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Depressione: Riflessioni sul sé e attività cerebrale

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una ricerca condotta dalla University of Liverpool ha scoperto che le persone che fanno esperienza di episodi depressivi durante tali episodi mostrano un aumento dell’attività cerebrale nel momento in cui viene loro chiesto di pensare a sé stessi.

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale i ricercatori hanno scoperto che le persone con episodio depressivo processano differentemente l’informazione non solo nella loro mente ma anche nel loro cervello rispetto alle persone non depresse.

Ai soggetti è stato richiesto di scegliere alcuni aggettivi positivi, negativi e neutri sia per descrivere sé stessi che la Regina d’Inghilterra (una figura popolare e ben conosciuta ma distante dalla loro quotidianità).

Come ci si poteva aspettare i partecipanti con umore depresso scelsero in misura significativamente minore parole positive e un maggior numero di parole negative per descrivere sé stessi rispetto ai soggetti non depressi.

Il punto più interessante è però che a livello cerebrale durante il compito di autodescrizione di sé si è registrato un maggiore livello di attivazione nella corteccia frontale mediale superiore (area solitamente associata all’elaborazione di informazioni sul sé e sulla propria identità) nei pazienti depressi rispetto ai non depressi; tale effetto inoltre non si verifica se è in gioco la descrizione della Regina.

Lungi dal riduzionismo neurobiologico, gli autori auspicano futuri studi mirati a connettere maggiormente gli aspetti psicologici con quelli neurobiologici nella continua comprensione dei fenomeni depressivi.

LEGGI:

DEPRESSIONENEUROPSICOLOGIA – DEPRESSIONE MAGGIORE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il manipolatore perverso: come riconoscere un narcisista maligno

Il narcisista maligno (manipolatore perverso): l’inganno e il raggiro sono il pane quotidiano di tutti coloro che fanno della manipolazione un’arte, uno stile di vita avente come fine ultimo annientare l’altro. Si tratta di ragni che tessono bene la loro tela, in attesa della prossima vittima.

Doctor Jekyll e mister Hyde, dolce al cospetto degli altri, ma vendicativo e subdolo alla spalle. Avete capito di chi stiamo parlando? No, nessun soggetto in particolare, ma sole persone: narcisisti maligni o manipolatori perversi. Non la persona affetta da disturbo narcisistico di personalità in generale, ovvero colui che ha dei tratti inerenti a questo disturbo, ma il narcisista cattivo, il narcisista maligno (come lo chiama Otto Kernberg), il più patologico dei narcisisti.

I narcisisti maligni sono bugiardi, ipocriti e manipolatori affettivi. Hanno un’alta considerazione di loro stessi, esagerano le proprie capacità, appaiono spesso presuntuosi, credono di essere speciali, superiori, di dover essere soddisfatti in ogni loro bisogno e pretendono di avere diritto ad un trattamento particolare. Ma questo non basta, altrimenti avremmo a che fare con un “normale” narcisista. Il tutto risulta condito dal comportamento maligno che porta tale soggetto ad avere anche tratti borderline, antisociali e paranoici.

I manipolatori perversi hanno come obiettivo quello di agire attraverso la manipolazione e il raggiro per far compiere al proprio interlocutore delle azioni che tornano ad esclusivo vantaggio personale, si approfittano dell’amore altrui a scopo egoistico. I manipolatori non provano senso di colpa per quello che fanno poiché tutto è finalizzato a soddisfare il proprio ego. Manipolano la vittima amorosa con falsa tenerezza, e dopo averla conquistata se ne nutrono in maniera avara.

Le vittime sono minate e fiaccate nei loro punti deboli e, di conseguenza, piombano in una spirale negativa dalla quale non escono senza traumi. Ogni relazione deve soddisfare regole e richieste rigidamente imposte.

 

Identikit del manipolatore perverso

L’indizio che ci fa capire se abbiamo a che fare con un manipolatore perverso è la sensazione di soffocamento, la presenza costante di critiche, insinuazioni, sarcasmo che hanno come scopo finale quello di distruggere l’autostima dell’altro fino all’incapacità di vivere. I manipolatori godono dell’umiliazione altrui e non vorrà mai mettersi in discussione, non accettano alcuna critica. Preferiscono criticare  e accusare piuttosto che confrontarsi in modo adulto e maturo con l’altro.

I manipolatori fanno finta di amare, ma non provano alcun sentimento anzi tendono a maltrattare: l’altro è solo lo specchio in cui si riflette.
Si tratta di persone altamente danneggiate, che a loro volta hanno subito traumi, maltrattamenti, abusi comportamentali ed emotivi verificatisi in tempi molto precoci e a causa di questo perpetuano il trauma traumatizzando a loro volta.

La manipolazione costituisce il fulcro di ogni relazione e la perseverazione nella stessa la connota di perversione, ed è l’unica modalità per entrare in contatto con l’altro.

 

Gli strumenti della manipolazione

Gli strumenti di manipolazione più diffusi sono:

1) il ricatto affettivo e le minacce: l’affettività diventa una merce di scambio, il ricatto è sottile a volte impercettibile, ma alla lunga si ha l’impressione di essere imprigionati in una modalità di relazione che non da libertà di scelta poiché ogni gesto viene valutato e misurato in funzione del tornaconto personale.

2) la colpevolizzazione: la causa dei propri problemi è sempre attribuita all’altro e se si trova rimedio si è sottoposti a minacce di vario tipo che confluiscono spesso nell’interruzione della relazione.

3) le bugie e le lusinghe: quando arrivano complimenti e apprezzamenti in quantità e limitati nel tempo molto probabilmente il vostro interlocutore vuole ottenere qualcosa da voi. È fondamentale ricordare la differenza tra affetto e gentilezza, il primo è un sentimento profondo la seconda invece è un comportamento che non coincide necessariamente con un sentimento genuino.

4) la denigrazione: è un processo continuo e minuzioso, mirato a denigrare il partner, a minarne l’autostima attraverso la restituzione di una immagine negativa di sé che con il tempo finirà per fare propria.

5) l’ invadenza: consiste nel mettersi sempre al posto dell’altro e di intromettersi nelle sue scelte e decisioni senza prendere in considerazione il suo punto di vista.

6) le spalle al muro: è la tecnica che chiude il dialogo mettendo in evidenza le contraddizioni dei ragionamenti, manipolandoli in modo tale così da far passare l’altro come una persona incoerente e dalle idee poco chiare.

7) la dipendenza indotta: comprende sia la dipendenza affettiva che materiale, entrambe hanno come obiettivo di depotenziare e minare l’autonomia e l’indipendenza del partner mettendone in luce le debolezze e gli errori.

Insomma, se riconosceste uno di questi comportamenti cominciate a pensare di avere a che fare con un manipolatore perverso e correte subito ai ripari. Ma, chi è la vittima del manipolatore?

Lo scopriremo nel prossimo articolo!

TakeControl: arriva la prima app per combattere il disturbo binge eating

TakeControl: un app per curare il binge eating. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.comBenvenuti nell’era della rivoluzione smart-phone, o meglio benvenuti nell’era in cui le App si mettono al servizio della cura del disagio psichico.

La notizia arriva dall’America, precisamente dal Laboratory for Innovations in Health-Related Behavior Change, Università di Dexel (Philadelphia) che sta mettendo appunto la nuova Applicazione per smart-phone “TakeControl”, con lo scopo di aiutare le persone a ridurre i comportamenti di binge-eating.

L’App, attualmente in fase di sviluppo sarà in grado, tra le varie funzioni, di monitorare lo stile alimentare del soggetto, avvisandolo quando egli è a rischio di mettere in atto un comportamento di alimentazione incontrollata.

Il disturbo Binge Eating, solo recentemente identificato come una diagnosi ufficiale nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, si caratterizza per periodi di assunzione di grandi quantità di cibo, associati a sensazione di perdita di controllo, quindi vergogna ed isolamento sociale.
Il trattamento di eccellenza come scientificamente dimostrato, è la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), efficace in termini di remissione completa solo però nel 50-60 per cento delle persone.

Ed è qui che secondo il suo creatore, Dr. Forman, arriva in aiuto la tecnologia, con una nuova App che aiuta il paziente a individuare i “momenti più a rischio”.

Ma come funziona? Prima di tutto l’applicazione consente alla persona di registrare giorno per giorno gli episodi di binge-eating, i pasti regolari e non, i propri stati d’animo e l’avvenuta assunzione o meno della terapia farmacologica. Il programma è in grado quindi, in base alle informazioni ricevute, di costruire un modello di funzionamento del soggetto, ed inviare un avviso quando identifica una situazione di potenziale rischio.

Un’intensa emozione di rifiuto, di tristezza o ansia, così come un pensiero o un avvenimento esterno possono essere quindi riletti dal programma come “rischiosi” per quella persona, con conseguente segnalazione del rischio attraverso l’emissione di un avviso sonoro. A questo punto il soggetto ha la possibilità di usufruire di una serie di interventi personalizzati della App, che lo aiutino a superare il momento del bisogno.

Gli utenti della App “TakeControl” possono quindi scegliere quanto dei propri dati personali inserire nell’applicazione, possono accedere a dei moduli specifici di apprendimento e di definizione degli obiettivi personali e possono ancora accedere ad un Social Network creato ad hoc, che gli consenta di dialogare con altre persone che condividono lo stesso problema.

La possibilità di utilizzare l’App al fine di tracciare i propri modelli di comportamento nel tempo consente di essere immediatamente consapevoli dei miglioramenti fatti, aumentando conseguentemente il proprio senso di autostima ed efficacia personale. Non solo, ma gli utenti potrebbero imparare a riconoscere come le abbuffate non avvengano per caso ma siano strettamente legate a specifici stati emotivi negativi, e ancora connessi a comportamenti ed eventi esterni “grilletto”.

Il progetto è stato uno dei vincitori selezionati nel corso di una competizione interna dell’Università sotto gli auspici di una partnership tra Università e case farmaceutiche. A Dicembre 2013 ogni progetto verrà preso in esame per una futura espansione e commercializzazione. Se verrà finanziato una nuova versione dell’applicazione per iOS potrebbe essere realizzata, così come nuove funzioni e la possibilità per l’utente di condividere i dati con il proprio terapeuta e medico, in modo che possano essere oggetto di lavoro all’interno del setting clinico.

 

LEGGI ANCHE:

CYBERPSICOLOGIA

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – BINGE EATING DISORDER – BED – TECNOLOGIA & PSICOLOGIA

CURARE LA DEPRESSIONE POST-PARTUM TRAMITE TRATTAMENTO ONLINE

SITOGRAFIA:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autismo: trattamento basato sull’integrazione sensoriale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’ottica è quella di migliorare il processo mediante il quale le informazioni sensoriali vengono processate e integrate per favorire la comprensione di specifiche situazioni quotidiane vissute con difficoltà.

Un nuovo studio pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorder supporta l’efficacia di trattamenti basati sull’integrazione sensoriale nel migliorare la comprensione delle situazioni e dei contesti in cui vivono i soggetti con autismo.

I ricercatori della Thomas Jefferson University negli Stati Uniti hanno messo a punto un trial clinico randomizzato in cui 32 soggetti con autismo (di età compresa dai 4 agli 8 anni) sono stati sottoposti a trattamento di Integrazione Sensoriale (SI) oppure trattamento standard. Nel trattamento standard vengono strutturati interventi comportamentali relativamente alle sensazioni che sono vissute in maniera particolarmente stressante e con maggiore disagio.

Nell’ambito del protocollo di intervento basato sulla Sensory Integration invece dopo avere identificato particolari situazioni e sensazioni vissute con difficoltà dal piccolo paziente – ad esempio la sensazione di disagio rispetto all’acqua mentre si è sotto la doccia- vengono progettate alcune attività ludiche che aiutino il bambino a comprendere la situazione e le proprie sensazioni.

L’ottica è quella di migliorare il processo mediante il quale le informazioni sensoriali vengono processate e integrate per favorire la comprensione di specifiche situazioni quotidiane vissute con difficoltà.

Dai risultati del trial è emerso che i bambini sottoposti a trattamento di Integrazione Sensoriale in una fase di post-assessment avevano avuto miglioramenti nei comportamenti problematici connessi a difficoltà nel processamento sensoriale, nel raggiungimento di obiettivi nella loro vita quotidiana con un maggior livello di autonomia dai genitori in tali attività rispetto ai pazienti sottoposti a trattamento standard. Ad ogni modo, è necessaria cautela nel leggere le implicazioni di tale studio a fronte di una ridotta numerosità del campione e della necessità di replica di tali risultati.

LEGGI:

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Pt.5

Il conflitto pt. 5

Il conflitto: Interrompere la logica dell’ “occhio per occhio”, ovvero de-escalation, contenimento, risoluzione.

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

 

Il conflitto - da ragionevole divergenza a escalation violenta - Pt.5. - Immagine: © NLshop - Fotolia.comPer quanto l’acutizzazione di un conflitto sia un processo molto più semplice e immediato del suo contenimento, risulta necessario, se non inevitabile, in molte condizioni sociali e relazionali promuovere e attuare interventi per una risoluzione quanto più pacifica e costruttiva dell’escalation.

Quando si parla di de-escalation non si intende sbrigativamente il processo simmetricamente opposto all’escalation, ma una procedura che ripercorra a ritroso le fasi che hanno caratterizzato l’incremento e l’intensificazione del conflitto, favorendo la rielaborazione e l’analisi delle azioni, percezioni ed emozioni degli agenti coinvolti (Arielli e Scotto, 2003). La de-escalation mira all’abbandono da parte degli agenti di obiettivi massimalisti e di posizioni ingessate, alla depolarizzazione, all’esaurimento della spirale aggressiva e alla ricostruzione della relazione. Lo scopo finale è quello di favorire scambi cooperativi e costruttivi tra forze in conflitto, aprendo nuovi canali comunicativi, favorendo la riconciliazione reciproca e il riconoscimento della corresponsabilità di quanto accaduto (ibid.). Dal momento che, come già detto sopra, i conflitti divenuti intrattabili sono caratterizzati da una diminuzione della complessità, un intervento di de-escalation dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione e reinstaurazione della multidimensionalità relazionale (Coleman et al., 2007).

Il primo passo è quello di identificare gli elementi rilevanti alla base del conflitto, per rompere i legami univoci tra di loro e favorire negli attori coinvolti nuove strategie di comunicazione e di problem solving; il secondo passo è quello di amplificare le possibilità di scelta, di azione e di interazione, moltiplicando così anche i possibili esiti, non solamente distruttivi, della dinamica conflittuale (ibid.; Martello, 2006a).

Queste linee guida possono essere applicate alle situazioni conflittuali estreme a diversi livelli, da quello micro a quello macrosociale (Coleman et al., 2007; Anderson, Buckley e Carnagey, 2008). Concentrandosi a livello interpersonale, gli interventi di prevenzione e gestione del conflitto dovrebbero essere progettati e costruiti tenendo conto della multidimensionalità del costrutto in oggetto (Anderson e Bushman, 2002); concentrarsi solo sulle azioni oggettive e sui comportamenti concreti non rende giustizia ai vissuti emotivi profondi e disturbanti che, come descritto sopra, accompagnano il conflitto, così come valutare solo la dimensione covert rischia di giustificare azioni concrete socialmente e/o umanamente inammissibili.

Un primo aspetto da considerare dovrebbe riguardare la modificazione del contesto relazionale, allo scopo di renderlo un frame caratterizzato da sicurezza e supporto in cui percepire il conflitto non come una rigida opposizione in cui vince il più forte o il più ostinato anche a rischio di incrinare la relazione, ma come un’occasione di confronto, di approfondimento, di arricchimento personale e relazionale (Martello, 2006b). Pensare al conflitto come una possibilità grazie a cui meglio conoscere i propri e altrui diritti, bisogni e scopi, rappresenta un fattore di protezione e consolidamento della relazione (Geiger e Fischer, 2006).

Dal momento poi che le dinamiche conflittuali all’interno delle relazioni umane tendono a stabilizzarsi nel tempo e a cristallizzarsi in scripts (Winstok e Eisikovits, 2008), un intervento efficace dovrebbe tentare di de-stabilizzare queste componenti cristallizzate e di favorire l’uscita degli attori dalla logica rigida e dicotomica del “vincere o arrendersi”; i destinatari di questi interventi dovrebbero convincersi del fatto che il conflitto non deve necessariamente presentarsi sempre mediante le stesse dinamiche ed avere sempre la stessa conclusione distruttiva per gli attori in causa o per la loro relazione. Dal momento che gli esseri umani sono agenti attivi all’interno del proprio ambiente sociale e relazionale, sono essi stessi in prima persona a decidere con intenzionalità ed autoefficacia come gestire le relazioni cui partecipano e quali insegnamenti trarre dalle dinamiche coinvolte (Bandura, 2001).

Nell’intento di conferire importanza alla multidimensionalità del costrutto, gli interventi dovrebbero agire a livello sia cognitivo, favorendo la riduzione della tendenza all’azione, il controllo cognitivo, la gestione di pensieri e rimuginazioni ostili, sia a livello comportamentale, potenziando le competenze di automonitoraggio, autocontrollo e pianificazione (Smits e De Boeck, 2007).

Essendo inoltre il conflitto orientato e alimentato da una reciproca attribuzione di biases cognitivi e percettivi, gli interventi di contenimento del conflitto dovrebbero porsi l’obiettivo di far comprendere agli agenti che le proprie posizioni sono spesso influenzate da aspettative irrealistiche, da esperienze personali, da schemi cognitivi preesistenti, da sistemi di valori e di credenze e da bisogni di protezione del Sé (Kennedy e Pronin, 2008). Riconoscere in noi stessi queste tendenze erronee e tendenziose, rappresenta il primo passo concreto verso la loro correzione, ma anche verso la prevenzione dell’escalation e la risoluzione costruttiva del conflitto (Pronin, 2007).

A livello emotivo, restituire dignità e umanità ai reduci di una forte escalation risulta essere il primo passo verso una migliore comprensione dei fatti e una più lucida valutazione di sé e delle proprie azioni; questo significa a sua volta riportare i ruoli all’interno della relazione, che con il conflitto si erano irrigiditi e polarizzati, alla complementarietà e alla flessibilità, garantendo il diritto alla diversità e alla complessità individuale (Arielli e Scotto, 2003; Coleman et al., 2007; Gray et al., 2007; Martello, 2006b).

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Reportage dal workshop avanzato ”Fare Act” – Milano

 

Reportage dal workshop avanzato ”Fare Act”

Milano – 30 novembre

 

LEGGI MONOGRAFIA ACT

Fare ACT - HarrisSei molto di più e molto di meno di quella roba lì”. Tra i tanti momenti interessanti vissuti durante il workshop avanzato “Fare ACT”, organizzato da ACT Italia sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre, questa frase di Giovanni Miselli, socio fondatore ACT Italia, ha forse il merito di riassumere l’importanza verso i processi rispetto al contenuto delle credenze stimolando un continuo distanziamento dalle proprie esperienze mentali.

Questo è stato il focus di entrambe le giornate: intervenire sui processi, in particolare sui sei processi ACT dell’Hexaflex, di cui già abbiamo parlato qui su State of Mind (https://www.stateofmind.it/2013/03/monografia-act-intermezzo-2-hexaflex/). In questo l’ACT rappresenta la Terza Ondata in modo chiaro e definito.

Il percorso di psicoterapia si concentra sulle qualità dell’esperienza, sul focus nel momento presente e sull’azione impegnata verso i propri valori, qualità con cui si svolgono le esperienze.

Uno dei vantaggi nell’aver frequentato un workshop di livello avanzato è proprio quello di aver avuto la possibilità focalizzare interamente le due giornate su esercizi esperienziali, terreno su cui di fatto si costruisce l’ACT, dando per acquisita tutta la parte teorica con la descrizione dei singoli processi dell’Hexaflex. L’utilizzo da subito della pratica ha aiutato a comprendere meglio un modello che, come detto, ha proprio come peculiarità tutta una serie di tecniche che spaziano dall’uso delle metafore, ai paradossi per giungere agli esercizi prettamente esperienziali.

Le due giornate sono state molto utili per capire come poter favorire i processi fondamentali della flessibilità psicologica intesa come “abilità di essere nel momento presente con piena consapevolezza e apertura alla nostra esperienza e di intraprendere azioni guidate dai nostri valori (Harris, 2011) prima di tutto su di noi e poi su casi portati dai colleghi apprendendo competenze pratiche tipiche dell’ACT. Leggendo i volumi pubblicati dal gruppo di terapeuti ACT capitanati da Steven C. Hayes, si coglie subito il senso e la estrema importanza dell’aspetto esperienziale, non solo per i pazienti ma prima di tutto per i terapeuti stessi. Quasi tutti i libri ACT si concludono con il “consiglio”, che spesso ha la forma della procedura necessaria e basilare per applicare l’ACT con in pazienti, di provare su se stessi il modello ACT, la defusione, le pratiche di mindfulness e l’azione impegnata secondo i propri valori.

Durante il workshop, ma soprattutto nell’utilizzo degli esercizi, è risultato da subito evidente come lavorare su di un processo comporta obbligatoriamente toccare tutte le altre componenti dell’Hexaflex descritte infatti come “sei facce di un unico diamante” (Harris, 2011).

Ho parlato di tecniche ma non è corretto pensare all’ACT come a un esercizio, come afferma Giovanni Zucchi, Presidente di ACT-Italia, L’ACT non è una tecnica, è porsi sullo stesso piano del paziente cercando di stare con quello che ti porta”, sottolineando l’importanza della componente relazionale.

Se pensiamo, infatti, che per il modello la sofferenza è il frutto di tentativi controproducenti di evitare o sopprimere esperienze interne il compito del terapeuta è quello di aiutare il paziente ad avere verso quelle esperienze dolorose un rapporto di apertura dopo avergli fatto fare esperienze di come questa continua lotta che porta avanti verso di esse lo ha bloccato dal punto di vista di investimento verso ciò che per lui è veramente importante. E per fare questo, così come per le applicazioni della mindfulness, è necessario prima fare esperienza del proprio rapporto con le esperienze dolorose e con le difficoltà incontrate nel percorso di “scoperta e riscoperta di una vita ricca e soddisfacente (Hayes, Stroshal & Wilson, 1999).

Questo è il motivo per cui ci portiamo a casa dal workshop un percorso esperienziale, svolto nell’arco delle intere due giornate, in cui i partecipanti hanno avuto molte occasioni per entrare in rapporto con le proprie difficoltà e “provare in vivo” il modello ACT e i suoi processi.

Un piccolo esempio di questa esperienza può essere riassunto in un famoso esercizio creato proprio da Russ Harris.

Esercizio (adattato da Andrea Bassanini):

1- Prova a pensare ai giudizi, critiche e autovalutazioni che la tua mente spesso ti presenta all’attenzione.

2 – Ora prova a ripeterteli uno dopo l’altro. Potrebbe essere sgradevole e spiacevole, ma ti chiedo di continuare a ripeterli e a soffermarti su cosa noti in questo momento.

3 – Dopo qualche tempo, prova a immaginare di continuare a ripetere nella tua mente questi giudizi e critiche dando loro una voce “strana”, allegra, ripresa di un cartoon, molto acuta o molto grave. Poi prova a rallentare la voce di questi pensieri, ad esempio dicendo a te stesso: “s………..o………n……….o………u……..n…..” e così via.

4 – Soffermati su cosa noti nel momento presente.

5 – Con questa esperienza potresti notare che con i nostri pensieri possiamo farci molte cose e che tu Sei molto di più e molto di meno di quella roba lì.

Fare ACT - Milano
Da sinistra: Dott. Calzolari, Dott. Miselli, Dott. Zucchi, Dott. Bassanini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LEGGI MONOGRAFIA ACT

LEGGI ANCHE:

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT  – CREDENZE – BELIEFS

ACT – TEORIA E PRATICA DELL’ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Highly Superior Autobiographical Memory – Memorie eccezionali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Highly Superior Autobiographical Memory (HSAM)-Recentemente nell’ambito delle ricerche sulla memoria si è evidenziato come in alcuni individui vi sarebbero memorie autobiografiche altamente dettagliate quasi aventi la forma di un diario.

Cioè a dire che se si fornisce una data del passato tali individui sarebbero in grado di fornire un report dettagliato descrivendo quel che stavano facendo il quel giorno, avvenimenti pubblici, e riuscendo anche ad azzeccare il giorno della settimana.

Anche nel momento in cui la data proposta è di una decina di anni prima! Tecnicamente il fenomeno si chiama Highly Superior Autobiographical Memory (HSAM). 

Alcuni ricercatori si sono chiesti se e in che misura il falso ricordo potesse impattare anche in questi soggetti. A tal fine sono stai reclutati circa 20 soggetti con HSAM e 38 soggetti di controllo (con capacità mnestiche nella media) e sono stati sottoposti a una serie di test sulla distorsione mnestica.  Tra questi compiti sperimentali, per esempio uno prevedeva che i partecipanti studiassero una lista di parole, e successivamente veniva richiesto loro di riconoscere queste parole in una nuova e diversa lista. In questo caso i soggetti HSAM riportavano percentuali di errore equiparabili a quelle dei soggetti di controllo. Parimenti il profilo di performance  si è dimostrato simile – o anche peggiore in diversi compiti mnestici.

Quindi se le persone superdotate a livello di memoria autobiografica sono comunque soggette a distorsioni mnestiche – proprio come tutti gli altri- come è possibile che i loro ricordi della vita quotidiana siano cosi dettagliati e precisi? 

Secondo i ricercatori i soggetti con HSAM avrebbero processi ricostruttivi della memoria simili a quelli dei norrmomnestici con bias e distorsioni, anche se tuttavia nell’area dei ricordi situati autobiografici avrebbero chiaramente una maggiore ricchezza di dettagli e precisione. Ancora difficile dunque collocare in un quadro più ampio questo fenomeno di ipermnesia della vita quotidiana.

LEGGI:

MEMORIA MEMORIA EPISODICA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents

Carmela Mento, Ph.D.

Assistant Professor of Clinical Psychology

 

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents

Settineri S., Mento C., Rizzo A.

(University of Messina)

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents. -Immagine:© brunobarillari - Fotolia.comThe relationship between global self-esteem and dental self-confidence suggests the need to draw attention to psychological aspects involved in the treatment in order to promote not only the dental health, but also the psychological well-being. 

 

Background

The concern for some imaginary defect in the physical appearance, more often referred to the face, in a person with normal appearance is called, according to the DSM-IV, Body Dysmorphic Disorder (BDD). It occurs between adolescence and early adulthood, and about 2% of these patients resort to visits dermatology, plastic and dental interventions in a continuous, excessive and ineffective way to satisfy them both physically and psychologically.

During the adolescence, a delicate and transitional stage of physical and psychological development to new environmental and psychological structures, some elements of appearance and, more specifically, dental aesthetics have great importance for the adolescent’s self-image and self-esteem (de Paula et al., 2009).

Furthermore, malocclusion significantly affects the appearance of the smile, which is a part of notable facial attractiveness and an effective way of expressing emotions.

Therefore, the aesthetic impact of malocclusion may have a more or less significant consequence on the adolescent’s quality of life, can impair social interaction, interpersonal relationships, and psychological well-being; until producing feelings of inferiority (Broder et al., 2000).

Our study, recently published in the Indian Journal of Research [Paripex article], Settineri S., Mento C., Rizzo A., Liotta M., Militi A., Terranova A. (2013). Dysmorphic level and impact of Dental Aestetics among adolescents. Indian Journal of research, 1; 2(7), aimed to verify the relationship between the dysmorphic level and the psychosocial impact of dental aesthetics among adolescents undergoing orthodontic treatment. 

Main Results

〉 Quality of Body Image. Patients suffering of BDD tend more easily both to require orthodontic treatments and to be dissatisfied about their most recent treatment (De Jongh et al.,2009; Crerand et al., 2006). Adolescents in our sample showed a dysmorphic level from mild to moderate, except for 8% of the cases to which could be diagnosed as a BDD: 32% of subjects identifies their physical defect in the braces, mouth and/or teeth. Generally in adolescents the most common areas of concern are skin, hair, stomach, weight, and at least teeth (Phillips, 2006). Orthodontists should be alert for patients extremely concerned about insignificant or negligible dental flaws or defects, reporting multiple requests for orthodontic treatment or seeking evaluations with several professionals (Hepburn, S., & Cunningham, 2006).

〉 Self esteem. Malocclusion and aestetics concerns affect self esteem. In our sample its level is at the lower limits of normal and 18% of subjects showed even lower than normal level of self-esteem. Most of them are females and this data confirms a well-established knowledge in the literature: girls have lower levels of self-esteem than boys (Kling, 1999).

〉 Self perception of malocclusion. Dentists and patients could differ in the evaluation of the gravity of malocclusion. Several studies compared the self perception with the objective judjement established by professional. Most (Danaei & Salehi, 2010; Badran, 2010; Kerosuo et al., 2004; Grzywacz, 2003; Fox et al., 2000; Birkeland et al.,1996) showed significant agreement (between 77% and 85%) for what concern dental aesthetic and a less agreement (usually little more than 50%) for what concern dental health component. It’s an interesting fact that, in our study, there was no relationship between the subjective judgment of the patient on its degree of malocclusion and the evaluation of the dentist. 

〉 Personal experience of dental aestethics. Younger patients, who wear the braces from less time, emerged as more concerned and with higher levels of psychological and social impact linked to dental aesthetics. This is an aspect that should be considered during the treatment in order to early detect signs of discomfort in adolescent’s quality of life and well-being.

In conclusion, from the psychological point of view, it is possible that self-esteem is a protective factor in the development of body image disorders, being strongly linked not only with each other but also to higher levels of obsessive-compulsive, depressive and somatization tendencies (Biby, 1998). Moreover, from the dental point of view, the relationship between global self-esteem and dental self-confidence suggests the need to draw attention to psychological aspects involved in the treatment in order to promote not only the dental health, but also the psychological well-being. 

The Research Project

This study is part of a broader line of research that originates from the collaboration between two disciplines: Dentistry and Psychology. Since 2005, several studies have been carried out by the Chair of Clinical Psychology and the Chai of Dentistry, at the University of Messina, which have focused on different aspects of dental and mental health such as: gender differences in dental anxiety (Settineri et al., 2005), self reported halitosis (Settineri et al. 2010), dental anxiety and psychopathologies (Settineri et al., 2013).

 

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REFERENCES:

 

Autismo – Esplorare i sentimenti, di Tony Attwood (2013) – Recensione

 

Recensione del libro:

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitiva – comportamentale per gestire ansia e rabbia

di Tony Attwood (2013)

Armando Editore

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbiaIl libro “Esplorare i sentimenti” di Tony Attwood illustra un programma elaborato per intervenire su bambini con la Sindrome di Asperger che può essere utilizzato anche con bambini affetti da Autismo ad Alto Funzionamento, Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, Disturbi dello Spettro Autistico e in generale con soggetti che presentano difficoltà nella regolazione emotiva.

Il programma prevede gruppi dai 2 ai 5 bambini di età compresa fra i 9 e i 12 anni con due adulti che conducono l’incontro; ogni bambino dispone di un quaderno dove lavora per sei sessioni di due ore ciascuna che comprendono attività e informazioni finalizzate all’esplorazione di sentimenti quali felicità, ansia e rabbia. Viene inoltre fornito un libro dei progetti in cui il bambino può scrivere i commenti e le risposte alle domande rivolte dagli adulti.

Al termine di ogni sessione viene assegnato un progetto, un compito da completare prima della sessione successiva e all’inizio di quest’ultima ne viene discusso l’esito col singolo bambino o con l’intero gruppo. “Esplorare i sentimenti” comprende due moduli, uno per la conoscenza e la gestione dell’ansia, l’altro per la rabbia. Il primo incontro approfondisce due emozioni positive, la felicità e il rilassamento, attraverso attività che misurano, stimolano e pongono a confronto sensazioni di benessere in situazioni specifiche. La seconda sessione spiega cosa sono l’ansia e la rabbia promuovendo il riconoscimento delle alterazioni che si verificano a livello fisiologico, cognitivo, comportamentale e comunicativo.

Al termine dell’incontro viene descritta la Cassetta degli Attrezzi ossia la categoria degli strumenti che riparano i sentimenti, in particolare gli strumenti fisici che permettono un rilascio immediato di energia emotiva (correre, saltare) e gli strumenti di rilassamento che riducono il ritmo cardiaco (ascoltare musica, leggere un libro).

Nella terza sessione vengono trattati gli strumenti sociali, spiegando per esempio come le persone attorno al bambino possano aiutarlo a ristabilire pensieri positivi attraverso parole e gesti rassicuranti. Viene insieme esplicitato che la solitudine, cioè il temporaneo evitamento del contatto sociale, può essere in alcuni casi una strategia efficace per i soggetti con la Sindrome di Asperger.

La terza sessione si occupa infine degli strumenti di Pensiero e Prospettiva, una gamma di strategie e attività utili a esaminare la realtà e a stimare la probabilità degli eventi temuti.

Il quarto incontro è dedicato al concetto di Misuratore come modalità per determinare l’intensità di uno stato emotivo; ci si confronta inoltre sulle possibilità a disposizione del bambino per prestare o condividere strategie e abilità di fronteggiamento dell’ansia o della rabbia.

Nella quinta sessione vengono presentate le Storie Sociali, che si configurano come strumenti per migliorare la competenza sociale ed emotiva nonché le risposte comportamentali e l’elaborazione cognitiva degli stati problematici; accanto ad esse viene introdotta la nozione di antidoto per i pensieri negativi, che prende forma attraverso la costruzione di pensieri alternativi e la distrazione dai contenuti mentali fonte di sofferenza.

Nell’ultimo incontro i bambini progettano per sé e per gli altri membri del gruppo un intervento cognitivo-comportamentale volto ad accrescere le risorse di coping emotivo. Il programma prevede lo svolgimento di un test o di un’attività prima e dopo i sei incontri per verificare i risultati ottenuti; è importante sottolineare che “Esplorare le emozioni” può essere adattato a soggetti adolescenti e adulti e rappresenta un progetto clinico sull’ansia e sulla rabbia a disposizione non solo dei terapeuti ma anche di insegnanti adeguatamente formati.

LEGGI:

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – BAMBINI – RECENSIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Effetti della TV sullo sviluppo della teoria della mente nei bambini

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Molti studi hanno indagato gli effetti dell’esposizione alla TV sui comportamenti sociali dei bambini, senza però esaminare se l’esposizione alla TV influisce sullo sviluppo della teoria della mente, cioè capacità del bambino di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio comportamento e quello degli altri.

Secondo i risultati di un recente studio, pubblicato sul Journal of Communication, i bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Un team di ricercatori della Ohio State University ha intervistato e analizzato 107 bambini e i loro genitori per studiare la relazione tra l’esposizione alla TV in età prescolare e lo sviluppo della teoria della mente.

Ai genitori veniva chiesto quanto tempo i loro figli guardassero la televisione, in seguito i bambini svolgevano dei compiti basati sulla teoria della mente, per valutare la loro capacità di discriminare tra le proprie e le altrui credenze e desideri, la conoscenza del fatto che le credenze possono essere sbagliate e che queste influenzano i comportamenti.

Avere una TV camera da letto ed esserne esposti con frequenza correlava con una comprensione più debole degli stati mentali, anche dopo aver considerato le differenze di prestazioni basate sull’età e lo status socio-economico del genitore. Tuttavia, il dialogo tra figli e genitori su ciò che i bambini stanno guardando sembra essere un fattore di protezione anche per quei bambini che vedono molta TV, infatti in questi casi la teoria della mente risultava comunque buona.

Questi risultati sono importanti perchè i bambini con una teoria della mente ben sviluppata sono facilitati nelle relazioni sociali, hanno maggiore sensibilità e capacità di cooperazione, e sono meno aggressivi con gli altri nel tentativo di raggiungere i loro obiettivi.

LEGGI:

BAMBINITEORIA DELLA MENTE TELEVISIONE E TV SERIES

 

BIBLIOGRAFIA:

DSM 5: Pedofilia, disturbo o disordine? – Psicologia

 

DSM5 . - Immagine @ o-DSM-5-facebookI criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa!

La diagnosi di pedofilia, inclusa fino al DSM IV TR tra le parafilie ha provocato rumor nel settore, per le modifiche inserite nel DSM 5 rispetto a questa categoria diagnostica.

I criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa, poiché erroneamente il termine disorder è stato tradotto come “disordine” e non come “disturbo” (traduzione corretta del termine). Considerare la pedofilia un disordine e non una patologia declasserebbe il problema, rendendola una patologia non più patologica. 

In realtà l’intento dell’APA era, al contrario, quello di evidenziare e sottolineare la componente psicopatologica che sottende e mantiene il  pedophilic disorder.

Partiamo dall’origine. Nel DSM IV si effettuava una diagnosi differenziale tra egodistonia ed egosintonia della sintomatologia, per cui se i sintomi erano egodistonici, cioè causa di disagio sociale o di altre aree di funzionamento nel pedofilo, allora si poteva parlare di patologia; se, al contrario, i sintomi erano egosintonici non risultavano clinicamente rilevanti.  Nel DSM IV-TR questo criterio è è stato modificato: l’agito dell’impulso sessuale è stato introdotto come criterio diagnostico rilevante quanto l’egodistonia.

Torniamo ai giorni nostri. Nel DSM-5 colui che mostra un’attrazione sessuale e agito verso i bambini, mostra un disagio clinicamente significativo e una compromissione dell’area sociale e psicologica. 

Ma, la polemica non si è fermata qui ed è continuata incessantemente. Infatti, la stampa internazionale, questa volta, si è scagliata contro il termine, introdotto nel DSM IV 5 pedophilic sexual orientation. Ancora peggio, non solo disordine, ma orientamento sessuale! Effettivamente, questa dicitura lasciava molto perplessi: la pedofilia non era più un problema psicologico? Ed ecco che arriva la correzione: si tratta di sexual interest e non di orientamento. 

Tutti coloro che non soddisfano pienamente i criteri per la diagnosi di pedophilic disorder, in quanto presentano un’attrazione sessuale rivolta verso i bambini non agita, in assenza di sentimenti di colpa, vergogna e ansia, quindi egosintonica, presentano un “orientamento sessuale”.

Questa sotto categoria è stata introdotta nel DSM-5 per operare una distinzione col disturbo mentale vero e proprio. L’utilizzo di questo termine è stato travisato dall’opinione pubblica, pertanto l’APA ha provveduto repentinamente, attraverso comunicato on -line, a modificare la terminologia sostituendola con “interesse sessuale”. Infatti così facendo sembrava legittimasse “l’interesse” nei confronti dei bambini, e anche se questa cosa non passava all’atto, si trattava sempre di un interesse atipico.

L’intento, però, era solo quello  di demarcare il confine tra soggetti che presentano un interesse sessuale atipico e non agito e quelli che sono affetti da un disturbo mentale vero e proprio, cioè agito.

Per non farci mancare nulla, la sezione dei disturbi sulle parafilie include, oltre al pedofilic disorder, altri sette disturbi: exhibitionistic disorder,fetishistic disorder, frotteuristic disorder, sexual masochism disorder, sexual sadism disorder, transvestic disorder and voyeuristic disorder.

Altro rumor: l’introduzione del transvestic disorder per definire coloro che si vestono con abbigliamento tipico del sesso opposto. Nel DSM IV-TR questo disturbo era specifico per i  maschi eterosessuali, mentre nel DSM 5 sono state incluse nel disturbo anche le donne. Ma, anche qui, se queste persone traggono piacere nell’effettuare questo travestimento sono patologici?

Aspettiamo buone nuove!

LEGGI ANCHE:

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM5 

SESSO – SESSUALITA‘ – DISTURBI SESSUALI

Guarda l’ Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ortoressia nervosa: quando mangiare bene non fa più bene.

 

Ortoressia: oggi il cibo fa paura, siamo costantemente sottoposti ad un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute, sugli alimenti “buoni” e “cattivi”, sui rischi che corriamo scegliendo o meno certi prodotti. Non c’è quindi da meravigliarsi se il rapporto con il cibo si sia fatto sempre più complesso e problematico.

Ortoressia. - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.
Ortoressia. Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.

Recentemente, i mass-media e gli specialisti del settore dell’alimentazione hanno segnalato la diffusione di un nuovo disturbo, chiamato Ortoressia Nervosa (ON).

Il termine ortoressia (da orthos, giusto, corretto, e orexis, appetito) fu utilizzato per la prima volta nel 1997 dal dietologo americano Steven Bratman per descrivere l’ossessione patologica riguardo al consumo di cibi sani e naturali (Bratman, 1997).

Oggi, sebbene non esistano né una definizione universalmente accettata né dei criteri diagnostici formalmente riconosciuti, si intende per ortoressia nervosa (ON) l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni sostanziali nella dieta e presenza di:

  • ruminazione ossessiva sul cibo;
  • comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti;
  • insoddisfazione affettiva e isolamento sociale dovuti alla persistente preoccupazione riguardo al mantenere le regole alimentari autoimposte (Brytek-Matera, 2012).

Le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che posso essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

  1. forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o “artificiali”, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);
  2. impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;
  3. preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);
  4. sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

Infatti, come scrive Bratman nel suo libro, “una persona che riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa può sentirsi altrettanto pia di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto”, ma di fronte ad uno strappo alla regola la stessa persona si trova a dover affrontare forti sensi di colpa, e spesso si punisce mettendo in atto restrizioni ancora più severe (Bratman & Knight, 2000).

Diventa impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena da amici; con il passare del tempo, la gamma alimentare diviene sempre più ristretta e la qualità del cibo arriva ad essere più importante dei valori morali, delle relazioni sociali, dell’attività lavorativa e della vita affettiva, minando il funzionamento globale ed il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).

Ortoressia nervosa: quanto è diffusa?

Donini e colleghi (2004) hanno valutato la prevalenza dell’ortoressia nervosa in Italia: su 404 soggetti inclusi nella ricerca, il 17.1% (n= 69) è stato definito “fanatico della salute”, mentre il 6,9 % (n=28) è risultato corrispondere ai criteri definiti dagli autori per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa (presenza di comportamenti di selezione del cibo, sintomi fobici e ossessivo-compulsivi riguardo al cibo).

La prevalenza del disturbo è risultata maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%). Questo dato può essere spiegabile con la crescente diffusione di stereotipi culturali legati alla forma fisica maschile ed è in accordo con i dati relativi ad un altro recente disturbo prevalentemente maschile, la vigoressia o preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso.

 

Come misurare l’ Ortoressia nervosa

Ancora Donini e colleghi (2005) hanno sviluppato l’ORTO-15, uno strumento per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa. Si tratta di un questionario auto-somministrato composto da 15 item che valutano la presenza di comportamenti ossessivi relativi a selezione, acquisto, preparazione e consumazione dei cibi considerati salutari (ad es.:“ Quando entri in un negozio di alimentari ti senti confuso?”; “Sei disposto a spendere di più per avere cibi più sani?”; “Pensi che la convinzione di mangiare solo cibo sano aumenti la tua autostima?”). Ciascun item è valutato su una scala Likert a 4 punti (sempre, spesso, a volte, mai) in cui i comportamenti a rischio ricevono punteggio 1 e i comportamenti normali punteggio 4; un punteggio al di sotto di 40 è considerato indice di ortoressia.

 

Ortoressia nervosa: quale categoria diagnostica?

Da qualche tempo in letteratura si è aperto un dibattito sulla natura dell’ortoressia: si tratta di un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare (DCA), di una condotta patologica nei riguardi del cibo oppure di un sotto-tipo di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)?

Alcuni autori, infatti, (ad es., Mac Evily, 2001), sostengono che il motivo per cui l’ortoressia non è stata per il momento inserita all’interno dei DCA è legato al fatto che ci sono alcune differenze tra Ortoressia Nervosa e anoressia o bulimia. In particolare, l’esordio dell’Ortoressia Nervosa non sembra legato ad una bassa autostima, come accade invece frequentemente nei DCA; inoltre, la natura delle ossessioni del soggetto ortoressico non riguarda il peso o la forma corporea, ma la purezza degli alimenti; infine, pare che l’Ortoressia Nervosa si possa trasformare in anoressia o bulimia quando la dieta si fa eccessivamente restrittiva e compulsiva.

Altri autori (ad es., Catalina Zamora et al., 2005) sottolineano invece le somiglianze tra soggetti ortoressici e soggetti con DCA, in particolare anoressici, come ad esempio la presenza di elevato perfezionismo e bisogno di controllo, rigidità, meccanismi fobici e ipocondriaci.

Anche la relazione tra ortoressia nervosa e DOC appare interessante; infatti, sembra che le persone che soffrono di DOC abbiano elevate tendenze ortoressiche (Arusoĝlu et al., 2008).

Infine, Brytek-Matera (2012) sostiene che si possa considerare l’ Ortoressia Nervosa come un’abitudine o una condotta patologica verso il cibo (al pari del vomito, dell’uso di lassativi o del “dieting”) connessa con sintomi ossessivi-compulsivi.

Per il momento il dibattito sull’argomento rimane aperto; sono auspicabili ulteriori studi che vadano ad incrementare la scarsa letteratura riguardante l’ortoressia.

 

Cura dell’ ortoressia nervosa

Ci sono evidenze di buoni risultati per trattamenti che combinano la psicoterapia cognitivo-comportamentale con farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012).

In generale, il trattamento dell’ortoressia dovrebbe avvalersi di un’equipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti; dovrebbe essere pensato per rispondere alle specifiche esigenze della popolazione ortoressica e dovrebbe porsi come obiettivo quello di insegnare alla persona a mangiare (bene) senza che questo costituisca un’ossessione, lavorando non solo con il soggetto, ma anche con l’ambiente che lo circonda (ad es., familiari).

Per fortuna, sembra che i soggetti ortoressici rispondano meglio alle cure rispetto a soggetti con DCA, probabilmente a causa di una maggiore compliance dovuta alla preoccupazione per la propria salute che caratterizza questo disturbo (Mathiew, 2005).

LEGGI ANCHE:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD)

LA DISMORFIA MUSCOLARE O VIGORESSIA: LO SPECCHIO DEFORME DI ADONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Status updates su Facebook: correlazioni con tratti di Personalità

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Lo studio della Sahlgrenska Academy  dell’ università svedese di Gotenburg è stato condotto su 300 volontari utenti del social network e mirava ad analizzare i commenti e gli status su Facebook con lo scopo di capire le personalità degli utenti. Lo status degli utenti diventa quindi possibile indicatore della psicopatologia o dei tratti di personalità degli utenti.

Come ci si aspettava chi ha una personalità più estroversa ha più amici e aggiorna di frequente  lo status, ma oltre questo hanno scoperto che chi ad esempio pubblica foto macabre di violenza su animali o riporta spesso episodi di cronaca cruenti  potrebbe in realtà celare istinti violenti, personalità oscure o ossessive.

Secondo gli autori della ricerca ciò che possiamo considerare come fattori rilevanti per comprendere i tratti di personalità degli utenti di Facebook sono il numero di amici e la frequenza degli status che vengono pubblicati, oltre che il contenuto.

Dagli status del social network è addirittura possibile scoprire se tra i nostri amici si nascondono psicopatici, narcisisti o individui particolarmente subdoli e contorti

 

 

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Nuove tecnologie contro le Abbuffate da Stress – Alimentazione / Binge Eating

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’università di Rochester a New York insieme a quella di Southampton nel regno unito e con il contributo di Microsoft hanno messo a punto un reggiseno in grado di aiutare le persone a non riversare lo stress sul cibo e quindi a non abbuffare.

Il reggiseno è dotato di sensori che monitorano l‘attività del cuore del respiro e della pelle rilevando le attività elettrodermiche e misurando il livello di stress di chi lo indossa. Inoltre il reggiseno è fornito di giroscopio e accelerometro che forniscono informazioni sullo stato emotivo.

Questo monitoraggio costante aiuta le persone a essere più consapevoli del proprio umore e stato emotivo e prevenire le abbuffate o gestire le abbuffate. Il funzionamento è semplice, nel momento in cui il reggiseno misura livelli di stress elevati avvisa chi lo indossa tramite una app sul cellulare che suggerisce di mangiare più lentamente.

Questo nuovo prodotto è ancora un prototipo ma potrebbe essere un aiuto interessante per chi è un mangiatore emotivo e quindi potrebbe essere un utile suppporto nella cura dei Disturbi Alimentari.

Tutto nasce da una ricerca scientifica sul tema “cibo & umore”. Molte persone mangiano non per fame ma per stress, con i danni per la salute a tutti noti. Modificare i comportamenti alimentari, quando si tratta di «cibo emotivo», è particolarmente difficile, e i ricercatori dell’Università di Rochester, New York, e di Southampton, Regno Unito, cercavano un metodo efficace e immediato per aiutare chi soffre di sovrappeso a causa del troppo cibo ingerito per ragioni che nulla hanno a che fare con la fame.

 

Il reggiseno che controlla come mangiamoConsigliato dalla Redazione

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Il prototipo dei Microsoft Labs “monitora” l’umore per avvisarci sullo smartphone se ci abbuffiamo per stress (…)

 

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ARTICOLI SU: STRESS – ALIMENTAZIONE


Alcool – Bevitori solitari in adolescenza più a rischio di alcolismo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alcool e Adolescenti – I bevitori solitari utilizzano l’alcol come forma di automedicazione e di gestione di stati emotivi negativi.

Come comincia la strada dell’alcolismo? Negli incontri degli AA si parla tanto di come sono stati i primi approcci con l’alcol e si scopre che molti alcolisti iniziano già nell’adolescenza a bere, per scopi sociali, per sentirsi simili ai coetanei, per vincere la timidezza, per sentire un maggiore senso di adeguatezza nel gruppo. Per alcuni però il bere non è mai stato un rito collettivo, ma hanno cominciato in modo solitario, senza il piacere della socialità.

Kasey Creswell, psicologa ricercatrice della Carnegie Mellon University si è interessata ai giovani bevitori solitari perchè, pur essendo più rari di quelli sociali, hanno un maggiore rischio di diventare alcolisti superato il periodo adolescenziale.

Cosa spinge questi adolescenti a bere da soli? Bere da soli induce a bere sempre di più o è il bere tanto che induce l’isolamento? E che funzione ha bere da soli?

L’ipotesi della Creswell è che i bevitori solitari utilizzino l’alcol come forma di automedicazione e di gestione di stati emotivi negativi.

Per testare questa ipotesi ha condotto uno studio longitudinale, il primo del suo genere, e ha seguito un ampio campione di bevitori adolescenti fino al raggiungimento dell’età adulta (709 adolescenti tra i 12/18 anni, seguiti fino ai 25) . Alcuni dei ragazzi si trovavano in strutture di riabilitazione, altri no, e questo le ha permesso di osservare un campione eterogeneo sia nei comportamenti di consumo di alcol che nei percorsi personali.

Nel corso del tempo il team della Creswell ha monitorato la frequenza del consumo di alcol e la frequenza del bere sociale e/o solitario; per ogni episodio di consumo eccessivo di alcol veniva indagato il contesto in cui si era verificato e quali situazioni avevano preceduto l’episodio (ad esempio un litigio con un amico o un festeggiamento per qualcosa di bello). l’ultima tappa dello studio è stata ovviamente la valutazione di chi tra tutti i giovani osservati ha sviluppato una dipendenza dall’alcol.

Circa il 60 per cento dei soggetti osservati non ha mai bevuto da solo ma sempre in contesti sociali; tuttavia ben 4 adolescenti su 10 ha bevuto da solo, almeno in alcune occasioni. Questo dato è stato più alto delle stime attese, inoltre la percentuale di bevitori solitari era più alta tra quegli adolescenti che mostravano sintomi di abuso di alcol, infatti i bevitori solitari bevono più spesso e di più degli altri adolescenti, oltre ad avere cominciato prima.

L’elemento più interessante dell’indagine della Creswell ha a che fare con i contesti nei quali gli adolescenti bevono, emerge infatti che gli adolescenti che tendono a bere da soli lo fanno quando sono in situazioni spiacevoli, suggerendo che il consumo massiccio di alcol abbia una funzione di automedicamento, cioè sia una sorta di coping nella difficile gestione di sentimenti negativi.

Gli adolescenti che bevono da soli hanno anche molte più probabilità di sviluppare problemi alcol-correlati tra cui la dipendenza dall’alcol, già a 25 anni.

LEGGI:

ALCOOLADOLESCENTIDIPENDENZE

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Creswell, K.G., Chung, T., Clark, D.B., & Martin, C.S. (under review).  Solitary drinking increases adolescents’ risk for alcohol use disorders in young adulthood.  Clinical Psychological Science

 

Settimo Cielo, di Andreas Dresen (2009) – PFF 2013 – Psicologia Film Festival

 

Appuntamento del Psicologia Film Festival

Martedì 10 Dicembre ore 21,00 – presso il Cubo, via Pallavicino 35 Torino

SETTIMO CIELO

di Andreas Dresen (2009)

presenta il prof. Fabio Veglia

Ingresso libero con tessera Arci

SETTIMO CIELO di Andreas Dresen (2009) - PFF 2013

Il Film

Inge ha poco più di sessant’anni. È sposata da tempo immemorabile con Werner, uomo generoso e silenzioso. Si amano. Di un amore sincero e onesto. Ma che con la quotidianità ha perso forse il gusto della freschezza e l’impeto della novità. Inge incontra Karl, settantasei anni, e, dopo pochi e timidi tentativi di resistenza, si lascia andare a una passione impetuosa. Ci sono alcuni momenti della vita che paiono non rappresentabili sul grande schermo. Momenti troppo intimi, eccessivamente privati, socialmente considerati tabù. Il regista tedesco Andreas Dresen decide di mostrarne uno. La passione amorosa ed erotica tra due anziani.

Pochi e scarni dialoghi. Un silenzio assordante fa da contraltare sonoro a un universo visivo fatto di primi e primissimi piani. Occhi acquosi che scintillano come quelli di adolescenti alle prese con le prime inebrianti esperienze sessuali. Mani rugose e forse impacciate. E così tutto ciò che può sembrare scabroso o non rappresentabile diventa ciò che di più semplice e naturale ci sia: una storia d’amore tra persone della cosiddetta terza età.

 

Il regista

Dresen, è l’unico regista formatosi alla scuola della DEFA ad aver trovato il successo anche nella nuova Germania unita, dopo l’annessione dell’Est all’Ovest. Nato a Gera, in Turingia, nel 1963, si è diplomato presso la scuola superiore di cinema e televisione «Konrad Wolf» di Postdam-Babelsberg con un mediometraggio, So schnell es geht nach Istanbul (1990), che riscosse un certo successo alla Berlinale. Nel 1992 esce Stilles Land, il suo primo lungometraggio. Questa commedia amarissima e sincera preannuncia il tema chiave del cinema di Dresen: l’esplorazione empatica della vita dei perdenti. Il prosieguo degli anni Novanta vede Dresen impegnato in ambito televisivo, tra documentari, storie d’amore e soggetti drammatici. Con Catastrofi d’amore (2002), il regista di Gera realizza il film della maturità. Nel corso del 2004 gira Un’estate sul balcone. Settimo cielo è uno dei suoi ultimi e più coraggiosi progetti.

 

Fabio Veglia

Professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli studi di Torino, è docente di Psicologia clinica e psicoterapia cognitiva e Psicologia e psicopatologia dei processi cognitivi e del comportamento sessuale. Si occupa in particolare di: psicologia e psicopatologia dell’apprendimento, psicologia dell’handicap e psicologia della riabilitazione, psicologia e psicopatologia dello sviluppo e dell’attaccamento, psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale, sessuologia clinica, psicosessuologia applicata all’handicap e alla disabilità, metodologia dell’approccio narrativo in psicoterapia.

 

QUANDO E DOVEMartedì 10 Dicembre ore 21,00 – presso il Cubo, via Pallavicino 35, Torino – INGRESSO LIBERO CON TESSERA ARCI. 

 

ARTICOLI SU: CINEMA

LEGGI LA RUBRICA: CINEMA & PSICOTERAPIA

LA PAGINA DEL PFF – Psicologia Film Festival

 

Dalle radici alle ali – Adozioni internazionali

 

Dalle radici alle ali

Adozioni internazionali, l’importanza di creare un ponte con la cultura d’origine.

 

Dalle radici alle ali - Adozioni internazionali. -Immagini: © RioPatuca Images - Fotolia.comGuidando il ragazzo alla scoperta delle proprie radici, lo si aiuterà verso la scoperta e l’accettazione della sua storia, verso una costruzione di un puzzle completo senza pezzi mancanti e senza frammenti.

Quando dentro di sè riuscirà ad avere una visione completa allora troverà il coraggio di mettere le ali e spiccare il volo.

In Italia una ricerca effettuata nel 2007 e pubblicata su Repubblica, mette in evidenza che una coppia su sette ogni anno ha problemi di sterilità. Non poter aver figli può causare un sentimento di vuoto enorme nella propria vita, creando a volte delle crisi esistenziali sia individuali che di coppia.

La condizione di infertilità porta i coniugi ad affrontare una situazione di forte scompenso, caratterizzata da sentimenti di frustrazione ed angoscia, che vanno ad influire sulla vita di relazione, sulla sfera sessuale e sul benessere e la salute psico-fisica di entrambi i partners.

Nella donna sterile spesso si riscontra un calo di autostima, legato a sentimenti di incompletezza, e spesso si arriva a mettere in discussione anche la propria femminilità perdendo il controllo del proprio corpo. Nell’uomo, l’incapacità riproduttiva è vissuta come una mancanza di virilità, e spesso esso arriva a svalutare la propria mascolinità e a reagire con il rifiuto (Daniluk, 1997)

Rabbia, rifiuto, senso di colpa, isolamento, e dolore sono i sentimenti vissuti dalla coppia in questione. Il primo passo verso un ritorno alla serenità è quello di accettare la sterilità come condizione e non come una menomazione.

Di solito la tappa successiva  alla diagnosi di sterilità è un iter di procreazione assistita; laddove anche questa fallisce, la coppia deve subire un’ulteriore frustrazione, e un ulteriore elaborazione del lutto e della perdita.

In questo momento si affaccia sulla vita della coppia l’idea dell’adozione. In questo cammino i coniugi dovranno prima di tutto avere i seguenti requisiti:

Matrimonio:  la coppia deve essere unita in matrimonio da almeno tre anni, o per per un numero inferiore di anni se i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, e ciò sia accertato dal tribunale per i minorenni;

Età: L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando, con la possibilità di deroga in caso di danno grave per il minore.

Una volta accertati i requisiti si potrà intraprendere il tortuoso iter burocreatico e psicologico, che passa da una valutazione genitoriale della coppia effettuata dagli Enti locali e validata dal Tribunale per Minorenni, alla richiesta ad un Ente autorizzato per le adozioni internazionali che segue la coppia dalla richiesta all’arrivo del bambino in Italia.

Durante questo percorso proviamo ad immaginare quante saranno le fantasie che i genitori costruiranno sui bambini in arrivo.Gli individui che si trovano ad affrontare un’adozione, sognano durante la lunga attesa, una relazione perfetta, idilliaca.

Dopo aver dovuto rinunciare alla maternità/paternità, ed essere passati per un percorso di sofferenze,  finalmente iniziano a vivere una sorta di “riscatto”, finalmente sembra che il destino restituisca in altro modo ciò che ci ha tolto.

E’ per questo che bisognerebbe essere certi che la coppia in questione sia riuscita ad elaborare i propri vissuti psichici legati al percorso di elaborazione lutto e frustrazione, affinché non proiettino sul bambino adottato le proprie richieste affettive.

Adottare è un gesto d’amore, ma rappresenta anche la soddisfazione di un desiderio per la coppia stessa. 

La costruzione della genitorialità si snoda nel tempo, e si presenta come un processo caratterizzato da dubbi, angosce, timori, che la coppia affronta nell’intero percorso, prima, durante e dopo l’arrivo del bambino. E’ un atto psicologicamente complesso, che intreccia diverse dinamiche, dalla relazione tra sterilità e adozione, e a quella della rappresentazione mentale del figlio immaginario.

Nel momento in cui è avvenuta la scelta dell’adozione, i genitori iniziano a prefigurare nella propria mente l’immagine del figlio che verrà. D’altronde l’immagine del figlio che verrà, coinvolge non solo le coppie che intraprendono un percorso adottivo, ma tutti coloro che attendono un bambino.

Nella mente dei genitori sorgeranno domande, sull’età, la storia del bambino, il carattere, domande alle quali non avranno subito risposta, e quindi l’immagine corrisponderà sempre più al modello prefigurato che alla realtà. Questa rappresentazione mentale diventerà importantissima quando le due figure, reale e immaginaria, verranno sovrapposte.

Questo passaggio genererà ansia e timore, che generalmente non vengono espressi per paura di essere fraintesi o di non essere accolti, invece bisognerebbe che i genitori possano esprimere e riconoscere i loro sentimenti reali e plausibili.

Ad ogni modo alla fine di questo percorso nasce una nuova storia, nasce l’incontro in questo “non luogo” abitato dalla  famiglia adottante e dal bambino adottato.

La prima con una serie di aspettative sul legame genitoriale sul ruolo e la responsabilità dal quale si è investiti.

Il bambino  lascia il proprio paese, lascia le proprie radici, la propria cultura, la propria lingua, chiude la porta del suo passato e si lancia verso un futuro incognito. 

Si potrebbe pensare secondo una semplice logica, che il bambino separato dalla sua famiglia, accolto in un’altra, riceve l’amore come un dono, che gli è dovuto dopo tutto quello che ha subito. In riconoscenza dei legami affettivi creati con la nuova famiglia, il bambino saprà adattarsi e costruire un nuovo destino, dimenticando il suo destino originario. Il bambino, preparato a vivere una nuova avventura, arriva in un habitat sconosciuto, con un’ “identità” di vittima che lo precede. Dopo un periodo iniziale, la fragilità e la frammentarietà della struttura del ragazzo inizia a venir fuori, attraverso delle crisi, dei comportamenti violenti o a rischio“, come spiega Arlette Pellé.

Purtroppo, non tutte le adozioni vanno a buon fine, e lo dimostra Francesco Viero, neuropsichiatra infantile, nel libro “Fallimenti Adottivi” nel quale stima che le cifre dei bambini adottati “restituiti” sarebbero tra l’1 e l’1,8 per cento degli adottati.

Ma perché le adozioni internazionali falliscono?A questa domanda cerca di rispondere il Centre Devereux di Parigi attraverso il sostegno all’adozione.

Nell’adolescenza il conflitto identitario è forte, come diventa conflittuale anche la relazione con i propri genitori, la ribellione alle regole, all’autorità. Si cerca di costruire una propria identità, si cercano dei punti di riferimento e si rifiutano quelli imposti. Maggiore è la crisi quando ci si trova confrontati a dei conflitti di appartenza a una doppia cultura. Il conflitto che vivono questi ragazzi nasce spesso dall’esigenza di integrare gli elementi identificatori della cultura di adozione, e di mantenere viva la cultura d’origine. (Kaes)

L’articolo “Echec sur l’adoption“spiega quali possono essere i punti di fallimento delle adozioni, e le difficoltà che emergono :

  • Il vissuto: le caratteristiche del bambino: deprivazioni affettive e alimentari precoci, traumi individuali (maltrattamento, abuso), o collettivi (violenze di guerra) rotture affettive forti (distaccamento dalla famiglia o dai fratelli), vissuto di strada, vita istituzionalizzata (case famiglia, ospedale), rappresentazione dell’adozione e della famiglia molto lontana dalla realtà.
  • Il percorso dei genitori: sofferenza nell’accettare la sterilità, isolamento sociale, rischi nell’intraprendere il duro percorso dell’adozione, giudizio esterno, forte desiderio di avere un bambino, paura di una buona riuscita.
  • Organismo dell’adozione: assenza della preparazione dei bambini o dei genitori sulla realtà dell’adozione, poche notizie, o a volte insufficienti, incomplete.

Il fallimento dell’adozione e le situazioni di crisi familiari molto gravi mettono in evidenza la molteplicità e il cumulo importante dei fattori che li determinano. Quando la relazione tra genitori e ragazzo non sono più tollerabili, il ragazzo può attaccare le figure genitoriali, verbalmente e fisicamente. I genitori quindi percepiscono il figlio adottivo come qualcuno diverso da loro, con valori e principi diversi da quelli che loro avrebbero voluto offrirgli o che hanno pensato di fornirgli. Spesso per fermare questa escalation negativa, si passa all’allontanamento temporaneo, collocando il ragazzo in una struttura d’accoglienza.

A volte i comportamenti antisociali dei ragazzi sono dovuti a dei traumi passati e non eleborati che hanno provato a nascondere nel loro cuore, o a dimenticare chiudendo la porta al loro passato. Spesso i genitori adottivi non sono emotivamente preparati per accogliere questo aspetto, e questo capitolo della storia del ragazzo, che per quanto spiacevole, per quanto difficile, fa comunque parte della sofferenza che si porta dentro.

Probabilmente un passo avanti potrebbero essere fatto nel creare un ponte tra passato e presente. Pensare al ragazzo come un individuo che ha già una storia alle spalle, una storia di sofferenza dura da affrontare, e impossibile  dimenticare.

Bisognerebbe pensare all’adozione guardando al ragazzo non come un tabula rasa, ma come un diario con delle pagine della sua esistenza già scritte, e quindi abbordando l’adozione da un punto vista  interculturale, senza spezzare le radici.

Aiutando il ragazzo alla scoperta delle proprie radici, lo si aiuterà verso la scoperta e l’accettazione della sua storia, verso una costruzione di un puzzle completo senza pezzi mancanti e senza frammenti. Quando dentro di sè riuscirà ad avere una visione completa allora troverà il coraggio di mettere le ali e spiccare il volo.

Diventare genitori rappresenta uno degli aspetti più importanti della vita di una persona. Doversi prendere cura di un bambino, cambiare le proprie abitudini, cambiare le dinamiche di coppia, riassestare il normale equilibrio sono fasi di ridefinizione del proprio stile di vita. Tanto in una famiglia biologica, quanto adottiva. La genitorialità si impara passo dopo passo, errore dopo errore, e tentativo dopo tentativo. Non esistono genitori perfetti e tanto meno esiste un manuale per esserlo al meglio. Possono però esistere genitori capaci di trovare dentro se stessi le risorse necessarie per accudire, accogliere, comprendere, e tutelare un figlio.

Affinché un’adozione riesca, bisogna da una parte far sì che il ragazzo non chiuda la porta alle proprie origini, ma bisogna anche esser certi che la coppia, proveniente da un percorso di dolore, abbia accettato ed elaborato la propria condizione. Affinché un’adozione funzioni le motivazioni dell’adozione devono essere “sane”.

L’adozione è un ponte da entrambe le parti, il bambino adotta la famiglia che non ha mai avuto, la coppia adotta il bambino che non ha mai avuto. Entrambi colmano un vuoto, ma per far sì che ciò possa avvenire con successo, sia chi viene adottato, che chi ha adotta necessita di attenzione e sostegno psicologico durante tutto il percorso adottivo.

 LEGGI:

ADOZIONI GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ BAMBINI & ADOLESCENTI

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Accettazione – Tribolazioni Nr. 19 – Rubrica di Psicologia

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