni di quanto si creda.

 

Che previsioni fa per il futuro della psichiatria? È ottimista o pessimista?

Sono terribilmente ottimista. Credo che non esista nessun campo che sia più interessante della psichiatria perché è l’unico della medicina ad aver preso un approccio umanistico…si è un po’ perso, ma è ancora sostanziale l’interesse per la persona e non solo per la malattia. Credo mi affasci intellettualmente su diversi livelli: come il cervello diventa mente? Le relazioni tra cervello, contesto sociale e le nostre funzioni psicologiche è l’argomento più affascinante che esista. Credo che la psichiatria faccia il meglio quando fa ciò che sa fare meglio: trattare persone che soffrono di problemi moderati e gravi. Usciamo dal seminario e facciamo del male quanto cerchiamo di estendere i nostri confini alla normalità rendendo le problematiche quotidiane tipiche dell’esistenza umana un disturbo mentale. Credo che la psichiatria reagirà contro il fiasco del DSM-5, credo che il resto della medicina si stia già ribellando contro l’iper-diagnosi e il sovra-trattamento e anche la psichiatria si muoverà in questa direzione.

E quando facciamo ciò che sappiamo fare meglio con le persone che ne hanno bisogno, facciamo del gran bene, e ciò è tremendamente interessante dal punto di vista intellettuale e gratificante dal punto di vista personale quando aiuti qualcuno. Poche specializzazioni e poche professioni hanno la possibilità di aiutare le persone tanto quanto la psichiatria. Sono molto entusiasta per la professione, non per il DSM-5.

 

Grazie… Allora speriamo nel DSM-6? Ah ah… No, magari basta con i DSM!!

PRIMO, NON CURARE CHI E’ NORMALE. DI ALLEN FRANCES – RECENSIONE

 

 

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Internet addiction: quando il web ci rende tristi – Parte 2

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Internet addiction 2: quando il web ci rende tristi . - Immagine: © viperagp - Fotolia.comCome visto nella prima parte di questo articolo, è frequente che le persone che sviluppano una dipendenza da internet manifestino anche altri sintomi psicopatologici, come stati di ansia o depressione, iperattività, isolamento sociale e bassa autostima (Gundogar et al., 2012; Bernardi e Pallanti, 2009).

Similmente, è stato riscontrato che chi sviluppa una dipendenza da internet ha spesso anche dei tratti personologici distinti, come la tendenza all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).

Quello che ancora si sa poco è l’impatto che l’utilizzo del web ha in persone con una dipendenza da internet rispetto a chi non manifesta questo problema. La letteratura, infatti, assume che l’utilizzo di internet è mantenuto grazie a un sistema di rinforzi positivi, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il trovare informazioni. Se questo è vero per la maggioranza degli utenti che usano quotidianamente la rete, sembra che altri meccanismi, più legati a fattori di personalità, siano implicati al mantenimento di comportamenti problematici legati all’uso di internet; ad esempio, alcune ricerche mostrano che l’esposizione a situazioni di rischio non aumenta l’ansia in persone dipendenti dal gioco d’azzardo.

Come succede spesso in psicopatologia, è possibile che l’impatto psicologico negativo della dipendenza da internet possa in se stesso fungere da fattore di mantenimento della dipendenza stessa, andando a creare nelle persone proprio un maggiore coinvolgimento alla rete per fuggire dalle emozioni negative provocate dallo stesso web.

Uno dei primi studi originali in questo campo è stato pubblicato qualche mese fa su PLOS ONE, da un’idea di una giovane italiana, Michela Romano, che è andata a indagare se l’uso di internet influisce in maniera diversa in base a quanto tempo abitualmente le persone usano la rete. In questo senso, i partecipanti allo studio sono stati divisi in due gruppi in base a quanto l’utilizzo di internet impattasse in maniera negativa sulla loro qualità della vita oppure no. A entrambi i gruppi sono stati somministrati test per misurare i livelli di ansia e depressione e altre variabili psicologiche; dopo aver completato i test, a tutti è stato chiesto di utilizzare in maniera libera internet per 15 minuti facendo quello che preferivano; successivamente, sono stati rivalutati i sintomi ansiosi e depressivi, per vedere se l’esposizione a internet avesse avuto effetti diversi su persone con la dipendenza da internet rispetto a chi non manifestava tale problematica.

I risultati parlano chiaro: l’utilizzo di internet ha un pesante impatto negativo sull’umore nel gruppo dei “dipendenti”. In particolare, nel gruppo di chi mostra comportamenti problematici rispetto all’uso della rete, aumentano in maniera significativa i punteggi alle scale di ansia e depressione, nonché di isolamento e impulsività.

Questi dati potrebbero essere spiegati proprio in riferimento al meccanismo di mantenimento della dipendenza stessa: l’impatto immediato negativo sull’umore, infatti, potrebbe essere la molla che spinge queste persone a re-ingaggiarsi nuovamente online proprio per sfuggire a queste emozioni spiacevoli.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Con la Mindfulness inibiamo i comportamenti negativi

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Mindfulness – La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.

Che cos’è la Mindfulness? È una pratica di consapevolezza e di attenzione intenzionale sul momento presente, priva da giudizi.

Consapevolezza significa stare in relazione con se stessi in ogni momento, godendo della molteplicità di sensazioni e stimoli provenienti ciò che ci circonda.

Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un crescente utilizzo di questa pratica in ambito  clinico e psicoterapeutico che ha portato l’attenzione sugli effetti della pratica, che dà benefici sia nella vita di tutti i giorni sia all’interno di un contesto psicoterapeutico.

Un recente studio diretto dall’Università di Georgetown (Sudafrica) e presentato a “Neuroscience 2013”, il meeting annuale della Society for Neuroscience a San Diego, ha rivelato che le persone che praticano la Mindfulness, o Consapevolezza, siano meno propense ad apprendere implicitamente comportamenti o abitudini negativi. Cosa si intende per abitudini implicite? Ci si riferisce alle abitudini o comportamenti che le persone acquisiscono ogni giorno implicitamente, senza rendersene conto e senza consapevolezza.

Secondo Chelsea Stillman, coordinatrice della ricerca, «uno impara le abitudini, buone o cattive, implicitamente, senza pensare a esse»: lo studio in esame mira, quindi, a valutare se le differenze individuali nella capacità di essere consapevoli influenzano l’apprendimento implicito.

Il campione sperimentale è costituito da soggetti sani e casualmente suddivisi in due gruppi,i quali furono inizialmente sottoposti ad un test per valutare il loro grado caratteriale di consapevolezza. Successivamente, venne chiesto a ciascuno di completare due compiti per la misurazione dell’abilità individuale di apprendere implicitamente pattern complessi e probabilistici.

In entrambi i compiti, si presentava su uno schermo una serie di cerchi e il soggetto era chiamato a riferire la posizione di queste figure in base al colore.

I risultati evidenziano che i partecipanti segnalati con punteggi più bassi al test sulla Consapevolezza tendono ad apprendere di più e i loro tempi di reazioni sono più veloci nei compiti di individuazione degli stimoli che si presentano più spesso. Sembra quindi che la capacità di apprendere in modo implicito sia in stretta relazione con la nostra consapevolezza e più siamo distratti più apprendiamo.

La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.

A questo proposito Stillman afferma che «la Consapevolezza può aiutare a prevenire la formazione di abitudini automatiche, come avviene attraverso l’apprendimento implicito, perché una persona consapevole è a conoscenza di ciò che sta facendo».

In altre parole, la Mindfulness accresce la capacità di osservare e di essere presenti a noi stessi, ed è proprio questo che ci dà la possibilità di scegliere quali comportamenti mettere in pratica.

LEGGI:

MINDFULNESS 

La mindfulness migliora l’attenzione anche nei bambini – Psicologia & Meditazione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Report dal Workshop La Schema Therapy in Azione – Firenze 9\10 Novembre

schema therapy in azione workshop firenzeA Firenze lo scorso week end si è tenuto il workshop Schema Therapy in Azione tenuto dal Dr. A. Arntz. Il Dr. Arntz, professore di psicologia clinica e psicopatologia sperimentale dell’Università di Maasttricht, è il ricercatore più importante per gli studi multicentrici riguardanti l’efficacia della Schema Therapy per i Disturbi di Personalità.

Due giorni di lavoro davvero molto interessanti che mi hanno permesso di tornare a casa con nuovi strumenti utili per la clinica, resi ancora più “miei” e “familiari” grazie alle frequenti simulate e esercitazioni che durante le due giornate sono sempre seguiti ai momenti di spiegazione del modello.

Partendo dai concetti fondametali della Schema Therapy, passando per i bisogni e i mode, arrivando al trattamento specifico per ogni mode, andando così a delineare un piano di intervento integrato ed efficace per il Disturbo di Personalità Borderline, il tutto supportato dai dati di alcune ricerche che il Dr. Arntz ci ha presentato.

Credo che uno dei punti a favore della Schema Therapy sia quello di aver creato una cornice integrata di presa in carico del paziente, avendo trovato un linguaggio comune per terapeuti appartenenti a scuole diverse, l’aver dato una forma e aver sistematizzato i punti di forza e di debolezza dei diversi orientamenti teorici andando a creare un modello di cura efficace, integrazione tra diversi orientamenti, terapia psicodinamica breve, terapia cognitivo comportamentale, teoria dell’attaccamento, gestalt, il tutto viene rispecchiato e confermato nella “diversistà” di orientamento dei terapeuti presenti in sala. La mattina del sabato è stata dedicata alla teoria di base del modello focalizzando l’attenzione sui tre ingredienti chiave della Schema Therapy:

  1. Le emozioni che vengono messe in primo piano, la ST fa infatti un massicio uso di interventi esperienziali e focalizzati sulle emozioni (dialogo con le sedie, esercizi immaginativi). Lavorando con i pazienti Borderline mettere in primo piano le emozioni ha una grande importanza considerando che molto spesso sono proprio le emozioni negative e le esperienze emotive problematiche che mantengono i pattern comportamentali disfunzionali.
  2. Le tematiche infantili, grazie alle informazioni bibliografiche è possibile validare il paziente permettendogli di capire le origini dei suoi comportamenti. Uno degli obiettivi è far capire al paziente che i suoi comportamenti disfunzionali sono il frutto di condizioni maladattive durante l’infanzia.
  3. La relazione terapeutica, luogo in cui in paziente può lavorare sui propri problemi. Si parla di re-parenting limitato, questo implica che il terapeuta si prende cura dei bisogni dei paziente, in modo caldo ed empatico entro i limiti della relazione terapeutica. Relazione cardine in cui il paziente può sperimentare nuove abilità sociali e cambiare pattern comportamentali per la prima volta in un contesto non minaccioso.

Velocemente abbiamo passato in rassegna i 18 schemi per arrivare a collegarli con i bisogni che in infanzia sono stati a seconda dei casi soddisfatti o frustrati.

Dominio Bisogni emotivi primari collegati
Distacco e Rifiuto Attaccamento sicuro, accettazione, cura
Mancanza di autonomia e abilità Autonomia, competenza, senso di identità
Mancanza di regole Limiti realistici auto-controllo
Eccessiva attenzione ai bisogno altrui Libera espressione di bisogni ed emozioni
Ipercontrollo e inibizione Spontaneitò e capacità di giocare

Interessante il discorso sui bisogni in termini di Schema Therapy, in quanto si parte dal fatto che gli schemi maladattivi precoci si sviluppano quando i bisogni del bambino non sono stati soddisfatti, nel corso della terapia ci si lavora in modi differenti prima con la psicoeducazione, facendo capire ai paziente quanto i bisogni frustrati nell’infanzia siano la base per le difficoltà di oggi, poi si assume una forma di intervento più strutturato e si assegnano ai pazienti dei compiti a casa in cui diventa necessario trovare i modi per andare incontro ai propri bisogni.

Durante la terapia i modi per cambiare uno schema maladattivo insieme al paziente sono essenzialmente tre che si integrano e condizionano l’un l’altro: il fare, il pensare e il sentire: quindi il terapeuta utilizzerà tecniche cognitive, tecniche comportamentali e tecniche immaginative ed esperienziali.

Viene inserito il concetto di Mode è cioè lo stato predominante in cui si trova il soggetto includendo stati emotivi e cognitivi presenti attimo per attimo e le risposte di coping. In particolare nel paziente con disturbo di personalità Borderline gli schemi attivati sono moltissimi e spesso i pazienti oscillano da un mode all’altro continuamente, per lavorare con loro dobbiamo saper distinguere bene un mode dall’altro, sapere quali sono i trigger per il nostro paziente e soprattutto quale tecnica utilizzare per quello specifico mode.

In linea generale i mode più frequenti dei pazienti con disturbo Borderline di personalità sono protettore distaccato, genitore puntivo, bambino arrabbiato e impulsivo, bambino abbandonato, bambino abusato. Ciò che nella clinica contraddistingue un mode dall’altro momento per momento è il tono affettivo del paziente, la sua storia di vita, come il paziente si comporta in quel momento nella relazione terapeutica, gli esercizi immaginitivi. Diventa importante per il terapeuta avere un modello dei mode del proprio paziente avere chiaro dove ogni mode è nato, a cosa è servito, cosa porta di disfunzionale nella vita del paziente, a quale bisogno frustrato è legato e e a quale sintomo di oggi corrisponde.

Durante il workshop abbiamo visto in dettaglio quali sono le caratteristiche principali dei mode prevalenti nei pazienti con distrubo Borderline e quali strumenti e tecniche specifiche utilizzare in terapia. Sicuramente è stato molto utile avere la possibilità mode per mode di sperimentarsi sia come terapeuta che come paziente provando la potenza degli esercizi immaginativi, e la vicinanza che si crea nella relazione. In sintesi riporto per ogni mode la sua funzione e le tecniche da utilizzare in terapia lasciando alla lettura del libro di Arntz, Schema Therapy in Azione (2013, ISC editore) spazio per maggiori approfondimenti. Protettore distaccato: la sua funzione è quella di tagliare via i bisogni e le emozioni della persona, da un lato quindi protegge da emozioni troppo dolorose e forti dall’altro rende sordi verso i propri bisogni. Molto spesso i pazienti Borderline si trovano in questo mode quando vengono in terapia, ed è quindi necessario trovare il modo per aggirare il protettore distaccato per dare alla terapia stessa la possibilità di essere efficace. I sintomi che più frequentemente si correlano con questo mode sono: senso di vuoto, abbuffate, automutilazione, sintomi psicosomatici, dissociazione. In terapia il modo per aggirare il protettore distaccato va dal comprenderne e spiegarne lo sviluppo in età infantile, validando quindi il ruolo adattivo che ha avuto, a valutare il pro e il contro di distaccarsi dal presente, ai dialoghi con le sedie, agli esercizi immaginativi. Bambino abbandonato: quando questo mode è attivo il soggetto si sente impotente e disperato di ottenere il soddisfacimento dei bisogni o di trovare protezione. I sintomi più frequentemente collegati sono depressione, l’essere senza speranza, l’essere spaventato, sentirsi senza valore. Spesso le persone in questo mode fanno immensi sforzi per evitare di essere abbandonati e hanno una visione idealizzata delle loro figure di cura. In terapia si lavora con le tecniche immaginative, il role playing, il confronto empatico, imagery rescripting. Genitore punitivo: la funzione di questo mode è di punire il bambino per avere espresso bisogni e sentimenti o commesso errori. Ad oggi questo mode si manifesta con un senso di rabbia rivolta a se stesso, automutilazione, atteggiamento autocritico, abnegazione. In terapia compito del terapeuta è lavorare con il paziente sui bisogni e sentimenti universali. Dare un nuovo significato al rifiuto sperimentato durante l’infanzia, evidenziare i successi e le qualità del paziente, combattere il genitore punitivo attravero esercizi immaginativi e grazie alla tecnica delle due sedie. Bambino arrabbiato: molto spesso sotto questo mode si nasconde il mode del bambino abbandonato, quindi è necessario in terapia poter far ventilare tutta la rabbia per poter arrivare al bambino abbandonato e rispondere ai suoi bisogni di accudimento e vicinanza. I pazienti con Disturbo di Personalità Borderline si trovano spesso in questo mode, agiscono impulsivamente per ottenere il soddisfacimento dei loro bisogni, e esprimono in maniera non adeguata i propri bisogni e le proprie emozioni. In terapia è necessario affrontare questo mode dando al paziente la possibilità di sfogare tutta la sua rabbia, dandogli dei limiti realistici. Occorre mostrare empatia per gli schemi sottostanti, far vedere al paziente quanta tristezza c’è dietro quella rabbia, aiutare il paziente a esprimere in modo più assertivo le proprie emozioni. Adulto sano: nei pazienti con disturbo Borderline questo mode ad inizio terapia è poco sviluppato, obiettivo della terapia è andarlo a rafforzare attravverso tecniche comportamentali, dialogo con le sedie, imagery rescription, insegnamento di atteggiamenti sani. La funzione del mode adulto sano è quella di accudire e proteggere il bambino vulnerabile, stabilire limiti al bambino arrabbiato e combattere il genitore punitvo. In sintesi il razionale del trattamento con i pazienti con disturbo Borderline di personalità è:

  1. Rassicurare e pian piano sostituire il Protettore distaccato;
  2. Mostrare empatia pr il bambino abbandonato, elaborare i traumi e aiutare il bambino abbandonato a ricevere amore;
  3. Combattere il genitore punitivo;
  4. Dare dei limiti realistici al bambino arrabbiato affinchè possa esprimere emozioni e bisogni in maniera appropriata. Rendere il paziente consapevole dei diritti fondamentali dei bambini;
  5. Aiutare i pazienti a incorporare il mode adulto sano, ispirandosi al terapeuta raggiungendo passo dopo passo l’autonomia.

 

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ARTICOLI SU SCHEMA THERAPY

Essere figli unici: limite o risorsa?

 

Essere figli unici. - Immagine: © Roman Gorielov - Fotolia.comNella società italiana attuale, con la progressiva diminuzione delle nascite, i figli unici non sono più un’eccezione e costituiscono un elemento che accomuna molti sistemi familiari.

Il figlio unico beneficia di molteplici cure ed attenzioni da parte dei genitori ed è oggetto di un massiccio investimento emotivo; se da un lato ciò può costituire un grande vantaggio, dall’altro può ostacolare il raggiungimento dell’autonomia, condizionando negativamente il processo di emancipazione dalla famiglia di origine.

Nell’ambito di una analisi condotta su 34 figli unici, appartenenti ad una fascia d’età compresa tra i 28 e i 35 anni, Giusti e Manucci (2000) rilevano che solo 15 di essi vivono al di fuori del nucleo familiare d’origine; si può supporre che il figlio unico possa avvertire maggiori difficoltà nel processo di emancipazione dalla famiglia.

Nel caso in cui i genitori vivano l’acquisizione di autonomia da parte del figlio come una minaccia quest’ultimo può incontrare molta difficoltà nel ricercare l’indipendenza necessaria all’elaborazione di un’identità adulta. Tali dinamiche, osservabili in tutte le famiglie, rischiano di amplificarsi nelle famiglie con un unico figlio.

Come è possibile ovviare a questa difficoltà? Unendo le loro forze, i genitori dovrebbero essere in grado di accompagnare serenamente il figlio verso la conquista della propria autonomia, rispettandone il naturale bisogno di prendere le distanze dal nucleo familiare d’origine e di sperimentarsi come persona distinta, ritagliandosi progressivamente i propri spazi di autonomia.

In questo processo è importante evitare di “colludere con le spinte regressive” messe in atto dal figlio unico nel momento in cui, com’è normale in qualsiasi processo di crescita e di cambiamento, vi siano fasi di scoraggiamento che inducono ad attuare un passo indietro verso la sicurezza invece che “in avanti, verso l’incertezza dell’estraneità e della crescita” (Giusti, Manucci, 2000, 35).

Secondo alcune ricerche i figli unici sarebbero più cooperativi e meno competitivi, in quanto cresciuti al di fuori delle gelosie e dei litigi inerenti alla rivalità fraterna; la mancanza di fratelli può, tuttavia, generare paura nel confronto con gli altri.

I figli unici tendono a idealizzare il rapporto fraterno del quale non hanno esperienza e ad averne un’idea astratta e utopistica, ignorando la rivalità e i contrasti dovuti alle differenze di temperamento e di carattere tra fratelli (Giusti, Manucci, 2000).

Per evitare che il figlio unico senta la mancanza di fratelli i genitori dovrebbero fare in modo che egli approfondisca, sin dall’infanzia, i rapporti con altri bambini della sua età: gli amici rappresentano i “sostituti di fratelli”, grazie ai quali si può sperimentare il sentimento di fratellanza che manca all’interno della famiglia d’origine strutturando relazioni paritarie, differenti da quelle asimmetriche con i propri genitori (Giusti, Manucci, 2000).

I figli unici beneficiano di un rapporto esclusivo con i genitori, cosa che consente di godere di molteplici attenzioni e di un clima stimolante sul piano affettivo ed intellettuale; tali fattori sembrerebbero correlati allo sviluppo di una elevata motivazione al successo e di una buona intelligenza (Giusti, Manucci, 2000).

La presenza genitoriale, può, però, diventare “eccessiva” se il genitore orienta tutte le aspettative sull’unico figlio che ha e non tollera i suoi insuccessi, creando un terreno fertile per l’emergere di sentimenti di insicurezza: il figlio rischia di diventare estremamente esigente con se stesso e di cercare di compiacere i genitori senza riuscire a riconoscere ed esprimere i propri desideri e inclinazioni.

I figli unici possono, inoltre, correre il rischio di andare incontro ad un precoce processo di “adultizzazione”, che li fa apparire più maturi, sul piano cognitivo, rispetto alla propria età anagrafica; i genitori possono caricarli di eccessive responsabilità, impedendo loro di vivere le esperienze inerenti alla loro fascia d’età (Giusti, Manucci, 2000).

È necessario, quindi, che i genitori evitino, sin dall’infanzia, di favorire sia che il soggetto diventi precocemente adulto, aderendo passivamente alle aspettative genitoriali, ma anche che resti sempre piccolo, timoroso di confrontarsi col mondo esterno al nucleo familiare (Galimberti, 1999)

Bisogna sottolineare, infatti, come l’eccesso di premure ed attenzioni possa nuocere al figlio; a questo proposito Montuschi afferma che “la misura è dunque il vero problema dell’educazione […] ogni virtù in eccesso assume le connotazioni del vizio: basti pensare agli effetti del troppo amore, della troppa razionalità” (Montuschi, 2004, 142).

D’altra parte, bisogna considerare che i figli unici di genitori non troppo protettivi nei loro confronti possono, al contrario, godere di un rapporto esclusivo che permette loro di sviluppare un senso di sicurezza e di stabilità, una “base sicura” da cui partire all’esplorazione del mondo.

In sintesi, lo status di “figlio unico” non rappresenta un dato negativo o positivo di per sé, ma una condizione contraddistinta da specifiche caratteristiche, che vanno conosciute e valorizzate per favorire, nel figlio unico allo stesso modo di un figlio che cresce attorniato da fratelli, un naturale processo di crescita e di raggiungimento dell’autonomia.

 

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FAMIGLIAGRAVIDANZA E GENITORIALITA‘ – BAMBINI – RAPPORTI INTERPERSONALI

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BIBLIOGRAFIA:

 

Recensione del libro: 101 lasciamenti

 

Recensione del libro

101 Lasciamenti

di E. Alberti Schatz

(2013)

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101 lasciamenti - Recensione101 lasciamenti: m’ama o non m’ama, m’ama o non m’ama… lo lascio o non lo lascio, lo lascio o non lo lascio? Lascio!?! Se due persone si lasciano, spesso tendono a dare la colpa alla poca comprensione, alla poca reciprocità, progettualità, come mai a nessuno viene mai in mente che possono non amarsi più?

Ti lascio perché non ti amo più! Epilogo di una storia ormai deflagrata.

Capita nella vita di dover decidere di liberarsi di una zavorra, che si porta dietro per inerzia. In fondo, lasciare qualcuno è una cosa naturale, tutto prima o poi finisce, si sgretola. Non è detto che lasciare significhi soffrire, spesse volte si tratta di un atto liberatorio, “l’atto finale e risolutivo di un doloroso percorso di sofferenza e di sopportazione che non può avere nessun’altra soluzione“. Cominciare a respirare aria pura! Perché continuare a farsi del male o a contraccambiare piccoli biechi dispettucci quotidiani quando esiste una soluzione più diretta e immediata? Lo sapevate che potevate liberarvi dell’altro come se si schiacciasse il tasto eject di un vecchio e obsoleto videoregitratore, ormai demodé? Esattamente come il rapporto col vostro partner.

Relazioni logore e stantie col tempo possono creare infiniti disagi a chi si trova incastrato in una scatola ormai troppo stretta e, dunque, la soluzione ovvia, per quanto dolorosa e sofferta possa essere si trova nel “lasciamento“.

Sì, si tratta di un neologismo, parola non presente nel vocabolario della lingua italiana, ma creato per “indicare una piccola sceneggiatura per lasciare il vostro lui o la vostra lei senza spargimento di sangue, ma con tutta la foga covata per anni negli alambicchi della mente, e di colpo lasciata libera di spruzzare velenosamente verso il cielo“.

Nel libro “101 lasciamenti” scritto da Eugenio Alberti Schatz, edito da Blonk editore in versione ebook è possibile trovare 101 modi per potersi liberare definitivamente dell’altro. 101 lasciamenti alla carica, come piccole schegge di saggezza maligna scritte per consigliare e stuzzicare l’arguzia nella messa in atto della volontà di lasciare il vostro partner.

Piccoli momenti di vita comune, mia (caspita ho letto ben tre situazioni a me familiari!),vostri, che trovano libero sfogo, conclusivo e finale.

Immagini, momenti, frammenti di pensieri che tutti anelano, ma che non sempre hanno un seguito. Invece, se si avesse il coraggio di ascoltare il nostro mood si potrebbe concludere in una piccola vendetta che metterebbe fine a tutte le nostre sofferenze.

La vita di coppia è costellata da continui “lasciamenti e riprendimenti, di piccoli tradimenti e di grandi sanatorie“, si tratta di un equilibrio sottile in cui nessuno dovrebbe prendere il sopravvento, perché se questo accadesse? Allora, la fine è progettata accuratamente da parte di uno dei due membri della coppia.

Ma perchè mi lasci? Pensavo fossimo felici“.

Sì, ma poi ho letto il libro dei lasciamenti e ho capito che una via d’uscita c’è sempre. Per tutti. E quindi anche per me“.

 

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AMORE – RELAZIONI SENTIMENTALI

AMORE, SESSO E POESIA, DETTO E NON DETTO DELL’AMORE DI COPPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Comunicazione – Prima la brutta o la bella notizia?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studiosi hanno scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due. 

Il processo di dare e ricevere brutte notizie è una faccenda complicata per la maggior parte di noi. Un nuovo articolo pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin ha analizzato scientificamente il fenomeno comunicativo e psicologico nel tentativo di superare le ricette e aneddoti popolari su quel che è meglio.

Gli studiosi hanno infatti scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due. 

E, secondo l’ottica del ricevente sarebbe preferibile e meno ansiogeno ricevere la brutta notizia chiaramente ed esplicitamente, evitando di alternare nella comunicazione frammenti di buone e cattive notizie che lascerebbero l’interlocutore confuso. Attenzione però, il pattern dare prima la brutta e poi la bella notizia è meno efficace se l’obiettivo dell’interazione è quello di modificare un comportamento: in tal caso dallo studio emerge che sarebbe più efficace comunicare prima la bella e subito dopo la brutta notizia.

Nell’ambito di queste interazioni si respira dunque una tensione tra due poli, da una parte chi deve dare la brutta notizia – tendenzialmente portato a posticipare l’esperienza spiacevole di comunicare una notizia negativa, dall’altra chi si trova a ricevere una brutta notizia, teso a un decremento dell’ansia in funzione della diminuzione di un’incertezza. A meno che non siate dei grandi “mentalizzatori” della mente dell’altro, a quel punto forse sarete più portati a dire prima la brutta notizia.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEEURISTICHE-BIAS  STILI DI COMUNICAZIONE

Attento a come parli! L’Effetto Nocebo

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Personalità: che tipo sei? Cane o Gatto?

 

CHE TIPO SEI? CANE O GATTO?. Immagine: © Valentina R. - Fotolia.com

L’universale desiderio umano di comprendere meglio se stessi viene appagato dai più svariati test di personalità in circolazione. Non importa quanto essi siano autorevoli, non sappiamo resistere alla tentazione di barrare le crocette per scoprire se siamo mamme degne dell’ammirazione di Tata Lucia, amanti che non si lascerebbero intimorire da Rocco Siffredi o mogli più devote di Wilma Flintstone.

Anche State of Mind ti invita a partecipare ad un breve anzi brevissimo test di personalità. Sarà sufficiente rispondere alla seguente domanda e proseguire nella lettura per sapere quali caratteristiche di personalità ti definiscono: “ti identifichi di più in un cane o in un gatto?

Se hai scelto “cane” probabilmente sei una persona estroversa, simpatica e coscienziosa.

Se invece sei un “gatto” sei dotato in misura minore di queste qualità ma hai dalla tua una maggiore apertura alle nuove esperienze anche se tendi ad essere un po’ più nevrotico. 

L’autorevolezza di tali conclusioni deriva in questo caso da un curioso studio del 2010 condotto in Texas che ha portato alla luce un differente profilo di personalità tra coloro i quali si identificano in un gatto e coloro i quali si sentono maggiormente a loro agio all’idea di fare “bau”.

I ricercatori hanno inviato un questionario online a cui circa 4.500 internauti hanno risposto. Gli studiosi, dopo aver analizzato attentamente le scelte dei partecipanti, hanno suddiviso le caratteristiche personali nelle 5 grandi dimensioni di personalità: estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale.

Tale scelta teorica, nota come Modello Big Five, ha le sue radici nel lontano 1930 quando è stata formulata una teoria per la descrizione della personalità che prende il nome di Lexical Hypothesis. Gli studiosi pensarono di poter trovare i tratti che definiscono la personalità tracciando e analizzando la lista di aggettivi presenti nel dizionario nella convinzione che il vocabolario naturale contenesse le parole necessarie e sufficienti a descrivere la personalità. Trovarono però un numero vertiginoso di aggettivi (ben 18000) ma riscontrando che alcuni di essi si presentavano spesso in combinazione, suddivisero la lista in 5 categorie principali.

Ognuno di questi Big Five è rappresentato da un continuum tra due estremi, ad esempio introversione-estroversione. Molte persone si collocano da qualche parte nel mezzo di questo continuum e possono avere caratteristiche comuni a entrambi i lati, anche se un polo di solito prevale significativamente sull’altro.

Se vi siete identificati nel gatto siete al di là di tutto una persona fuori dal coro, come testimoniato dalla distribuzione del campione della ricerca.

Il 45% degli intervistati texani si è infatti identificato nel cane, il 27% in entrambi gli animali, il 15% in nessuna categoria e solo l’11% nel gatto. Il profilo di personalità dell’uomo-cane si è rivelato simile se non addiritura sovrapponibile a quello di coloro che si sono identificati in entrambi o in nessun animale per quanto riguarda gradevolezza, coscienziosità, nevroticismo e apertura mentale. Unico tratto veramente distintivo l’elevata estroversione.

Coloro i quali si sono identificati nel gatto si differenziano invece da tutti e tre gli altri gruppi rispetto a tutti i tratti di personalità, fatta eccezione per il grado di apertura mentale, simile a quello del gruppo che si è attribuito l’identità di entrambi gli animali. L’uomo-gatto si differenzia insomma in maniera più marcata dal resto della popolazione.

Ma cosa giustifica le differenze riscontrate tra uomini-cane e uomini-gatto? perchè una persona con determinate caratteristiche dovrebbe identificarsi con un animale piuttosto che con un altro?

Non esistono spiegazioni esaustive ma solo ipotesi. Si può per esempio supporre che anche in questo caso “chi si somiglia si piglia” quindi persone disponibili e solari riconoscano affinità con il cane, tipicamente affettuoso e socievole mentre persone più riservate tendano ad identificarsi con i gatti, noti invece per la loro predilizione a farsi i fatti propri.

Ma il quesito a mio parere più interessante è perchè anche questa volta abbiate ceduto alla tentazione di comprendere meglio voi stessi immaginandovi addiritura a quattro zampe.

LEGGI:

PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – BIG FIVE PERSONALITY TRAITS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Internet addiction: quando cinque minuti diventano alcune ore

 

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Internet addiction- quando cinque minuti diventano alcune ore. - Immagine: © mariesacha - Fotolia.comInternet addiction – Ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Tra le nuove psicopatologie emerse negli ultimi dieci anni, va considerata oggi sicuramente l’Internet Addiction o dipendenza da internet. Si tratta di una categoria che include fenomeni e problemi diversi, tra i più comuni troviamo il cybersex e l’online gambling.

Il motivo del successo di queste due forme di dipendenza è facilmente spiegabile: nel primo caso, il cybersex è un tipo di dipendenza sessuale con i “vantaggi del web”: anonimità e facilità di accesso. È facile rimanere nella privacy della propria casa, ingaggiati in fantasie impossibili nella vita reale. Per quanto riguarda il gambling, il discorso è simile: possibilità di accesso in ogni momento del giorno e della notte da un qualsiasi dispositivo che abbia una connessione Internet.

Anche se Internet è attualmente disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e sempre più nei luoghi pubblici, il tempo che ognuno di noi spende connesso alla rete varia notevolmente e se da una parte questo tempo può essere produttivo e talvolta di svago, l’uso compulsivo di Internet può invece interferire notevolmente con la vita lavorativa e sociale di chi ne abusa, determinando un vero e proprio disturbo.

Proprio per l’ampiezza negli usi e per le esigenze personali che variano notevolmente da soggetto a soggetto, non vi è un limite di tempo né un numero di messaggi invitati che definisca la patologia, quanto ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Secondo i dati riportati su Helpguide.org, un’organizzazione internazionale no-profit con sede in California, i segni generali di una possibile dipendenza da Internet sono:

Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?

Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?

Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?

Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?

Sentire un senso di euforia quando connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Se ti riconosci in più di uno di questi segnali, è possibile che tu abbia o stia sviluppando una dipendenza da internet. In questo caso, puoi intanto iniziare a intraprendere alcuni passi da solo per modificare le tue abitudini online, ricordando però che esistono servizi e persone qualificate per un supporto esterno. Un primo passo potrebbe essere quello di realizzare che l’uso eccessivo di internet sia legato a dei problemi emotivi sottostanti, come stati di ansia o depressione, stress o emozioni di rabbia. In questi casi, il web viene spesso utilizzato come modalità per “sentire meno” i sintomi dei disagi o per cercare di uscirne.

In questo senso, alcune ricerche stanno andando sempre più a indagare quanto la dipendenza da internet sia collegata ad altri fattori psicopatologici o semplicemente personologici. Nella seconda parte dell’articolo andremo a vedere i risultati di uno dei primi e più recenti studi in questo campo che sta aprendo la strada a un nuovo filone di ricerche sull’effetto dell’esposizione al web in persone dipendenti da internet.

LEGGI PARTE 2

LEGGI:

DIPENDENZEINTERNET ADDICTION

Nuove dipendenze comportamentali: la Cyberdipendenza

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Come funziona l’EMDR? Il contributo delle neuroscienze

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

Come funziona l’EMDR?

Il contributo delle neuroscienze

LEGGI TUTTI I REPORT DEL CONGRESSO NAZIONALE EMDR

 

labirinti traumatici emdr

Si conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

L’ultima mattinata del congresso non delude le aspettative create in questi giorni densi e faticosi ma proficui e forieri di interessanti riflessioni.

Gli interventi presentati, infatti, esplorano un’area di ricerca importantissima: l’apporto delle neuroscienze alla comprensione dei substrati neurofisiologici del trattamento psicoterapico, con un’attenzione particolare, ovviamente, all’EMDR.

Nel suo intervento Benedikt Amann, ricercatore presso la FIDMAG Research Foundation di Barcellona, parte dall’ipotesi che nel disturbo bipolare via sia una disfunzione a carico del Default Mode Network (DMN), una rete di aree cerebrali che risultano essere maggiormente attive durante le fasi di risposo e che si disattivano durante l’esecuzione della maggior parte dei compiti cognitivi che richiedono un attenzione focalizzata.

Questa rete, che comprende la corteccia prefrontale mediale, la corteccia anteriore e posteriore cingolata, il precuneo, il lobulo parietale inferiore, la corteccia temporale laterale e l’ippocampo, è attiva anche durante attività mentali introspettive, come il recupero di ricordi autobiografici, l’utilizzo della teoria della mente e immaginare il futuro. Il DMN regola le dinamiche di attivazione-disattivazione nel cervello sano.

Studi di neuroimmagine evidenziano che sia il disturbo bipolare sia il disturbo da stress post-traumatico presentano una disfunzionalità del DMN.

Dato che l’EMDR attiva il processo omeostatico naturale di elaborazione dell’informazione, l’ipotesi  è che la modulazione del DMN possa rappresentare il substrato neurobiologico nel trattamento EMDR.

Il gruppo di ricerca di Amann presenta uno studio pilota effettuato su un singolo caso di paziente bipolare con una storia di eventi traumatici, che mostra una significativa disattivazione del DMN dopo un trattamento EMDR di 14 sedute, portandolo ai livelli del gruppo di controllo.

Gli attuali modelli di trattamento per il disturbo bipolare sono prevalentemente farmacologici, talvolta affiancati da interventi psicoterapeutici, di psicoeducazione e interventi con la famiglia. Tutti questi tipi di trattamento non sembrano però molto efficaci nel prevenire ricadute e dai diversi studi emergono ancora troppe recidive.

Il lavoro presentato da Amann parte da un presupposto molto importante purtroppo spesso sottovalutato: le esperienze traumatiche infantili, come molti studi autorevoli hanno ormai dimostrato, sono molto frequenti e hanno un forte impatto nell’esordio di diversi disturbi psichiatrici.

Nel caso del disturbo bipolare la comorbilità con il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è molto alta, circa il 20% e la presenza del PTSD peggiora significativamente la sintomatologia del disturbo bipolare, in termini di maggiori tentativi di suicidio, aumento dei cicli rapidi, sintomi maniacali più elevati, DMN disfunzionale ed in generale un peggiore decorso della malattia.

Tutto ciò ha importanti implicazioni nel trattamento dei pazienti bipolari e dei pazienti psichiatrici in generale, anche se fino ad oggi esistono pochissime evidenze scientifiche al riguardo.

Una di queste deriva da un interessante studio di Van den Berg e colleghi sul trattamento EMDR in pazienti psicotici che mostra, dopo 6 sedute EMDR, un significativo miglioramento sia dei sintomi del PTSD sia di quelli psicotici.

Lo studio BET (Bipolar EMDR Trauma Study), presentato da Amann, è il primo studio relativo all’applicazione dell’EMDR su pazienti bipolari: l’ipotesi di partenza è che l’elaborazione dei traumi attraverso l’EMDR non solo migliori i sintomi post-traumatici, ma che contribuisca a stabilizzare l’umore, a migliorare il funzionamento cognitivo e sia un metodo sicuro con questo tipo di pazienti.

I dati sembrano confortanti: rispetto al trattamento classico, 13-18 sedute EMDR hanno condotto ad un miglioramento significativo rispetto all’impatto degli eventi traumatici sia al termine del trattamento sia al follow-up a 3 e a 6 mesi. Si evidenzia, inoltre, un miglioramento globale del funzionamento e del tono dell’umore, soprattutto rispetto ai sintomi ipomaniacali.  L’EMDR viene infatti consigliato nel casi di sintomi ipomaniacali e subsindromici, mentre non è raccomandato nei casi di mania, fase mista e depressione grave. 

Il gruppo di ricerca ha sviluppato anche un protocollo EMDR specifico da utilizzare con pazienti bipolari. Il piano di trattamento prevede di iniziare con i sintomi legati al presente, che serviranno come via d’ingresso ai ricordi traumatici del passato. Molta importanza viene riconosciuta alla fase di stabilizzazione e installazione delle risorse, anche facendo ricorso a 5 specifici sotto-protocolli creati per questo tipo di pazienti: il protocollo per la stabilizzazione del tono dell’umore, per la consapevolezza di malattia, per l’aumento dell’aderenza, per i sintomi prodromici e per la de-idealizzazione dei sintomi maniacali.

Sarà necessario testare questi risultati su un campione più numeroso, ma sembra una buona direzione per il futuro dell’EMDR e di tanti pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche che troppo spesso vengono trattati solo con farmaci, non sufficientemente efficaci nel prevenire le recidive. 

Il secondo ed ultimo intervento della giornata, presentato da Marco Pagani, del CNR di Roma, esplora la neurofisiologia della violenza e le potenzialità del trattamento EMDR nell’intervenire sulle alterazioni patofisiologiche presenti in questi stati.

La relazione apre con una revisione critica della letteratura scientifica relativa alla neurofisiopatologia dei comportamenti violenti. La neurobiologia degli abusi sessuali è stata al centro dei primi studi di neuroimmagine sul PTSD e diverse ricerche hanno ormai dimostrato che nelle persone con una storia di abuso o trauma psichico sono presenti alterazioni patologiche tipiche a carico di alcune strutture cerebrali: la corteccia frontale, che non esercita più la sua fisiologica inibizione sull’amigdala, la quale per questa ragione è iperattiva e contiene informazioni non processate; l’ippocampo; il cingolo anteriore e posteriore e l’insula.

Vari studi hanno evidenziato come l’ipotalamo sia un area centrale in qualunque reazione aggressiva: l’ipotalamo mediale, insieme al mesencefalo, media la rabbia difensiva, mentre quello laterale è coinvolto nell’attacco predatorio. Entrambe queste forme di aggressività sono controllate dal sistema limbico, a sua volta influenzato da input sensoriali e sottocorticali e da da input provenienti dalla corteccia cerebrale.

Con il miglioramento delle tecniche di rilevazione neuro-fisiologica è stato anche possibile indagare il funzionamento e l’efficacia degli interventi terapeutici. Da una meta-analisi di numerosi studi sull’argomento ne sono uscite “vincenti”, per quanto riguarda il trattamento per il PTSD, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e l’EMDR.

Proprio sull’EMDR numerosi sono stati gli studi di efficacia che hanno preso in considerazione i substrati neurobiologici e tutti hanno messo in evidenza una normalizzazione dell’attività cerebrale associata con una remissione dei sintomi tipi del PTSD. La corteccia prefrontale riacquista il suo ruolo inibitorio riducendo l’attivazione dell’amigdala, e in generale le anomalie cerebrali tipiche del PTSD mostrano una sorprendente inversione di tendenza in seguito al trattamento EMDR.

Il dott. Pagani presenta anche un interessantissimo studio condotto dal CNR in cui l’efficacia del trattamento EMDR è stata testata mediante la misurazione elettroencefalografica in un contesto “ecologico”, ovvero nello studio del terapeuta durante la seduta, riducendo al minimo l’invasività dello strumento di misurazione. Il dato interessante che emerge da questa indagine è l’andamento dell’attivazione cerebrale durante la terapia: nel corso della prima seduta si attivano le regioni del trauma accompagnate da sensazioni molto disturbanti; nella fase intermedia del trattamento si attivano regioni diverse, con valenza cognitiva, e la sensazione disturbante diminuisce; durante l’ultima seduta si attivano regioni cerebrali in cui tutte le informazioni sono elaborate e integrate e non si attivano più le regioni del trauma. In questa fase non sono più presenti le sensazioni disturbanti.

Questo dato conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

Questa ultima considerazione, in linea con quanto emerso dai lavori delle giornate precedenti, sembra essere un’altra importante tessera del puzzle che nel comporsi mostra l’enorme potenziale di questo strumento nell’affrontare non solo la sofferenza dei traumatizzati, ma nel contribuire ad un maggiore benessere sociale, facendosi carico efficacemente dei comportamenti aggressivi e violenti.

L’EMDR in pochi anni ha conquistato molti e si è diffuso con relativa rapidità in tutto il mondo e fra terapeuti provenienti da tutti gli orientamenti, mantenendo tuttavia un certo alone di mistero sui  suoi meccanismi di funzionamento.

La ricerca sta lentamente svelando questi misteri, con l’esito di accrescerne ulteriormente il fascino e nel contempo la solidità, con prove di efficacia convincenti e scientificamente fondate.

LEGGI:

CONGRESSO NAZIONALE EMDR – ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA – TRAUMA – ESPERIENZA TRAUMATICA – DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD – EYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING – EMDR – DISTURBO BIPOLARE – NEUROSCIENZE

EMDR e Dissociazione – Intervista ad Annabel Gonzalez

 

Psicoanalisi: Intervista a Roberto Goisis

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Roberto Goisis

Psichiatra e Psicoanalista, Membro Ordinario della SPI.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Roberto Goisis, Psichiatra e Psicoanalista, socio ordinario SPI, Docente presso l’Università Cattolica di Milano. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

 

 CONTENUTI CORRELATI:

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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I monologhi e la fiducia nell’altro – Psicologia del Lavoro

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Secondo un nuovo studio olandese dall’analisi della conversazione all’interno di meeting e riunioni tra diverse parti sarebbe possibile avere degli indicatori relativi all’accrescimento della fiducia.

La frequenza e la lunghezza degli interventi conversazionali dei diversi interlocutori all’interno di riunioni o incontri possono dare indicazioni rispetto alle relazioni in gioco. 

I ricercatori hanno analizzato le audioregistrazioni degli scambi conversazionali all’interno di riunioni di due board per la durata di un anno, monitorando anche per lo stesso periodo di tempo il livello di coooperazione e di fiducia reciproca. Dai risultati della ricerca è emerso che l’aumento della fiducia tra i collaboratori sarebbe correlata a una maggior frequenza degli scambi conversazionali di una breve durata: cioè a dire al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Il numero medio di scambio di turni per minuto è aumentato del 27% in corrispondenza di una maggior quota di fiducia reciproca. Similmente anche il numero di diversi parlanti attivi per misuto aumenta proporzionalmente, mentre cala drasticamente la frequenza dei monologhi della durata superiore al minuto. Quindi, il monologo sarebbe nemico dell’accrescimento della reciproca fiducia tra le parti.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – STILI COMUNICATIVI – PSICOLOGIA DEL LAVORO

Misura l’ arroganza del tuo capo con il Workplace Arrogance Scale

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Smascherare il bugiardo si può: tecniche facial action coding system e body coding system

Agustina Zaka e Rita Cautela.

 

 

Smascherare i bugiardiSmascherare il bugiardo: identificare le tracce comportamentali connesse all’atto di mentire permette di valutare le dichiarazioni rese. Quindi attraverso l’analisi del comportamento non verbale e verbale, si possono individuare i segni indicativi per riconoscere le menzogne o la veridicità delle affermazioni che la persona ha fornito.

Esistono varie tecniche, metodi e strumenti per rilevare gli indicatori di emozioni, interessi, motivazioni e bugie di cui la validità è riportata in letteratura scientifica e in descrizioni applicative (ad esempio Vrij et al 2000, Jensen et al. 2010).
L’accuratezza dell’analisi si ottiene svolgendo un’analisi trasversale che riguarda: le espressioni facciali, il comportamento motorio gestuale, gli aspetti non verbali del parlato e la linguistica utilizzata. I movimenti del volto e del corpo ci forniscono molte sfumature e sono perciò canali fondamentali con cui confrontare il verbale e riconoscere così le eventuali menzogne. (contraddizioni)

La tecnica più completa per esaminare il comportamento mimico del volto è il Facial Action Coding System (FACS) elaborata da Ekman e Friesen nel 1978. Si basa su 41 unità fondamentali denominateUnità d’Azione“, le quali si combinano tra di loro nel determinare specifiche configurazioni di espressioni facciali. A loro volta tali espressioni facciali vengono associate a determinati vissuti emozionali.

Il FACS è, quindi, un sistema di osservazione di carattere descrittivo e non interpretativo. L’interpretazione del significato psicologico si svolge tramite l’utilizzo di tecniche diverse, come per ad esempio EMFACS e FACSAID, che permettono di identificare le emozioni primarie (sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità, tristezza). Nel Laboratorio NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park di Gorizia, è stata elaborata recentemente una tecnica di decodifica del comportamento del volto più completa rispetto alle precedenti in quanto prende in considerazione oltre alle emozioni primarie, quelle secondarie, i segnali manipolatori, di conversazione e regolatori.

Un altro canale non verbale fondamentale nell’analisi riguarda i gesti e i movimenti del corpo. La tecnica che prende in considerazione tutte le parti del corpo, è il Body Coding System (BCS). Tale sistema analizza le espressioni non verbali del corpo, scomponendole nelle unità d’azione al fine di creare una classificazione che faciliti la lettura delle emozioni di una persona. La tecnica è nata per rispondere ai quesiti riguardanti i legami esistenti tra le espressioni del corpo, le caratteristiche di personalità, l’esperienza emotiva e i processi emotivi.

Nel body coding system ogni movimento del corpo è identificato da un nome e un numero ben preciso.
Le singole unità d’azione vengono poi arricchite da altri parametri, se presenti, e in che misura essi vengono osservati:

-unilateralità
-asimmetria
-intensità
-tipologia di appartenenza del movimento: rotatorio, oscillatorio
-orientamento del movimento: avanti, indietro, in basso, in alto, incrociato e così via.

Il movimento può essere inoltre:

ripetitivo: quando ha lo stesso significato dell’espressione verbale (tipicamente i movimenti propiziatori delle mani, le “bacchette” che scandiscono il ritmo del parlato)
aggiuntivo: quando arricchisce di significato quanto detto
-sostitutivo: se apporta significati apparentemente nascosti
-contraddittorio: se contraddice ciò che viene espresso
-indifferente: rispetto ai contenuti può essere ad esempio un segnale di scarico del peso corporeo

I sistemi di analisi FACS E BCS risultano estremamente utili, ad esempio, se applicati nell’ambito del recruitment e nella gestione delle risorse umane.

Durante i colloqui di lavoro o nelle fasi di riorganizzazione del personale i candidati sono sottoposti ad alti livelli di stress emotivo. Utilizzare più canali non verbali rende più facile l’acquisizione di informazioni che il soggetto non vuole, o non può esternare a causa di un’emotività più o meno accentuata, delle aspettative che nutre e delle abilità che inevitabilmente il recruiter sembra richiedere.

Affinché il processo si svolga nella maniera più naturale possibile, bisogna utilizzare una corretta impostazione dell’analisi. Non si tratta di innescare processi di diffidenza reciproca, ma di corretta comunicazione. Solo in tal modo si può raggiungere l’integrazione dei punti di vista tra i due interlocutori.

Conoscere e applicare un protocollo permette di essere preparati ad affrontare opportunamente lo stato emotivo di chi si ha di fronte, a metterlo a proprio agio, a scoprire e valorizzare le sue risorse, idee e aspirazioni.

Seguire delle linee guida chiare, significa allo stesso tempo essere flessibili e obiettivi, per raggiungere un’alta affidabilità ed efficienza.

 

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LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSIONS

INTERVISTA A MARK FRANK – RICONOSCERE LE MENZOGNE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORI DELL’ARTICOLO:

Agustina Zaka e Rita Cautelaneurocomscience.org

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal Workshop di Reggio Calabria – Parte 2

LEGGI PARTE 1

Workshop - Disturbo borderline di personalità e DBT

Dialectical Behaviour Therapy: la seconda parte del workshop si apre con un’altra esercitazione di mindfulness. Concentrate le menti, ci prepariamo per l’intensa giornata sul trattamento, condotta a due voci che con filosofia “dialettica” si muovono armonicamente tra teoria scientifica e pratica clinica.

La DBT prevede un format standard costituito da 1) terapia individuale 2) skills training 3) telefonate 4) team meeting 5) interventi sui familiari. Secondo il modello, il lavoro in team è indispensabile e rappresenta il punto centrale della terapia. Le altre componenti della DBT possono essere invece erogate con maggiore flessibilità e secondo le necessità del caso. Recenti dati dalla letteratura infatti puntualizzano l’efficacia della DBT anche solo erogando lo skills training.

La DBT è in fase di adattamento e perfezionamento per superare alcuni limiti e renderla sempre più raffinata ed efficace”. Ci informano i docenti. “Le stesse skills dell’intervento gruppale sono state aggiornate dalla Linehan nel suo nuovo manuale che uscirà nei prossimi mesi negli Stati Uniti”.

La giornata prosegue con l’insegnamento delle tecniche DBT, individuali e di gruppo, e l’applicazione di queste mediante role-playing e simulate. Rimane spazio nella terza giornata per qualche approfondimento, fatto dalla dr.ssa Fiore, sull’applicazione della DBT anche su altre popolazioni cliniche con DCA, con Dipendenze Patologiche e negli Adolescenti.

La classe partecipa attenta e incuriosita, ma le perplessità e le curiosità ovviamente non mancano. I docenti dedicano un lungo spazio finale ai commenti e alle domande degli allievi.

Il transfert e il contro-transfert che fine fanno nella DBT?” Dal pubblico.

La domanda trova risposta decisa: “Bisogna fare ciò che funziona!”. Spiega il Prof. Maffei. Solo qualche attimo per permettere alla mente saggia di entrare in azione e prosegue “La DBT ci consente di osservare e descrivere ciò che avviene in seduta, la relazione che abbiamo con i nostri pazienti. Ci permette di intervenire sulla relazione se notiamo dei comportamenti che interferiscono con la terapia, che è uno degli obiettivi centrali del trattamento. Importante è che la modalità sia sempre esplicita, chiara e coerente” .

E ancora dall’aula “Come distinguere le richieste e i bisogni reali da quelli invece strumentali che i pazienti mettono in atto per manipolarci e testarci?

Questa è purtroppo la visione diffusa in alcuni ambienti psichiatrici. I pazienti Borderline non manipolano!” sottolinea Cesare Maffei Manipolare significa attribuire intenzionalità che spesso non c’ è nei loro comportamenti e che invece troviamo in altri disturbi, come quello Antisociale. Loro fanno il meglio che possono utilizzando comportamenti problematici perché mancano di abilità più funzionali per affrontare alcune situazioni. Non c’è intenzione di ricevere un vantaggio, ma sofferenza per l’incapacità di fronteggiare l’evento diversamente”.

I pazienti Borderline non ci testano sulla fiducia se siamo chiari e coerenti” Aggiunge Donatella Fiore “La DBT è un intervento chiaro, la nostra è una posizione ben definita. Siamo punti fermi nel caos della loro sofferenza. E se non lo siamo e ci testano, dobbiamo chiederci perché”.

Il workshop si conclude con un’esperienza di partecipazione. Tutti in cerchio, le distanze si riducono, le differenze si abbattono, docenti e discenti, terapeuti e studenti, cognitivisti e analisti, tutti insieme ne “la pioggia nella foresta”.

 

LEGGI PARTE 1

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DIALECTICAL BEHAVIOURAL THERAPY – DBT

CONGRESSI

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – MINDFULNESS

REFRAMED: DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY PER IL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE REFRATTARIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 18 – Exit strategy – Rubrica di Psicologia

Etica & Morale – Onesti la mattina, disonesti il pomeriggio

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il nostro self-control riguardo all’osservanza dei nostri valori morali sembra ridursi significativamente con il passare delle ore durante la giornata, fenomeno che renderebbe più probabili menzogne e comportamenti disonesti nel pomeriggio rispetto alla mattina. 

La bizzarra ipotesi è nata nella testa di alcuni ricercatori di Harvard  che si occupano di moralità. Riflettendo sui risultati di molti loro studi hanno inziato ad osservare strane regolarità: gli esperimenti condotti la mattina presentavano tendenzialmente minori occorrenze ci comportamenti non etici e immorali.

Dunque la curiosa domanda di ricerca ha portato a un nuovo esperimento: è più semplice resistere ai comportamenti immorali e non etici la mattina rispetto al pomeriggio? 

Partendo dal presupposto che il nostro autocontrollo è messo a dura prova dalla stanchezza, dalla fatica e da continue decisioni che siamo chiamati a prendere  ogni giorno, gli autori hanno voluto verificare se le normali attività quotidiane nel loro trascorrere lungo le ore della giornata hanno un effetto nell’aumentare i comportamenti immorali.

Gli sperimentatori hanno messo a punto un task sperimentale per metterli nelle condizioni di mentire mentre erano coinvolti in un gioco al computer. In accordo con l’ipotesi iniziale i risultati hanno confermato che i soggetti testati tra le 8.00 e le 12.00 attuavano un minor numero di comportamenti menzogneri rispetto a coloro che venivano sottoposti all’esperimento nel pomeriggio.

Al di là di questo indice comportamentale, è stata valutata implicitamente l’accessibilità al concetto di moralità: in un compito di completamento di parole quali ad esempio “_ _RAL” e “E_ _ _ C_ _” i partecipanti della mattina componenvano con piu probabilità le prole MORAL and ETHICAL rispetto ai partecipanti del pomeriggio che invece componevano con più frequenza termini quali CORAL e “EFFECTS”.

Altro risultato interessante è che il cosiddetto moral disangagement, ovvero la tendenza a comportarsi in modo immorale senza sentirsi in colpa sarebbe un moderatore dell’intensità del fenomeno sopra descritto: nei soggetti con una minore propensione al moral disengagement sarebbe più evidente l’effetto della “moralità mattutina”. 

LEGGI:

ETICE & MORALE

Storie di Terapie #10 – Le bugie di Filippo

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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