Informazione, sensibilizzazione, diagnosi e terapia dei DCA
Giornata di informazione, sensibilizzazione, diagnosi e terapia dei disturbi del comportamento alimentare.
Roma 18-01-2014 (8.30-18.30).
DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA)
DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA)
Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)
Info:
Film di Roberto Faenza. Interpretato da Luca Zingaretti, Margherita Buy, Goran Bregovic. Italia 2005. Tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante.
Trama:
Olga, moglie e madre di due figli, viene abbandonata all’improvviso dal marito per una donna più giovane. Per lei inizia un periodo doloroso che la fa sprofondare nella disperazione, che la porta a non mangiare più e nemmeno a dormire, che rischia di farle perdere progressivamente il senso della realtà e del suo rapporto affettivo con i figli. Ma l’incontro con un musicista solitario che vive nel suo stesso palazzo smuove qualcosa. Olga vive un percorso interiore che la porta a capire che sta impazzendo per l’amore perso, scopre cosa significa essere imprigionata nel dolore, essere abbandonata, ma riesce a liberarsi e torna a vivere, guardando con speranza al futuro.
Motivi di interesse:
Il film mostra le reazioni complesse nei confronti di un evento traumatico improvviso come l’abbandono. Il marito di Olga la lascia. Non c’è una vera e propria crisi tra loro. È preso da un “improvviso vuoto di senso”.
L’incomprensibilità dell’evento lo rende ancor meno accettabile, come spesso accade non è spiegabile, coglie di sorpresa, è senza ragioni. È per questo che l’incredulità e la rabbia cedono il passo al senso di colpa e la tristezza presto arriva ad avvolgere la vita e a scandire un tempo sempre uguale, privo di senso.
Olga lascia un fiore sulla tomba di Otto, il suo cane e rivolgendosi a lui:
“Tu vuoi sapere come sto?
Sto come una pianta senza acqua. Le donne senza amore muoiono da vive. Me lo diceva sempre mia madre quando vedeva passare la Poverella…
Aveva ragione, sai?”.
Olga non avrebbe mai desiderato diventare come la poverella del suo quartiere d’infanzia che la notte svegliava tutto il paese a forza di piangere per il dolore di essere stata lasciata.
Quel dolore l’aveva disgustata. Eppure prova ora lo stesso dolore fatto di notti insonni, di vuoto nero e oscuro, di un limite che prelude ad un lasciarsi morire, di rabbia per chi la guarda con occhi compassionevoli e nei confronti di se stessa che non riesce a prendersi cura di sé.
Eppure proprio quando la protagonista inizia a prendere consapevolezza che “deve reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché” inizia ad aprire gli occhi, a guardare il mondo circostante, si riappropria della forza e dell’autodeterminazione che le consentono di muoversi verso una felicità possibile, fatta di sussulti di gioia e picchi di dolore, di piacere e di sofferenza, di storie che si concludono e di nuove che nascono. Olga finalmente guarda il musicista che la corteggia con occhi diversi, finalmente lo vede.
In fin dei conti in molti pazienti che vivono l’abbandono con un sentimento di terrore è proprio l’accettazione dell’evento, impossibile da scongiurare, che permette di riappropriarsi di nuove risorse personali.
Indicazioni per l’utilizzo:
La sequenza di scene che propone “I giorni dell’abbandono” sono utili per incrementare la consapevolezza e motivare al cambiamento.
Le ripercussioni emozionali possono rappresentare un’ottima validazione dei vissuti del paziente e la conclusione può allargare la prospettiva limitata di chi non vede una via d’uscita percorribile. Le fasi dell’elaborazione di una perdita vengono ben rappresentate nella narrazione e possono essere un riferimento per una riflessione condivisa con il paziente.
Trailer:
BIBLIOGRAFIA:
Perché leggere La Dissociazione Traumatica di O. Van der Hart, S. Boon e K. Steele? Innanzitutto perché è un manuale pratico che si rivolge sia ai terapeuti che alle persone che stanno affrontando un problema dissociativo di origine post-traumatica.
Di Maria Paola Boldrini
La logica del libro è che dalla collaborazione tra terapeuta e paziente nasce la comprensione del problema, la si condivide e si percorre insieme una strada verso il fronteggiamento. Dagli autori, ma anche dai curatori italiani, questo testo è presentato come un’occasione di stimolo alla riflessione sul percorso clinico e di vita quotidiana dei pazienti che vivono le difficoltà conseguenti ai disturbi dissociativi. Da qui anche la necessità di svilupparlo come guida all’affrontare quotidianamente le traversie di questa condizione.
LEGGI ANCHE: IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA
Van der Hart e colleghe lo considerano la naturale prosecuzione di The Haunted Self (ndr tradotto in italiano con il titolo di Fantasmi nel Sé) e ad un lettore attento a questi temi la connessione non sfuggirà. Ma questo non pregiudica la lettura e la comprensione del nuovo testo.
Che siate pazienti o terapeuti troverete un importante viatico sull’accoglienza non giudicante, necessaria nella relazione terapeutica, non solo rispetto ai disturbi dissociativi, sulle strategie per avvicinarsi e aprire il dialogo alle parti dissociative, su come giungere all’integrazione del materiale dissociativo.
Nel libro viene sistematizzata finalmente una più chiara concettualizzazione dell’approccio terapeutico al materiale post-traumatico, da qui derivano indicazioni cliniche molto pratiche e utili e vengono proposti gli strumenti per intervenire rispetto alla dissociazione correlata al trauma e ai comportamenti disadattivi connessi. Le indicazioni cliniche accompagneranno paziente e terapeuta verso l’elaborazione-risoluzione del materiale traumatico.
Il testo quindi è suddiviso in otto parti più un’appendice tecnica. La prima parte è incentrata sulla comprensione della dissociazione e dei disturbi legati ai traumi. Qui troviamo gli elementi per cui il concetto di dissociazione appare più preciso, rispetto a come spesso viene utilizzato in confusione tra processo, struttura intrapsichica, difesa e/o deficit.
La seconda parte descrive le abilità di base per fronteggiare la dissociazione, fornendo indicazioni concrete su come svilupparle.
Nella terza parte gli autori propongono un pacchetto di indicazioni tecniche e pratiche affinché il paziente possa migliorare la qualità del proprio quotidiano e di conseguenza anche delle persone con cui è in relazione .
La quarta parte apparentemente è il passaggio più spigoloso di questo percorso, poiché è incentrata sull’affrontare i ricordi traumatici e gli stimoli che ne innescano gli effetti disfunzionali: anche qui gli autori sono riusciti a creare un accompagnamento per terapeuti e pazienti verso una gestione serena e collaborativa di questo momento, fornendo le opportune strategie e tecniche di fronteggiamento.
La quinta parte si occupa di introdurre la comprensione e la gestione delle emozioni e dei pensieri, completando le indicazioni per l’acquisizione delle abilità necessarie a questo scopo nella parte sesta.
Non può non essere dedicato uno spazio a questo punto, al migliorare le relazioni con gli altri, aspetto sempre molto critico per questi pazienti, in questa settima parte, si trovano utili spiegazioni dello stato delle relazioni che comunemente affligge il mondo affettivo di chi soffre di problemi dissociativi, non solo ma si trovano anche le indicazioni su come fronteggiare le difficoltà.
Un valore aggiunto di questa pubblicazione si trova anche in coda, poiché l’ottava parte e le appendici forniscono un prezioso pacchetto di indicazioni per il lavoro in gruppo con questi pazienti. L’iter e le competenze del gruppo sono visti in un’ottica “formativa” e riprendono tutti i passaggi già elencati nelle precedenti parti del libro, armonizzandone gli effetti che la persona e il terapeuta dovrebbero raccogliere, in un’esperienza di gruppo che conferma quanto appreso e aiuta a mantenere gli obiettivi raggiunti e a recuperare in seguito a eventuali “ricadute”.
Che dire in chiusura? Uso le parole dei curatori, assolutamente significative rispetto a questo lavoro: “gli autori ci ripetono senza sosta che questo percorso di salute è impegnativo ma possibile: vale la pena intraprenderlo…la strada è quella di sviluppare una maggiore empatia, comunicazione e collaborazione, sia internamente tra le parti di sé che esternamente tra terapeuta e paziente e tra quest’ultimo e le persone che ha intorno”: senza dubbio La Dissociazione traumatica di Boon, Steele e Van der Hart è una buona guida per questo viaggio!
Finora il riconoscimento dei volti umani è stata considerata una abilità specie-specifica del genere umano, e al massimo dei primati non umani. D’altro canto il contatto oculare – e dunque il volto- costituiscono elementi essenziali nelle interazioni e nella comunicazione tra uomo e cane.
In un nuovo studio pubblicato su Animal Cognition i ricercatori hanno studiato il comportamento dei cani nel visualizzare immagini di volti familiari ed estranei studiandone nello specifico i movimenti oculari: in particolare le immagini presentate erano sia di umani che di cani familiari (appartenenti alla stessa famiglia) sia sconosciuti.
I risultati indicano che per prima cosa i cani fissano più a lungo le immagini dei loro conspecifici, cioè degli altri cani, indipendentemente dal fatto che siano conosciuti o meno, rispetto a quanto fissano le immagini di uomini, come fosse una sorta di effetto preferenza intraspecifico.
In secondo luogo è emerso che nel caso dei volti umani i cani fissano per una durata di tempo maggiore i volti di esseri umani a loro familiari rispetto agli estranei.
Inoltre nel momento in cui vengono presentate immagini di volti al contrario, proprio come gli esseri umani, i cani fissano per più tempo l’area degli occhi sebbene presentata al contrario (quindi nella parte bassa dell’immagine), stando a significare che anche la percezione dei cani non si basa soltanto sulle proprietà fisiche dell’immagine ma anche su proprietà semantiche in cui il contatto oculare appare un canale relazionale centrale.
BIBLIOGRAFIA:
Da un indagine sul recupero dei dati utilizzati ai fini di ricerca scientifica è emerso come la quasi totalità dei dataset delle ricerche scientifiche vada irrimediabilmente perso in tempi relativamente brevi.
Questa indagine pubblicata su Current Biology fa riferimento ai dati di ricerche biologiche, ma se presupponiamo che anche per gli altri campi di ricerca la situazione sia simile, i dati sono allarmanti.
Lo studio parla di 500 ricerche prese in esame di cui solo il 23% dei dati sono stati recuperati. Le ricerche comprendevano uno spazio temporale recente. Se si considerano ricerche più datate (oltre i 20 anni) i dati recuperabili sono nettamente minori.
Un indirizzo mail non più attivo, il cambio del posto di lavoro, un database non usato… mille sono i motivi per cui i dataset possono perdersi o diventare molto difficilmente recuperabili.
Arriva così la proposta più ovvia, tentare di salvare i dati in rete, on line, così da permettere a tutti di caricarli e di salvarli (in tutti i sensi).
La perdita di dati è uno spreco dei fondi per la ricerca e limita il modo in cui possiamo procedere a livello scientifico. C’è bisogno di un’azione concertata per assicurare che i dati vengano salvaguardati per la futura ricerca.
COMUNICATO STAMPA
L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se.)
INAUGURA
SABATO 18 GENNAIO 2014
alle 18.00
presso la sede Palazzina Ex Venchi Unica
Via F. De Sanctis 12, a Torino
il primo PUNTO INFORMATIVO in Italia
sul Mutismo Selettivo
L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se. – www.aimuse.it), con sede a Torino, è l’unica associazione in Italia impegnata nell’intervento del MUTISMO SELETTIVO.
Il Mutismo Selettivo è un disturbo psicologico che colpisce prevalentemente i bambini. Coloro che ne sono affetti, pur non presentando alcuna disfunzione organica, non riescono ad emettere una sola parola al di fuori del contesto familiare, in presenza di estranei. In particolare, non riescono a parlare a scuola.
L’Associazione A.I.Mu.Se., attiva nell’intervento risolutivo per il Mutismo Selettivo, ha aperto a Torino – con il sostegno della Circoscrizione 3 – un luogo
informativo, il PUNTO INFORMA MUTISMO SELETTIVO, nell’intento di rispondere prontamente alle richieste delle famiglie e delle esigenze legate al miglioramento della qualità della vita per i bambini che ne sono affetti, offrendo informazioni e documentazione su questa patologia.
Sabato 18 gennaio interverranno:
Loredana Pilati, presidente AIMuSe
Daniele Valle, presidente della Circoscrizione 3 della Città di Torino
Ugo Cavallera, assessore alla Sanità della Regione Piemonte
Federica Trivelli, psicoterapeuta
Danilo Torrito, poeta e scrittore
Partecipano all’incontro:
l’Atelier di Arteterapia “Amaranto”
l’Associazione di Pet-Therapy “Qua la zampa”
Seguirà aperitivo
PUNTO INFORMA
MUTISMO SELETTIVO
Palazzina Ex Venchi Unica
Via F. De Sanctis 12, a Torino
(ultimo piano, saletta 2)
ORARIO:
ogni primo venerdì del mese
dalle 18.00 alle 20.00
Tel.: 331 308 68 31
Mail: [email protected]
L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo – A.I.Mu.Se. – riceve genitori, insegnanti e persone interessate, fornendo loro informazioni, ascolto e materiali specifici sul Mutismo Selettivo.
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A.I.Mu.Se. Onlus “… quando il silenzio non è d’oro…”
Via Osasco 30 – 10141 Torino
Tel. 331 308 68 31
Quanti di voi hanno pensato “Questi scarabocchi li so fare pure io!” davanti ad un quadro di J. Pollock? Quanti si sono mostrati scettici di fronte ad una tela tagliata di Fontana? Quanti durante una mostra di arte contemporanea hanno trascorso almeno cinque minuti ad osservare perplessi un termosifone?
Una volta le opere d’arte erano qualcosa di definito nello spazio e nel tempo (un quadro nella sua cornice, una scultura a tutto tondo). A partire dall’arte moderna si è invece assistito alla nascita di opere costituite da stimoli sempre più ambigui, fino ad arrivare a forme che oggi comprendono installazioni, video, performance…
Cosa accade nel nostro cervello di fronte a questo tipo di opere? Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.
La Lumer osserva che il nostro cervello, attraverso il processo di astrazione (capacità di formare un concetto generale partendo dal particolare), è in grado di cogliere delle costanti che ci permettono di mantenere coerente la percezione; per esempio, riconosciamo un oggetto per quello che è nonostante questo sia visto sotto condizioni di illuminazione o da prospettive e distanze differenti.
Di fronte, però, a stimoli ambigui a cui possono essere attribuiti differenti significati di pari validità, il nostro cervello si trova costretto ad accettare entrambe le possibili interpretazioni, seppur in momenti diversi e mai contemporaneamente; esempio famoso è il cubo di Necker in cui la nostra percezione oscilla tra un cubo visto da sopra e uno visto da sotto:
L’arte contemporanea, con l’ambiguità dei suoi stimoli, ingaggia il cervello dell’osservatore in questa continua sfida. Si pensi al ready-made di Marcel Duchamp “Fontana”: un orinatoio acquista un nuovo significato sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; l’osservatore oscilla tra la concettualizzazione di un oggetto quotidiano e un nuovo modo di pensare quell’oggetto.
Chi osserva, quindi, contribuisce alla creazione dell’opera che prende vita nell’attimo in cui lo sguardo dell’osservatore si posa su di essa. L’arte diventa così un prodotto del nostro cervello, esperienza nel qui ed ora.
Ed ecco che di fronte ad un quadro di Pollock noi non vediamo uno scarabocchio, ma percepiamo il mondo emotivo che l’artista ha voluto esprimere non attraverso la forma, bensì attraverso il movimento; e grazie ai neuroni specchio attiviamo tramite simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto, empatizzando così con l’artista.
Se l’arte è attribuzione di significato, allora diventa anche mezzo per acquisire conoscenza del mondo, delle relazioni interpersonali (emblematiche le performance artistiche di automutilazione di Marina Abramovic, in bilico tra vita e morte, che spingono il pubblico ad intervenire per porvi fine) e del proprio corpo (quando è il corpo stesso a diventare oggetto artistico).
E proprio a tal proposito, la Lumer ha tenuto per il secondo anno consecutivo un’interessante lectio magistralis in occasione di DermArt, convegno di dermatologia tra arte e scienza, giunto nel 2013 alla sua 5° edizione. Durante il suo intervento, intitolato “Se pergamena fosse la mia pelle”, la neurobiologa ha illustrato il fil rouge tra cervello visivo, arte e cute che diventa mezzo artistico e di conoscenza attraverso le forme che le malattie dermatologiche disegnano, attraverso i segni di traumi e di danni provocati, ed in quanto superficie pittorica su cui si eseguono camouflage e tatuaggi.
La Lumer con i suoi libri e le sue ricerche s’inserisce così all’interno del vivace dibattito tra scienza e arte, due campi che all’apparenza appaiono distinti ed incompatibili, ma che nella Neuroestetica hanno trovato un punto di contatto: “L’arte – una delle più elevate espressioni della complessità umana e delle più raffinate modalità di rappresentare sensazioni ed emozioni – ci fornisce una testimonianza preziosa sul funzionamento del cervello e in ultima istanza dell’uomo” (Zeki, 2007; 2010).
BIBLIOGRAFIA:
Introduzione
Uno studio ha provato ad analizzare in che modo la qualità della relazione instauratasi tra paziente e clinico durante la psicoterapia influenzi la capacità del paziente di riflettere sui propri stati mentali (come ad esempio pensieri, emozioni e desideri).
Il buon funzionamento di questa capacità, definita metacognizione, consente alla persona di affrontare le situazioni problematiche con un’adeguata flessibilità affettiva, cognitiva e comportamentale; al contrario, deficit metacognitivi conducono la persona a sviluppare veri e propri sintomi psicopatologici. La metacognizione è pertanto considerata attualmente un aspetto rilevante su cui lavorare all’interno della psicoterapia con i pazienti.
Attraverso l’analisi di un campione di 96 colloqui, audioregistrati e trascritti parola per parola, relativi a 24 pazienti in psicoterapia, è stato indagato in quali momenti della seduta i pazienti mostravano maggiori capacità metacognitive.
I risultati statistici hanno messo in luce che i pazienti riuscivano a riflettere con maggior profondità sulle proprie esperienze nei momenti in cui era presente una maggior alleanza terapeutica con il clinico, ovvero nei momenti in cui il paziente si sentiva contenuto all’interno di un clima paritetico e collaborativo.
Inoltre, è stata rilevata un’associazione tra i livelli metacognitivi più alti dei pazienti e la presenza di un maggior numero di interventi supportivi del clinico, ovvero quelli in cui trasmetteva comprensione, validazione e supporto alle esperienze dei pazienti.
Questi risultati empirici sembrano essere in linea con le attuali teorizzazioni cliniche sull’argomento, secondo cui la creazione di un contesto relazionale di sicurezza, in cui poter riflettere sulla propria esperienza, e il confronto tra stati mentali propri e stati mentali dell’altro in un clima paritetico, permetterebbero un miglioramento della metacognizione del paziente.
Inoltre, diversi autori sottolineano che le variabili relative alla metacognizione, all’alleanza terapeutica e agli interventi del clinico siano legate tra loro da un rapporto di influenza bidirezionale: si muovono all’interno dell’interazione paziente-terapeuta secondo una dinamica di tipo circolare, condizionandosi costantemente e vicendevolmente.
In linea con questa prospettiva teorica, pertanto, i risultati dello studio potrebbero nel contempo indicare che l’espressione di maggiori difficoltà metacognitive dei pazienti ostacoli la costruzione di un clima relazionale positivo all’interno della psicoterapia; al contrario, laddove i pazienti risultano più abili nel riflettere metacognitivamente sulla propria esperienza, si creerebbe con maggior facilità un rapporto positivo e collaborativo tra clinico e paziente.
In conclusione, i dati emersi dallo studio sembrano indicare che la metacognizione sia una capacità cognitiva che viene favorita dalla presenza di una relazione positiva e paritetica con il clinico, e che, in un’ottica di interdipendenza reciproca, a sua volta tale abilità sia in grado di influenzare la creazione di una soddisfacente relazione terapeutica tra paziente e clinico.
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Sara Citro, Dipartimento di Psicologia, Università degli studi Milano-Bicocca, Italia
Basti pensare alla nostra infanzia, un gioco di potenziometri inventato con una delle amichette del cuore. La stanza diventa una navicella spaziale, i sassolini colorati diventano gettoni magici – per l’appunto i potenziometri- per raggiungere lo spazio, ogni colore ti consente di andare su un pianeta diverso: marrone Marte, bianco Venere, azzurro Mercurio, si parte. Una stanza, sassolini colorati e tanta immaginazione.
Uno studio pilota australiano ha indagato proprio questo fenomeno tecnicamente definito come gioco immaginario coordinato in funzione della variabile “grado di amicizia”, e cioè a dire variano le interazioni conversazionali in tale contesto di gioco se i bambini sono molto amici (“migliori amici”) oppure si sono soltanto compagni di gioco più occasionali.
E’ stato analizzato il gioco di coppie di bambini di 5-6 anni di età, caratterizzate da diversi gradi di amicizia, e a cui veniva loro fornito materiale di gioco generico che lasciasse spazio alla fantasia. I ricercatori hanno identificato nelle interazioni di gioco (della durata di circa 30 minuti) tre temi conversazionali distinti: in primo luogo il tema del “costruire insieme” in cui l’obiettivo è co-costruire una rappresentazione condivisa di oggetti reali e immaginari.
In secondo luogo emergerebbe il tema della “condivisione di informazioni personali”, che sarebbe presente soltanto nel caso in cui la coppia di bambini sia caratterizzata da amicizia stretta e non solo occasionale. Infine il tema chiave dello storytelling e cioè la cocostruzione di uno scenario immaginario, per prima cosa decidendo insieme cosa sarebbe più divertente da immaginare e quindi ponendo le fondamenta dello storytelling condiviso.
Ulteriori sviluppi di ricerca sono chiaramente necessari a questo iniziale studio esplorativo e preliminare, per comprendere le differenze conversazionali e linguistiche prendendo in considerazione gli aspetti affettivi tra pari.
BIBLIOGRAFIA:
Genere ed età sono, come noto, due determinanti fondamentali per la salute. Trattare i due sessi come uguali può essere inappropriato sia nel campo della ricerca che nel campo della clinica.
I dati epidemiologici suggeriscono che le donne vivono più a lungo ma in peggiori condizioni di salute. La categoria più a rischio di incorrere in patologie legate allo stress pare essere quella delle donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002; Duprè, 2002; ISTAT, 2005; European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, 2007; Reale et al., 2009)
Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia. Le differenze di genere sono inoltre il frutto di una sottile interazione tra fattori biologici e ambientali, il ruolo nella società, la concezione di sé e la propria storia personale.
La letteratura scientifica in molte discipline evidenzia come i maschi siano più studiati rispetto alle femmine: la biologia di base dei testi di medicina rispecchia la biologia maschile, lo sviluppo dei farmaci è basato sulla ricerca al maschile. Una ricerca medico-scientifica basata sul genere è l’obiettivo dell’approccio definito Gender Medicine, nella quale si tiene conto di fattori quali la classe sociale, il livello di istruzione, l’età, le condizioni psicologiche, ma soprattutto il genere. I dati epidemiologici (ISTAT, 2005) evidenziano differenze tra uomini e donne: le donne vivono più a lungo ma in condizioni peggiori di salute.
L’indagine ISTAT del 2005 “Condizioni di salute e ricorso ai sevizi sanitari” suggerisce le seguenti percentuali: le donne riferiscono di essere affette, in modo maggiore degli uomini, soprattutto da artrosi/artrite (21,8% contro 14,6%), osteoporosi (9,2% contro 1,1%) e cefalea (10,5% contro il 4,7%); depressione e ansia (7,4% contro il 3,1%); malattie allergiche (11,2% contro 10,3%); ipertensione arteriosa (15,4% contro l’11,8%), diabete (4,7% contro il 4,3%), malattie della tiroide (5,5% contro lo 0,9%); tumore (1,1% contro lo 0,9%).
Continuando con i dati ISTAT, in alcune patologie le donne hanno valori più elevati degli uomini anche nella fascia di età più giovanile (34-35 anni), in particolare per quanto riguarda le malattie della tiroide, allergiche, artrosi e artrite, depressione e ansia, tumore, cefalea (che ha il picco nella fascia d’età 35-44 anni). La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini).
Infine, tra le cause di morte, quelle più frequenti tra le donne sono le malattie dell’apparato circolatorio (46,8%) e il cancro (23,8%). Le malattie dell’apparato respiratorio sono responsabili del 5,5% dei decessi e le causa violente del 3,7%.
Volendo considerare solo le patologie strettamente correlate allo stress, l’Agenzia del Lavoro cita, insieme alle malattie cardiache, anche le malattie psichiche, per le quali le donne sono vittime in percentuali maggiori rispetto agli uomini. In particolare, il 20% di donne rispetto al 17% di uomini riportano sintomi di stress, depressione e ansia (Duprè, 2002).
Nella Quarta Ricerca Europea (European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, Fourth European Working Condition Survey, Denmark, 2007) è emerso che le donne lavoratrici, sulle quali grava la maggior parte del lavoro domestico non retribuito, subiscono più stress rispetto alla quantità di lavoro in più e rispetto alle difficoltà psicologiche nel gestire i ritmi di entrambe le occupazioni, spesso rese incompatibili dalle organizzazioni del lavoro e dal contesto sociale e familiare.
Uno dei principali fattori che condizionano l’equilibrio tra lavoro e vita riguarda il numero di ore lavorate. Livelli molto elevati di soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata è segnalato da coloro che lavorano meno di 30 ore alla settimana. Il lavoro domestico, per la molteplicità delle mansioni, per la sussistenza di rischi potenziali e per la dispendiosità energetica è collocabile nella graduatoria dei lavori usuranti.
Ciò è sostenuto dalla prevalenza di molte patologie cronico-degenerative in coloro che si occupano prevalentemente di lavori domestici (Reale et al., 2009). La potenzialità patogena aumenta ulteriormente quando si configura come attività aggiuntiva (doppio lavoro). Numerosi studi hanno evidenziato come il doppio carico di lavoro potrebbe avere serie conseguenze sulla salute e sulla sicurezza delle donne, le più esposte a questa condizione (Agenzia Europea per la Sicurezza e la salute sul Lavoro, 2002).
Il lavoro domestico dovrebbe dunque essere considerato alla stessa stregua del lavoro produttivo, con il conseguente riconoscimento dei rischi e una loro standardizzazione, al fine di evitare l’invisibilità dei pericoli fisici, psicologici e sociali ai quali la donna è esposta.
BIBLIOGRAFIA:
Ricordate la canzone Paranoid dei Black Sabbath? Si racconta di una persona che sta male, che non riesce a godersi la vita, rimugina moltissimo, ed è alla ricerca della felicità! Effettivamente, questo stato corrisponde esattamente a quello che nell’immaginario collettivo si è soliti definire col termine “paranoia”: condizione di confusione, di preoccupazione, di pensieri che si rincorrono. Ma questo non significa essere paranoici nel senso più patologico della termine, anzi non è paranoici affatto!
Che cosa si intende esattamente per “paranoia” patologica?
La caratteristica essenziale del Disturbo Paranoide di Personalità è un quadro pervasivo di sfiducia e sospettosità, tanto che le intenzioni degli altri sono interpretate sempre come malevole.
Gli individui con questo disturbo presumono che gli altri li sfruttino, li danneggino o li ingannino, anche quando non vi sono prove che supportino queste aspettative. Sospettano, sulla base di prove insignificanti o inesistenti, che gli altri complottino contro di loro e possano attaccarli improvvisamente, in ogni momento e senza alcuna ragione.
Dubitano, senza una giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o di colleghi, le cui azioni sono esaminate minuziosamente per evidenziare le intenzioni ostili. Ogni deviazione dalla affidabilità e della lealtà serve a supportare le loro presunzioni: l’altro è malevolo e sicuramente mi farà del male.
Infatti, un gesto di lealtà altrui li porta a rimuginare sull’autenticità dello stesso e se esista un fine diverso celato dietro un atto apparentemente benevolo. Per esempio, un individuo con questo disturbo può interpretare un errore commesso da un amico come un tentativo deliberato di imbroglio, o può intendere un rimprovero scherzoso e casuale da parte del capo come un grave attacco.
I paranoici sono riluttanti a confidarsi o a entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni possano essere usate contro di loro. Leggono significati nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri atti amichevoli.
Possono interpretare un’offerta di aiuto come una critica al fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.
Gli individui con questo disturbo provano costantemente del risentimento, e sono incapaci di dimenticare insulti, offese, o ingiurie che pensano di avere ricevuto. Piccoli torti evocano grande ostilità, e i sentimenti suscitati persistono per molto tempo. Sono costantemente attenti alle intenzioni nocive degli altri, spesso sentono di essere stati attaccati nel ruolo o nella reputazione, o di essere stati offesi in qualche altro modo, per questo contrattaccano e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti.
I paranoici sono gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il partner sessuale sia infedele senza una giustificazione adeguata. Possono raccogliere prove banali o circostanziate per supportare le loro convinzioni di gelosia. Pretendono di mantenere un controllo completo delle relazioni intime per evitare di essere traditi.
E’ difficile possano andare d’accordo con gli altri, e spesso hanno problemi nelle relazioni strette, il loro atteggiamento ipervigile nei confronti di minacce potenziali, gli permette di agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, fino ad apparire privi di sentimenti.
La loro natura aggressiva e sospettosa può suscitare negli altri una risposta ostile, che serve a confermare le loro aspettative originarie, e il pensiero malevole è confermato e validato, profezia che si auto-avvera.
Vista la scarsa fiducia negli altri, i paranoici pretendono da loro stessi di essere autosufficienti e autonomi.
Sono litigiosi e spesso si coinvolgono in dispute legali, e se qualcosa non andasse per il verso giusto? Chiaro, è sempre colpa dell’altro, cattivo e spietato.
E in terapia, cosa è possibile fare con un paranoico?
Il trattamento terapeutico mira a portare il paziente a riconoscere le proprie emozioni, aiutandolo ad individuare lo stato di minaccia, di pericolo o di derisione, a cui seguono emozioni quali ansia e rabbia, oppure lo stato in cui sente di essere stato escluso dagli altri, a cui, invece, seguono tristezza ed isolamento.
Solo in un secondo momento è possibile lavorare per migliorare l’incapacità di porsi nella prospettiva dell’altro e la difficoltà di distinguere tra mondo esterno e mondo interiore. Questo è uno degli aspetti più importanti del trattamento ed è fondamentale per regolare lo stato interno del soggetto e le sue relazioni.
Un’ulteriore parte del trattamento, infine, è costituito dalla messa in discussione delle interpretazioni disfunzionali del paziente riguardanti le intenzioni degli altri, attraverso la formulazione di ipotesi alternative alle sue convinzioni, intervento prettamente cognitivista basato sul disputing e formulazione di pensieri alternativi.
Quindi, il paziente è allenato a fornire nuove interpretazioni delle situazioni, dei comportamenti e dei pensieri degli altri, permettendo in questo modo di migliorare le difficoltà e di acquisire nuovi strumenti per verificare l’attendibilità delle sue interpretazioni sui comportamenti altrui.
“Il neofita sente il dovere di difendere fanaticamente la fede che ha abbracciato. Nel paranoico abbiamo esattamente la stessa condizione: egli si sente costretto a difendersi contro ogni critica esterna perché il suo sistema delirante è fortemente attaccato all’interno” ( Jung, 2011).
BIBLIOGRAFIA:
Fondatore della Società Argentina di Terapia Familiare e della rivista Terapia Familiar
Serena Mancioppi intervista per State of Mind Alfredo Canevaro, Psichiatra e Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale. Fondatore della Società Argentina di Terapia Familiare e della rivista Terapia Familiar.
Questa conversazione fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.
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Per diversi anni lo studioso Russell Hurlbert ha utilizzato una tecnica particolare per indagare questo self-talk o dialogo interiore nella quotidianità. La tecnica consiste nel fornire ai soggetti un dispositivo che emette un suono (beep) che si attiva diverse volte durante il giorno e non appena suona si richiede ai partecipanti di riportare in maniera dettagliata la loro attività mentale immediatamente prima del suono del beep. Tale approccio viene definito “descriptive experience sampling” (DES) e implica una collaborazione stretta tra soggetti e ricercatori affinchè il soggetto sperimentale apprenda a distinguere e a descrivere puntualmente le diverse tipologie di attività mentale.
In un recente articolo il team di ricercatori guidati da Hurlbert fanno il punto dei loro risultati di ricerca sul tema del dialogo interiore. Anzitutto la voce del dialogo interiore – che è un dialogo silente puramente mentale- viene solitamente percepita come la nostra stessa voce e soltanto in rarissimi casi con la voce di altri. Anche se in alcuni casi sono emersi esempi di dialogo interiore a più voci che dicono cose differenti (forse in relazione a un processo di disputing di credenze?E’ un aspetto ancora da verificare). Proprio come la nostra voce vera, la voce del nostro dialogo interno viene percepita a livello fenomenico con caratteristiche sovrasegmentali non verbali differenti in funzione dell’emozione che stiamo provando.
Vi sarebbe poi una grande variabilità nella frequenza con cui le persone parlano a sé stesse nelle loro menti: mediamente al 23% dei beep sono stati rilevati dialoghi interiori, però con elevate deviazioni standard. Interessante è anche il tema della localizzazione: alcune persone localizzano il processo del dialogo interiore nella testa, mentre altri nel petto.
In alcuni casi un self-talk con una velocità così elevata da essere impossibile da riprodurre a voce alta (per inevitabili vincoli fisiologici del nostro sistema fonatorio).
Vale la pena sottolineare che cosa non è dialogo interiore. Va distinto dal fenomeno di ascolto interiore, in cui una voce viene esperita passivamente. E’ anche differente dal “pensiero non simbolizzato”, esperienza mentale riguardo uno specifico concetto che però non implica parole e simboli.
La tecnica di indagine “descriptive experience sampling” (DES) secondo i ricercatori avrebbe il vantaggio – rispetto a indagini retrospettive mediante questionari – di rimanere più ancorata temporalmente al momento in cui si verifica il fenomeno di inner speaking.
Diversi aspetti sono ancora da indagare, dalle differenze individuali riguardo alla presenza del dialogo interiore, al processo di sviluppo ontogenetico, alle differenze cross-culturali, così come la comprensione di questo costrutto rispetto ad altri quali il rimuginio e la ruminazione.
BIBLIOGRAFIA:
Il libro, infatti, rappresenta lo sforzo ben riuscito di integrare il Cognitivismo più standard (basti pensare che Robert Leahy é Direttore dell’Amerian Institute for Cognitive Therapy di New York) con i recenti modelli di terapia cosiddetti di Terza Ondata.
Ciò non toglie che il volume, prima di prendere in esame le singole possibili forme di intervento sulla regolazione delle emozioni, dedica i primi capitoli a fornire una cornice teorica ben chiara di riferimento, la Teoria degli Schemi Emozionali.
Come sottolineato sulla prefazione, infatti, “i clinici da tempo hanno compreso come una delle esperienze più problematiche per i pazienti sia la sensazione di essere sopraffatti dalle emozioni e come, non sapendo regolarne l’intensità, alcuni adottino strategie di doping maladattive (abuso di alcol o sostanze, abbuffate, vomito autoindotto, colpevolizzazioni degli altri, dipendenza dalla pornografia, rimugino e ruminazione etc…)”.
Questa breve osservazione degli autori rende l’idea di come tutte le strategie che mettiamo in atto in presenza di emozioni forti e presumibilmente per noi non regolabili, altro non siano che tentativi di gestire, in modo spesso dannoso, una attivazione emotiva vissuta come incontrollabile o quantomeno pericolosa per noi.
La parte teorica del libro si concentra sulla descrizione accurata della Emotional Schema Therapy (EST) ideata da Leahy. Il centro della teoria riguarda l’ipotesi che le differenti interpretazioni che vengono date dalle persone siano riconducibili a differenti e specifici “schemi emozionali“. Ad esempio, credenze negative rispetto alle proprie emozioni, come ad esempio “sono prive di senso, non finiscono mai, sono qualcosa di imbarazzante etc…”, portano a sviluppare strategie dannose di gestione di tali emozioni, ad esempio il rimuginio. Avere credenze positive e adattive circa le proprie emozioni, invece, ci permette non solo di esprimerle in modo funzionale ma viene anche meno la necessità di attivare strategie disfunzionali per gestirle.
Senza entrare in merito alla teoria molto interessante presentata in questo libro, ci limitiamo a segnalare che la prima parte del volume, quella teorica appunto, prepara il clinico lettore a dare un ordine e un senso alle molteplici tecniche descrittive nella seconda parte del libro, che occupa la maggior parte del volume.
Interventi come accettazione e compassione, Mindfulness, validazione, ma anche ristrutturazione cognitiva “stretta” e tecniche di gestione dello stress, vengono presentate e integrate in un corpus coerente e ricco di spunti di riflessione.
La sensazione che si ha leggendo questa guida per i professionisti é che gli autori, di formazione e tradizioni differenti all’interno del panorama cognitivista, abbiamo davvero compiuto uno sforzo di discussione, andando oltre le proprie singole formazioni e cercando, spesso riuscendoci, di aprire le proprie prospettive a interventi e modelli diversi.
Ristrutturazione cognitiva e tecniche comportamentali vengono integrate con interventi basati sulla Compassione Focud Therapy, interventi di riduzione dello stress con interventi di Mindfulness.
Il modello della EST, come indicato dagli autori, incoraggia l’utilizzo e l’integrazione con concettualizzazioni e interventi che promuovano nel paziente la regolazione delle emozioni.
Lo stile dei capitoli sugli strumenti della “cassetta degli attrezzi” é stato costruito con la migliore traduzione dei manuali “british“, razionale, schematizzata e standardizzata. Ogni capitolo, infatti, include un elenco di tecniche e strategie che possono essere utilizzate dal clinico.
L’aspetto interessante é che gli autori non propongono un modello a step, seduta dopo seduta, bensì lasciano al lettore la possibilità di utilizzare il manuale in modo flessibile e coerente con i propri modelli di riferimento, mantenendo come base del lavoro l’importanza sia dell’esperienza emotiva sia della sua regolazione (o disregolazione).
Ogni tecnica viene presentata seguendo uno schema chiaro e semplice: descrizione della tecnica, domande da porre, esempi con dialoghi terapeuta-paziente, homework da proporre per il lavoro a casa tra una seduta e l’altra, i possibili problemi che si possono incontrare nel percorso e infine altre tecniche integrabili con quella descritta.
Inoltre, il manuale é accompagnato da un insieme ricco di schede, moduli e esercizi pratici che aiutano, nel miglior stile cognitivista, non solo a comprendere il razionale teorico ma anche a cogliere sia da subito l’utilità clinica-esperienziale delle tecniche proposte.
Insomma, un volume molto denso quello di Leahy e colleghi, che rappresenta anche uno sforzo notevole per terapeuti cognitivi standard: dare valore all’aspetto emotivo dei nostri pazienti e di coglierne l’importanza fondamentale in terapia.
Chissà che questi volumi aiutino a chiudere una volta per tutte l’annosa (e ormai noiosa) questione legata alla poca importanza che alcune terapie cognitive hanno dato, in passato, alla dimensione emotiva dell’essere umano.
I nostri pazienti arrivano sempre nei nostri studi con un problema o una difficoltà “emotiva” che li guida. Non dare a essa valore sarebbe come avere il privilegio di entrare in un meraviglioso giardino privato all’italiana e non soffermassi sui colori delle piante, sugli odori e sulle singole isole e concentrarsi solo sui gradini.
BIBLIOGRAFIA:
La dimensione sociale gioca un ruolo cruciale quando si parla di cibo: mangiare è bello, ma mangiare in compagnia lo è ancora di più. La convivialità rappresenta quindi un elemento fondante la percezione di piacere connessa al cibo, che non è solo indispensabile per la sopravvivenza, ma può essere condivisa, quindi diventare uno spazio sociale di incontro tra le persone.
L’ambiente in cui il pasto si consuma ha a sua volta un effetto sulla qualità percepita del pasto: mangiare su una bella terrazza sul mare è ben diverso che farlo in ufficio davanti al computer, e questo incide fortemente sul nostro umore e sulla possibilità di sperimentare stati emotivi positivi. Non solo, ma è anche il corpo a subirne l’effetto.
Questa la scoperta recente di due ricercatori americani Brian Wansink e Ellen van Kleef, i quali hanno indagato la relazione tra i rituali familiari durante la cena e l’indice di massa corporea (BMI), calcolato considerando il peso e l’altezza dell’individuo. Hanno partecipato allo studio un gruppo di bambini e di loro genitori, i quali hanno compilato un questionario volto ad indagare le abitudini familiari durante i pasti, tra cui ad esempio l’abitudine di raccontarsi quanto fatto durante la giornata, piuttosto che l’abitudine di mangiare seduti a tavola o sul divano davanti alla televisione.
I risultati hanno mostrato come le abitudini sociali durante i pasti correlavano con il BMI sia dei genitori che dei loro figli, ovvero tanto più il BMI era elevato tanto più ad esempio le coppie genitori-figli riferivano l’abitudine di mangiare davanti alla televisione accesa.
Mangiare seduti a tavola in cucina o in sala da pranzo si associava invece a BMI più bassi nei bambini e nei loro genitori. Le bambine che avevano l’abitudine di aiutare i propri genitori nella preparazione della cena mostravano livelli di BMI più elevati, dato non presente nei bambini maschi, che viceversa mostravano più bassi livelli di BMI se provenienti da famiglie in cui vigeva la regola per tutti di stare a tavola sino a quando ognuno non aveva finito di mangiare.
Questi risultati confermano quindi l’importanza della dimensione sociale di condivisione dei momenti dei pasti in famiglia e il suo effetto sull’indice di massa corporea tanto nei bambini che nei loro genitori. L’interazione sociale si sostituisce quindi alla sovra-alimentazione, tipicamente associata con lo svolgimento di attività passive durante i pasti, favorendo la possibilità di sperimentare emozioni positive.
Il risultato di questa ricerca potrebbe quindi rappresentare un fattore chiave nella prevenzione dell’obesità, spunto per poter arricchire i programmi di prevenzione e di cura di tale problematica attraverso una più attenta educazione dei bambini e del loro genitori non solo al cosa mangiare ma anche al come farlo in modo socialmente stimolante e gratificante.
BIBLIOGRAFIA:
In un nuovo studio sono stati coinvolti 172 ragazzi di età compresa tra i 13 e 19 anni.
I soggetti sono stati sottoposti a circa 30 minuti di gioco violento oppure 30 minuti di gioco “non violento” mediante computer.
I ricercatori hanno scoperto che i ragazzi del primo gruppo coinvolti in videogame violenti di fatto hanno mangiato tre volte tanto (rispetto all’altro gruppo) dolci e caramelle lasciate in una ciotola accanto a loro durante il gioco stesso.
Al termine della sessione di gioco ai soggetti è stato chiesto di rispondere ad alcune domande generiche, di autoverificarne la correttezza e di premiarsi con dei biglietti della lotteria per ciascuna risposta corretta: tutto questo senza che nessuno li stesse a controllare.
Dai risultati è emerso che i ragazzi che avevano giocato a videogames violenti avevano una probabilità di 8 volte maggiore di prendersi biglietti non meritati – e cioè anche quando le risposte fornite erano sbagliate.
E’ qualcosa di differente da quel che genericamente si dice riguardo videogames violenti e aggressività, qui sono in gioco i comportamenti impulsivi, intesi come difficoltà a inibire alcune risposte comportamentali in funzione delle conseguenze a breve e lungo temine, con un legame stretto tra emozione e azione.
BIBLIOGRAFIA:
Una storia dolorosa che nei giornali viene descritta come una storia di affetto e di amore. Un uomo, dopo un grave evento invalidante, per non potere rinunciare alla donna con la quale vive e che ama, la uccide e si uccide.
Però potrebbe essere anche una storia di dipendenza eccessiva. La donna dopo l’ischemia (sono passati solo due mesi) stava lentamente riprendendosi e aveva bisogno di tempo. I medici stessi dicono che occorrono molti mesi perché la situazione cerebrale dopo un trauma si assesti. E allora perché ucciderla? Cito dal Corriere della Sera:
MP non era in pericolo di vita. Si stava riabilitando, era cosciente e vigile, la signora aveva sicuramente subito dei danni però nessuno può giudicare “perenne” un quadro evolutivo come poteva essere il suo “anche se comunque era un quadro importante”.
Se dobbiamo fare una riflessione su questa vicenda, certo non è quella della Bossi Fedrigotti, che qui citiamo
“la tragedia fornirà motivo per discutere di nuovo di eutanasia, la cosiddetta morte dolce in contrasto con quella violenta, scioccante a colpi di rivoltella: ma avrebbe, anche a più dolce delle morti, indotto G. a vincere il suo smarrimento, a posare la pistola, a continuare a vivere, magari anche dieci anni, da solo e soprattutto senza A?”
Mi chiedo: ma che c’entra l’eutanasia?
Non viene voglia di riflettere da psicoterapeuti su questo omicidio? Si possono fare alcune ipotesi (che rimarranno ipotesi) perché ora la scena è ferma per sempre.
La prima è quella che ha dominato la scena giornalistica e che ha a che fare con il dolore e la depressione. L’uomo si è sentito solo, senza l’affetto di sua moglie, probabilmente con difficoltà a sentirsi competente e adeguato. Il dolore è troppo grande e non sa affrontarlo in modo profondo, e prende la scorciatoia, spara a lei e a se stesso. Certo se fossi stata la moglie avrei voluto essere messa al corrente della scelta e che mi venisse richiesto, in quello specifico momento, non prima, mentre se ne parlava prima che le cose vere accadessero.
In questo caso, da clinici, pensiamo che quest’uomo fosse poco abituato ad affrontare in modo consapevole le emozioni dolorose. E che anzi ne fuggisse, le temesse.
Oppure l’uomo è un ansioso, ha visioni catastrofiche del futuro, teme che da solo non ce la farà, non tollera di non conoscere ciò che ha davanti a sé e affronta l’evento chiudendo il futuro che non sa prevedere, che teme di non sapere affrontare e organizzare. In questo caso l’ansia, la paura, hanno portato a una scelta poco riflessiva, non condivisa.
Oppure è un impulsivo, è arrabbiato con il destino che gli ha fatto quello scherzo, protesta contro l’evento che gli sembra gli tolga la libertà di scegliere la vita che preferiva fare.
Gli spari, a se stesso e alla moglie sono spari di rabbia e di protesta. Che non tengono conto delle esigenze e del punto di vista della compagna. E forse anche dei figli, che non sono stati consultati sull’esito cruento che si andava preparando.
Insomma in tutti i casi abbiamo una persona poco capace di accettare e affrontare in modo consapevole questa fase dolorosa della vita in cui sembra che tutte le certezze si perdano, e in cui si è davanti a eventi improvvisi e imprevisti che non si pensava di potere affrontare.
La consapevolezza emotiva, la capacità di accettazione della realtà e di quello che essa improvvisamente ci impone sono tipici argomenti di un intervento psicologico.
Così come la capacità di mettersi in relazione con l’altro e condividere ciò che l’altro prova o può provare o pensa o può pensare. MP non parlava in questa fase ma certo GB non è stato capace di mettersi nei panni di lei. Per dolore? Per paura? Per rabbia? Si è messo violentemente al centro della scena decidendone lo script e il finale.
Insomma, a mio parere, un evento della patologia mentale e della violenza più che un evento dell’esagerato amore.
LEGGI ANCHE: VIOLENZA – SUICIDIO
BIBLIOGRAFIA:
Mologni M. (2014). Uccide la moglie in coma in clinica e si spara davanti al corpo di lei. Corriere della Sera, 2 Gennaio 2014
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