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Le donne con PTSD sono più a rischio di Obesità?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le donne con disturbo da stress post-traumatico ( PTSD ) aumentano di peso più rapidamente e hanno più probabilità di essere sovrappeso o obese rispetto alle altre donne.

È quanto emerso da uno studio condotto da un team di ricercatori della Columbia University’s Mailman School of Public Health e della Harvard School of Public Health, il primo che ha esaminato la relazione tra PTSD e l’obesità nel corso del tempo.

Una donna su nove ha un PTSD nel corso della vita, il doppio rispetto agli uomini. Insieme alle malattie cardiovascolari e al diabete, l’obesità rappresenta uno dei maggiori rischi per la salute correlati PTSD.

Uno dei risultato incoraggianti dello studio è relativo al fatto che quando i sintomi del PTSD si alleviano anche il rischio di obesità o di grave sovrappeso si riduce.

I ricercatori hanno analizzato i dati raccolti da più di 50mila donne, di età compresa tra 22-44 anni, che hanno partecipato al Nurses ‘Health Study II tra il 1989 e il 2009 . Ai partecipanti è stato chiesto quale fosse il trauma peggiore che avevano vissuto e a questo fossero seguiti sintomi da stress post-traumatico. La soglia per la diagnosi di PTSD era la persistenza di quattro o più sintomi per un mese o più . I sintomi più comuni includono rivivere l’evento traumatico, sentirsi in pericolo, l’evitamento sociale, e l’intorpidimento.

Le donne normopeso che hanno sviluppato PTSD durante il periodo di studio hanno avuto il 36 % di probabilità in più di andare in sovrappeso o diventare obese, rispetto alle donne che hanno subito un trauma ma non hanno avuto sintomi di PTSD .

Il rischio maggiore era evidente anche per le donne con livelli sotto soglia di PTSD e ma che avevano sviluppato sintomi depressivi, che è un altro dei maggiori fattori di rischio per l’obesità. Inoltre nelle donne che avevano un PTSD prima del periodo di studio l’indice di massa corporea aumentava più velocemente che nelle donne senza PTSD:

I sintomi di PTSD, piuttosto che il trauma stesso sembravano essere correlati all’aumento di peso: nelle donne che hanno subito un trauma senza sviluppare un PTSD il tasso di variazione del BMI era uguale a quello delle donne che non hanno mai vissuto un trauma.

Ma come fa il PTSD ad indurre l’ aumento di peso ?

Il percorso biologico è ancora sconosciuto, ma gli scienziati hanno formulato delle ipotesi:  la prima è che questo avvenga attraverso la sovra-attivazione di ormoni dello stress; il PTSD può causare disturbi nel funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e del sistema nervoso simpatico , ciascuno dei quali è coinvolto nella regolazione di una vasta gamma di processi, tra cui il metabolismo.

Un’altra è che avvenga attraverso comportamenti malsani che possono essere utilizzati come forme di coping per far fronte allo stress.

Le ricerche attuali stanno cercando di stabilire se il PTSD aumenti la preferenza per cibi malsani e diminuisca l’interesse per l’attività fisica.

LEGGI:

DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO (PTSD)ALIMENTAZIONE TRUAMA – DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.11 – Il leader impostore

 

Leadership negli Sport di Squadra #11:

Un caso particolare: Il leader impostore

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.11 – Il leader impostore. -Immagine: © bilderstoeckchen - Fotolia.comIl leader impostore – Alcuni cambiamenti che possono essere individuati attraverso una riflessione personale (che deve sempre accompagnare il proprio lavoro) e che sono sintomi del proprio fallimento possono essere riconosciuti quando si avverte che: il coraggio è divenuto paura di fallire; l’entusiasmo è divenuto sopportazione; l’inventiva è divenuta routine e la ricerca dei fini del gruppo si è trasformata in ricerca di fini personali.

Mazzali individua un terza tipologia di leader, non aggiunta ma parallela alle precedenti. Infatti sia il leader istituzionale che quello intimo possono essere, in realtà, dei leader negativi, o fasulli.

Le caratteristiche del leader falso sono riconducibili a una grande proprietà persuasiva messa in atto nei confronti  di tutti i membri della squadra e utilizzata principalmente per ingannare l’anima gruppale e farsi accettare ed eleggere come leader. La base della loro personalità è caratterizzata inoltre da una buona dose di frustrazione e senso di inadeguatezza ricollegabile alle esperienze infantili che lo spingono, raggiunta l’età adulta, a comportarsi con totale assenza di scrupoli, e quindi di limitazioni etiche, per raggiungere i propri scopi.

Non pongono mai alcun reale interesse negli obiettivi della squadra. Per questo motivo, in molti casi, pur di ottenere fama e successo personali, contribuiscono in modo sensibile al fallimento della squadra e spesso, essendo la responsabilità dell’insuccesso qualcosa di difficile quantificazione, riescono comunque a deresponsabilizzarsi. Se poi l’aspirante leader negativo, grazie alle sue scaltre capacità, riesce a raggiungere una posizione che gli conferisce un certo potere sui compagni tende ad abusarne al fine di costruire una condizione di irreale sudditanza nei suoi confronti che mina, non solo la coesione e la stabilità delle relazioni interne alla squadra ma, soprattutto, le sue prestazioni.

Esistono, secondo l’autore, alcuni accorgimenti che possono permettere di riconoscere la presenza di un leader negativo di questo tipo. Alcuni di questi sono:

– i leader fasulli approfittano dei momenti di crisi per diffondere le loro millanterie contribuendo ad ottenere  ciò che vogliono e a deresponsabilizzarsi attraverso l’inganno e la mistificazione,

– sono i primi a sollevare sentimenti di insoddisfazione e di rabbia all’interno della squadra,

– si limitano a perseguire obiettivi che li possano portare ad aumentare il potere nelle proprie mani e nient’altro,

– non hanno remore nel ricorrere alla corruzione e all’inganno, il che li pone in una condizione di vantaggio rispetto ai leader positivi.

In realtà, individuare questi comportamenti e soprattutto la loro finalità nascosta risulta ben più difficile di quanto non appaia, anche perché spesso gli stessi leader positivi, essendo uomini, possono mettere in atto comportamenti orientati più che altro al raggiungimento dei propri fini personali che di quelli della propria società. Questi “errori”, quindi appartengono anche all’allenatore a al capitano positivi, in quanto uomini.

Ma l’idea che Mazzali vuole trasmettere di leader negativo si differenzia da questi comportamenti saltuari perché a) ogni sua azione risulta essere finalizzata prima di tutto al guadagno personale e b) appare studiata e calcolata razionalmente e non dettata dall’istinto e dall’impulsività.  

E’ possibile che lo stesso allenatore o capitano positivi si rendano conto, con il tempo, di aver assunto comportamenti indirizzati al raggiungimento di fini personali piuttosto che verso il bene della squadra, comprendano cioè di aver fallito nei compiti che la squadra, la società e i membri della squadra avevano affidato loro.

Alcuni cambiamenti che possono essere individuati attraverso una riflessione personale (che deve sempre accompagnare il proprio lavoro) e che sono sintomi del proprio fallimento possono essere riconosciuti quando si avverte che: il coraggio è divenuto paura di fallire; l’entusiasmo è divenuto sopportazione; l’inventiva è divenuta routine e la ricerca dei fini del gruppo si è trasformata in ricerca di fini personali.

Se questi cambiamenti dovessero essere osservati, Mazzali suggerisce di abbandonare l’incarico per il quale non si possiede più la spinta motivazionale e morale adatta a poterlo compiere in modo corretto.

 

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Scienze cognitive, digital storytelling e arte: un processo di cross-fertilization. Nuove frontiere di ricerca

di Annalisa Banzi, Raffaella Folgieri, Diletta Grella.

 

 

LEGGI ANCHE: LEARNING BY LOOKING. THE CASE FOR VISUAL PERCEPTUAL REPETITION PRIMING

Scienze cognitive e digita storytelling. - Immagine: ©-bagiuiani-Fotolia.comIl lavoro è suddiviso in tre parti: la prima, introduttiva, descrive le possibilità offerte dal digital storytelling per migliorare la fruizione del pubblico museale coniugando e innescando i processi mnemonici legati al priming attraverso il potente mezzo della narrazione.

La seconda sezione entra nel merito del priming, presentando modi e mezzi adottabili per misurare e comprendere al meglio il suo effetto in presenza di stimoli artistici.

Infine, la terza parte conclude la presentazione, portando l’attenzione sui nuovi mezzi che possono definirsi dall’incontro dell’Intelligenza Artificiale (AI) con il digital storytelling e il priming per dar vita a esperienze in cui il dialogo attivo e rispettoso con il nostro Patrimonio sia accompagnato da una evoluzione proficua della persona.

 

Narrazione e tecnologia

Una delle nuove frontiere nella comunicazione dell’arte e della cultura è il digital storytelling, o racconto multimediale: gli spazi espositivi, i musei e le gallerie possono cioè presentare allestimenti e installazioni che, attraverso la multimedialità (parole, suoni, luci, fotografie, immagini in movimento, video), raccontano opere d’arte, ma anche oggetti, ambienti, luoghi, aspetti del territorio…

Racconto multimediale è però una definizione molto ampia, che raccoglie differenti e numerose modalità di utilizzo delle nuove tecnologie all’interno degli spazi espositivi.

In alcuni musei, per esempio, ci sono attori che raccontano al pubblico una storia, mentre attorno a loro, grazie all’utilizzo della multimedialità, viene ricreato un ambiente.

In altri luoghi, a raccontare una storia può essere una proiezione olografica.

E, ancora, ci sono casi in cui su grandi schermi vengono proiettati video che raccontano storie attinenti all’esposizione in corso…

Un luogo o un argomento, infine, possono venire interamente pensati e raccontati con l’utilizzo delle tecniche digitali. Il percorso espositivo si trasforma cioè in un racconto che -dall’inizio alla fine- si sviluppa grazie a immagini in movimento, suoni, schermi tattili, dispositivi….

Quest’ultima è la modalità più completa e complessa dell’utilizzo del digital storytelling, con una valenza artistica più forte.

I vantaggi dell’utilizzo del racconto multimediale nel campo dell’arte e della cultura sono diversi.

Innanzitutto, è possibile fare una ricostruzione del contesto in cui l’opera è stata creata. Intorno ad un affresco, per esempio, si possono ricostruire in digitale gli interni della Chiesa dove si trovava. Una voce può raccontare chi l’ha dipinto, il suo significato, la vita dell’autore…

Un altro vantaggio consiste nella possibilità dell’interazione diretta con l’opera. In musei e spazi espositivi tradizionali, infatti, quando ci si trova di fronte ad un quadro, non si ha modo di interagire con esso; si può al massimo modificare l’angolo dal quale lo si osserva, ci si può avvicinare o allontanare, ma nulla di più. Chi fruisce di un’opera o di uno spazio artistico attraverso il racconto digitale è invece portato spesso a partecipare con l’opera stessa, per esempio scegliendo di attivare un dispositivo piuttosto che un altro, e intraprendendo in questo modo un viaggio virtuale che prevede alcune tappe piuttosto che altre.

Le storie digitali, dunque, molte volte sono partecipate: il pubblico contribuisce alla loro creazione. Da fruitore passivo, lo spettatore si trasforma in co-autore.

Interessanti anche gli effetti che l’utilizzo della multimedialità ha sulla fruizione dell’opera.

La ricerca conferma che, in generale, l’utilizzo di più codici di comunicazione:

-tipico del racconto multimediale-, permette di creare un contatto emotivo più forte tra l’opera e il suo spettatore, cioè un maggior feeling.

Sul piano emozionale, dunque, la dimensione narrativo-digitale facilita la fruizione dell’oggetto, e questo si osserva soprattutto nel caso di un pubblico non esperto, lontano dall’oggetto stesso per interesse, curiosità, conoscenza.

Questo tipo di multimedialità, inoltre, non nuocerebbe alla capacità attentiva dello spettatore, al contrario favorirebbe la flessibilità dei suoi modelli mentali e stimolerebbe il suo pensiero creativo e quello logico.

Il racconto multimediale, in conclusione, è certamente una grande opportunità per la divulgazione e l’apprendimento dell’arte e della cultura.

Chi lo utilizza, però, deve avere ben chiaro che il suo scopo non è un virtuosismo tecnologico fine a sé stesso. Al contrario, la finalità dovrà sempre essere quella di coinvolgere il pubblico e di aiutarlo a comprendere aspetti di un’opera d’arte, di un oggetto, di un argomento, di un luogo… che altrimenti resterebbero difficilmente comprensibili.

Un museo cognitivo

Gli studi condotti sul pubblico museale suggeriscono alcune vie per rendere il museo più accessibile ai visitatori che non dispongono di una adeguata formazione storico-artistica. Idealmente il museo dovrebbe rivolgersi a tutti senza escludere le persone che hanno un ridotto grado di istruzione. Sfortunatamente non sempre questo obiettivo è raggiunto, basti pensare alle didascalie che molto spesso presuppongono una conoscenza pregressa. L’obiettivo per gli operatori dovrebbe concentrarsi sul potenziamento progressivo dell’autonomia del visitatore nel dialogo razionale con un manufatto artistico, incentivandone spirito critico e desiderio di conoscenza.

Le scoperte degli ultimi decenni nei campi della Psicologia e delle Neuroscienze spiegano alcuni meccanismi cognitivi che possono essere quindi agevolati favorendo e migliorando la fruizione museale. Nel 1971 gli psicologi Meyer e Schvaneveldt scoprono il priming: una forma di memoria di fondamentale importanza che innesca diversi aspetti dell’apprendimento come l’attenzione, la memoria e la percezione. In via preliminare, il fenomeno può essere definito come l’influenza che un stimolo precedente determina sulla percezione o memorizzazione di uno stimolo successivo. Lo stimolo innescante è detto prime, quello successivo è chiamato target. Presentando, per esempio, come stimolo innescante la parola ciliegia, si riducono i tempi di risposta del soggetto a domande relative a concetti correlati come rosso, tondo, torta e frutto. Una persona impiegherà qualche decina di millesimi di secondo in meno per rispondere a domande come «Il rosso è un colore?» se in precedenza ha ricevuto come prime la parola ciliegia anziché banana.

Il priming è il miglioramento di una prestazione – misurato nella velocità e accuratezza di risposta a uno stimolo presentato – in un compito percettivo o cognitivo prodotto dal contesto o da una precedente esperienza (McNamara 1992, 2005). Questo tipo di memoria è comune a tutti gli individui, rimane relativamente stabile per tutto l’arco della vita, si attiva automaticamente e trattiene le informazioni per lunghi periodi di tempo. Caratteristiche che lo rendono potenzialmente idoneo a diventare uno strumento attivo e un aiuto per il pubblico che non è avvezzo a relazionarsi con il mondo artistico.

La tesi che viene suffragata è che il visitatore possa più facilmente entrare in contatto con le parti costitutive delle opere d’arte attraverso l’impiego del priming nelle logiche museografiche. Si tratta di piccoli interventi che incidono limitatamente sui costi di gestione e sul tessuto museografico preesistente. Tra le diverse tipologie di priming si pensa che quelle che possono maggiormente favorire la fruizione museale siano il priming ripetuto visivo-percettivo e il priming ripetuto semantico basati sulla uguaglianza tra stimoli prime e target.

Questo fenomeno psicologico può quindi facilitare il ricordo di stimoli visivi (come colori, linee, composizione, etc.) e semantici (tema iconografico, significato del dipinto in relazione al contesto storico o al committente, etc.) insiti nell’opera d’arte: la presa di coscienza degli aspetti che compongono l’oggetto dovrebbe aiutare, inoltre, a sviluppare un proprio metodo di approccio critico da mettere in atto ogni volta che si presenti l’occasione di confrontarsi con i beni culturali.

L’approccio basato sul priming può aiutare a definire un nuovo modello di museo che chiameremo cognitivo per l’attenzione posta alle esigenze del cervello in relazione all’apprendimento dei contenuti artistici (non venendo meno al rispetto per l’identità dei Beni culturali).

Questa metodologia può essere adattata a tutto il Patrimonio, nelle sue diverse espressioni, e può divenire uno strumento per abbattere le barriere culturali, venendo incontro anche al pubblico straniero di ogni provenienza, in quanto sfrutta meccanismi che contraddistinguono tutti gli esseri umani.

Intelligenza e tecnologia

I progressi nel campo delle Neuroscienze, ed in particolare nel Brain Imaging, consentono oggi di indagare i meccanismi di risposta individuali a stimoli di priming rendendoli misurabili e quindi confrontabili quantitativamente. Corrispondentemente, le Scienze Cognitive e, tra queste, in particolare, l’Intelligenza Artificiale, forniscono potenti modelli e strumenti di indagine per registrare i rapporti tra Arte e Cervello, analizzabili più agevolmente grazie a strumenti tecnologici recenti quali i dispositivi B.C.I. (Brain Computer Interface).

I progressi nel Brain Imaging (sistemi di diagnostica per immagini delle aree e delle funzioni cerebrali, quali la Tomografia Computerizzata, T.C., la Risonanza Magnetica funzionale, fMRI, la Position Emission Tomography, P.E.T. e l’Elettroencefalografia, E.E.G.) consentono oggi di osservare il cosiddetto “living brain”, ovvero il cervello in azione, permettendo la valutazione in tempo reale delle reazioni di individui sottoposti a determinati stimoli. Tra tutte le tecniche, l’EEG si presenta come la più adatta, per il costo minore e per l’alta risoluzione temporale, importante per valutare i tempi di risposta a determinati stimoli. I nuovi dispositivi BCI (Brain Computer Interface), nati in seno alla branca dell’Informatica che studia modelli, modalità e strumenti per l’interazione tra uomo e macchina, basati su EEG, offrono non solo la possibilità di interagire con un elaboratore attraverso l’interpretazione dei ritmi cerebrali, ma soprattutto, grazie ai software di registrazione e agli algoritmi AI di interpretazione dei ritmi, forniscono la possibilità di rilevare la risposta degli individui a stimoli specifici in tempo reale. Un dispositivo BCI (Allison, 2007) è una semplificazione dell’EEG medico, ovvero un sistema hardware/software che legge segnali elettrici o altre manifestazioni dell’attività cerebrale e li trasforma in forme digitali che un elaboratore può comprendere, processare e convertire in azioni ed eventi o mettere a disposizione per la successiva analisi. I vantaggi risiedono, oltre che nel basso costo dei dispositivi, anche nella connessione wi-fi, che consente agli individui di sentirsi rilassati, di ridurre l’ansia e di muoversi liberamente in un ambiente sperimentale. Le frequenze cerebrali registrate sono raggruppate nei ritmi alfa, beta, gamma, delta e theta, come per l’EEG tradizionale.

I dispositivi BCI consentono di indagare i rapporti tra arte e cervello sia dal punto di vista dell’artista, durante il processo di creazione di un’opera, sia dal punto di vista degli spettatori, nel mentre vivono l’esperienza dell’arte. In particolare è possibile indagare le attività neurali durante la percezione dei colori (Shapley et. Al., 2002), i processi decisionali e le funzioni mnemoniche (Vanrullen e Thorpe, 2001; Barbas, 2000) e analizzare la risposta cerebrale di un individuo durante l’esperienza estetica, le cui reazioni sono osservabili nell’area della corteccia prefrontale e in quella orbito-frontale (Cela et Al., 2004; Kawabata, Hideaki e Semir Zeki, 2004) in cui i sensori di un BCI sono posti.

Negli studi condotti sul priming, alcuni soggetti sono stati esposti a stimoli visivo-percettivi, semantici o concettuali per valutare la risposta emotiva e cognitiva successiva nel contesto di musei di Arti Visive (Banzi e Folgieri, 2012). A tale scopo alcuni soggetti, prima di effettuare un tour museale, sono stati sottoposti ad uno stimolo di priming, mediante un video e sotto la supervisione del ricercatore, e, successivamente, è stata misurata l’efficacia del priming mediante analisi elettroencefalografica. I risultati ottenuti sono stati incoraggianti. Infatti, rispetto ai gruppi di controllo (stimolo neutro e assenza di stimolo), i partecipanti sottoposti a stimolo hanno mostrato un incremento dei livelli di attenzione in corrispondenza alle domande relative allo stimolo somministrato, rivelando un rinforzo dei meccanismi di memoria. Gli studi descritti sono parte di una ricerca interdisciplinare più ampia (Banzi e Folgieri 2012; Calore, Folgieri et Al., 2012; Folgieri et Al., 2013; Folgieri e Zichella, 2012) che mira a valutare la risposta degli individui a stimoli visivi, uditivi e percettivi, misurati con metodi classici della Psicologia e delle Scienze Cognitive e con metodologie innovative di Brain Imaging quali l’EEG.

Al momento la ricerca è rivolta alla comprensione dei meccanismi cognitivi di base della creatività, dell’esperienza estetica e dell’educazione all’Arte. Già dagli studi condotti è, comunque, evidente l’enorme potenzialità degli strumenti tecnologici a disposizione oggi, che danno, inoltre, la possibilità di verificare, riprendendo il concetto espresso da Vygotskij (1925), quanto l’ontogenesi umana sia determinata anche dal contributo degli strumenti culturali a disposizione nel contesto storico e sociale.

Oltre a tutte le possibilità appena descritte per misurare e comprendere al meglio l’effetto del priming in presenza di stimoli artistici, la tecnologia oggi offre anche strumenti che possono migliorare la fruizione del pubblico museale coniugando e innescando questi processi mnemonici legati al priming attraverso il potente mezzo della narrazione.

Inoltre, in questa sede si desidera portare l’attenzione sui nuovi mezzi che possono definirsi dall’incontro dell’intelligenza artificiale con il digital storytelling e il priming per dar vita a esperienze in cui il dialogo attivo e rispettoso con il nostro Patrimonio sia accompagnato da una evoluzione proficua della persona.

LEGGI ANCHE:

ARTESCIENZE COGNITIVE – NEUROSCIENZE

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BIBLIOGRAFIA:

 

Sonno e maturazione cerebrale

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il cervello cambia drasticamente durante la prima infanzia: nuovi collegamenti si formano, altri vengono rimossi e la mielina si sviluppa intorno alle fibre nervose rinforzando le connessioni e accelerando il trasferimento delle informazioni.

La maturazione delle fibre nervose porta al miglioramento delle competenze del linguaggio, dell’attenzione e del controllo degli impulsi.

Il sonno gioca un ruolo importante in questo processo ma ancora non è chiaro quale sia.
Un team di ricercatori della University of Colorado Boulder ha esaminato le differenze nell’attività cerebrale durante il sonno nel corso della crescita di bambini a 2 , 3 e 5 anni e le differenze di attività cerebrale di ogni bambino in una notte di sonno.

I risultati indicano che le connessioni nel cervello divengono più forti durante il sonno all’aumentare dell’età e che la forza delle connessioni fra gli emisferi destro e sinistro aumenta di ben il 20% in una sola notte di sonno.
La correlazione tra sonno e maturazione del cervello è ormai provata anche se ancora il meccanismo non è chiaro.

Studi futuri saranno volti a determinare come i disturbi del sonno durante l’infanzia possono influenzare lo sviluppo del cervello e del comportamento.

Ma di una cosa il Dr. Kurth, a capo dello studio, è certo: “la mancanza di sonno durante l’infanzia può influenzare la maturazione del cervello ed essere legata alla comparsa di disturbi dello sviluppo e dell’umore“.

LEGGI ANCHE:

SONNODISTURBI DEL SONNONEUROSCIENZE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Innova Alzheimer – Innovazione tecnologica al servizio delle Demenze.

Innova Alzheimer 5 dicembre 2013

COMUNICATO STAMPA

“Innova Alzheimer”

Politecnico di Bari e Anthropos insieme per il primo progetto del Sud Italia di innovazione tecnologica al servizio delle demenze

Il 5 dicembre, la conferenza stampa e il seminario a Giovinazzo

 

Anthropos e Politecnico di Bari insieme per Innova Alzheimer. Si terrà, giovedì 5 dicembre, alle ore 10.30 presso la sala convegni del San Martin Hotel (piazzale Leichardt – Centro Antico Giovinazzo) la conferenza stampa di presentazione del progetto “Innova Alzheimer. L’innovazione tecnologica al servizio delle demenze.”

E’ il primo progetto realizzato nel sud Italia che in via sperimentale utilizzerà  le tecniche di geolocalizzazione a supporto dei malati di Alzheimer.

 

Interverranno: Maria Pia Cozzari, presidente cooperativa sociale  Anthropos, Katia Pinto, vice presidente Associazione Alzheimer Bari, Floriana De Vanna, responsabile ricerca centro diurno Gocce di Memoria e Francesco Cannone responsabile Best, società Spin off Politecnico di bari.

 

Seguirà dalle ore 11.15 il seminario di formazione  dedicato agli operatori, dipendenti di pubbliche amministrazioni, tecnici e specialisti sui “Nuovi modelli di intervento per le demenze”.

Interverranno: Giancarlo Logroscino, Docente del Dipartimento Neuroscienze Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Giulio Lancioni, Docente del Dipartimento di Psicologia Università degli studi “Aldo Moro” di Bari, Franciscus Robert Hoogeveen  Docente Lettorato di Psicogeriatrica Università dell’Aia – Olanda.   Nella sessione dedicata all’innovazione tecnologica  interverranno: Gianfranco Avitabile e Francesco Cannone del Dipartimento di Elettrica ed Informazione, Politecnico di Bari.

 

Moderatore della giornata: Mauro Minervini, dirigente Unità di Neurologia “Don Uva” di Bisceglie. Conclusioni a cura di Elena Gentile, assessore regionale al Welfare.

Per iscriversi al seminario gratuito, è necessario inviare un’e-mail: a [email protected] – sarà rilasciato attestato di partecipazione. Per informazioni contattare la segreteria scientifico- organizzativa: Floriana De Vanna – Maria Pia Cozzari  – Tel. 388.7305782 – www.goccedimemoria.it  – www.anthroposonline.it

ARTICOLI SU:

MORBO DI ALZHEIMERDEMENZA

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Pt.4

 

Il conflitto pt. 4

Il conflitto: componenti e processi emotivo-affettivi.

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta - Pt.4. - Immagine: © WavebreakmediaMicro - Fotolia.com

I ragazzi tendono a ribattere in maniera altrettanto aggressiva dal punto di vista verbale e a passare poi all’aggressione fisica, quando l’umiliazione e la rabbia suscitata dall’attacco verbale diventano intollerabili cognitivamente ed emotivamente.

Per rendere conto della reale processualità e complessità dell’escalation, è necessario considerare il fatto che essa è sempre una dinamica satura di emozioni forti e impulsive, tra cui rabbia, senso di umiliazione, ostilità, ansia (Winstok e Eisikovits, 2008); questo tumulto emozionale comporta una sensazione di perdita di controllo della situazione fino al punto in cui l’aggressività viene percepita come la sola modalità di riacquisire la percezione di controllo di sé stessi e della situazione (ibid.). La componente emotiva e psicofisiologica dell’escalation è così importante e sostanziale, che Winstok (2008) parla di “covert escalation”, intendendo quella dimensione cognitiva e affettiva nascosta al di sotto dei comportamenti visibili all’esterno.

Per conoscere queste componenti nascoste, è indispensabili utilizzare metodologie qualitative che analizzino le emozioni e motivazioni profonde dei partecipanti al conflitto.

Una ricerca di Geiger e Fischer (2006), mediante interviste qualitative, ha indagato i vissuti emotivi profondi direttamente dalle parole e dalle narrazioni di un campione di preadolescenti. Le domande delle interviste intendevano analizzare tutte le componenti e i fattori coinvolti nell’escalation del conflitto tra compagni di classe, ad esempio le motivazioni o condizioni che la innescavano, le reazioni verbali e comportamentali aggressive, l’eventuale uso della violenza, le emozioni profonde provate durante e dopo il conflitto.

Dalle parole degli studenti emerge il dato che il conflitto è una parte integrante e sempre presente della vita scolastica e gruppale e non si limita all’aggressività verbale ma sfocia spesso in quella fisica.

I ragazzi del campione descrivono diversi parametri mediante cui valutare la gravità o l’innocenza delle provocazioni o degli scherni; alcune delle condizioni contestuali che maggiormente fanno percepire il conflitto come grave e che innescano risposte altrettanto aggressive e il rischio di escalation, sono ad esempio il contenuto ostile o offensivo della provocazione, il fatto di essere oggetto di derisione di fronte al gruppo dei pari, ma soprattutto il bersaglio della provocazione o offesa subita.

Infatti, come sottolineano gli autori, i ragazzi tendono a ribattere in maniera altrettanto aggressiva dal punto di vista verbale e a passare poi all’aggressione fisica, quando l’umiliazione e la rabbia suscitata dall’attacco verbale diventano intollerabili cognitivamente ed emotivamente. Il dolore, la rabbia e il risentimento sono ingigantiti quando bersagli dell’umiliazione o della derisione subita sono elementi profondi della propria identità e dei propri affetti; nelle parole semplici e dirette dei preadolescenti, si risponde a tono alle offese e alle umiliazioni, soprattutto se pubbliche, quando “fanno male”.

La percezione che l’attacco verbale abbia oltrepassato la soglia della tolleranza è sollecitata dal fatto di aver subito una grave e inaccettabile violazione di quegli aspetti idiosincratici profondi che costituiscono e strutturano la dimensione identitaria ed affettiva delle persone. La messa in atto di condotte competitive, aggressive, quando non espressamente violente, in risposta ad un attacco o ad una provocazione risulta l’unica soluzione possibile per difendere quegli elementi naturali e immodificabili del proprio Sé, come l’appartenenza di genere, i tratti derivanti dall’etnia, alcuni difetti fisici.

L’escalation del conflitto e il passaggio dall’aggressività verbale a quella fisica, sono innescati dall’attacco a componenti emotivamente e cognitivamente salienti della propria identità personale e sociale; ridicolizzazioni e offese rivolte a caratteristiche personali immodificabili e stabili nel tempo, suscitano intollerabili vissuti emotivi di rabbia, umiliazione e frustrazione che sfociano nella percezione che l’unico modo per fare valere e difendere il proprio punto di vista sia quello di aggredire alla stessa maniera e di ripagare con la stessa moneta il torto subito. Secondo Anderson e Bushman (2002), l’emozione che gioca il ruolo cruciale nel determinare un’eventuale aggressione fisica è la rabbia, in quanto interferisce con i processi cognitivi complessi di ragionamento e valutazione morale e di autocontrollo, provvedendo a una giustificazione del proprio comportamento aggressivo.

Non sono rari in casi estremi di escalation, soprattutto quando le emozioni in gioco risultano intollerabili, processi di deindividuazione e deumanizzazione dell’altro, che tendono a negare la diversità e la dignità delle persone (Arielli e Scotto, 2003; Coleman et al., 2007); sempre a livelli estremi, la lucidità cognitiva e percettiva viene definitivamente persa, le motivazioni originarie si affievoliscono e rimane come unica legge quella della retaliation, ovvero di rispondere a un torto subito con un attacco di almeno pari entità, meglio nota come “legge del taglione” (Anderson e Bushman, 2002; Arielli e Scotto, 2003; Geiger e Fischer, 2006; Anderson, Buckley e Carnagey, 2008).

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE – 

VIOLENZA ADOLESCENTI

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR. Trattamento EMDR per la rabbia patologica e l’ostilità

 

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

 

“Se la persona che si arrabbia è in piedi,

si dovrebbe sedere. Se la rabbia se ne va,

tanto meglio, altrimenti deve sdraiarsi.”

Muhammad (570-632)

labirinti traumatici emdrLa rabbia è un’emozione molto intensa, generalmente legata ad un sentimento di profonda ingiustizia, alla percezione di aver subito un danno o talora di essere in pericolo: la sua natura è dunque soprattutto difensiva.

Nel recente Convegno Nazionale EMDR l’intervento di Mark Nickerson ha permesso di approfondire questa emozione e le sue sfumature, mettendo al centro i possibili meccanismi eziologici e alcune linee guida importanti per il trattamento.

La prima considerazione necessaria per lavorare su problematiche legate alla rabbia e all’ostilità è distinguere tra diversi gradi di intensità: 1) rabbia “normale, intesa come emozione reattiva ad una situazione specifica, 2) rabbia “patologica, intesa come uno stato emotivo duraturo e ingestibile manifestato internamente o esternamente, 3) ostilità, come tratto stabile di personalità e caratterizzato da uno stile di conoscenza e di relazione basato sul conflitto/scontro, 4) comportamento collerico, inteso come espressione di una rabbia improvvisa o di un tratto ostile di personalità e infine 5) comportamento abusante, inteso come un comportamento che ha l’obiettivo di umiliare la vittima e di ottenere potere e controllo sull’altro.

Ciascun aspetto descritto necessita di interventi specifici e dopo il panorama descritto nei precedenti contributi, il Dott. Nickerson si concentra soprattutto sugli aspetti più importanti da affrontare in psicoterapia.

Il primo passo per la cura di pazienti con un problema di rabbia patologica è indagare “dove e quando” quel comportamento è stato appreso nello sviluppo. Spesso infatti i comportamenti collerici o abusanti rappresentano manifestazioni sintomatiche di traumi irrisolti che hanno generato dei pattern di comportamento stereotipati, originariamente usati come “risposta di sopravvivenza” in situazioni di pericolo e poi rimaste “congelate” negli anni e rinforzate dai successivi eventi di vita negativi. E’ necessario dunque comprendere il ruolo strumentale che la rabbia e l’aggressione hanno per la persona: insomma, a cosa è servita in passato?

Ad attirare l’attenzione degli altri, a ridurre lo stress, a scaricare energia accumulata, a raggiungere un obiettivo, a controllare o ferire gli altri, ad evitare il contatto emotivo con ricordi dolorosi, a mantenere intatta la personalità, a proteggersi.

Nell’ottica EMDR il lavoro terapeutico proposto da Nickerson è caratterizzato da due fasi: la prima consiste nella gestione dello stato, sulla comprensione cioè di cosa attiva oggi la reazione rabbiosa e sull’ampliamento della “finestra di tolleranza delle emozioni (van der Kolk, 1991); la seconda prevede l’intervento EMDR sulla rabbia come tratto, come cioè caratteristica nata dalle esperienze traumatiche infantili che hanno creato e attivato schemi relazionali patologici.

L’idea che guida la prima fase è legata alla neurofisiologia della rabbia: quando è attiva un’emozione difensiva, come spesso è la rabbia, il flusso sanguigno viene indirizzato verso i muscoli, ai danni della corteccia cerebrale, e quindi la nostra capacità di ragionare, pensare e programmare azioni adeguate è seriamente compromessa. Restano attive le aree limbiche del cervello (amigdala e ippocampo), direttamente impegnate nel sistema difensivo primario, tutte le altre vengono letteralmente “spente”. In sostanza, parlare ad un persona intensamente arrabbiata è come parlare alla sua amigdala… difficile, e soprattutto rischioso!

Nickerson propone dunque innanzitutto interventi di psicoeducazione e comportamentali, utili ad uscire dall’emozione e recuperare una distanza emotiva sufficiente per riattivare la corteccia e riuscire di nuovo a dialogare e comunicare con gli altri. Il ciclo della rabbia descritto (vedi immagine) è tra tutti lo strumento clinico più utile a questo scopo, per semplicità e chiarezza: una volta identificate tutte le fasi del ciclo, dai trigger all’escalation della tensione, si rintracciano i target (episodi) – che verranno usati nella seconda fase – legati ad ognuna di quelle fasi attraverso il float back. Il ciclo ha la funzione primaria di comprendere come si arriva all’esplosione di rabbia e costruire successivamente strategie di TIME OUT, per uscire dal ciclo, e di TIME IN, per ri-focalizzarsi su se stessi e cercare infine un’auto-regolazione delle emozioni.

Ciclo della Rabbia

Quest’ultimo aspetto, mette luce uno degli ostacoli più importanti al trattamento di questo tipo di problemi: la presenza di convinzioni rigide ed esternalizzate sugli altri, in assenza di cognizioni e credenze negative su di sé.

La negatività dell’emozione infatti è tutta focalizzata sull’altro e così anche le credenze negative; questo “salva se stessi” dal vivere emozioni troppo dolorose, soprattutto se vissute nell’infanzia, ma blocca l’elaborazione di quelle stesse emozioni e la possibilità che diventino nel tempo meno dolorose. Spesso nei problemi di rabbia patologica lo schema inconsapevole appreso nell’infanzia è frutto infatti di un locus of control completamente esterno: “il comportamento dell’altro mi ha fatto sentire ingiustamente colpevole, sbagliato o in pericolo di vita, e allora oggi faccio sentire gli altri come mi sono sentito io”. Il passato diventa il presente.

Così Nickerson ci spiega il suo Protocollo EMDR per il Targeting di Pregiudizi e Credenze Ostili Esternalizzate (ENC): “Mentre solitamente il valore dell’EMDR risiede nell’identificare e nell’accedere alle credenze negative che il paziente ha di sé, molte di queste vengono oscurate quando il paziente si focalizza negativamente verso l’esterno. Questo processo di esternalizzazione spesso prevede la proiezione di un aspetto negativo di sé sugli altri. Inizialmente può sembrare che questo processo doni un certo sollievo psicologico alla persona dalle proprie responsabilità, al contempo tuttavia, nega l’opportunità di risolvere ciò che rappresenta la loro parte del problema. In generale, il pregiudizio cronico e l’ostilità sono la manifestazione di una carenza di informazioni, disinformazione e informazioni non immagazzinate adeguatamente, basate su esperienze traumatiche irrisolte del passato e di conseguenza trattabili con l’approccio EMDR. Tuttavia, il terapeuta EMDR deve assolutamente mantenere la consapevolezza rispetto al processo di esternalizzazione, aiutando a dirigere il focus del paziente internamente. Il problema delle ENC infatti è che spesso rimangono inesplorate e non vengono mai associate alle esperienze interne.”

Nel lavoro con EMDR è importante dunque considerare e discutere queste credenze nella fase di preparazione, poiché queste possono ripresentarsi durante il trattamento e bloccare l’elaborazione dei ricordi scelti come target. L’idea del protocollo di Nickerson è che queste convinzioni esternalizzate siano apprese e possano essere smantellate quando utilizzate come target durante l’EMDR. E’ necessario quindi associare le ENC ad eventi di vita, che utilizzeremo come target, e collegarle ad una o più credenze negative su di sé legate a quegli eventi. Per una elaborazione efficace è importante che entrambe le cognizioni siano identificate, prima di iniziare la desensibilizzazione ed elaborazione di quel ricordo.

I pregiudizi e i comportamenti ad essi associati, possono ovviamente creare danno alle vittime di questi pregiudizi intaccando la loro sicurezza personale, l’autostima, l’identità sociale, il ruolo nella famiglia. Meno noti sono i danni invece che questi pregiudizi producono sui perpetratori stessi.

Eccone alcuni, utili ai perpetratori e …a chiunque si trovi in balia dei propri pregiudizi:

– il pregiudizio danneggia il pensiero e le capacità decisionali,

– stimoli contestuali attivano reazioni, aumentando la risposta pregiudizievole

– comportamenti pregiudizievoli possono includere il ritiro, l’evitamento, il minacciare, il sottomettere,

– gli stereotipi possono “giustificare” e alimentare l’aggressione,

– risposte pregiudizievoli rinforzano e aumentano il pregiudizio (“Profezia che si auto-avvera””).

 

LEGGI ANCHE:

CONGRESSO NAZIONALE EMDR – EYE MOVEMENT DESENTITIZATION AND REPROCESSING – EMDR – NEUROPSICOLOGIA TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – RAPPORTI INTERPERSONALI

COME FUNZIONA L’EMDR? IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE

 

“Il risentimento è come bere un veleno

e poi sperare che questo uccida i tuoi nemici”

(Nelson Mandela)

Bernardo Carducci on the distinction between shyness and social anxiety

Bernardo Carducci

Indiana University Southeast Shyness Research Institute

 

 

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

Distinction between shyness and social anxiety. - Immagine: © Amir Kaljikovic - Fotolia.comWhat is the distinction between shyness and other conditions, such as social anxiety?

In contrast to individuals with social anxiety, shy individuals will go to social functions but have difficulty talking to or engaging others, particularly those individuals they find attractive or in a position of authority.

Social anxiety is a medical condition defined by a general fear of being evaluated by others to the point that the individual will avoid social situations.  In contrast to individuals with social anxiety, shy individuals will go to social functions but have difficulty talking to or engaging others, particularly those individuals they find attractive or in a position of authority.

Since shyness is not a disease, mental disorder, character flaw, or personality deficit, shy people do not have to change who they are.  More specifically, there is nothing wrong with being a shy person.  The real problem with shyness is what it does to shy people.  What shyness does to shy people is it serves as a personal barrier by controlling their thoughts, feelings, and behavior in a manner that holds them back.  It holds them back in terms of their careers, educational goals, and love lives.

To help shy individuals to deal effectively with their shyness, they have to learn how to control their shyness instead of their shyness controlling them.  And the key to controlling shyness is to understand the nature and the dynamics of shyness.  Thus, the focus of my efforts in the study of shyness is to help shy individuals understand their shyness and to use this understanding to take control of their shyness.  Taking control of shyness is about taking control of your shyness by changing what you think and do, not about changing who you are.   So, this is what I mean when I say, “I’d rather understand shy people than change them.”

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – Psychology

SEE THE ENGLISH ARTICLES ARCHIVE

 

 

 

REFERENCES: 

 

For more information on dealing effectively with your shyness, visit the Indiana University Southeast Shyness Research Institute at www.ius.edu/shyness.

Stimolazione magnetica transcranica: una possibile cura per la Bulimia?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Bulimia nervosa: Una lieve stimolazione magnetica di una zona specifica del cervello potrebbe essere un trattamento efficace per alcuni pazienti bulimici.

Una donna di 42 anni dopo essersi sottoposta a stimolazione magnetica transcranica (TMS) per il trattamento della depressione, ha mostrato un inaspettato miglioramento della bulimia nervosa, di cui soffriva da 20 anni. Dopo questi risultati i suoi medici hanno condotto uno studio pilota per verificare se il trattamento può essere utile nel trattamento dei disturbi alimentari.

Lo studio pilota, presentato dal team di ricercatori della University of Toronto al meeting annuale della Society for Neuroscience, ha coinvolto 20 pazienti bulimici che hanno ricevuto la TMS (20 sessioni di stimolazione elettrica al giorno per quattro settimane) nella corteccia prefrontale dorsomediale, un’area dei lobi frontali situata vicino alla regione del cervello stimolata solitamente nel trattamento della depressione. Tutti i pazienti avevano già provato terapie convenzionali e farmaci, ma senza nessun miglioramento.

Alla fine del trattamento 6 dei 20 pazienti hanno avuto una remissione quasi totale dei sintomi bulimici (abbuffate e purghe); altri 4 hanno avuto un miglioramento sintomatologico del 50%; 8 pazienti invece hanno avuto solo un lieve miglioramento e 2 sono peggiorati.

Nello studio, i ricercatori hanno utilizzato l’imaging cerebrale per esaminare se le differenze di attività cerebrale possono spiegare perché alcuni pazienti rispondono bene al trattamento TMS mentre altri mostrano poco o nessun miglioramento.

Hanno scoperto che, prima del trattamento, i responders avevano minore connettività tra il lobo frontale e una serie di aree cerebrali (come lo striato) che sono collegate a ricompensa e craving. Questa bassa connettività potrebbe essere segno di impulsività e la stimolazione potrebbe avere contribuito a creare il collegamento mancante nel cervello dei pazienti. Anche se il cambiamento provocato dalla TMS è temporaneo e reversibile, con la stimolazione ripetuta è possibile creare cambiamenti duraturi dell’attività neuronale.

Al contrario i pazienti che non hanno risposto al trattamento avevano maggiori collegamenti tra le aree cerebrali in questione. L’ipotesi dei ricercatori è che il trattamento non abbia avuto effetto perchè è andato ad agire su qualcosa che già c’era, cioè la connettività tra le aree.

Anche se sono necessari studi più ampi e sperimentazioni cliniche per confermare i risultati dello studio pilota, i ricercatori si sono dichiarati ottimisti sulla possibilità di usare la TMS nel trattamento dei disturbi alimentari.


 

BIBLIOGRAFIA:

Psiche & Legge #9: Quando l’abbandono dell’incapace diviene reato?

PSICHE E LEGGE #9

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Quando l’abbandono dell’incapace diviene reato? E la vecchiaia, può essere equiparata, ai fini penali, all’incapacità?

Psiche e legge #9. - Immagine: © Dmytro Smaglov - Fotolia.comNel primo appuntamento di Rubrica, oggetto di analisi è stata la tematica inerente la sanità mentale del criminale, stante l’indubbia rilevanza che la stessa riveste nell’ambito del processo penale.

Si ricorderà, difatti, che a norma dell’articolo 85 del nostro codice, “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”, e che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

È evidente, dunque, come l’accertamento della salute psichica del reo, sarà imprescindibile al fine di decidere – una volta attestatane la responsabilità penale – l’eventuale soggezione a sanzione. L’indagine su tale condizione, tuttavia, sarà di fondamentale importanza anche con riferimento al vaglio di sussistenza di taluni reati. È noto, in effetti, come nel nostro apparato normativo, il legislatore abbia espressamente previsto – mediante la descrizione della condotta criminosa – che diverse fattispecie delittuose possano ritenersi integrate soltanto ove il comportamento del soggetto agente sia rivolto ad individui in possesso di determinati requisiti. Così, in relazione al reato di cui ci occuperemo nell’odierna trattazione, l’art. 591 del Codice Penale punisce a titolo di abbandono di persone minori o incapaci, la condotta di chi abbia abbandonato i soggetti elencati nella norma: “una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura. Disposizione che, in sostanza, interviene a ricondurre nell’alveo del penalmente rilevante, fermi i presupposti richiesti dal precetto incriminante, il disprezzabile comportamento di abbandono o incuria posto in essere nei confronti del soggetto “debole”. Trattasi, come si palesa, di norma che trova intuibile ratio nell’esigenza di offrire un’adeguata e rafforzata tutela a chi, per particolari condizioni – legate alla minore età, alla vecchiaia, o al cagionevole stato psicofisico – si trovi a necessitare dell’altrui ausilio, al fine di restare indenne da un concreto pericolo di danno derivante dalle attività quotidiane cui non riesce ancora, o non riesce più, a far fronte.

A conferma, si ponga attenzione alla collocazione del disposto, inserito nell’alveo dei delitti contro la vita e l’incolumità personale, appositamente formulato per rispondere con sanzione alla condotta del soggetto che – tenuto ad assistere l’incapace – se ne sia invece disinteressato, lasciandolo in balia degli eventi. Condanna che si aggraverà, per palesi motivazioni, nell’ipotesi in cui il delitto assuma contorni di maggiore biasimo, poiché perpetrato “dal genitore, dal figlio, dal tutore, o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato”. A ben vedere, pertanto, nonostante la norma esordisca con “chiunque…”, il reato in analisi non potrà essere perpetrato da qualsiasi persona, ma esclusivamente da colui che sia legato alla vittima da un obbligo di custodia.

A titolo esemplificativo, ne risponderà, tra gli altri, il familiare dell’incapace che non gli assicuri le dovute attenzioni, ponendolo in pericolo nella gestione quotidiana del suo vivere. Sul punto, poi, si annoti come la Cassazione sia costante nell’estendere la nozione di familiare anche al convivente more uxorio che abbandoni il compagno non autosufficiente, gravando sul primo, uno specifico dovere di cura in favore del secondo. Ancora, il crimine scatterà a carico del personale, medico o infermieristico, che non presti riguardo al degente che versi, dati alla mano, in discutibili condizioni igieniche. Di contro, andrà esente da sanzione penale per il suicidio del paziente borderline, il primario del servizio psichiatrico che abbia dimesso il malato in prossimità temporale con l’evento, laddove l’atto non poteva da questi ritenersi prevedibile, e dunque idoneo ad imporre la predisposizione di un trattamento sanitario obbligatorio.

Discussa, invece, è stata la questione – poi risolta in senso affermativo dai giudici di legittimità – inerente la responsabilità dell’ausiliario di una struttura sanitaria, non tenuto (per mansionario) alla vigilanza del ricoverato infermo. Ebbene, in tale evenienza, la Suprema Corte è giunta a riconoscerne la colpevolezza, in caso di attestata esposizione a rischio del malato, sul presupposto che l’obbligo di custodia, a prescindere da formali attribuzioni, fosse da ritenersi comunque legato al servizio notturno prestato. Ad ogni modo, esulando dall’odierna tematica ogni profilo più strettamente connesso all’elemento soggettivo del reato, al requisito del pericolo, ed all’evenienza in cui vittima del crimine sia un minore, ciò che interessa approfondire è l’aspetto concernente la nozione di incapace, rilevante ai fini integrativi dell’art. 591 c.p., con particolare riferimento al concetto di incapacità psichica.

Occorrerà, allora, ricordare come la definizione di malattia di mente possa e debba desumersi dalla più generale nozione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la descrive quale “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità. Ecco che la qualificazione dell’Uomo Sano, inerirà, è evidente, ad una condizione caratterizzata da equilibrio dell’umore, integrità della sfera cognitiva e comportamentale, capacità di relazionarsi con l’esterno, esplicare le abilità cognitive ed emozionali, soddisfare le esigenze quotidiane, e risolvere in maniera costruttiva eventuali conflitti interni.

Di conseguenza, se per patologico intendiamo ciò che esula dalla “norma”, l’attività diagnostica dovrà prendere a riferimento i canoni di “normalità” legati sia alla presenza di patologie mentali (psicosi e nevrosi), che ai dati statistici, o all’interazione fra la predisposizione allo sviluppo di un disturbo (diatesi) e un evento negativo o una particolare condizione ambientale/esistenziale che funga da agente scatenante (stress).

Di qui, l’inevitabile richiamo, in punto di valutazione, ai cinque assi individuati dal DSM nei Disturbi Clinici, Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale, Condizioni Mediche Generali, Problemi Psicosociali e Ambientali, Valutazione Globale del Funzionamento.

Può concludersi, pertanto, come l’incapacità mentale del soggetto – superato il modello nosografico, che la leggeva in necessario collegamento con il riscontro di catalogate patologie biologiche, del cervello o del sistema nervoso – andrà vagliata alla luce di una serie di fattori, inclusi quelli psicologici (con estensione dell’alveo a psicosi o nevrosi) o sociologici (influenzati dal contesto di vita dell’individuo). Da farsi confluire nell’alveo dell’incapacità, si badi, anche gli stati di indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica, nonché i disturbi della personalità, tanto gravi da incidere sulla capacità d’intendere e volere dell’individuo (Cass., Sez. Un., n. 9163/05).

Tuttavia, se alla luce degli esposti rilievi potremmo agilmente individuare il soggetto psichicamente “incapace” – indicato, dall’art. 591 c.p., quale vittima potenziale del reato, al pari dell’uomo incapace per motivazioni prettamente fisiche – occorrerà, per completezza espositiva, aggiungere un ulteriore tassello alla ricostruzione in parola, ponendosi un ultimo quesito. Logica esige che ci si domandi, in sostanza, se l’avanzata età del soggetto che sia lasciato esposto a pericoli, possa ritenersi equivalente alla condizione di incapacità prima disegnata. Il responso non è univoco. Va chiarito, difatti, come in linea di principio la “vecchiaia” possa senz’altro ricondursi nell’alveo dell’incapacità del soggetto passivo richiesta ai fini integranti del delitto ex art. 591 c.p., da intendersi come qualsiasi condizione – non necessariamente legata alla salute della vittima – da cui ne derivi uno stato d’inettitudine, inclusa l’età avanzata ove connessa alla concreta incapacità dell’offeso di provvedere a se stesso.

Ed è palese, come dal mero dato anagrafico (condizione fisiologica, e non patologica) non possa farsi conseguire, sempre e comunque, un giudizio d’inadeguatezza a restare indenne dai pericoli della vita quotidiana. Sarà il giudice, allora, a dover vagliare, caso per caso, e nel corso del processo, l’effettiva necessità di una costante vigilanza dell’anziano, in relazione alla lucidità ed alla capacità di autogestirsi, da cui possa eventualmente derivare l’affermazione di una responsabilità penale a carico di chi ne risultasse deputato alla custodia.

Presupposto indefettibile per la sussistenza del reato di abbandono d’incapace, dunque, sarà un’approfondita analisi processuale, condotta anche e soprattutto alla luce delle risultanze peritali, inerente le specifiche condizioni psicofisiche del soggetto lasciato, da chi ne fosse tenuto alla cura, in balia dei pericoli quotidiani.

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

LEGGI ANCHE:

VIOLENZATERZA ETA’ – PSICOLOGIA PENITENZIARIA

PSICHE & LEGGE: QUANDO LA MENTE CRIMINALE “SCRIVE” IL PROCESSO PENALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Cuore sacro – Cinema & Psicoterapia #14

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #14

Cuore Sacro (2005)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Cuore Sacro. - LOCANDINA

Un viaggio verso la scoperta di se stessa e verso una spoliazione altruistica estrema che diventa “follia”. 

Info:

Un film di Ferzan Ozpetek, con Barbora Bobulova, Andrea Di Stefano, Lisa Gastoni, Caterina Vertova, Massimo Poggio. Drammati co. Italia 2005.

Trama: 

Irene Ravelli è una cinica donna d’affari che gestisce le aziende immobiliari ereditate dal padre. Il dissequestro del palazzo di famiglia la porta a scoprire che la stanza dove ha abitato la madre è rimasta intatta. L’incontro con Benny, una ragazzina particolare, le fa conoscere una realtà caratterizzata da estrema povertà. Questi due eventi stravolgono la vita di Irene e provocano un profondo cambiamento, un viaggio verso la scoperta di se stessa e verso una spoliazione altruistica estrema che diventa “follia”. 

Motivi d’interesse:

Il cambiamento di Irene è così radicale che la porta ad uno stato quasi stuporoso, a un umore predelirante che culmina nella scena in cui si spoglia materialmente camminando nella stazione della metropolitana. Nella scena vengono riassunti gli elementi propri della derealizzazione e della depersonalizzazione. L’atteggiamento è distaccato, il corpo è estraneo, si avverte nella scena una sensazione di irrealtà. Irene è come se fosse in un sogno, il senso di realtà è così profondamente alterato che sembra in preda ad allucinazioni.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può offrire una traccia per discutere sul cambiamento, sull’incidenza che il giudizio degli accadimenti ha nella vita di ognuno e sul senso del vivere. Fornisce una rappresentazione esemplificativa di sintomi che possono appartenere a quadri clinici diversi: disturbo dissociativo, schizofrenia, disturbo di personalità schizotipico. 

Trailer:

 LEGGI:

PSICOSI DELIRIO

RECENSIONI – CINEMA 

 

Sullo stesso tema: 

  • Psycho. Un film di Alfred Hitchcock, con Anthony Perkins, Janet Leigh, Vela Miles, John Gavin, USA 1960.
  • Doppia personalità (Raising Cain). Un film di Brian De Palma, con John Lithgow, Steven Bauer, Lolita Davidovich. Thriller. USA 1992.
  • Dr. Jekyll e Miss Hyde (Dr. Jekyl and Ms. Hyde). Un film di David Price, con Sean Young, Tim Daly, Lysette Anthony, Timothy Daly, Stephen Tobolowsky. Horror. USA, GB 1995.

 

BIBLIOGRAFIA:

Il bilinguismo ritarda l’età di insorgenza della demenza

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori sostengono che ci sia qualcosa di interessante nel passare da una lingua ad un’altra nel corso di una conversazione, qualcosa che aiuta a spiegare perché le persone bilingui sviluppino la demenza 5 anni più tardi.

La prova del fatto che parlare più di una lingua sia vantaggioso per il nostro cervello deriva da un recente studio in cui si è riscontrato che la demenza si sviluppa più tardi in persone bilingui rispetto a persone che parlano una sola lingua.

Questo studio, condotto in India e pubblicato sulla rivista Neurology non è il primo che arriva a questo tipo di conclusioni, ma è il più ampio e introduce nuovi interessanti dettagli: i risultati si riscontrano anche in persone prive di cultura, il che significa che il possibile effetto non è necessariamente legato ad un’educazione ufficiale.

Infatti, i ricercatori sostengono che ci sia qualcosa di interessante nel passare da una lingua ad un’altra nel corso di una conversazione, qualcosa che aiuta a spiegare perché le persone bilingui sviluppino la demenza 5 anni più tardi. Quando si mettono a confronto tra loro persone prive di cultura, quelle che parlano più di una lingua sviluppano demenza 6 anni più tardi.

Sappiamo da altri studi che l’attività mentale porta a degli indiscussi effetti protettivi” afferma Thomas Bak, co-autore e neurologo presso l’Università di Edimburgo, e continua dicendo “Il bilinguismo combina insieme differenti attività mentali, come ad esempio cambiare suoni, nozioni, strutture grammaticali e concetti culturali. Esso stimola il cervello per tutto il tempo”.

In questo studio Bak e colleghi hanno analizzato 648 casi di pazienti con demenza ed è stata confrontata l’età di insorgenza dei primi sintomi in gruppi monolingui e gruppi bilingui.

La location è stata di importanza chiave poiché la maggior parte dei residenti in India parla 2 o 3 lingue, tipicamente un insieme della lingua ufficiale (Telugu), del dialetto e dell’Inglese.

Più della metà delle persone con demenza prese in esame erano bilingui o multilingui e i ricercatori hanno trovato che queste persone hanno sviluppato i loro primi sintomi ad un’età media di 65 anni, 5 anni dopo rispetto all’insorgenza a 61 anni nelle persone che parlavano una sola lingua. Queste differenze sono state riscontrate per diversi tipi di demenza, incluso l’ Alzheimer, la demenza vascolare e la demenza frontotemporale.

Anche due studi precedenti condotti in Ontario, Canada, avevano riscontrato un ritardo dell’insorgenza dell’Alzheimer in persone bilingui. Ma in questi studi, le persone bilingui erano prevalentemente immigrate, quindi il nuovo studio di Bak e colleghi risulta più convincente per il fatto che sono state studiate persone cresciute nella stessa nazione e con la stessa cultura.

In conclusione, tutte queste ricerche offrono un buon motivo ai genitori per far imparare ai figli lingue straniere durante la loro crescita e per incentivare le famiglie bilingui ad utilizzare più di una lingua a casa.

LEGGI:

BILINGUISMO DEMENZATERZA ETA’

Bilinguismo e Flessibilità Cognitiva negli Anziani

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation nei Disturbi di Personalità

Manuela Pasinetti 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation: implicazioni per il trattamento dei disturbi di personalità

 

Mindfulness, alessitimia e self-differentiation. -Immagine:© ra2 studio - Fotolia.com La mindfulness e l’acceptance sono risultati mediatori nella relazione tra capacità di differenziazione e alessitimia.

Nel corso degli ultimi anni stiamo assistendo ad un crescente interesse da parte del mondo scientifico all’influenza della mindfulness nella regolazione emotiva (Linehan, 1993), la riduzione dello stress (Kabat-Zinn, 1990) e nel trattamento di popolazioni cliniche (Baer, 2003; Segal et al, 2002).

Ancora pochi studi però si sono interessati, ad oggi, della relazione tra mindfulness, capacità di “self-differentiation” e alessitimia.

Il costrutto di self-differentiation può essere descritto a livello intrapsichico e interpersonale.

Parlando di differenziazione ci si può innanzitutto riferire alla capacità di poter ragionare sui propri stati mentali e di assumere da essi distanza critica, ovvero considerare che le proprie idee su di sé e gli altri sono soggettive e che le cose potrebbero essere diverse  viste da un’altra angolatura (Dimaggio e Lysaker, 2011; Dimaggio et al., 2013).

A livello interpersonale, la self-differentiation si riferisce alla capacità di mantenere presenti se stessi e i propri stati emotivi mentre si è coinvolti nell’interazione con altri (Bowen, 1978).

Una scarsa self-differentiation si manifesta nell’incapacità di autoregolazione emotiva e in una forte reattività e impulsività interpersonale. Individui con scarsa capacità di differenziazione del sé sono meno flessibili e capaci di adattarsi in condizioni di stress, in quanto meno abili nel moderare l’arousal emotivo derivante da tali situazioni (Skowron et al., 2004).

L’alessitimia consiste nell’incapacità di ragionare in termini emotivi, a partire dalla difficoltà di individuare e dare un nome alle proprie emozioni e comunicarle agli altri.

Le persone alessitimiche sembrano, quindi, essere meno capaci di dare un senso ai loro stati interni, con conseguenti ricadute negative sulle relazioni interpersonali e sulla gestione dell’attivazione neurofisiologica legata alle emozioni (Lysaker et al., in press).

 

I due costrutti appaiono, pertanto, correlati: problemi di self-differentiation, una scarsa conoscenza delle proprie emozioni sostiene probabilmente la difficoltà a distinguere il proprio mondo da quello degli altri. E’ emerso infatti che chi aveva tratti alessitimici aveva una minore self-differentiation (Blaustein e Tuber, 1998).

La mindfulness ha il potenziale di promuovere entrambe, aiutando la persona a focalizzare sugli stati interni e descriverli in modo non giudicante.

Un recente studio (Teixeira & Graça Pereira, 2013), pubblicato a luglio sulla rivista Mindfulness, si è quindi proposto di valutare il potenziale effetto della mindfulness sui due fattori illustrati precedentemente. In questo studio cross-sectional, un campione di 168 studenti universitari tra i 18 e i 50 anni (M=22) (72% di sesso femminile) è stato valutato sulla base di questionari che indagavano alcune dimensioni della mindfulness – consapevolezza e accettazione -, la differenziazione e l’alessitimia. I risultati hanno rivelato una correlazione positiva tra le diverse dimensioni della mindfulness e correlazioni negative tra queste dimensioni, la differenziazione e l’alessitimia.

La mindfulness e l’acceptance sono risultati mediatori nella relazione tra capacità di differenziazione e alessitimia. In altri termini, la pratica di mindfulness sembra incrementare la self-differentiation e diminuire l’alessitimia, migliorando così la capacità di porre attenzione ai propri stati interni (pensieri, emozioni, scopi, desideri, etc.) anche in un contesto relazionale e la regolazione emotiva.

I risultati conseguiti sembrano convalidare ancora di più l’idea che la mindfulness sia un costrutto con un grosso potenziale sia terapeutico sia di ricerca a diversi livelli. Alla luce di questi risultati è sensato ipotizzare che promuovere la mindfulness conduca a migliorare la capacità di “avere presente nella propria mente il proprio stato, i propri desideri, i propri fini quando ci si occupi della propria esperienza” (Coates, 2006).

A questo proposito, vorrei accennare che è stato sviluppato un protocollo di ricerca basato sulla mindfulness presso il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale con gruppi di pazienti con disturbi di personalità inibito-coartati – ovvero evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo, narcisista e paranoide (Metacognitive Interpersonal Mindfulness Based Training [MIMBT] for Personality Disorders – Ottavi et al., in press).

Questo tipo di pazienti presenta, infatti, deficit nella capacità di self-differentiation e spesso la co-presenza di alessitimia a vari livelli di gravità. Sulla base della nostra esperienza clinica con questa classe di pazienti abbiamo notato, e stiamo notando, quanto la mindfulness sia in grado di aiutarli a riconoscere, definire e ragionare sui propri stati mentali, ad imparare ad osservare gli effetti dei propri schemi interpersonali disfunzionali, a rimanere meno invischiati e bloccati nella ruminazione quando vengono vissute situazioni interpersonali difficili e dolorose.

LEGGI:

MINDFULNESSACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT  – DISTURBI DI PERSONALITA’ – DP

Daniel Siegel – La neurobiologia interpersonale – Report dal Workshop

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE DELL’ARTICOLO:

Manuela Pasinetti, Psicologa e Psicoterapeuta presso il Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma

L’incontro con una versione di sé non conosciuta: La Storia Infinita

 

 

L’incontro con una versione di sé non conosciuta: la storia infinita

Il dubbio di Bastian: credere e, quindi, integrare la parte, in questo caso, “sognante” di lui oppure chiudere il libro e rimanere con i piedi per terra rende, a mio avviso, in chiave metaforica, rende bene l’idea di quel che accade in terapia.

La storia infinita è un film del 1984 diretto da Wolfang Petersen, ispirato al romanzo omonimo di Michael End.

Il giovane Bastian, appassionato del mondo dei libri, essendo venuto in possesso del libro “la storia infinita” decide, dopo aver marinato la scuola, di rifugiarsi in una soffitta per poterlo leggere. Il contatto con questo libro lo porterà a vivere una storia avventurosa e carica di significati che non mancheranno di influenzare la sua persona e la sua storia.

Ciò che ha suscitato il mio interesse riguardando la favola e rivisitando alcuni autori di epistemologia sistemica, è il frame dove Atreyu/Bastian, per salvare il mondo di Fantasia, si trova ad affrontare una prova importante: l’attraversamento delle due porte fino all’incontro con il desiderato Oracolo del Sud, meta ambita ma, a memoria del bizzarro scienziato Enchivuc, mai attraversata.

Ho colto in questo frame dei parallelismi con quanto avviene, a mio avviso, nel processo terapeutico dove paziente e terapeuta si ritrovano a ripercorrere gli eventi di vita del paziente particolarmente complessi e che non mancano di suscitare emozioni intense. L’incontro con la prima porta, quella dove è richiesta a colui che la attraversa, Atreyu/Bastian in questo caso,  volontà e fiducia in sé stesso ha rievocato in me la fase del processo terapeutico durante la quale il paziente ed il terapeuta, seguendo il fil rouge della reciprocità, pongono le basi per una alleanza terapeutica provando insieme a superare vari ostacoli, come gli occhi bollenti delle Sfingi nella favola.

Attraversata questa fase, che farà da prodromo agli sviluppi successivi, così come nella favola l’attraversamento della prima porta rappresenta l’anticamera che conduce poi a una nuova porta, ci si inoltra nella fase intermedia del processo terapeutico: l’incontro con una versione del sé di cui non si ha memoria esplicita ma che emerge in seguito alla co-costruzione di una versione della storia diversa rispetto la versione precedente. Questo passaggio nella favola è reso dalla metafora dello specchio dove Atreyu e Bastian hanno modo di scoprire di essere “versioni diverse di uno stesso sé”.

Questa fase del processo terapeutico, i cui tempi – considerando la duplice dimensione Kairos/ Kronos (tempo oggettivo e tempo soggettivo) – non sempre sono prevedibili  e congruenti, potrebbe favorire l’insorgenza di paure. Un esempio è il momento in cui nella favola il bizzarro scienziato Enchivuc dice al fortuna drago a proposito dell’incontro di Atreyu con il suo vero sé: “tutti sono convinti che sia facile, ma sovente i buoni scoprono di essere crudeli, eroi famosi scoprono di essere codardi”.

Nei momenti terapeutici in cui accade questo, il rischio è quello di non reggere l’impatto, come succede a Bastian nel momento in cui vede una versione diversa del suo sè, Atreyu,  e lancia il libro dicendo “questo non mi funziona!”.

Nella clinica è il contesto terapeutico stesso a fungere da elemento protettivo in quanto, essendo scevro di qualsivoglia giudizio e scenario di una buona alleanza tra paziente e terapeuta, consente a chi vi è  all’interno di poter esperire e prendere contatto con versioni di sé non conosciute e che, probabilmente, difficilmente emergerebbero in contesti esterni.

Tuttavia, nelle fasi finali del processo, quando sembra di “sapere tutto” ecco che ci si trova dinanzi ad una scelta, una scelta che stavolta deve compiere il paziente. Nella favola, questo momento potrebbe trovare un corrispettivo nel punto in cui Atreyu rivolge la domanda all’oracolo del sud:“come si può salvare Fantasia?” e l’oracolo risponde “l’imperatrice ha bisogno di un nuovo nome che solo un terrestre può dare” rimandando ad Atreyu il compito di trovare il terrestre Bastian.

Potrebbe accadere che il processo terapeutico rimanga fermo a questo dilemma amletico: “Divento protagonista della mia storia provando a integrare le versioni di me che non conoscevo o rimango fermo alla prima versione scritta a più mani e di cui, forse, a stento, si scorge la mia?” . Il dubbio di Bastian: credere e, quindi, integrare la parte, in questo caso, “sognante” di lui oppure chiudere il libro e rimanere con i piedi per terra rende, a mio avviso, in chiave metaforica, rende bene l’idea di quel che accade in terapia.  

LEGGI:

IN TERAPIA ALLEANZA TERAPEUTICA – CINEMA

Star wars – Analisi della coppia in uno scenario sistemico

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Friedman, E. H. “Teoria e terapia Boweiana” Manuale di terapia della famiglia cap.3 pp. 63-101 (ed.italiana a cura di Paolo Bertrando) collana “manuali di psicologia e psicoterapia” Bollati e Boringhieri Torino, 1995.
  • Wolfang, M. “ Die unendliche Geschichte” (trad. la storia infinita) a cura di Longanesi, 1979
  • Malagoli Togliatti, M. “La teoria generale dei sistemi”. La terapia sistemica cap.1 pp. 21-26 (a cura di Malagoli Togliatti, M. e Telfner, U.) collana “psiche e coscienza” Astrolabio Roma, 1983.
  • Bertrando, P. “i processi di cambiamento” rivista “Riflessioni sistemiche” n°6 pp. 154-165 Giugno, 2012. (DOWNLOAD)

 

La Memoria Episodica: lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta

Santina Leonardi

 

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Memoria Episodica – Lo sviluppo della capacità di codificare le informazioni è il riflesso di un miglioramento nelle capacità di prestare attenzione al contesto e di formare strutture relazionali complesse.

Con il termine memoria episodica (o memoria dei fatti) ci si riferisce all’abilità di ricordare un avvenimento (cosa è successo) e nello stesso tempo dove e quando questo fatto ha avuto luogo. Effettivamente un buon ricordo richiede che vengano legate tre informazioni – cosa, dove, quando – in una struttura relazionale coerente.

Molti studiosi ritengono che la memoria episodica abbia uno sviluppo tardivo e lento nel bambino soprattutto se messa a confronto con il rapido sviluppo della memoria semantica (o, più semplicemente, memoria delle parole), entrambe componenti della cosiddetta memoria verbale a lungo termine.

Anche gli studiosi che, invece, propendono per uno sviluppo precoce di tale abilità, riconoscono comunque che, intorno ai 4-6 anni, molti aspetti di tale memoria siano ancora piuttosto fragili. In effetti a questa età i bambini possono dimostrare eccellente memoria per eventi singoli, ma hanno difficoltà a riportare anche il quando e il dove di un episodio.

Ma cosa cambia veramente nel corso dello sviluppo? I bambini imparano a codificare strutture relazionali complesse oppure ciò che si sviluppa è la capacità di conservare tali strutture nella memoria a lungo termine? Se è una questione di codifica, le difficoltà potrebbero riguardare la capacità di prestare attenzione simultanea a componenti multiple o la capacità di organizzare una struttura relazionale complessa, oppure entrambi. Se la questione è la conservazione e il recupero del ricordo, le difficoltà potrebbero riguardare il fatto che strutture relazionali complesse decadono più facilmente nelle prime fasi dello sviluppo (l’episodio era stato codificato in memoria ma non è più recuperabile).

I risultati dello studio condotto da Hyungwook Yim, Simon J. Dennis, e Vladimir M. Sloutsky della Ohio State University indicano che i bambini di 7 anni dimostrano una maggiore abilità di usare strutture sia semplici che complesse rispetto ai bambini di 4 anni, questi ultimi inoltre falliscono nella codifica di strutture complesse. Gli adulti invece dimostrano di fare un uso spontaneo di strutture complesse anche quando il materiale da memorizzare potrebbe essere organizzato in maniera più semplice.

Le diverse prestazioni nella fase di recupero supportano l’ipotesi che la memoria episodica continui a svilupparsi fra i 7 anni e l’età adulta, con un sostanziale aumento nell’uso di strutture più articolate.

Le evidenze di questo nuovo studio hanno importanti implicazioni per le teorie sulla memoria episodica perché introducono la codifica quale nuovo fattore nello sviluppo della memoria. In particolare, gli autori sottolineano che lo sviluppo della capacità di codificare le informazioni sia il riflesso di un miglioramento nelle capacità di prestare attenzione al contesto e di formare strutture relazionali complesse.

Questi risultati possono inoltre avere implicazioni nella comprensione dei meccanismi neurali della memoria episodica. Due strutture principali sono associate a questa memoria, il lobo temporale mediale (MTL) e la corteccia prefrontale (PFC).

Secondo alcuni studiosi, l’MTL (incluso l’ippocampo e le cortecce che lo circondano, che si trovano nella parte più interna dell’MTL) è coinvolto nella conservazione delle tracce mnestiche, mentre la PFC è coinvolta nell’organizzazione delle molteplici informazioni in un’unica traccia di memoria episodica. Secondo altri invece, sia l’MTL che la PFC intervengono durante la codifica e i loro rispettivi ruoli cambiano durante lo sviluppo.

Il fatto che la PFC raggiunga il culmine della maturazione neurale nella prima età adulta, mentre si osservino piccoli cambiamenti a livello dell’ippocampo dopo i 4 anni di età, costituisce, per alcuni, un’evidenza a favore dello stretto legame fra sviluppo infantile-adolescenziale della memoria episodica e maturazione delle aree frontali del cervello. Altri studi però riportano che strutture come il giro paraippocampale posteriore svolgono un ruolo sostanziale nello sviluppo della memoria episodica.

Per poter dirimere la questione è quindi fondamentale comprendere quali componenti intervengono nell’apprendimento e nel mantenimento di un’abilità, la memoria, su cui si basa il nostro essere persone e la nostra storia. Comprendere come funziona la memoria episodica ha inoltre risvolti estremamente importanti anche nella comprensione di malattie come l’Alzheimer o la demenza fronto-temporale.

LEGGI:

MEMORIABAMBINI 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sperimentazione Animale: il Suicidio della Ricerca Italiana

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Il 22 Novembre 2013 Nature Neuroscience (parte del gruppo Nature), che assieme a Science è la rivista scientifica più importante a livello mondiale, ha pubblicato un editoriale particolarmente duro nei confronti dell’Italia in riferimento alla legge sulla sperimentazione animale votata dal Parlamento italiano l’8 agosto 2013 (http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2013-08-20;96); tale legge nasce da una direttiva dell’Unione Europea del 2010 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32010L0063:IT:HTML), direttiva che vuole rappresentare “un passo importante verso il conseguimento dell’obiettivo finale della completa sostituzione delle procedure su animali vivi a fini scientifici ed educativi non appena ciò sia scientificamente possibile.” e che riconosce come “Benché sia auspicabile sostituire nelle procedure l’uso di animali vivi con altri metodi che non ne prevedano l’uso, l’impiego di animali vivi continua ad essere necessario per tutelare la salute umana e animale e l’ambiente.” .

La legge italiana, che deve ancora essere approvata in Senato, prevede tra i vari punti di:

a)    vietare l’utilizzo di  primati,  cani,  gatti  ed  esemplari  di specie in via d’estinzione a meno  che  non  si  tratti  di  ricerche finalizzate alla salute dell’uomo o delle specie coinvolte;

b)    vietare  gli  esperimenti  e  le  procedure  che  non  prevedono anestesia o analgesia, qualora esse comportino dolore all’animale, ad eccezione dei casi di sperimentazione di anestetici o di analgesici;

c)     vietare l’utilizzo di animali per gli esperimenti  bellici,  per gli xenotrapianti e per le ricerche su sostanze d’abuso, negli ambiti sperimentali  e  di  esercitazioni  didattiche  ad  eccezione   della formazione  universitaria  in  medicina   veterinaria   e   dell’alta formazione dei medici e dei veterinari;

d)     vietare l’allevamento nel territorio nazionale di cani, gatti  e primati non umani destinati alla sperimentazione;

Nature Neuroscience denuncia come tali restrizioni, se approvate, avranno “conseguenze catastrofiche per la comunità di ricerca biomedica italiana”: la ricerca italiana, già vittima di una politica di tagli dei fondi,  non sarà più competitiva a livello internazionale e quindi non sarà più in grado di vincere sovvenzioni europee o di attirare investimenti  esteri; l’impossibilità di allevare animali per la sperimentazione costringerà gli scienziati ad abbandonare i propri progetti, a procurarsi animali al di fuori dell’Italia (con un ulteriore aumento dei costi per la ricerca) oppure ad andare a fare ricerca all’estero.  Nature Neuroscience sottolinea soprattutto come “questa normativa porrà fine alla possibilità di ricerca sulle cause e il trattamento della tossicodipendenza, nonché della ricerca volta ad indagare le potenzialità di terapie sostitutive di cellule staminali”; quest’ultimo rappresenterebbe un grandissimo ostacolo per la ricerca di nuove terapie contro il cancro, che al momento sono condotte per la maggior parte proprio tramite xenotrapianti.

Se da una parte la colpa è da attribuire ad una scarsa formazione e conoscenza scientifica di base dell’opinione pubblica, dall’altra la rivista punta il dito contro la comunità di ricerca italiana, colpevole di non aver  comunicato “in modo adeguato i mezzi con cui la ricerca biomedica viene condotta, portando così a malintesi e diffidenze da parte della popolazione.” Sarebbe pertanto auspicabile una “collaborazione tra il governo italiano e l’establishment scientifico per migliorare la formazione scientifica e la comunicazione” nel nostro Paese perché, essendo la sperimentazione animale un argomento che smuove emotivamente l’opinione pubblica,  “solo attraverso una chiara comprensione da parte dell’opinione pubblico del valore e dell’importanza della ricerca sugli animali si potranno evitare tali crisi in futuro”.

Qui di seguito potete leggere l’editoriale di Nature Neuroscience in lingua originale.

It is not difficult to see how these restrictions, if implemented, could have catastrophic consequences for the entire Italian biomedical research community. If laboratories are unable to breed research animals, scientists will be forced to either abandon current research projects or acquire animals from lab animal distributors based outside of Italy, making most experiments prohibitively expensive…

 

Italian biomedical research under fire : Nature Neuroscience : Nature Publishing GroupConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
A short-sighted bill introduced in the Italian parliament could cripple scientific research in that country. Scientists share some of the responsibility for this crisis. (…)

 

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Umorismo Genitoriale: la relazione tra Educazione e Autostima nei figli. Assisi 2013

Assisi 2013

Umorismo genitoriale:

relazione tra stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo e autostima nei figli.

Lorena Notarangelo, Sonia Abbondanza,

(Studi Cognitivi – San Benedetto del Tronto)

 

INTRODUZIONE: 

L’obiettivo della ricerca è quello di scoprire l’eventuale esistenza di una relazione tra uno stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo come strategia di coping e in modo autorinforzativo e una relativa buona autostima nei figli.

In un’atmosfera caratterizzata dalla serietà, ridere viene considerato come un disturbo, mentre proprio la risata, la comicità e l’umorismo potrebbero liberare energie, mettere in discussione la routine. Il buon senso dell’umorismo è una delle caratteristiche più desiderabili che un individuo possa sviluppare in quanto fornisce una strategia alternativa che rende capaci di cambiare prospettiva rispetto a una situazione stressante, reinterpretandola in un nuovo modo, cambiando punto di vista e rendendola meno minacciosa.

Il senso dell’umorismo, influendo positivamente sulla valutazione degli eventi, attenuerebbe le risposte emozionali e comportamentali negative, favorendo un decentramento e una risposta comportamentale positiva.

Secondo la letteratura attuale, l’umorismo e il ridere sarebbero potenti mezzi di comunicazione che permetterebbero:

  • di simulare e rinnovare le proprie origini;
  • di interrompere il corso ordinario delle cose per aprire una finestra su un mondo altro, dove è possibile abbandonare le maschere e viversi liberamente in una dimensione diversa, giocosa e gioiosa;
  • di “ritualizzare l’aggressività” e di trovare un suo canale di espressione necessario e riconosciuto dalla collettività;
  • di rinforzare le norme sociali, i valori della comunità e di dare in tal modo un senso pieno alle esistenze individuali.

L’obiettivo della ricerca è quello di scoprire l’eventuale esistenza di una relazione tra uno stile educativo familiare basato sul senso dell’umorismo come strategia di coping e in modo autorinforzativo e una relativa buona autostima nei figli.

Il campione è formato da 135 genitori e figli, 76 della Quarta e Quinta classe della Scuola Primaria e 59 della Prima e Seconda classe della Scuola Secondaria di Primo Grado dell’Ist. Comprensivo n° 2 di Vasto (Ch).

Sono stati somministrati:

ai genitori:

• Assessing Parenting Styles: per valutare lo stile genitoriale. Il questionario pone domande sui sentimenti di tristezza, paura e rabbia sia nei genitori che nei loro figli. È composto da 81 item a cui il soggetto deve rispondere vero o falso a seconda se l’affermazione sia per lui prevalentemente vera o prevalentemente falsa. I risultati delineano quattro tipologie di stili genitoriali: (A) Respingente – Distaccato, (B) Criticista, (C) Permissivo e (D) Coach Emozionale. (Simon and Schuster, 1997).

• CHS – Coping Humor Scale: per valutare l’utilizzo dell’umorismo come strategia di coping. Il questionario è ideato per misurare in maniera specifica la capacità del soggetto esaminatore di far fronte a situazioni di stress attraverso il ricorso all’uso dell’umorismo.

Composto da 7 item, rispetto ai quali il soggetto deve indicare, su una scala da 1 (forte disaccordo) a 4 (forte accordo), quanto si sente d’accordo con ciò che viene affermato in ciascuna voce (Martin e Lefcourt, 1983).

• HSQ – Humor Styles Questionnaire: misura le differenze individuali negli stili di umorismo. È un test di autovalutazione impiegato per identificare in che modo gli individui utilizzano l’umorismo nelle loro vite. È composto da 32 item, il soggetto deve indicare, su una scala da 1 (completamente in disaccordo) a 7 (completamente d’accordo), quanto si sente d’accordo con ciò che viene affermato in ciascun item. La combinazione di questi fattori crea quattro stili distinti: u. Affiliativo, u. di Automiglioramento, u. Aggressivo e u. Controproducente (Martin e Doris, 2003).

• CBCL – Child Behavior CheckList: consente di ottenere un quadro descrittivo globale emozionale del bambino. È uno strumento multi-assiale che permette la valutazione del bambino, dai genitori, dagli insegnanti e in modo autovalutativo. Tutti i 3 strumenti includono la misurazione di 8 costrutti: Ritiro Sociale, Lamentele Somatiche, Ansia/Depressione, Problemi Sociali, Problemi di Pensiero, Problemi di Attenzione, Comportamento Delinquenziale e Comportamento Aggressivo. Nella ricerca sono state prese in considerazione solo 3 costrutti:Ritiro Sociale, Ansia/Depressione e Comportamento Aggressivo (Thomas M. Achenbach, 1991)

Ai figli:

• TMA – Test Multidimensionale dell’Autostima: consente la misurazione dell’autostima in età evolutiva. Il test è articolato su 6 scale intercorrelate: Interpersonale, Competenza, Emotività, Scolastica, Familiare, Corporea. Il soggetto deve indicare quanto si sente in accordo con ciò che viene affermato in ciascun item, su una scala che va da AV (Assolutamente Vero) a NAV (Non Assolutamente Vero). Nella ricerca sono state prese in considerazione solo 2 scale: Competenza ed Emotività. (Bruce A. Bracken, 1992)

L’analisi delle correlzioni tra le variabili dipendenti (comportamenti problematici e autostima) e i predittori (stile di umorismo e stile di coping) non evidenzia nessun risultato significativo.

Nessuna delle scale dell’Umorismo (HSQ e CHS) è correlata con le sottoscale del CBCL e del TMA.

Non ci sono correlazioni con l’autostima dei figli, ma è interessante notare le associazioni tra stile genitoriale e tipo di umorismo.

Si può concludere che:

  • L’Umorismo Affiliativo è correlato a uno stile genitoriale D – Coach Emozionale;
  • L’Umorismo di Automiglioramento è correlato a uno stile genitoriale A- Respingente – distaccato e di poco ascolto;
  • L’Umorismo Controproducente è correlato a uno stile genitoriale C – Permissivo, ma anche D –Coach Emozionale.

 

 

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

BIBLIOGRAFIA:

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