Report dal convegno “Gioco d’azzardo patologico: adolescenti e famiglie” – Roma
Manuela Pasinetti.
Report dal convegno
“Gioco d’azzardo patologico: adolescenti e famiglie
Convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico”
15 novembre – Roma
Venerdì 15 novembre si è svolta a Roma la seconda edizione della conferenza “Gioco d’azzardo patologico: Adolescenti e famiglie. Convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico”, organizzata dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicosomatica dell’Ospedale Cristo Re, con la collaborazione dell’associazione Primo Consumo, il patrocinio del Consorzio Regionale del Lazio e la sponsorizzazione di Codere Italia, concessionario leader nella gestione di terminali di gioco, agenzie di scommesse, bingo, etc.
Il programma degli interventi prevede, nella prima parte della mattinata, la partecipazione di personaggi delle istituzioni, e, nella seconda, interventi prettamente clinici da parte di professori della Scuola di Specializzazione, psicologhe e psicoterapeute.
I personaggi politici si fanno un po’ attendere, tanto che il dott. Marino Nonis, direttore sanitario dell’Ospedale Cristo Re, apre i lavori con un’ora di ritardo, affiancato dal prof. Carlo Saraceni, direttore della Scuola di Specializzazione Cristo Re che sottolinea quanto il gioco d’azzardo patologico (GAP) possa essere inteso “come una malattia psicosomatica da affrontare con spirito di gruppo”.
I primi due interventi saltano, poiché sia il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin sia l’onorevole Paola Binetti non si presentano. Il Ministro Lorenzin invia però una lettera in cui porge le sue scuse per l’assenza obbligata da un consiglio dei ministri, e sottolinea come il GAP sia una tematica di estrema rilevanza oggigiorno, anche per il carattere sociale che sta avendo. Apre la prospettiva a politiche e azioni di prevenzione e propone l’idea di misure più restrittive per la pubblicità del gioco. Doveroso farlo, come sottolineano successivamente tutti i relatori nel corso della mattinata. Doveroso almeno proporlo, a sentire i numeri che vengon letti dall’avvocato Marco Polizzi, presidente dell’associazione Primo Consumo: la ludopatia coinvolge attualmente circa 1 milione di persone in Italia, 300.000 sono i giocatori a rischio e 170.000 gli adolescenti a rischio.
Tutti sottolineano l’importanza della prevenzione: l’avv. Polizzi ci elenca una lunga lista di proposte che dovrebbero essere avanzate in Parlamento, comprendenti sanzioni, divieti e campagne di prevenzione; il dott. Ricardo Agostini, consigliere della Regione Lazio, mette in luce le problematiche regionali in questa operazione di prevenzione e cura, date soprattutto dai tagli finanziari a livello sociosanitario. Interviene poi il senatore Riccardo Pedrizzi, intervento non previsto, ma necessario data la sua presenza in sala, che evidenzia come il gioco d’azzardo sia una ricchissima fonte di guadagno per lo Stato italiano – impossibile e impensabile, quindi, rinunciarvi -, ma una cosa che si potrebbe invece fare è destinare parte di queste entrate proprio alla cura del GAP.
Ancora, il dott. Mario Rusconi, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Presidi, si sofferma sulla situazione scolastica attuale e sulle problematiche che si riscontrano nella scuola, anche queste per la maggior parte dovute ai pochi fondi economici disponibili e alla mancanza di servizi di psicologia scolastica all’interno degli istituti, ma anche – e soprattutto secondo lui – nelle famiglie degli adolescenti di oggi.
Segue il dott. Massimo Ruta, country manager di Codere Italia, che si sofferma sull’importanza della promozione del gioco responsabile e della lotta al gioco illegale, che affligge una grossa percentuale di giocatori; chiude questa prima parte l’onorevole Margherita Miotto che ci ricorda gli impegni raccolti dal governo per regolare l’offerta del gioco, date le sue pesanti ricadute sociali e sanitarie, e invertire la rotta rispetto alla tendenza a promuoverlo degli anni precedenti.
Tante proposte insomma, più o meno concrete ma non troppo innovative, accomunate dall’idea che il GAP sia diventato effettivamente un problema, al pari, o forse più, delle dipendenze da sostanze.
Dopo il coffee break, aprono la seconda parte il prof. Andrea Castiglioni Humani, docente dell’Università Salesiana e della Scuola di Specializzazione Cristo Re, seguito dal prof. Gianluigi Conte, anch’egli docente della Scuola di Specializzazione Cristo Re. Entrambi si prendono molto più dei 20 minuti previsti per ogni intervento, senza che nessuno li interrompa, il che diventa deleterio per gli interventi successivi, considerato il ritardo con cui già si è iniziato.
Il primo intervento è molto poco clinico e molto evoluzionistico; il prof. ripercorre le teorie dell’evoluzione comportamentale, in maniera molto esaustiva e raffinata, ma in 50 minuti non arriva a spiegare come questa possa sfociare in comportamenti patologici, come auspicato inizialmente.
Il prof. Conte si sofferma unicamente sugli elementi psicodinamici – alla Winnicott maniera – implicati nel GAP, definendolo come un “parossismo clinico della capacità naturale di integrare operatori simbolici” e un “meccanismo volto alla saturazione illusoria del dolore, in carenza di risorse intrapsichiche”, senza però fornire alcuna indicazione su quali siano queste risorse intrapsichiche carenti o su come trattare o aiutare un giocatore patologico a superare questa “saturazione illusoria del dolore”. La parola trattamento, in realtà, non compare praticamente in tutta questa seconda parte della conferenza, al di là di qualche vaga allusione alla necessità di un trattamento effettuato da terapeuti “formati”.
Interviene poi la dott.ssa Alessandra Gatto, psicologa, psicoterapeuta sistemico-relazionale e criminologa, con la presentazione di un caso clinico; sottolinea inizialmente l’importanza del gioco nel sistema familiare, come indicato da Winnicott, e come il GAP sia un “tentativo di riprodurre una sfida con l’antico paterno e materno non particolarmente buoni”. Il gioco patologico di Sonia, adolescente di 13 anni avviata al gioco dalla nonna, viene infatti illustrato come un esempio di “un paterno sfidato e desiderato e un’espiazione del materno”.
Segue l’intervento delle dott.sse Chiaralisa Lupelli e Clotilde Marinacci, entrambe psicologhe e psicoterapeute, meno clinico ma più tecnico e concreto, le quali riportano i dati del Centro d’Ascolto Game Over, progetto di informazione, sostegno e orientamento nato nel 2011 dall’associazione Primo Consumo.
Gli ultimi interventi sono una corsa contro il tempo: la dott.ssa Tiziana Ficeto, psicologa, psicoterapeuta e psicodiagnosta della ASL RM E, illustra in maniera estremamente rapida due casi clinici, una donna di 46 anni dipendente dalle “macchinette” e un adolescente dipendente dai videogiochi, presentando due diagnosi – a mio avviso ‘non diagnosi’, ma ammetto di essere forse troppo cognitivista – dove il GAP è spiegato, ad esempio nel primo caso, come “espressione della simbiosi fusionale, una difesa dall’angoscia di frammentazione e come mezzo che le garantisce il suo esserci”. Continua a restarmi l’incognita della teoria di riferimento e di come questi pazienti siano poi stati trattati.
Una presentazione interessante quella successiva della dott.ssa Ilaria Intrieri, specializzanda della Scuola di Specializzazione Cristo Re, che tratta le analogie psicofisiologiche tra adolescenza e GAP. La dott.ssa elenca una serie di fattori, tra i quali ad es. l’impulsività, i bias cognitivi, la compromissione della capacità di prendere decisioni, etc., come determinanti della condotta patologica del gioco d’azzardo. Fattori evidenziati in numerosi studi scientifici e di neuroimmagine. Dall’altro lato, studi di risonanza magnetica funzionale su adolescenti mostrano come le stesse aree cerebrali implicate nel GAP – corteccia prefrontale e sistema limbico – siano le aree che maturano più lentamente. Pertanto, in adolescenza le nostre capacità decisionali sarebbero ancora deboli e ciò sarebbe un dato a supporto del fatto che gli adolescenti siano soggetti particolarmente a rischio, a prescindere dall’avere o no una “mamma sufficientemente buona”. Davvero un peccato che, a causa dei tempi ristretti, la dott.ssa Intrieri si sia solo potuta limitare a leggere i titoli delle slides senza poter approfondire i dati, i fattori e gli studi citati.
Chiude, infine, la conferenza la dott.ssa Anna Cipriani, docente della Scuola di Specializzazione Cristo Re presentando un caso di GAP in una coppia di conviventi e sottolineando, come aveva fatto il prof. Saraceni inizialmente, l’importanza di considerare il GAP come un disturbo psicosomatico.
In sintesi, niente di nuovo sotto il sole. Un convegno di informazione ed approfondimento sul gioco d’azzardo patologico dove l’approfondimento non sembra esserci stato, così come è mancata un’informazione aggiornata su teorie, diagnosi e trattamento del GAP. Aspetteremo la terza edizione per vedere se qualcosa si muove…
Un Evitante al Cinema: Bella Swan di Twilight. Cinema & Psicologia
Francesca Soresi
Un personaggio cinematografico/letterario può avere una personalità? Scopriamo quella di Bella Swan, protagonista femminile della saga di Twilight, famosa in tutto il mondo.
Twilight è una serie di romanzi scritti da Stephenie Meyer e raccontano la vita di Bella Swan, un’adolescente che si trasferisce da Phoenix a Forks, nella penisola di Washington, e che si innamora del vampiro Edward Cullen. I romanzi sono stati successivamente adattati e trasformati in pellicola a partire dal 2008.
Bella Swan è la protagonista femminile del racconto ed è descritta come timida, solitaria, goffa e maldestra. “Non sarei mai stata capace di inserirmi e non era colpa del mio aspetto. Non ero riuscita a ritagliarmi un posto in una scuola con tremila studenti, quante possibilità potevo mai avere, qui? Non ero capace di entrare in sintonia con le persone della mia età. Forse dovrei dire che non sapevo entrare in sintonia con le persone, punto. Non riuscivo a vivere in armonia nemmeno con mia madre, la donna che in assoluto sentivo più vicina, quasi non parlassimo mai davvero la stessa lingua. Ogni tanto mi chiedevo se i miei occhi e quelli del resto del mondo vedessero le stesse cose. Forse il mio cervello era difettoso.” (Twilight, 2006): queste frasi spiegano molto bene il senso di estraneità ed esclusione rispetto agli altri e al mondo che Bella sperimenta e la sua difficoltà nell’entrare in relazione con gli altri anche con i familiari, in linea con una personalità evitante.
L’emozione principale che Bella manifesta è la vergogna: quando vede per la prima volta Edward e i suoi fratelli si assiste ad un gioco di sguardi dove Bella è sempre quella che guarda furtivamente e poi distoglie lo sguardo diventando paonazza in volto.
Durante la prima lezione insieme ad Edward legge le smorfie del vampiro come conferma che ci sia qualcosa di sbagliato in lei: “Quando gli passai accanto, all’improvviso [Edward] si irrigidì. Mi fissò ancora una volta, con la più strana delle espressioni sul volto: era ostile, furioso. Guardai subito altrove, sbalordita, rossa di vergogna. Inciampai su un libro e per non cadere fui costretta a reggermi a un tavolo. La ragazza seduta lì rise sotto i baffi.” (Twilight, 2006).
Da dove nasce questa vergogna?Bella si sente inadeguata e incompetente e teme di essere rifiutata dagli altri. Osserva e valuta con molta attenzione i movimenti e le espressioni delle persone con cui entra in contatto e nello stesso tempo mantiene un contegno timoroso e teso nel tentativo di prevenire e minimizzare le critiche, ma questo contegno si trasforma inevitabilmente nella goffaggine che la caratterizza, perché la sua attenzione non è più su quello che sta facendo, ma su ciò che gli altri vedono e pensano mentre la osservano. Il suo desiderio sarebbe di scomparire tra la folla, di non essere notata, ma questo risulta impossibile nel momento in cui il suo atteggiamento appare strano e poco naturale.
Poi finalmente Bella diventa un vampiro. La trasformazione non è solo fisica, ma anche caratteriale: scompare la sua goffaggine, la sua autostima aumenta. La trasformazione è vissuta da Bella come una liberazione… ma cosa succede? La Meyer ci sta dicendo che quando ci sentiamo inadeguati e “fuori posto” l’unica soluzione è trasformarsi in un vampiro?!
Bhe, forse no: “Ricordavo che Edward una volta aveva detto […] che la sua specie, la nostra specie, si distraeva facilmente.” (Breaking Dawn, 2008).
La trasformazione rappresenta per Bella il mezzo che le consente finalmente di provare quel senso di appartenenza che da umana difficilmente riusciva a sentire: finalmente appartiene ad un gruppo, “la nostra specie”, con cui condivide caratteristiche fisiche, valori morali e regole sociali; e questo gruppo è inserito in un contesto conosciuto e fatto di rapporti con gli amici di sempre, il licantropo Jacob in primis, e con la propria famiglia.
Bella non si sente più estranea, rifiutata ed inetta, ma non perché “normale”, inteso come uguale agli altri, ma perchè pur essendo unica (come ciascuno di noi lo è), ha trovato la giusta dimensione per accettare se stessa.
Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con le Officine Corsare, presenta il
4° Appuntamento del Psicologia Film Festival (sezione DOC)
Martedì 3 Dicembre ore 21,00
presso il Cubo, via Pallavicino 35
con la proiezione del film
ESSERE E AVERE
di Nicolas Philibert (2002)
Ingresso libero con tessera Arci
Il Film
Francia, Auvergne, dipartimento di Puy Le Dome. La zona è talmente isolata che sopravvive l’istituzione della “classe unica”, dove si ritrovano bambini la cui età copre l’intero ciclo scolastico delle elementari. Un maestro prossimo alla pensione segue tutti i suoi alunni cercando di trasmettere, oltre a un po’ di sapere generale, anche qualche insegnamento etico e civico, dal rispetto reciproco all’inutilità della violenza. Nel frattempo la montagna segue, dall’inverno all’estate, i suoi ritmi. Nicolas Philibert, uno dei più grandi documentaristi contemporanei francesi, racconta la vita quotidiana e “straordinaria” di una classe unica che, guidata dal maestro Georges Lopez, impara realmente a muovere i primi difficili passi della propria vita. Nessun intento pedagogico, nessun trattato sul sistema scolastico, nessuna mira o ambizione “politica” di proporre soluzioni o di offrire alternative; Essere e Avere s’impone con forza e sospesa sulla difficoltà di crescere, sulle gioie delle prime conquiste e conoscenze individuali, sul valore dell’amore e il dignitoso senso di responsabilità di bambini chiamati a relazionarsi con il proprio passato e futuro. Niente di più semplice, intenso e commovente che vedere le emozioni e le ribellioni dei piccoli, la curiosità e i loro stupori ai primi incontri con il sapere.
Il regista
Philibert dopo aver studiato filosofia, inizia a lavorare nel mondo del cinema nel 1973 come assistente alla regia e scenografo per Alain Tanner, Claude Goretta e altri. Nel 1978 ha realizzato con Gérard Mortillat il lungo documentario La voix de son maitre, ma bisogna aspettare gli anni Novanta perché il lavoro di Philibert venga notato e apprezzato dalla critica. Nel 1989 ha girato La ville Louvre, mentre Nel paese dei sordi (1992) lo rende uno dei registi più originali del nuovo cinema francese. Successivamente ha diretto Un animal, des animaux (1994), Le moindre des choses (1996), Qui sait? (1998). Nel 2002 ha presentato Essere e avere fenomeno di incassi in Francia e vincitore del Festival “France Cinema” di Firenze.
Marzia Cikada
Psicologa, è Specializzata in Psicoterapia Relazionale presso l’ I.P.R. (Istituto di Psicoterapia Relazionale) di Roma. Nel 2003 ha fondato lo Studio di Psicoterapia “Elibra” nel cuore di Roma. Trasferitasi in Piemonte nel 2010, ha iniziato ad occuparsi di Consulenza Psicologica come professionista volontaria presso il Centro Consulenza Familiare di Torino (CCF) e, oltre all’attività privata a Torino, Pinerolo e Luserna, è consulente presso la Cooperativa “La Tarta Volante” presente nel territorio della Val Pellice, e fa parte dell’Associazione “Il salice ridente”.
Esercizio fisico in gravidanza- In occasione del congresso Neuroscience 2013 a San Diego, gli autori della ricerca, concludono:”I nostri risultati mostrano che i bambini nati da mamme fisicamente attive hanno un’attivazione cerebrale più matura, e ciò suggerisce che i loro cervelli si sono sviluppati più rapidamente“.
E’ ormai noto che l’attività fisica influisca positivamente sullo stato cognitivo nei bambini, negli adulti e negli anziani.
Recentemente, studi condotti sugli animali, hanno dimostrato effetti positivi dell’esercizio fisico durante la gravidanza sullo sviluppo cerebrale del neonato, favorendo la neurogenesi ippocampale.
Nell’uomo, Clapp e collaboratori hanno confrontato bambini nati da donne che spontaneamente mantenevano una vita attiva o sedentaria: i primi, a 5 giorni di vita, mostravano un punteggio superiore alla Brazelton Neonatal Behavioral Assesment Scale nelle sottoscale dell’orientamento e dell’autoregolazione, ad un anno ottenevano punteggi superiori nella valutazione psicomotoria della Bayley Scales of Infant Development, e addirittura a 5 anni raggiungevano punteggi più elevati di intelligenza generale e linguaggio.
I risultati incoraggianti di questo studio però si scontrano con i limiti del suo disegno: non è stata eseguita nessuna misurazione dell’attivazione cerebrale e l’assegnazione volontaria al gruppo attive/sedentarie può riflettere uno stile relazionale differente della madre con il proprio figlio. Le Moyne e collaboratori hanno quindi progettato un protocollo di intervento randomizzato (RCT=randomized controlled trial) per suddividere le gestanti in gruppo “attivo” e “non attivo”, verificandone gli effetti attraverso la misurazione diretta dell’attività elettrica corticale (EEG=elettroencefalogramma).
Nello specifico, sono state reclutate 60 donne sane nel primo trimestre di gravidanza, con età compresa tra i 20 e i 35 anni, indice di massa corporea pre-gravidanza compreso tra 18 e 25 con un’anamnesi negativa per uso di droghe, alcolici o fumo. Di queste, 30 donne sono state assegnate al gruppo “attivo” che prevedeva esercizio fisico (nuoto, camminata, bicicletta, ellittica, aerobica, pattinaggio, tennis e wii sport) a partire dal secondo trimestre di gravidanza, per almeno 3 volte alla settimana, della durata minima di 20 minuti, con un’intensità superiore al 55% della capacità aerobica massima (Vo2max); le altre 30 donne sono state assegnate al gruppo “non attivo”. Dall’inizio del secondo trimestre tutte le donne hanno compilato un questionario giornaliero on-line indagante l’esercizio fisico eseguito, la qualità del sonno ed eventuali trattamenti farmacologici e hanno indossato un podometro.
Inoltre, con cadenza mensile hanno compilato questionari relativo al loro stato di salute, stile di vita e ansia (Beck Anxiety Inventory), in quanto negli studi animali è stato dimostrato che l’ansia materna diminuisce l’effetto dell’esercizio fisico. L’outcome primario nel neonato era costituito dall’ampiezza della MMN (mismatch negativity), una componente dei potenziali evento-correlati (ERP) uditivi che si ricava dal tracciato EEG in seguito alla percezione di un suono nuovo all’interno di una sequenza sonora ripetitiva standard; la MMN è attualmente ritenuta una misura oggettiva dello stato cognitivo del neonato: più precoce e più ampia è l’onda, più è avanzato lo sviluppo cognitivo del neonato, al contrario, nei bambini autistici ad esempio, è stata osservata una maggiore latenza di comparsa e una minore ampiezza.
La registrazione dell’EEG è stata effettuata tra il giorno 8 e il 12 del neonato con il montaggio di 124 elettrodi secondo il Sistema EGI. In questi giorni, in occasione del congresso Neuroscience 2013 a San Diego, gli autori hanno presentato i dati di questa ricerca, concludendo: “I nostri risultati mostrano che i bambini nati da mamme fisicamente attive hanno un’attivazione cerebrale più matura, e ciò suggerisce che i loro cervelli si sono sviluppati più rapidamente“.
Il gruppo di ricerca sta ora verificando se questi effetti sullo sviluppo cognitivo, motorio e linguistico si mantengano ad un anno di vita del bambino.
Un libro che, pagina dopo pagina, mantiene il focus sul terapeuta, sul clinico inteso sia come persona in relazione che come professionista della salute mentale e della cura.
Le nostre librerie sono piene di manuali, di protocolli, di libri di auto aiuto da dare ai pazienti, di libri pieni di tecniche e strumenti, ma non sono tanti i libri che “si prendono cura dei curanti”, ed è proprio in questa cornice che emerge “Il terapeuta consapevole”, libro di D.Siegel edito dall’Istituto di Scienze Cognitive.
Un libro che, pagina dopo pagina, mantiene il focus sul terapeuta, sul clinico inteso sia come persona in relazione che come professionista della salute mentale e della cura. Mi piace immaginare questo libro come una lunga conversazione sul significato dell’essere terapeuta. Un dettagliato manuale sulla mente di chi aiuta le menti degli altri a crescere in maniera più armonica e funzionale. Un libro che offre diverse strategie esperienziali per lo sviluppo della “vista mentale”: capacità di percepire e dare forma al flusso di energia e informazioni che ci attraversano, e il Mindsight affinché si dia corpo a relazioni empatiche efficaci.
I contenuti di questo libro sono stati suddivisi in 15 capitoli, legati tra loro da un unico fil rouge: “essere terapeuti consapevoli”. Il lettore e il terapeuta potrebbero porsi questa domanda: “Qual è la parte essenziale che giochiamo nella relazione con l’altro per facilitare un miglioramento e la crescita della mente dell’altro, del nostro paziente?” E potrebbero ricevere una risposta nelle pagine di questo libro.
Un’altra riflessione importante che nasce dalla lettura, e nella lettura, di questo libro è che essere un terapeuta consapevole ci invita a portare integrazione e armonia nelle nostre vite mentre ci prendiamo cura delle vite e delle menti degli altri. Diventa poi normale chiedersi cosa significhi e in che accezione venga utilizzato il termine Mindfull: e allora partiamo dall’assunto che un terapeuta Mindfull è un terapeuta che integra gli aspetti consci, creativi e contemplativi della coscienza.
Essere Mindfull è uno stato di consapevolezza che ci permette di essere flessibili e recettivi e di avere presenza, fattore cruciale nel darci resilienza per affrontare le sfide che giorno dopo giorno ci sorprendono. Essere presente momento per momento, presenti e creativi.
L’autore pone l’accento sulle tecniche utili per poter sviluppare la Mindsight, un’abilità che stabilizza la lente percettiva attraverso cui si arriva a sentire il flusso di energia ed informazioni dentro noi e in relazione agli altri, fino ad arrivare alle terapie efficaci per stimolare l’attivazione e la crescita neuronale verso uno stato maggiormente integrato.
Il Dottor Siegel accompagna il lettore, passo dopo passo, alla scoperta della consapevolezza e all’importanza dell’integrazione. E, seguendo il cammino tracciato capitolo per capitolo, andiamo a vedere i contenuti e le skills necessarie per diventare un terapeuta Mindfull.
PRESENZA: il modo in cui siamo “saldi a noi stessi”, consapevoli nel momento presente, aperti agli altri e alla relazione; l’autore ci guida in alcuni esercizi di Mindfulness per allenare la nostra capacità di essere nel qui ed ora.
SINTONIZZAZIONE: partendo dal fatto che una comunicazione viene fatta tra due persone quando si inviano dei segnali, essere sintonizzati significa seguire pienamente il messaggio che riceviamo o che inviamo senza essere condizionati da distorsioni cognitive, bias e euristiche di pensiero. La sintonizzazione diventa fondamentale per il terapeuta: essere aperto a cogliere tutte le informazioni che arrivano dall’altro, non perdendo nulla di quello che il paziente ci vuole dire. Sintonizzazione come primo passo dell’alleanza terapeutica.
RISONANZA: in questo capitolo si parlerà di come, grazie alla presenza e alla sintonizzazione, il paziente si “senta sentito” dal terapeuta. Questa consapevolezza porta con sé la soddisfazione di un bisogno innato e profondo: quello di sentirsi al sicuro e di essere visti dall’altro.
FIDUCIA: La risposta “fisiologica” al sentirsi in risonanza, sentendosi cioè visti e al sicuro, fa sì che si aprano le porte all’altro, si crei uno spazio di apertura e fiducia, ed è in questo spazio che si possono creare le condizioni per stimolare la crescita della mente propria e dell’altro. In questo capitolo il dottor Siegel ci aiuta a comprendere come questo senso di apertura e fiducia nell’altro sia guidato da specifici circuiti neurali, che definiscono in qualche modo il nostro comportamento sociale.
VERITÀ: il cambiamento avviene quando abbiamo la possibilità di basarci sulle cose per quello che veramente sono; con la presenza, la sintonizzazione e la fiducia abbiamo preparato il terreno perché questo avvenga. Ragionare insieme, paziente e clinico, su come poter affrontare la realtà per quella che è, senza forzature impossibili rispetto al desiderato, fare i conti con quello che si ha.
TRIPODE: grazie a questa metafora visiva, supporto a tre piedi della lente della macchina fotografica, l’autore ci porta a vedere da un nuovo punto di vista la nostra mente. È in questo capitolo che Siegel ci illustra la mindsight e ci suggerisce alcuni esercizi utili per il clinico, per vedere la mente con più chiarezza e profondità.
TRICEZIONE: in questo capitolo si parla del triangolo del benessere: mente, cervello e corpo. Centrali rimangono la capacità di vedere il mondo interno con sempre maggiore chiarezza e trovare nuovi motori di cambiamento.
TRACKING: il percorso che creiamo con i nostri pazienti in terapia è un percorso che va verso il benessere della persona, che passa nelle prime fasi della relazione attraverso il continuo e costante monitoraggio del flusso di energia e dell’informazione che passano da uno all’altro. Il monitoraggio diventa la porta per la consapevolezza, consapevolezza del triangolo del benessere mente, cervello e corpo, che prepara la strada per l’integrazione. Sappiamo che un individuo integrato è un individuo in armonia.
TRATTI: la psicoterapia è cambiamento e crescita, tuttavia ognuno di noi nasce con dei tratti persistenti. In questo capitolo vengono sinteticamente passati in rassegna i pattern comportamentali che dall’infanzia si sviluppano sino alla vita adulta.
TRAUMA: in questo capitolo si vedrà nel dettaglio come gli eventi traumatici nella nostra vita vadano ad incidere negativamente sulla nostra capacità di adattarsi flessibilmente alla realtà; e allora il processo di cura e di risoluzione del trauma può essere inteso come l’integrazione degli elementi disconnessi nella memoria implicita.
TRANSIZIONE: quando le persone arrivano in terapia portano con sé i loro disagi e le loro difficoltà, spesso sono “ingabbiate” in pattern di vita disfunzionali, da cui non riescono a liberarsi. Spesso sono pattern di vita pieni di caos e rigidità. Il processo terapeutico, attraverso la relazione, si pone l’obiettivo di portare il soggetto all’integrazione neurale traghettandolo verso il benessere. Il passaggio dal caos all’integrazione non è sempre facile o lineare e occorrono fasi di transizione: di questo Siegel ci parla in questo capitolo.
TRAINING:la mente è come un muscolo e, in quanto tale, deve essere allenato. Così com’è necessario tenere allenato il nostro corpo per preservarlo e accompagnarlo nell’invecchiamento, così in questo capitolo ci viene fornito una possibile via di training per la nostra mente, un training per la presenza mentale e la Mindsight, così da mantenere attive le reti sinaptiche del nostro cervello.
TRASFORMAZIONE: in questo capitolo si affronta il tema della neuroplasticità promossa dalla consapevolezza. Vengono presi in esame i nove domini di integrazione e come questi possano essere visti come processi di trasformazione e integrazione, che determinano il funzionamento della nostra mente, del nostro cervello e del nostro corpo.
TRANQUILLITÀ: l’integrazione neurale promuove la coerenza nella nostra mente e noi ci sentiamo connessi, empatici, in armonia, aperti, impegnati, recettivi. Il concetto di integrazione ha in sé un sistema flessibile e adattivo che porta il soggetto in una condizione che potremmo chiamare di tranquillità. In questo capitolo ci vengono date diverse strategie e modalità per raggiungere questo stato.
TRASPIRAZIONE: questa parola significa “respirare con”; in questo capitolo il dottor Siegel ci aiuta a comprendere come sia possibile respirare attraverso i diversi domini di integrazione, che esploreremo in noi stessi come terapeuti e nella relazione terapeutica nei nostri pazienti. Qui l’autore si è focalizzato su come sentirsi, e cosa significa, parte di un tutto interdipendente; questo ci permette di vedere il potente ruolo che abbiamo nell’aiutare gli altri, partendo dal prenderci cura di noi stessi , stando in modo empatico e compassionevole in una relazione autentica.
Alla fine di questa immaginaria passeggiata, di questa profonda riflessione sulla mente, il cervello e le relazioni umane, appare evidente quanto il successo di una terapia derivi della capacità di entrare in connessione con il proprio paziente, quanto la capacità del terapeuta di essere Mindfull e di prendersi cura della relazione terapeutica stessa sia un fattore favorente il buon esito della terapia.
L’emicrania è una malattia neurologica cronica caratterizzata da ricorrenti cefalee, spesso in associazione con una serie di sintomi del sistema nervoso autonomo.
In genere il dolore è unilaterale, colpendo cioè solo una metà della testa, e pulsante, con una durata variabile. I sintomi associati possono includere nausea, vomito, fotofobia (aumento della sensibilità alla luce) e fonofobia (aumento della sensibilità al suono). Fino a un terzo delle persone con emicrania sperimentano l’aura: un disturbo transitorio visivo, sensoriale, motorio o del linguaggio che precede di poco il verificarsi di un episodio di mal di testa e che a volte può verificarsi senza che un mal di testa ne succeda. Esiste ormai un generale accorto sul fatto che questa sia una malattia multifattoriale, ovvero che chiami in causa sia fattori di natura genetica che ambientale.
A livello mondiale, le emicranie colpiscono quasi il 15% della popolazione o circa un miliardo di individui. È più comune nelle donne (19% delle appartenenti a questo sesso) rispetto agli uomini (11%). Sono state descritte attualmente sette classi di emicrania, che si differenziano in base alla sede del dolore, durata, tipo di sintomatologia esperita dal soggetto.
In un recente studio pubblicato sull’importante rivista Internazionale Depression Research and Treatment un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto ha dimostrato come la depressione sia due volte più frequente nelle persone che soffrono di emicrania rispetto a chi non ne soffre. I risultati sono stati ottenuti a partire da un campione di più di 67 mila soggetti e sembra essere particolarmente significativo tra le persone di giovane età: le donne che soffrono di emicrania sotto i 30 anni hanno sei volte la probabilità di depressione rispetto alle donne di 65 anni o più. Inoltre, soffrire di emicrania, non essere sposati ed avere difficoltà nelle attività quotidiane sono condizioni che si associano a un maggior rischio di depressione.
Gli autori hanno osservato come la prevalenza dell’emicrania fosse più frequente nelle donne rispetto agli uomini emicranici, in un rapporto di 7:1 nelle donne e 16:1 negli uomini. Infine, soffrire di depressione e di emicrania sembra aumentare in modo significativo il rischio di ideazione suicidaria, in particolare nei giovani con età inferiore ai 30 anni rispetto ai soggetti di 65 anni e più. Nello spiegare i risultati gli autori hanno ipotizzato che i giovani con emicrania soffrano maggiormente di depressione e ideazione suicidaria perché non hanno ancora trovato un supporto terapeutico adeguato e sviluppato strategie di coping che possano essere utili al fine di ridurre il dolore e l’impatto che questa malattia cronica ha nella loro vita.
I base ai dati di ricerca diventa quindi fondamentale che i professionisti che hanno in cura il paziente svolgano un adeguato screening del paziente e mettano a punto interventi mirati e differenziati, che tengano conto del quadro sintomatologico complesso del paziente. Interventi di prevenzione della depressione dovrebbero essere quindi promossi per tutti quelle persone “a rischio” sulla base anche della presenza o meno, piuttosto che della familiarità e vulnerabilità per la patologia emicranica.
The Walking Dead: tra tendenza storica ed universo umano
Quando si verificano crisi economiche, la maggior parte delle persone si sentirebbe depotenziata, per cui sia travestirsi da “non morti” che guardare serie tv come “The Walking Dead” fornirebbero possibili vie di sfogo a sentimenti di frustrazione.
The Walking Dead è una serie televisiva americana nata nel 2010 e giunta ormai alla quarta stagione, a testimoniare il grande successo riscosso negli Stati Uniti e non solo (tanto che è stata comunicata la notizia di una quinta stagione in programma).
La serie, basata sull’omonimo fumetto di Robert Kirkman, si sviluppa sullo sfondo di un mondo post-apocalittico.
Lo sceriffo Rick Grimes si risveglia dal coma in ospedale e si trova immerso in un mondo radicalmente cambiato dove a dominare lo scenario sono rovine, cadaveri, creature letali e spaventose. Dopo la paura, l’incredulità ed il forte disorientamento iniziale, grazie all’incontro con un padre e suo figlio (le prime due persone con cui entra in contatto), Rick apprende che, mentre si trovava ricoverato in stato di incoscienza, una terribile epidemia ha infettato e trasformato le persone in cannibali privi di ogni caratteristica umana (the walkers – gli erranti).
I sopravvissuti si trovano pertanto a dover vivere sotto la minaccia di queste creature che non solo possono ucciderli e divorarli, ma con un solo morso possono infettarli avviando il processo irreversibile di mutamento.
Alla minaccia alla propria sopravvivenza si aggiunge anche il profondo dolore e il lutto per gli affetti persi, morti realmente o “non morti”, che i loro stessi cari sono a volte costretti ad uccidere per difendersi o anche solo per impedire che conducano un’esistenza da erranti.
Presa consapevolezza di quanto successo, Rick si lancia alla ricerca di sua moglie e di suo figlio nella speranza che siano ancora vivi. In seguito li ritroverà aggregati ad altri superstiti unitisi per cercare riparo. Rick assumerà il ruolo di leader con la missione di condurre il gruppo (a cui si aggregheranno via via nuovi personaggi) verso un posto sicuro.
Ben presto, Rick si troverà a confrontarsi con situazioni in cui la minaccia maggiore non sarà costituita dagli erranti ma dai superstiti stessi, con gruppi in lotta tra loro, in assenza di ogni forma di istituzione, dove il potere viene assunto da singoli che costituiscono forme di società regolate da leggi personali.
Il successo di questa serie rappresenta un esempio di quanto gli zombie abbiano “infettato” la cultura popolare, diventando protagonisti di film, serie tv, libri, fumetti e videogiochi. Tale popolarità è stata oggetto di studio da parte di Sarah Juliet Lauro, professoressa di inglese alla Clemson University (South Carolina).
Al fine di comprendere la natura di questo fenomeno, la Lauro ha esaminato film, programmi televisivi, videogames e, in modo particolare, lo “zombie walk”, ossia un raduno organizzato di persone vestite e truccate da “non morti” che si ritrovano in luoghi pubblici e procedono con la tipica camminata barcollante. Secondo Lauro, tutto ciò non costituirebbe una semplice ossessione per la morte e la decadenza, ma parte di una tendenza storica che rispecchia un livello di disaffezione, di insoddisfazione culturale e di sconvolgimento economico.
In altre parole, è come se si trattasse di un’allegoria del tipo “ci sentiamo, in qualche modo, come fossimo morti”. Pertanto le persone si vestirebbero come zombie per rendere visibile la loro disaffezione verso un governo che credono non li stia ascoltando o verso un sistema economico che li rende consumatori “cerebralmente morti” e come incapaci di scelte e decisioni personali.
Lo zombie walk è un fenomeno iniziato nel 2003 a Toronto e la sua popolarità è aumentata negli Stati Uniti di pari passo ad un incremento dell’insoddisfazione per la guerra in Iraq. Secondo la Lauro, questo è stato il modo attraverso cui le persone hanno cercato di esprimere il loro sentirsi non ascoltati dall’amministrazione Bush su una guerra che non volevano si scatenasse.
Dal 2000 si è registrato un aumento di questa globale popolarità degli zombie, probabilmente favorita in parte dall’uscita di film come “Resident Evil”, “L’alba dei morti viventi” e “28 giorni dopo”. Dagli Stati Uniti, lo zombie walk si è poi largamante diffuso in altri stati, raggiungendo anche l’Italia. In base al Guinness World Records, il più grande raduno si è tenuto il 5 ottobre 2013 ad Asbury Park in New Jersey con 9.592 partecipanti.
La prof.ssa Lauro afferma quindi che si è maggiormente interessati agli zombie in tempi in cui ci sentiamo impotenti come civiltà.
Quando si verificano crisi economiche, la maggior parte delle persone infatti si sentirebbe depotenziata, per cui sia travestirsi da “non morti” che guardare serie tv come “The Walking Dead” fornirebbero possibili vie di sfogo a sentimenti di frustrazione. Tuttavia la Lauro specifica come ciò non sia sempre un atto consapevole e come non tutti i partecipanti di questi raduni abbiano una cognizione chiara di quanto stiano comunicando.
Concludendo, la passione per gli zombie potrebbe essere quindi considerata un segno dei nostri tempi come afferma Sarah Lauro, ma in realtà nelle vicende di “The Walking Dead” c’è anche dell’altro. Esse vedono infatti protagonisti non solo gli erranti ma anche un gruppo formato da un’ampia galleria di personaggi con varie caratteristiche.
Per citarne alcuni: Rick, la guida carismatica e coraggiosa; Shane, nella duplice veste di suo amico e di primo antagonista della serie, rivale in amore e nella leadership; Lori, moglie di Rick ed affettuosa madre di Carl, che si prende cura emotivamente del gruppo; Carl, il bambino alle prese con la sfida evolutiva di crescere in un mondo radicalmente mutato; Daryl, una sorta di cavaliere oscuro impegnato in un processo di emancipazione dal fratello maggiore; Carol, la donna vessata dal marito che rivela poi grande forza e determinazione; Andrea, testarda, impulsiva e pronta ad impugnare le armi per la difesa del gruppo; Dale e Hershel, i saggi anziani e depositari dei valori perduti della società civile.
Questi personaggi sono in grado di far scattare processi di identificazione tali per cui gli spettatori rivedono e riconoscono in essi aspetti di sé e si appassionano alle loro vicende.
La serie inoltre stimola una riflessione critica sull’uomo posto in condizioni estreme di vita, sulla varietà dei comportamenti che possono essere messi in atto, dai gesti egoistici e volti ai propri interessi, ai comportamenti prosociali fino ad arrivare ai grandi gesti eroici. In pratica, l’uomo nelle sue innumerevoli sfaccettature, nei suoi dilemmi, nelle sue debolezze e nei suoi punti di forza.
Comunicazione – Del tutto in modo inaspettato, parrebbe che un discorso esitante (ma non troppo) risulti più efficace di un discorso fluente.
Quando parliamo, quali sono gli effetti delle nostre esitazioni, ripetizioni e auto-correzioni in chi ci ascolta? Ogni 100 parole pronunciate, circa 6 sono colpite da disfluenze verbali.
Tra i diversi “inceppi” verbali, particolarmente interessanti sono i riempitivi sonori come “ehm” o “uhm”. Questi infatti non si verificano a caso, ma tendono a precedere l’emissione di parole di uso poco comuni, inaspettate o poco inerenti al significato generale della frase.
A partire da dal meccanismo che ci guida nel loro uso, MacGregor e colleghi (University of Edinburgh) si sono domandati cosa accade quando ascoltiamo frasi esitanti. Che effetto hanno gli “ehm” e gli “uhm” sulla comprensione e memorizzazione del discorso?
Per rispondere a questa domanda i ricercatori sono riscorsi ai potenziali evocati, ovvero modificazioni elettriche che avvengono nel sistema nervoso centrale a seguito di uno stimolo esterno, focalizzandosi in particolare sull’ERP N400. Questo potenziale evocato si manifesta con un cambiamento negativo nel voltaggio di una particolare regione. Quando ci troviamo di fronte a un’incongruenza semantica tale cambiamento si verifica specificatamente nella regione centro-parietale.
Quindi davanti alla frase :”Mi piace bere il tè con zucchero e calza” (o quando figure anomale o incongruenti sono mostrate durante l’ascolto di una frase, o quando la frase presenta una violazione sintattica) si avrà un cambiamento negativo in questa specifica area cerebrale.
Per questa ricerca, sono stati coinvolti 12 soggetti ai quali è stato chiesto di ascoltare diverse frasi dove l’ultima parola poteva essere congruente con il contesto della frase (Es. Mi piace bere il tè con zucchero e limone) oppure incongruente (Mi piace bere il tè con zucchero e calza). Inoltre nella metà dei casi, prima delle parole limone e calza, venivano inseriti riempitivi sonori come “ehm”.
Dai risultati è emerso che nei casi in cui la parola non era congruente, se questa era preceduta da un “ehm”, l’ atteso effetto N400 si riduceva. Sembra quindi che in qualche modo l’esitazione renda la parola inaspettata più facile da processare e che forzi il cervello a porre più attenzione al discorso, percependo l’ehm come un segnale di allerta.
Ecco quindi che la parole incongruente (“calza”), benchè inattesa e imprevedibile, viene accettata più facilmente dalla nostro cervello.
Ancora più sorprendente, l’esitazione sembra avere anche un effetto a lungo termine: attraverso un successivo test di memoria le parole (congruenti o incongruenti) che erano state precedute da un riempitivo verbale venivano ricordate più facilmente. Questa sintonizzazione preventiva (o allerta attenttivo) fornirebbe quindi anche un vantaggio nella memorizzazione della parole.
Del tutto in modo inaspettato, parrebbe così che un discorso esitante (ma non troppo) risulti più efficace di un discorso fluente.
Sapere leggere il comportamento non verbale e identificare indizi di possibile menzogna sono infatti capacità che possono tornare utili non solo in ambito professionale, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Mark Frank, uno dei più illustri esperti di comunicazione non verbale al mondo, collega di Paul Eckman, che ha istruito il consulente scientifico della Casa Bianca, il Congresso degli Stati Uniti e le Accademie Nazionali delle Scienze sull’inganno e contro il terrorismo, è tornato in Italia con un imperdibile aggiornamento del 1° seminario tenutosi a giugno a Gorizia.
In quest’occasione il Dott. Frank ha riproposto il training sul riconoscimento delle micro-espressioni facciali, che consiste nell’imparare ad individuare i movimenti facciali distintivi delle principali emozioni (paura, disgusto, disprezzo, gioia, tristezza, sorpresa, rabbia) per poter poi riconoscere tali espressioni quando compaiono sul volto di una persona in un brevissimo lasso di tempo (meno di mezzo secondo); spesso le micro-espressioni facciali sono infatti il risultato del tentativo mal riuscito di celare la reale emozione provata e rappresentano quindi un segnale rivelatore che qualcosa non quadra.
È interessante il fatto che il miglioramento nel riconoscere le micro-espressioni, ottenuto in situazione sperimentale a seguito del training, si mantenga (seppur in percentuale minore) anche al di fuori del contesto di laboratorio. Il training quindi ha una sua utilità per tutte quelle professioni in cui è importante riuscire a capire se l’interlocutore sta mentendo o meno (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, poliziotti, etc.).
Il seminario ha inoltre affrontato l’applicazione dell’analisi del comportamento non verbale in differenti ambiti:
I rapporti interpersonali.
Il Dr. Frank ha illustrato come i segnali non verbali si modifichino nel corso dello sviluppo di una relazione, dal primo approccio indicativo di interesse (es. aumento della frequenza e della durata del contatto visivo, l’inclinazione del corpo l’uno verso l’altro, la presenza di contatto fisico…), ai primi appuntamenti (sincronizzazione dei comportamenti, aumento di sorrisi veri…) fino ad arrivare al matrimonio, in cui si osserva per esempio una maggiore reciprocità emotiva.
Il campo medico.
Il Dr. Frank ha mostrato casi in cui l’espressione delle emozioni è compromessa (es. chirurgia plastica, botulino…) e analizzato alcuni disturbi in cui il comportamento non verbale presenta delle caratteristiche particolari, come nella Personalità di tipo A (sopracciglia aggrottate, sguardo più intenso), nella depressione(tentativi di nascondere le emozioni negative e simulare quelle positive, espressività emotiva rallentata, comparsa di una maggiore percentuale di sorrisi veri con il progredire della terapia) e nella schizofrenia (espressioni emotive meno fluide e meno sincronizzate, non congruenti con il contesto).
Inoltre ha indicato quei segnali che, attraverso un’accurata analisi dell’ambiente, dell’aspetto del paziente, del suo approccio ai presenti e delle sue modalità di interazione, se integrati con una buona conoscenza psicopatologica, possono aiutare ad identificare i pazienti pericolosi.
Il campo business.
In questo ambito è importante saper cogliere, in caso di negoziazione, segnali di informazioni fasulle (nel caso di una contrattazione distributiva) oppure segnali di tipo emotivo (nel caso di una negoziazione cooperativa). Inoltre in caso di più soggetti in gioco, la capacità di saper leggere il comportamento non verbale può dare indizi su chi sia, nel gruppo, realmente il capo.
Il campo giuridico e legislativo. La capacità di saper interpretare correttamente i segnali non verbali ha un’indiscutibile importanza quando si devono intervistare dei testimoni o dei sospetti; a tal proposito il Dr. Frank ha mostrato quei segnali rilevatori che potrebbero indicare la possibile (mai certa) presenza di una menzogna e che, quindi, posso guidare l’intervistatore nella conduzione di un colloquio più mirato.
Sempre in campo giuridico-amministrativo gioca un ruolo fondamentale la capacità di individuare potenziali atti di violenza; si pensi alla lotta contro il terrorismo. Mark Frank ha illustrato alcuni interessanti studi recenti che hanno evidenziato il ruolo della presenza contemporanea di rabbia, disgusto e disprezzo all’interno di un discorso nel predire comportamenti violenti (Matsumoto et Al., 2012; 2013)
In conclusione, il seminario tenuto da Mark Frank a Padova non ha deluso le aspettative: interessante, molto utile, con la presentazione di una letteratura scientifica aggiornata di livello, in grado di trasmettere competenze trasversali a differenti ambiti professionali. Se dovesse tornare in Italia vi consigliamo di non perdere l’occasione di andarlo ad ascoltare: sapere leggere il comportamento non verbale e identificare indizi di possibile menzogna sono infatti capacità che possono tornare utili non solo in ambito professionale, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Matsumoto, D., Hwang, H. S., & Frank, M. G. (2012). The role of emotions in predicting violence.Federal Bureau of Investigation Law Enforcement Bulletin, January, 1-11. Quantico, VA: Federal Bureau of Investigation.
La percezione che le azioni e opinioni altrui siano erronee e irrealistiche (ovvero dettate da bias) e che le proprie siano al contrario veritiere ed oggettive, gioca un ruolo importante nella progressiva evoluzione verso l’escalation nei conflitti interpersonali.
La caratteristica saliente dell’escalation a livello cognitivo è rappresentata dal fatto che gli agenti presentano una estrema polarizzazione delle proprie opinioni e posizioni (Winstok e Eisikovits, 2008); il meccanismo centrale della polarizzazione cognitiva è il bisogno estremo da parte degli agenti di mantenere un’immagine positiva di sé e, maggiore è tale bisogno, maggiore è parallelamente la resistenza nell’entrare in contatto con le opinioni altrui.
Il conflitto diventa una vera e propria invasione dello spazio mentale altrui (Martello, 2006b) e la relazione tende alla simmetria estrema (Arielli e Scotto, 2003). La comunicazione assume la forma di una struttura ricorsiva e gli atteggiamenti tendono a diventare simili, rispecchiandosi a vicenda (Coleman et al., 2007); il conflitto si trasforma in una gara alla conservazione del proprio vantaggio e le possibilità di uscirne senza costi o senza “perdervi la faccia” sono minime (Arielli e Scotto, 2003).
La polarizzazione del conflitto e l’escalation sono favoriti e alimentati da alcuni importanti biasescognitivi e percettivi (Anderson, Buckley e Carnagey, 2008). Con “bias” si intende una tendenza cognitiva sistematica ed erronea che permette di attribuire tendenziosamente caratteristiche positive e desiderabili a componenti salienti del proprio sé, come il proprio comportamento, i propri schemi conoscitivi, le proprie appartenenze sociali (Arcuri, 1995); per quanto erronei e parziali, i bias assolvono a importanti funzioni di salvaguardia dell’autostima, economizzazione di risorse cognitive e conoscenza sociale (ibid.).
In una recente rassegna, Pronin (2007) descrive i principali bias attivi durante i conflitti interpersonali.
Il Self-enhancement bias e il Self-interest bias svolgono entrambi una funzione protettiva nei confronti del Sé; il primo consente infatti alle persone di percepire le proprie caratteristiche di personalità come positive e desiderabili, il secondo influenza la tendenza a percepire le azioni come motivate da incentivi interni (autostima, successo) quando proprie e da incentivi esterni (ricavo economico) quando altrui. Entrambi permettono ai singoli individui di garantire una valutazione positiva alle proprie motivazioni e opinioni, mantenute e difese per la loro genuinità e veridicità, opponendole alle opinioni altrui, percepite come dettate da interessi ideologici o personali.
I bias rappresentano una fonte di ancoraggio per leggere e interpretare le informazioni provenienti dal contesto sociale e relazionale e permettono di guidare il proprio comportamento (Arcuri, 1995); essi sono già attivi durante l’infanzia, come dimostrato da una ricerca di David e Kistner (2000), in cui bambini di 8-11 anni mostravano una maggiore attribuzione di biases positivi rivolti al proprio Sé quando percepivano una maggiore accettazione da parte dei pari.
Sebbene i bias siano riconosciuti come indesiderabili, le persone tendono a non identificarli quando messi in atto da loro stesse ma, al contempo, a rintracciarli con molta facilità nelle altre persone, soprattutto in quelle con cui entrano in conflitto; le persone tendono cioè ad attribuire la presenza di bias tendenziosi solo alle azioni e intenzioni altrui e raramente alle proprie. Secondo Pronin (2007) questo errore sistematico nella percezione e attribuzione dei bias costituisce la prova del fatto che gli esseri umani, all’interno delle dinamiche relazionali, tra cui anche il conflitto, pensano e agiscono come “realisti naïf”.
Il realismo naïf consiste nella credenza da parte degli individui di vedere la realtà circostante in maniera oggettiva e senza pregiudizi; questa credenza induce ad assumere che il motivo per cui le altre persone non condividono la stessa visione del mondo e della realtà risiede nella loro mancanza di capacità o di volontà nel vedere i fatti in maniera realistica e oggettiva.
Questa attribuzione arbitraria rende inclini le persone a ritenere, come già anticipato sopra, che le opinioni altrui siano influenzate da interessi personali, ideologie, appartenenze sociali e/o politiche.
Partendo da questa base teorica, Kennedy e Pronin (2008) in un recente studio hanno esplorato l’ipotesi secondo cui la percezione che le azioni e opinioni altrui siano erronee e irrealistiche (ovvero dettate da biases) e che le proprie siano al contrario veritiere ed oggettive, giochi un ruolo importante nella progressiva evoluzione verso l’escalation nei conflitti interpersonali.
L’impianto di ricerca delle autrici prevede quattro steps.
Il primo studio ipotizza che maggiore è la percezione di distanza e divergenza tra agenti maggiore sarà la tendenza ad imputare bias alle altrui opinioni.
Il secondo esplora l’ipotesi per cui la scelta di cooperare piuttosto che di competere sia preferibilmente messa in atto quanto più si percepisce minore distanza tra opinioni.
Il terzo studio si basa sulla supposizione che l’attribuzione di bias tra due agenti sia reciproca e bidirezionale e che questo provochi un circolo vizioso tra attribuzioni negative e azioni aggressive.
Il quarto studio, infine, ipotizza che la tendenza a cooperare sia dettata dalla percezione del proprio oppositore come obiettivo e a sua volta disposto alla cooperazione, e che, al contrario, la tendenza a competere sia maggiore quando le intenzioni del proprio oppositore sono percepite come provocatorie e competitive.
In tutti e quattro gli studi i partecipanti sono invitati a esprimere il proprio grado di accordo/disaccordo su tematiche sociali o politiche importanti e a confrontarsi con alcuni oppositori non presenti ma che essi ritengono reali; le opinioni degli oppositori, divergenti a diversi gradi da quelle dei partecipanti, rappresentano in realtà la variabile indipendente degli autori e sono state create ad hoc per la condizione sperimentale. Le ipotesi iniziali delle autrici sono state tutte confermate. In particolare, i risultati permettono di affermare che:
– le persone sono inclini ad attribuire a coloro con cui entrano in conflitto la presenza di bias e a ritenere che questi errori cognitivi sistematici impediscono ai loro oppositori una visione oggettiva della realtà;
– maggiore è la distanza percepita tra opinioni proprie e altrui, maggiore sarà la tendenza a mettere in atto strategie comunicative e comportamentali competitive (tra cui l’aggressività fisica e verbale) piuttosto che cooperative;
– l’attribuzione di bias e di opinioni irrealistiche non è mai bidirezionale bensì circolare e reciproca, per cui entrambe le parti coinvolte in un conflitto ritengono che le proprie opinioni siano oggettive e scevre da bias, in maniera diametralmente opposta a quanto pensano delle opinioni altrui.
Le autrici descrivono l’escalation come una vera e propria spirale del conflitto, alimentata dalla reciproca attribuzione di bias e dall’irrigidimento sulla propria posizione; l’inclinazione a percepire le ragioni altrui come dettate da convinzioni erronee favorisce la messa in atto di strategie competitive che inaspriscono il conflitto piuttosto che portarlo a una risoluzione e questo, in maniera ricorsiva, favorisce la stessa percezione e la stessa scelta comportamentale da parte dell’oppositore, mantenendo viva la spirale dell’escalation (Pronin, 2007; Kennedy e Pronin, 2008).
State of Mind videointervista il Dr. Allen Frances, supervisore della task force per la stesura del DSM-IV, che nel suo nuovo libro intitolato Primo, non curare chi è normale (Bollati Boringhieri), da noi recensito in anteprima, lancia un grido di allarme nei confronti del DSM-5, definito un autentico fiasco.
Il DSM-5 porta con sé il rischio di un’iperinflazione diagnostica e ad una conseguente medicalizzazione di quei problemi di vita quotidiana che fanno parte dell’esistenza umana arrivando a curare anche chi è normale.
Prof. Frances, qual è la differenza tra il DSM-IV e il DSM-5?
Per quanto riguarda il DSM-IV eravamo tremendamente preoccupati per l’inflazione diagnostica, pertanto abbiamo stabilito dei criteri molto alti per i cambiamenti. Non volevamo che il sistema si espandesse ancora. Per tenere gli esperti sotto controllo abbiamo detto loro che dovevano portare a supporto delle proprie ipotesi una rassegna accurata della letteratura, una rianalisi dei dati, trial sul campo… tutto ciò a sostegno del fatto che queste nuove diagnosi fossero più d’aiuto che dannose. Ricevemmo 94 suggerimenti per nuove diagnosi e ne accettammo solamente 2. Non volevamo essere diversi, volevamo contenere la crescita delle diagnosi psichiatriche, non espanderla.
Il DSM-5 all’inizio aveva una fortissima ambizione: voleva rappresentare un cambiamento di paradigma nella psichiatria. Così ha dato agli esperti completa libertà: “Si può discutere di ogni cosa, siate innovativi”. E gli esperti lo sono stati. Se lasci controllare agli esperti il sistema diagnostico, lo espanderanno sempre di più. Lavoro con esperti da 35 anni, non ne ho mai visto uno saltar su e dire: “Sai, penso che la mia area diagnostica sia troppo vasta, perché non la riduciamo?”. Vogliono sempre allargarla, pensano sempre alla propria pratica. Lavorano in cliniche di ricerca, trascorrono molto tempo con i loro pazienti, hanno grande competenza riguardo al problema, e ciò che scrivono nel manuale forse può avere un senso per loro, ma è un disastro nella pratica comune.
Il DSM-5, espandendo il sistema, ha creato l’attuale inflazione diagnostica e il rischio è che l’attuale inflazione diagnostica diventi un’iperinflazione diagnostica, e sempre più persone saranno erroneamente diagnosticate affette da un disturbo.
Nella prefazione al Suo libro, “Primo, non curare chi è normale” scrive che il testo è in parte un mea culpa, in parte un j’accuse. Può spiegarci come mai?
In realtà ho detto di più: è un mea culpa, un j’accuse e un grido d’allarme. È un mea culpa perché quando abbiamo completato il DSM-IV pensavamo di aver fermato l’inflazione diagnostica, pensavamo di aver fatto davvero un buon lavoro. Il risultato è stato che negli USA sono scoppiate tre epidemie dall’uscita del DSM-IV: un’epidemia di ADHD, un’epidemia di Autismo e un’epidemia di Disturbo Bipolare. Il Disturbo Bipolare negli USA è raddoppiato in questi anni, l’Autismo è aumentato di quaranta volte e l’ADHD è triplicato. Pensavamo di aver contenuto l’inflazione diagnostica, ma abbiamo fallito. Questo è il mea culpa: non abbiamo previsto quanto fossero potenti le case farmaceutiche e 3 anni dopo la pubblicazione del DSM-IV hanno ottenuto il diritto di fare pubblicità diretta presso i consumatori. Immagina di guardare la tv o navigare su internet e vedere costantemente pubblicità inerente malattie mentali. Ciò dà una fortissima spinta alle vendite di farmaci, dando alla persone l’idea che ogni disturbo mentale ha a che fare con un equilibrio chimico e che la cura è quindi prendere le loro pillole, che la diagnosi psichiatrica è facile da formulare, largamente sottostimata, e che il medico di base può velocemente, in 7 minuti, formulare una diagnosi e prescrivere il farmaco. L’80% dei farmaci prescritti per pazienti psichiatrici è prescritto da medici non psichiatri, solitamente in 7 minuti. Credo che noi pensassimo di aver contenuto l’inflazione diagnostica, ma non è stato così, e questo è il mia culpa.
Il j’accuse è rivolto all’industria farmaceutica che confonde il pubblico, ai medici che sovra-prescrivono i farmaci per problemi di ogni giorno, e al DSM-5 che anziché contenere l’inflazione diagnostica ha spalancato le porte e ci saranno sempre più persone, milioni di persone normali – forse decine di milioni -, che riceveranno diagnosi di cui non hanno bisogno e trattamenti che probabilmente faranno loro più male che bene.
Il grido di allarme invece riguarda una questione molto triste; noi abbiamo questo tremendo paradosso: sovra-diagnostichiamo e sovra-trattiamo persone che non ne hanno bisogno, ma al tempo stesso ignoriamo terribilmente persone che soffrono di gravi malattie mentali che hanno un disperato bisogno di aiuto. Abbiamo chiuso un milione di posti letto per malati psichiatrici negli USA negli ultimi quindici anni, come per la deistituzionalizzazione in Italia. Ma c’è un’enorme differenza: in Italia i soldi risparmiati con la riduzione delle ospedalizzazioni sono stati utilizzati per prendersi cura dei pazienti nella comunità, dando loro un posto decente dove vivere; in tutto il mondo il miglior sistema che si prende cura dei pazienti gravi è quello italiano. Fate molto di più per curare i pazienti gravi in condizioni di dignità di quanto abbia mai visto fare nel resto del mondo. Negli USA accade esattamente l’opposto. Il denaro risparmiato con la chiusura dei posti letto non è stato utilizzato per prendersi cura dei pazienti, ma è stato usato in modo davvero strano: abbiamo chiuso un milione di posti letto psichiatrici e abbiamo aperto un milione di posti letto in prigione per pazienti psichiatrici che hanno commesso crimini minori, non particolarmente violenti, ma per i quali non esiste un posto dove andare per essere curati come pazienti. La polizia, la prima ad essere contattata, sa che dovrebbe portarli al pronto soccorso psichiatrico, ma non vengono accettati, non ottengono una visita; li portano invece in prigione. Abbiamo un milione di pazienti psichiatrici in prigione che sono terribilmente umiliati, che sono vulnerabili, che subiscono frequentemente violenza sessuale – 200000 abusi sessuali all’anno, la maggior parte dei quali ai danni di pazienti psichiatrici. Stiamo trattando la parte più svantaggiata di malati mentali ignorandoli e mandandoli in prigione e allo stesso tempo iper-curiamo persone che guarirebbero da sole, spendendo 18 miliardi di dollari in antipsicotici all’anno, 12 miliardi di dollari all’anno in antidepressivi, 7 miliardi all’anno in stimolanti…dovremmo spendere denaro per le persone realmente malate, non dovremmo spenderlo per persone che non ne hanno bisogno. Questo è il mio grido di allarme.
Il DSM-5 si è posto la grande ambizione, Lei ha scritto esagerata, di un cambiamento di paradigma della diagnosi psichiatrica (introducendo il contributo delle neuroscienze, la prevenzione e la valutazione dimensionale), ma ha fallito. Perché?
Riguardo ai test biologici non puoi dire “voglio dei marker biologici” e aspettarti che semplicemente compaiano. Il cervello è la cosa più complicata al mondo, abbiamo tanti neuroni nel nostro piccolo cervello da 1300 gr quante sono le stelle in una galassia (centinaia di miliardi), ognuno dei quali è connesso con altri migliaia di neuroni, ognuno dei quali scarica un migliaio di volte al secondo. E per raggiungere il posto in cui si trovano, vanno incontro ad una strana coreografia e ad una migrazione cellulare molto complicata, e sapersi connettere al giusto posto è un sistema meravigliosamente molto complesso. Stiamo gradualmente comprendendo come funzionano i neuroni, ma non abbiamo ancora trovato alcun modo per ottenere dei test biologici per i disturbi psichiatrici…siamo molto lontani dal riuscirci. È molto difficile con il cancro al seno! Venti anni fa abbiamo scoperto i geni coinvolti nel cancro al seno, eppure ancora capiamo molto poco del tumore al seno ed il seno è l’organo più semplice del corpo umano; il cervello è la cosa più complicata dell’intero universo. Ci vorrà molto tempo prima di poter comprendere biologicamente i disturbi mentali. Non esiste una sola schizofrenia, ma esistono centinaia e centinaia di cause per la schizofrenia. Non dovremmo attenderci una rivoluzione biologica nella diagnosi psichiatrica prima del tempo, il momento non è ancora arrivato. Quindi il DSM-5 ha fallito perché si è posto un’ambizione ridicola.
L’ambizione di un sistema dimensionale era utile. I numeri funzionano meglio dei nomi nel descrivere le cose, ogni qual volta si è in grado di fornire dei numeri. Ma il cervello non funziona in questo modo: i computer pensano con i numeri, ma il nostro cervello pensa con le parole. Quella che indosso è una maglietta blu…questa è sicuramente una descrizione molto vaga della maglietta, ma raggiunge il suo scopo. Se tu stessi conducendo un esperimento di fisica, ti interesserebbe sapere la lunghezza d’onda del colore della maglietta e certamente sarebbe molto più accurato. Il problema è che è molto più difficile pensare in lunghezze d’onda, la mente non lo fa! I clinici non pensano per numeri, ma per nomi (gli psicologi forse usano più i numeri rispetto agli psichiatri…).
Il DSM-5 ha cercato di sviluppare un sistema diagnostico dimensionale, soprattutto per quanto riguarda i disturbi di personalità, e questa è davvero una bella idea. Una delle prime cose che scrissi fu proprio sulla diagnosi dimensionale vs categoriale dei disturbi di personalità. Vent’anni fa scrissi un articolo intitolato Dimensional Diagnosis for Personality Disorder – Not Whether But When. L’approccio dimensionale è chiaramente superiore perché i disturbi di personalità si fondono impercettibilmente con la normalità, con i disturbi di Asse I, con le condizioni di stress situazionale… Non hanno dei confini chiari e in questo caso i numeri sono una soluzione migliore rispetto ai nomi perché le etichette implicano l’assenza di sfumature (o è bianco o è nero), mentre le dimensioni permettono di descrivere anche le sfumature di grigio. Il problema è che il DSM-5 ha sviluppato un sistema di diagnosi talmente complicato che nessuno, a parte le persone che vi hanno lavorato sopra, sarebbe stato in grado di capirlo; un sistema che non è stato mai testato, così fatto male che alla fine all’ultimo minuto è stato escluso dalla nomenclatura ufficiale, tant’è che il DSM-5 è rimasto esattamente uguale al DSM-IV per quanto riguarda i disturbi di personalità. Sarebbe stato meglio avere un sistema dimensionale molto semplice da introdurre gradualmente, permettendo alle persone di prendervi confidenza, anziché cercare di introdurre qualcosa di così rivoluzionario che alla fine si è dovuto accantonare.
I due punti di cui abbiamo parlato non procurano comunque alcun danno. Il fatto che non ci siano test biologici nel DSM-5 ce lo aspettavamo. Il fatto che la valutazione dimensionale non sia stata inclusa non determinerà la morte di nessun paziente. Ma il terzo tentativo di creare una modifica di paradigma credo crei dei danni: sto parlando del tentativo di introdurre una sorta di psichiatria preventiva. Siamo afflitti? Allora abbiamo un “Disturbo Depressivo Maggiore”. Abbiamo preoccupazioni per la salute fisica? Questo diventa “Disturbo Da Sintomo Somatico”. I miei problemi nel ricordare le cose ora che ho 71 anni? Questo diventa “Disturbo Cognitivo Minore”. La mia tendenza a mangiare tutti questi biscotti e qualsiasi cosa ci sia su questo tavolo diventa “Disturbo da Abbuffata Compulsiva”, i miei nipoti capricciosi soffrono di “Disturbo del Temperamento Irregolare”. Le definizioni dei disturbi sono state rese più lasse rendendo più facile per le persone normali essere mal etichettate. L’idea era di seguire le orme della medicina. In medicina negli ultimi 30 anni c’è stato il desiderio di diagnosticare in anticipo e di conseguenza trattare in anticipo: se riesci a prendere in anticipo il problema è meglio che prenderlo una volta che si è sviluppato; sarebbe più semplice prevenire che curare. Questa è una grande idea sulla carta, ma una terribile idea in pratica e troviamo sempre più in medicina una rivoluzione contro gli interventi precoci che sono risultati molto spesso più dannosi che di aiuto. Dieci associazioni professionali mediche hanno fatto partire una campagna di «Scelta oculata» cercando di identificare quei test e quei trattamenti che sono eccessivi. Il British Medical Journal si sta fortemente impegnando a correggere la tendenza dei giornali a pubblicare sempre risultati positivi che incoraggiano sempre più trattamenti focalizzandosi sulla sovra-diagnosi e sul sovra-trattamento in generale in medicina. La psichiatria con il DSM-5 ha imboccato la via della prevenzione proprio quando il resto della medicina si è accorta che tale via è stata ampiamente sopravvalutata. Molto spesso la prevenzione è più dannosa che d’aiuto. Per esempio, i test per lo screening del cancro alla prostata oggi sono sconsigliati a meno che non ci siano fattori di rischio particolari; questo perché il trattamento per il cancro alla prostata è peggiore del cancro stesso.
A proposito di cambiamenti di paradigma, come ha affermato in precedenza, riguardo i disturbi di personalità sembrava dovesse esserci una grande rivoluzione che ha scatenato molte polemiche riguardo il passaggio da un sistema categoriale ad uno dimensionale e riguardo i disturbi da mantenere. Alla fine, però, come ha detto anche Lei, nulla è cambiato perché nel DSM-5 leggiamo: “I criteri per i Disturbi di Personalità nella Sezione II del DSM-5 non sono cambiati rispetto a quelli del DSM-IV. È stato sviluppato un approccio alternativo per la diagnosi dei Disturbi di Personalità per studi futuri”, quindi per la ricerca. Secondo lei questo è un bene o un male per la psicologia clinica e per la psichiatria?
È stata un’opportunità mancata, hanno finito col dare un nome sbagliato alla dimensionalità. Se fosse stato introdotto nel DSM-5 un sistema semplice di dimensionalità, questo sarebbe stato un passo avanti nell’insegnare ai clinici ed ai pazienti a pensare in termini di sfumature di grigio, non solo in termini bianco o nero. Purtroppo è stata un’opportunità mancata e la cosa peggiore è che probabilmente scoraggerà le persone in futuro dall’includere le dimensioni nel sistema, che è il modo migliore per descrivere le persone; perché non abbiamo confini definiti per distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è, e le sfumature possono fornire una descrizione migliore.
Non è né un sistema scientifico né solo un sistema politico. È un sistema clinico. La psichiatria descrittiva non è il modo migliore per descrivere le persone, sarebbe molto meglio avere una comprensione base delle forze biologiche, psicologiche e sociali che concorrono a creare la malattia mentale, ma non l’abbiamo. A questo punto noi facciamo una cosa molto semplice: prendiamo una descrizione molto superficiale di una persona e creiamo delle categorie. Questo perché è ciò che di meglio abbiamo, non è fantastico, ma è ciò che di meglio abbiamo. Avere un sistema descrittivo categoriale permette valutazioni affidabili tra clinici differenti e facilita la comunicazione. Tutto ciò è limitativo, ma valido. Non mi fiderei di qualcuno che crede esclusivamente nelle diagnosi del DSM e non cerca di comprendere qualcosa in più della persona, del contesto sociale; focalizzarsi solamente sui criteri è un lavoro assolutamente incompleto per comprendere l’essere umano. Ippocrate ha detto: “è molto più importante conoscere il paziente che ha la malattia che non la malattia che ha il paziente”. Abbiamo bisogno di capire i nostri pazienti, non semplicemente categorizzarli nel DSM. D’altra parte non credo mi fiderei nemmeno di chi non conosce il DSM. Capire le cose che le persone hanno in comune quando facciamo una valutazione è importante tanto quanto capire cosa li rende unici e speciali in quanto individui singoli. La diagnosi attraverso il DSM è il primo step in un processo di valutazione, uno step importante, ma non l’unico.
Sempre in riferimento ai Disturbi di Personalità, il Prof. Kernberg denunciava che la stesura del DSM-5 ha fortemente risentito della diatriba tra la psicologia clinica e la psicologia sperimentale e della tendenza odierna a sposare una visione neurobiologica radicale fortemente influenzata dall’industria farmacologica, alla ricerca di caratteristiche che permettano il trattamento dei sintomi con psicofarmaci. Cosa ne pensa? Si sta tentando una medicalizzazione anche dei Disturbi di Personalità?
Credo che il modello migliore sia il modello biopsicosociale che riconosce che il cervello è importante, soprattutto nei casi di malattie gravi, che i fattori psicologici hanno una forte influenza sullo sviluppo del disturbo e sul trattamento, così come il ruolo del contesto sociale. La NIH (National Institute Of Health in USA) ha criticato il DSM perché non è abbastanza biologico e voleva che si passasse ad un paradigma strettamente biologico per i disturbi psichiatrici. Che idea stupida! L’American Psychological Association e la British Psychological Society hanno suggerito che il modello biologico venisse abbandonato assieme alla diagnosi psichiatrica, e che ci si focalizzasse sui fattori psicosociali. Se ciò può avere un senso per alcuni modelli, non ha assolutamente senso per i disturbi gravi che hanno una forte componente biologica. Tutti vogliono cambiare paradigma, ma il paradigma biopsicosociale, per quanto incompleto, è il migliore che abbiamo. Credo che il problema degli USA sia che gli psichiatri si muovono verso un modello più biomedico, gli psicologi tendono a muoversi più verso un paradigma psicosociale. Entrambi sono errati ed incompleti, i tre aspetti devono essere uniti tra loro per poter realmente capire i pazienti.
Credo che l’idea che l’industria farmaceutica influenzi il DSM sia sbagliata. Le case farmaceutiche, nella mia esperienza, non lo hanno mai influenzato. Gli esperti invece hanno dei conflitti di interesse intellettuali, ma non credo che abbiano dei conflitti di interesse finanziari. Le persone che lavorano alla stesura del DSM portano dei suggerimenti che io ritengo essere pericolosi: ogni esperto ritiene che la propria area di competenza sia la più importante e vuole espanderla. Le case farmaceutiche stanno già sfruttando a proprio vantaggio il DSM-5, stanno già dicendo ai medici che l’essere afflitti spesso è un Disturbo di Depressione Maggiore. Ho visto che farmaci che vengono utilizzati per curare l’ADHD sono risultati efficaci anche nel trattamento del Binge Eating Disorder ed il fatto che il Binge Eating Disorder compaia nel DSM-5 dà la possibilità alle case farmaceutiche di promuovere gli psicostimolanti, che già sono utilizzati per l’ADHD più del dovuto, anche per il Binge Eating Disorder, anche in questo caso più del dovuto.
Perciò credo che il DSM-5 possa essere facilmente mal utilizzato dalle case farmaceutiche e questo è un grave problema che porterà allo svilupparsi di nuove epidemie. Credo che la soluzione sia fermare il marketing delle case farmaceutiche che confonde i pazienti. Ma non credo che le persone che lavorano per il DSM siano influenzate dalle case farmaceutiche.
Se fosse stato Lei a capo della task force del DSM-5, quali modifiche avrebbe apportato al DSM IV?
Articolo consigliato: recensione di: Primo, non curare chi è normale.
Credo che il problema più grande in questo momento sia che il sistema è stato abusato. Sarebbe bello avere dei grandi warning box per quelle diagnosi di cui i clinici hanno abusato ampiamente con la conseguenza di eccessivi trattamenti. Penso al Disturbo Bipolare Infantile che il DSM-IV aveva rifiutato, ma che sotto la spinta delle case farmaceutiche è diventato 40 volte più comune. Io proporrei di prendere il DSM e guardare disturbo per disturbo quali sono le diagnosi più abusate, segnalare di fare attenzione indicando quali sono i criteri per un’appropriata diagnosi nel tentativo di sopprimere l’inflazione diagnostica. Credo che il problema più grosso che emerse nel DSM-III fu Il Disturbo Depressivo Maggiore: per come è descritto nel DSM, spesso non è maggiore, spesso non è depressivo, spesso non è un disturbo. Questo perché nel DSM-III erano legate insieme le forme di depressione più lieve e le forme più gravi di melanconia e depressione delirante che hanno una forte componente biologica. Queste furono messe insieme nella stessa categoria e le differenze all’interno della categoria espresse da sottotipi: sottotipo melanconico, sottotipo delirante… e dalla gravità. Ma le case farmaceutiche hanno trattato i singoli disturbi come se fossero un unico disturbo ed era facile riconoscersi nel Disturbo Depressivo Maggiore: tristezza, perdita di interesse, perdita di appetito, perdita di energia, insonnia per almeno due settimane. Facile riconoscersi! Le persone che soffrono di depressione stagionale non dovrebbero essere inserite nella stessa categoria dei pazienti che soffrono di grave depressione delirante o di melanconia. Io avrei cercato di separarle, togliendo la possibilità alle case farmaceutiche di dire che è tutto una questione di equilibrio chimico. L’11% della popolazione adulta fa uso di antidepressivi, il 25% ne ha fatto uso. La depressione è ampiamente sovra-diagnosticata nelle forme più lievi e sovra-trattata, in parte a causa dei difetti del DSM. E allo stesso un tempo un terzo delle persone che soffrono di grave depressione non è giunto all’attenzione del sistema sanitario nell’anno precedente. Io avrei focalizzato il sistema diagnostico sui disturbi più severi, che spesso vengono mancati, dando minore attenzione alle manifestazioni più lievi che fanno alla fine parte della vita di ogni giorno e vengono invece ingigantite.
Il grande pericolo che il DSM-5 porta con sé è l’iperinflazione diagnostica. Nel suo libro rimarca più volte il ruolo giocato dalle case farmaceutiche. Non ritiene che mettersi contro i colossi farmaceutici sia una lotta contro i mulini a vento?
È la battaglia di Davide contro Golia, ma alla fine Davide ha vinto! Davide ha recentemente vinto la battaglia contro le compagnie del tabacco, una battaglia molto simile a quella contro le case farmaceutiche. Se si togliesse alle case farmaceutiche la possibilità di fare pubblicità e marketing nel modo in cui lo fanno, si darebbe un grosso taglio al loro potere e alle loro vendite. Stanno già abbandonando la psichiatria, gli sforzi per la ricerca ridotti di molto, perché non è facile trovare nuovi farmaci: non abbiamo veramente più avuto nuovi farmaci efficaci negli ultimi 60 anni. I primi farmaci non sono stati sviluppati dalle case farmaceutiche, ma scoperti per caso: un chirurgo francese diede della Torazina ai propri pazienti per evitare che vomitassero durante l’operazione e osservò che si calmavano, così la suggerì a suo cognato come potenziale tranquillante e nacque l’uso odierno della Torazina. Il litio aveva un effetto calmante sugli animali da laboratorio. Gli antidepressivi cominciarono a diffondersi perché, usati per trattare la tubercolosi, tiravano su i pazienti. I primi farmaci sono comparsi 65 anni fa e da allora non ne sono stati sviluppati altri che siano effettivamente più efficaci. Io credo che le compagnie farmaceutiche abbiano fatto una grande fortuna con gli psicofarmaci e ora abbiano realizzato che non ci sia nient’altro da sviluppare.
Non dobbiamo aspettarci dei miracoli, non credo che ci saranno nei nuovi farmaci miracolosi nei prossimi 20 anni per trattare disturbi biologici mentali. Abbiamo già dei farmaci e delle psicoterapie estremamente efficaci che devono solo essere applicate in maniera appropriata. Dobbiamo identificare il miglior trattamento per il paziente che abbiamo di fronte, assicurandoci di considerare gli aspetti biologici, psicologici e sociali, e dobbiamo smetterla di attribuire etichette errate alle persone normali fornendo loro trattamenti che fanno più male che bene.
Nel suo libro attacca non solo le case farmaceutiche, ma critica anche l’APA e la gestione della stesura del DSM-5. Ci sono state reazioni dall’altra parte? Quali critiche o risposte ha ricevuto?
Che cosa divertente…avevo degli amici che lavoravano al DSM-5 e ne ho perso qualcuno che non ha apprezzato le mie critiche! Quasi tutte le persone con cui ho parlato di ciò hanno riconosciuto che tutto ciò è ovvio, le uniche persone che non se ne sono rese conto e che non sono riuscito a convincere sono gli esperti che hanno lavorato sul DSM-5. Quando sei un esperto non realizzi quanto le tue idee potranno essere utilizzate impropriamente nel mondo reale. Spesso mi hanno risposto che stavano solo facendo scienza, che sapevano che le loro idee sarebbero state di aiuto a chi le avrebbe utilizzate nel modo corretto, e che se fossero state usate in malo modo quello non era un problema loro, ma di educazione. Io non la vedo così: questo manuale ha fin troppa influenza nell’aiutare le persone a curare le malattie mentali ed è molto importante fare in modo di proteggerlo dalla possibilità che ne venga fatto un cattivo uso. Se la vita delle persone viene danneggiata da un’errata medicalizzazione, questo è molto più importante dell’ambizione mancata di un ricercatore di vedere inserita una nuova diagnosi nel manuale. Il mio j’accuse è che l’American Psychiatry Association è stata fin troppo insensibile ai rischi di ciò che stava facendo; si stava focalizzando solo sui possibili benefici e per come funziona il mondo reale il manuale farà molti più danni di quanto si creda.
Che previsioni fa per il futuro della psichiatria? È ottimista o pessimista?
Sono terribilmente ottimista. Credo che non esista nessun campo che sia più interessante della psichiatria perché è l’unico della medicina ad aver preso un approccio umanistico…si è un po’ perso, ma è ancora sostanziale l’interesse per la persona e non solo per la malattia. Credo mi affasci intellettualmente su diversi livelli: come il cervello diventa mente? Le relazioni tra cervello, contesto sociale e le nostre funzioni psicologiche è l’argomento più affascinante che esista. Credo che la psichiatria faccia il meglio quando fa ciò che sa fare meglio: trattare persone che soffrono di problemi moderati e gravi. Usciamo dal seminario e facciamo del male quanto cerchiamo di estendere i nostri confini alla normalità rendendo le problematiche quotidiane tipiche dell’esistenza umana un disturbo mentale. Credo che la psichiatria reagirà contro il fiasco del DSM-5, credo che il resto della medicina si stia già ribellando contro l’iper-diagnosi e il sovra-trattamento e anche la psichiatria si muoverà in questa direzione.
E quando facciamo ciò che sappiamo fare meglio con le persone che ne hanno bisogno, facciamo del gran bene, e ciò è tremendamente interessante dal punto di vista intellettuale e gratificante dal punto di vista personale quando aiuti qualcuno. Poche specializzazioni e poche professioni hanno la possibilità di aiutare le persone tanto quanto la psichiatria. Sono molto entusiasta per la professione, non per il DSM-5.
Grazie… Allora speriamo nel DSM-6? Ah ah… No, magari basta con i DSM!!
Come visto nella prima parte di questo articolo, è frequente che le persone che sviluppano una dipendenza da internet manifestino anche altri sintomi psicopatologici, come stati di ansia o depressione, iperattività, isolamento sociale e bassa autostima (Gundogar et al., 2012; Bernardi e Pallanti, 2009).
Similmente, è stato riscontrato che chi sviluppa una dipendenza da internet ha spesso anche dei tratti personologici distinti, come la tendenza all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).
Quello che ancora si sa poco è l’impatto che l’utilizzo del web ha in persone con una dipendenza da internet rispetto a chi non manifesta questo problema. La letteratura, infatti, assume che l’utilizzo di internet è mantenuto grazie a un sistema di rinforzi positivi, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il trovare informazioni. Se questo è vero per la maggioranza degli utenti che usano quotidianamente la rete, sembra che altri meccanismi, più legati a fattori di personalità, siano implicati al mantenimento di comportamenti problematici legati all’uso di internet; ad esempio, alcune ricerche mostrano che l’esposizione a situazioni di rischio non aumenta l’ansia in persone dipendenti dal gioco d’azzardo.
Come succede spesso in psicopatologia, è possibile che l’impatto psicologico negativo della dipendenza da internet possa in se stesso fungere da fattore di mantenimento della dipendenza stessa, andando a creare nelle persone proprio un maggiore coinvolgimento alla rete per fuggire dalle emozioni negative provocate dallo stesso web.
Uno dei primi studi originali in questo campo è stato pubblicato qualche mese fa su PLOS ONE, da un’idea di una giovane italiana, Michela Romano, che è andata a indagare se l’uso di internet influisce in maniera diversa in base a quanto tempo abitualmente le persone usano la rete. In questo senso, i partecipanti allo studio sono stati divisi in due gruppi in base a quanto l’utilizzo di internet impattasse in maniera negativa sulla loro qualità della vita oppure no. A entrambi i gruppi sono stati somministrati test per misurare i livelli di ansia e depressione e altre variabili psicologiche; dopo aver completato i test, a tutti è stato chiesto di utilizzare in maniera libera internet per 15 minuti facendo quello che preferivano; successivamente, sono stati rivalutati i sintomi ansiosi e depressivi, per vedere se l’esposizione a internet avesse avuto effetti diversi su persone con la dipendenza da internet rispetto a chi non manifestava tale problematica.
I risultati parlano chiaro: l’utilizzo di internet ha un pesante impatto negativo sull’umore nel gruppo dei “dipendenti”. In particolare, nel gruppo di chi mostra comportamenti problematici rispetto all’uso della rete, aumentano in maniera significativa i punteggi alle scale di ansia e depressione, nonché di isolamento e impulsività.
Questi dati potrebbero essere spiegati proprio in riferimento al meccanismo di mantenimento della dipendenza stessa: l’impatto immediato negativo sull’umore, infatti, potrebbe essere la molla che spinge queste persone a re-ingaggiarsi nuovamente online proprio per sfuggire a queste emozioni spiacevoli.
Mindfulness – La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.
Che cos’è la Mindfulness? È una pratica di consapevolezza e di attenzione intenzionale sul momento presente, priva da giudizi.
Consapevolezza significa stare in relazione con se stessi in ogni momento, godendo della molteplicità di sensazioni e stimoli provenienti ciò che ci circonda.
Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un crescente utilizzo di questa pratica in ambito clinico e psicoterapeutico che ha portato l’attenzione sugli effetti della pratica, che dà benefici sia nella vita di tutti i giorni sia all’interno di un contesto psicoterapeutico.
Un recente studio diretto dall’Università di Georgetown (Sudafrica) e presentato a “Neuroscience 2013”, il meeting annuale della Society for Neuroscience a San Diego, ha rivelato che le persone che praticano la Mindfulness, o Consapevolezza, siano meno propense ad apprendere implicitamente comportamenti o abitudini negativi. Cosa si intende per abitudini implicite? Ci si riferisce alle abitudini o comportamenti che le persone acquisiscono ogni giorno implicitamente, senza rendersene conto e senza consapevolezza.
Secondo Chelsea Stillman, coordinatrice della ricerca, «uno impara le abitudini, buone o cattive, implicitamente, senza pensare a esse»: lo studio in esame mira, quindi, a valutare se le differenze individuali nella capacità di essere consapevoli influenzano l’apprendimento implicito.
Il campione sperimentale è costituito da soggetti sani e casualmente suddivisi in due gruppi,i quali furono inizialmente sottoposti ad un test per valutare il loro grado caratteriale di consapevolezza. Successivamente, venne chiesto a ciascuno di completare due compiti per la misurazione dell’abilità individuale di apprendere implicitamente pattern complessi e probabilistici.
In entrambi i compiti, si presentava su uno schermo una serie di cerchi e il soggetto era chiamato a riferire la posizione di queste figure in base al colore.
I risultati evidenziano che i partecipanti segnalati con punteggi più bassi al test sulla Consapevolezza tendono ad apprendere di più e i loro tempi di reazioni sono più veloci nei compiti di individuazione degli stimoli che si presentano più spesso. Sembra quindi che la capacità di apprendere in modo implicito sia in stretta relazione con la nostra consapevolezza e più siamo distratti più apprendiamo.
La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.
A questo proposito Stillman afferma che «la Consapevolezza può aiutare a prevenire la formazione di abitudini automatiche, come avviene attraverso l’apprendimento implicito, perché una persona consapevole è a conoscenza di ciò che sta facendo».
In altre parole, la Mindfulness accresce la capacità di osservare e di essere presenti a noi stessi, ed è proprio questo che ci dà la possibilità di scegliere quali comportamenti mettere in pratica.
Report dal Workshop La Schema Therapy in Azione – Firenze 9\10 Novembre
A Firenze lo scorso week end si è tenuto il workshop Schema Therapy in Azione tenuto dal Dr. A. Arntz. Il Dr. Arntz, professore di psicologia clinica e psicopatologia sperimentale dell’Università di Maasttricht, è il ricercatore più importante per gli studi multicentrici riguardanti l’efficacia della Schema Therapy per i Disturbi di Personalità.
Due giorni di lavoro davvero molto interessanti che mi hanno permesso di tornare a casa con nuovi strumenti utili per la clinica, resi ancora più “miei” e “familiari” grazie alle frequenti simulate e esercitazioni che durante le due giornate sono sempre seguiti ai momenti di spiegazione del modello.
Partendo dai concetti fondametali della Schema Therapy, passando per i bisogni e i mode, arrivando al trattamento specifico per ogni mode, andando così a delineare un piano di intervento integrato ed efficace per il Disturbo di Personalità Borderline, il tutto supportato dai dati di alcune ricerche che il Dr. Arntz ci ha presentato.
Credo che uno dei punti a favore della Schema Therapy sia quello di aver creato una cornice integrata di presa in carico del paziente, avendo trovato un linguaggio comune per terapeuti appartenenti a scuole diverse, l’aver dato una forma e aver sistematizzato i punti di forza e di debolezza dei diversi orientamenti teorici andando a creare un modello di cura efficace, integrazione tra diversi orientamenti, terapia psicodinamica breve, terapia cognitivo comportamentale, teoria dell’attaccamento, gestalt, il tutto viene rispecchiato e confermato nella “diversistà” di orientamento dei terapeuti presenti in sala. La mattina del sabato è stata dedicata alla teoria di base del modello focalizzando l’attenzione sui tre ingredienti chiave della Schema Therapy:
Le emozioni che vengono messe in primo piano, la ST fa infatti un massicio uso di interventi esperienziali e focalizzati sulle emozioni (dialogo con le sedie, esercizi immaginativi). Lavorando con i pazienti Borderline mettere in primo piano le emozioni ha una grande importanza considerando che molto spesso sono proprio le emozioni negative e le esperienze emotive problematiche che mantengono i pattern comportamentali disfunzionali.
Le tematiche infantili, grazie alle informazioni bibliografiche è possibile validare il paziente permettendogli di capire le origini dei suoi comportamenti. Uno degli obiettivi è far capire al paziente che i suoi comportamenti disfunzionali sono il frutto di condizioni maladattive durante l’infanzia.
La relazione terapeutica, luogo in cui in paziente può lavorare sui propri problemi. Si parla di re-parenting limitato, questo implica che il terapeuta si prende cura dei bisogni dei paziente, in modo caldo ed empatico entro i limiti della relazione terapeutica. Relazione cardine in cui il paziente può sperimentare nuove abilità sociali e cambiare pattern comportamentali per la prima volta in un contesto non minaccioso.
Velocemente abbiamo passato in rassegna i 18 schemi per arrivare a collegarli con i bisogni che in infanzia sono stati a seconda dei casi soddisfatti o frustrati.
Dominio
Bisogni emotivi primari collegati
Distacco e Rifiuto
Attaccamento sicuro, accettazione, cura
Mancanza di autonomia e abilità
Autonomia, competenza, senso di identità
Mancanza di regole
Limiti realistici auto-controllo
Eccessiva attenzione ai bisogno altrui
Libera espressione di bisogni ed emozioni
Ipercontrollo e inibizione
Spontaneitò e capacità di giocare
Interessante il discorso sui bisogni in termini di Schema Therapy, in quanto si parte dal fatto che gli schemi maladattivi precoci si sviluppano quando i bisogni del bambino non sono stati soddisfatti, nel corso della terapia ci si lavora in modi differenti prima con la psicoeducazione, facendo capire ai paziente quanto i bisogni frustrati nell’infanzia siano la base per le difficoltà di oggi, poi si assume una forma di intervento più strutturato e si assegnano ai pazienti dei compiti a casa in cui diventa necessario trovare i modi per andare incontro ai propri bisogni.
Durante la terapia i modi per cambiare uno schema maladattivo insieme al paziente sono essenzialmente tre che si integrano e condizionano l’un l’altro: il fare, il pensare e il sentire: quindi il terapeuta utilizzerà tecniche cognitive, tecniche comportamentali e tecniche immaginative ed esperienziali.
Viene inserito il concetto di Mode è cioè lo stato predominante in cui si trova il soggetto includendo stati emotivi e cognitivi presenti attimo per attimo e le risposte di coping. In particolare nel paziente con disturbo di personalità Borderline gli schemi attivati sono moltissimi e spesso i pazienti oscillano da un mode all’altro continuamente, per lavorare con loro dobbiamo saper distinguere bene un mode dall’altro, sapere quali sono i trigger per il nostro paziente e soprattutto quale tecnica utilizzare per quello specifico mode.
In linea generale i mode più frequenti dei pazienti con disturbo Borderline di personalità sono protettore distaccato, genitore puntivo, bambino arrabbiato e impulsivo, bambino abbandonato, bambino abusato.Ciò che nella clinica contraddistingue un mode dall’altro momento per momento è il tono affettivo del paziente, la sua storia di vita, come il paziente si comporta in quel momento nella relazione terapeutica, gli esercizi immaginitivi. Diventa importante per il terapeuta avere un modello dei mode del proprio paziente avere chiaro dove ogni mode è nato, a cosa è servito, cosa porta di disfunzionale nella vita del paziente, a quale bisogno frustrato è legato e e a quale sintomo di oggi corrisponde.
Durante il workshop abbiamo visto in dettaglio quali sono le caratteristiche principali dei mode prevalenti nei pazienti con distrubo Borderline e quali strumenti e tecniche specifiche utilizzare in terapia. Sicuramente è stato molto utile avere la possibilità mode per mode di sperimentarsi sia come terapeuta che come paziente provando la potenza degli esercizi immaginativi, e la vicinanza che si crea nella relazione. In sintesi riporto per ogni mode la sua funzione e le tecniche da utilizzare in terapia lasciando alla lettura del libro di Arntz, Schema Therapy in Azione (2013, ISC editore) spazio per maggiori approfondimenti. Protettore distaccato: la sua funzione è quella di tagliare via i bisogni e le emozioni della persona, da un lato quindi protegge da emozioni troppo dolorose e forti dall’altro rende sordi verso i propri bisogni. Molto spesso i pazienti Borderline si trovano in questo mode quando vengono in terapia, ed è quindi necessario trovare il modo per aggirare il protettore distaccato per dare alla terapia stessa la possibilità di essere efficace. I sintomi che più frequentemente si correlano con questo mode sono: senso di vuoto, abbuffate, automutilazione, sintomi psicosomatici, dissociazione. In terapia il modo per aggirare il protettore distaccato va dal comprenderne e spiegarne lo sviluppo in età infantile, validando quindi il ruolo adattivo che ha avuto, a valutare il pro e il contro di distaccarsi dal presente, ai dialoghi con le sedie, agli esercizi immaginativi. Bambino abbandonato: quando questo mode è attivo il soggetto si sente impotente e disperato di ottenere il soddisfacimento dei bisogni o di trovare protezione. I sintomi più frequentemente collegati sono depressione, l’essere senza speranza, l’essere spaventato, sentirsi senza valore. Spesso le persone in questo mode fanno immensi sforzi per evitare di essere abbandonati e hanno una visione idealizzata delle loro figure di cura. In terapia si lavora con le tecniche immaginative, il role playing, il confronto empatico, imagery rescripting. Genitore punitivo: la funzione di questo mode è di punire il bambino per avere espresso bisogni e sentimenti o commesso errori. Ad oggi questo mode si manifesta con un senso di rabbia rivolta a se stesso, automutilazione, atteggiamento autocritico, abnegazione. In terapia compito del terapeuta è lavorare con il paziente sui bisogni e sentimenti universali. Dare un nuovo significato al rifiuto sperimentato durante l’infanzia, evidenziare i successi e le qualità del paziente, combattere il genitore punitivo attravero esercizi immaginativi e grazie alla tecnica delle due sedie. Bambino arrabbiato: molto spesso sotto questo mode si nasconde il mode del bambino abbandonato, quindi è necessario in terapia poter far ventilare tutta la rabbia per poter arrivare al bambino abbandonato e rispondere ai suoi bisogni di accudimento e vicinanza. I pazienti con Disturbo di Personalità Borderline si trovano spesso in questo mode, agiscono impulsivamente per ottenere il soddisfacimento dei loro bisogni, e esprimono in maniera non adeguata i propri bisogni e le proprie emozioni. In terapia è necessario affrontare questo mode dando al paziente la possibilità di sfogare tutta la sua rabbia, dandogli dei limiti realistici. Occorre mostrare empatia per gli schemi sottostanti, far vedere al paziente quanta tristezza c’è dietro quella rabbia, aiutare il paziente a esprimere in modo più assertivo le proprie emozioni. Adulto sano: nei pazienti con disturbo Borderline questo mode ad inizio terapia è poco sviluppato, obiettivo della terapia è andarlo a rafforzare attravverso tecniche comportamentali, dialogo con le sedie, imagery rescription, insegnamento di atteggiamenti sani. La funzione del mode adulto sano è quella di accudire e proteggere il bambino vulnerabile, stabilire limiti al bambino arrabbiato e combattere il genitore punitvo. In sintesi il razionale del trattamento con i pazienti con disturbo Borderline di personalità è:
Rassicurare e pian piano sostituire il Protettore distaccato;
Mostrare empatia pr il bambino abbandonato, elaborare i traumi e aiutare il bambino abbandonato a ricevere amore;
Combattere il genitore punitivo;
Dare dei limiti realistici al bambino arrabbiato affinchè possa esprimere emozioni e bisogni in maniera appropriata. Rendere il paziente consapevole dei diritti fondamentali dei bambini;
Aiutare i pazienti a incorporare il mode adulto sano, ispirandosi al terapeuta raggiungendo passo dopo passo l’autonomia.
Nella società italiana attuale, con la progressiva diminuzione delle nascite, i figli unici non sono più un’eccezione e costituiscono un elemento che accomuna molti sistemi familiari.
Il figlio unico beneficia di molteplici cure ed attenzioni da parte dei genitori ed è oggetto di un massiccio investimento emotivo; se da un lato ciò può costituire un grande vantaggio, dall’altro può ostacolare il raggiungimento dell’autonomia, condizionando negativamente il processo di emancipazione dalla famiglia di origine.
Nell’ambito di una analisi condotta su 34 figli unici, appartenenti ad una fascia d’età compresa tra i 28 e i 35 anni, Giusti e Manucci (2000) rilevano che solo 15 di essi vivono al di fuori del nucleo familiare d’origine; si può supporre che il figlio unico possa avvertire maggiori difficoltà nel processo di emancipazione dalla famiglia.
Nel caso in cui i genitori vivano l’acquisizione di autonomia da parte del figlio come una minaccia quest’ultimo può incontrare molta difficoltà nel ricercare l’indipendenza necessaria all’elaborazione di un’identità adulta. Tali dinamiche, osservabili in tutte le famiglie, rischiano di amplificarsi nelle famiglie con un unico figlio.
Come è possibile ovviare a questa difficoltà? Unendo le loro forze, i genitori dovrebbero essere in grado di accompagnare serenamente il figlio verso la conquista della propria autonomia, rispettandone il naturale bisogno di prendere le distanze dal nucleo familiare d’origine e di sperimentarsi come persona distinta, ritagliandosi progressivamente i propri spazi di autonomia.
In questo processo è importante evitare di “colludere con le spinte regressive” messe in atto dal figlio unico nel momento in cui, com’è normale in qualsiasi processo di crescita e di cambiamento, vi siano fasi di scoraggiamento che inducono ad attuare un passo indietro verso la sicurezza invece che “in avanti, verso l’incertezza dell’estraneità e della crescita” (Giusti, Manucci, 2000, 35).
Secondo alcune ricerche i figli unici sarebbero più cooperativi e meno competitivi, in quanto cresciuti al di fuori delle gelosie e dei litigi inerenti alla rivalità fraterna; la mancanza di fratelli può, tuttavia, generare paura nel confronto con gli altri.
I figli unici tendono a idealizzare il rapporto fraterno del quale non hanno esperienza e ad averne un’idea astratta e utopistica, ignorando la rivalità e i contrasti dovuti alle differenze di temperamento e di carattere tra fratelli (Giusti, Manucci, 2000).
Per evitare che il figlio unico senta la mancanza di fratelli i genitori dovrebbero fare in modo che egli approfondisca, sin dall’infanzia, i rapporti con altri bambini della sua età: gli amici rappresentano i “sostituti di fratelli”, grazie ai quali si può sperimentare il sentimento di fratellanza che manca all’interno della famiglia d’origine strutturando relazioni paritarie, differenti da quelle asimmetriche con i propri genitori (Giusti, Manucci, 2000).
I figli unici beneficiano di un rapporto esclusivo con i genitori, cosa che consente di godere di molteplici attenzioni e di un clima stimolante sul piano affettivo ed intellettuale; tali fattori sembrerebbero correlati allo sviluppo di una elevata motivazione al successo e di una buona intelligenza (Giusti, Manucci, 2000).
La presenza genitoriale, può, però, diventare “eccessiva” se il genitore orienta tutte le aspettative sull’unico figlio che ha e non tollera i suoi insuccessi, creando un terreno fertile per l’emergere di sentimenti di insicurezza: il figlio rischia di diventare estremamente esigente con se stesso e di cercare di compiacere i genitori senza riuscire a riconoscere ed esprimere i propri desideri e inclinazioni.
I figli unici possono, inoltre, correre il rischio di andare incontro ad un precoce processo di “adultizzazione”, che li fa apparire più maturi, sul piano cognitivo, rispetto alla propria età anagrafica; i genitori possono caricarli di eccessive responsabilità, impedendo loro di vivere le esperienze inerenti alla loro fascia d’età (Giusti, Manucci, 2000).
È necessario, quindi, che i genitori evitino, sin dall’infanzia, di favorire sia che il soggetto diventi precocemente adulto, aderendo passivamente alle aspettative genitoriali, ma anche che resti sempre piccolo, timoroso di confrontarsi col mondo esterno al nucleo familiare (Galimberti, 1999)
Bisogna sottolineare, infatti, come l’eccesso di premure ed attenzioni possa nuocere al figlio; a questo proposito Montuschi afferma che “la misura è dunque il vero problema dell’educazione […] ogni virtù in eccesso assume le connotazioni del vizio: basti pensare agli effetti del troppo amore, della troppa razionalità” (Montuschi, 2004, 142).
D’altra parte, bisogna considerare che i figli unici di genitori non troppo protettivi nei loro confronti possono, al contrario, godere di un rapporto esclusivo che permette loro di sviluppare un senso di sicurezza e di stabilità, una “base sicura” da cui partire all’esplorazione del mondo.
In sintesi, lo status di “figlio unico” non rappresenta un dato negativo o positivo di per sé, ma una condizione contraddistinta da specifiche caratteristiche, che vanno conosciute e valorizzate per favorire, nel figlio unico allo stesso modo di un figlio che cresce attorniato da fratelli, un naturale processo di crescita e di raggiungimento dell’autonomia.
101 lasciamenti: m’ama o non m’ama, m’ama o non m’ama… lo lascio o non lo lascio, lo lascio o non lo lascio? Lascio!?! Se due persone si lasciano, spesso tendono a dare la colpa alla poca comprensione, alla poca reciprocità, progettualità, come mai a nessuno viene mai in mente che possono non amarsi più?
Ti lascio perché non ti amo più! Epilogo di una storia ormai deflagrata.
Capita nella vita di dover decidere di liberarsi di una zavorra, che si porta dietro per inerzia. In fondo, lasciare qualcuno è una cosa naturale, tutto prima o poi finisce, si sgretola. Non è detto che lasciare significhi soffrire, spesse volte si tratta di un atto liberatorio, “l’atto finale e risolutivo di un doloroso percorso di sofferenza e di sopportazione che non può avere nessun’altra soluzione“. Cominciare a respirare aria pura! Perché continuare a farsi del male o a contraccambiare piccoli biechi dispettucci quotidiani quando esiste una soluzione più diretta e immediata? Lo sapevate che potevate liberarvi dell’altro come se si schiacciasse il tasto eject di un vecchio e obsoleto videoregitratore, ormai demodé? Esattamente come il rapporto col vostro partner.
Relazioni logore e stantie col tempo possono creare infiniti disagi a chi si trova incastrato in una scatola ormai troppo stretta e, dunque, la soluzione ovvia, per quanto dolorosa e sofferta possa essere si trova nel “lasciamento“.
Sì, si tratta di un neologismo, parola non presente nel vocabolario della lingua italiana, ma creato per “indicare una piccola sceneggiatura per lasciare il vostro lui o la vostra lei senza spargimento di sangue, ma con tutta la foga covata per anni negli alambicchi della mente, e di colpo lasciata libera di spruzzare velenosamente verso il cielo“.
Nel libro “101 lasciamenti” scritto da Eugenio Alberti Schatz, edito da Blonk editore in versione ebook è possibile trovare 101 modi per potersi liberare definitivamente dell’altro. 101 lasciamenti alla carica, come piccole schegge di saggezza maligna scritte per consigliare e stuzzicare l’arguzia nella messa in atto della volontà di lasciare il vostro partner.
Piccoli momenti di vita comune, mia (caspita ho letto ben tre situazioni a me familiari!),vostri, che trovano libero sfogo, conclusivo e finale.
Immagini, momenti, frammenti di pensieri che tutti anelano, ma che non sempre hanno un seguito. Invece, se si avesse il coraggio di ascoltare il nostro mood si potrebbe concludere in una piccola vendetta che metterebbe fine a tutte le nostre sofferenze.
La vita di coppia è costellata da continui “lasciamenti e riprendimenti, di piccoli tradimenti e di grandi sanatorie“, si tratta di un equilibrio sottile in cui nessuno dovrebbe prendere il sopravvento, perché se questo accadesse? Allora, la fine è progettata accuratamente da parte di uno dei due membri della coppia.
“Ma perchè mi lasci? Pensavo fossimo felici“.
“Sì, ma poi ho letto il libro dei lasciamenti e ho capito che una via d’uscita c’è sempre. Per tutti. E quindi anche per me“.
Gli studiosi hanno scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due.
Il processo di dare e ricevere brutte notizie è una faccenda complicata per la maggior parte di noi. Un nuovo articolo pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin ha analizzato scientificamente il fenomeno comunicativo e psicologico nel tentativo di superare le ricette e aneddoti popolari su quel che è meglio.
Gli studiosi hanno infatti scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due.
E, secondo l’ottica del ricevente sarebbe preferibile e meno ansiogeno ricevere la brutta notizia chiaramente ed esplicitamente, evitando di alternare nella comunicazione frammenti di buone e cattive notizie che lascerebbero l’interlocutore confuso. Attenzione però, il pattern dare prima la brutta e poi la bella notizia è meno efficace se l’obiettivo dell’interazione è quello di modificare un comportamento: in tal caso dallo studio emerge che sarebbe più efficace comunicare prima la bella e subito dopo la brutta notizia.
Nell’ambito di queste interazioni si respira dunque una tensione tra due poli, da una parte chi deve dare la brutta notizia – tendenzialmente portato a posticipare l’esperienza spiacevole di comunicare una notizia negativa, dall’altra chi si trova a ricevere una brutta notizia, teso a un decremento dell’ansia in funzione della diminuzione di un’incertezza. A meno che non siate dei grandi “mentalizzatori” della mente dell’altro, a quel punto forse sarete più portati a dire prima la brutta notizia.
L’universale desiderio umano di comprendere meglio se stessi viene appagato dai più svariati test di personalità in circolazione. Non importa quanto essi siano autorevoli, non sappiamo resistere alla tentazione di barrare le crocette per scoprire se siamo mamme degne dell’ammirazione di Tata Lucia, amanti che non si lascerebbero intimorire da Rocco Siffredi o mogli più devote di Wilma Flintstone.
Anche State of Mind ti invita a partecipare ad un breve anzi brevissimo test di personalità. Sarà sufficiente rispondere alla seguente domanda e proseguire nella lettura per sapere quali caratteristiche di personalità ti definiscono: “ti identifichi di più in un cane o in un gatto?”
Se hai scelto “cane” probabilmente sei una persona estroversa, simpatica e coscienziosa.
Se invece sei un “gatto” sei dotato in misura minore di queste qualità ma hai dalla tua una maggiore apertura alle nuove esperienze anche se tendi ad essere un po’ più nevrotico.
L’autorevolezza di tali conclusioni deriva in questo caso da un curioso studio del 2010 condotto in Texas che ha portato alla luce un differente profilo di personalità tra coloro i quali si identificano in un gatto e coloro i quali si sentono maggiormente a loro agio all’idea di fare “bau”.
I ricercatori hanno inviato un questionario online a cui circa 4.500 internauti hanno risposto. Gli studiosi, dopo aver analizzato attentamente le scelte dei partecipanti, hanno suddiviso le caratteristiche personali nelle 5 grandi dimensioni di personalità: estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale.
Tale scelta teorica, nota come Modello Big Five, ha le sue radici nel lontano 1930 quando è stata formulata una teoria per la descrizione della personalità che prende il nome di Lexical Hypothesis. Gli studiosi pensarono di poter trovare i tratti che definiscono la personalità tracciando e analizzando la lista di aggettivi presenti nel dizionario nella convinzione che il vocabolario naturale contenesse le parole necessarie e sufficienti a descrivere la personalità. Trovarono però un numero vertiginoso di aggettivi (ben 18000) ma riscontrando che alcuni di essi si presentavano spesso in combinazione, suddivisero la lista in 5 categorie principali.
Ognuno di questi Big Five è rappresentato da un continuum tra due estremi, ad esempio introversione-estroversione. Molte persone si collocano da qualche parte nel mezzo di questo continuum e possono avere caratteristiche comuni a entrambi i lati, anche se un polo di solito prevale significativamente sull’altro.
Se vi siete identificati nel gatto siete al di là di tutto una persona fuori dal coro, come testimoniato dalla distribuzione del campione della ricerca.
Il 45% degli intervistati texani si è infatti identificato nel cane, il 27% in entrambi gli animali, il 15% in nessuna categoria e solo l’11% nel gatto. Il profilo di personalità dell’uomo-cane si è rivelato simile se non addiritura sovrapponibile a quello di coloro che si sono identificati in entrambi o in nessun animale per quanto riguarda gradevolezza, coscienziosità, nevroticismo e apertura mentale. Unico tratto veramente distintivo l’elevata estroversione.
Coloro i quali si sono identificati nel gatto si differenziano invece da tutti e tre gli altri gruppi rispetto a tutti i tratti di personalità, fatta eccezione per il grado di apertura mentale, simile a quello del gruppo che si è attribuito l’identità di entrambi gli animali. L’uomo-gatto si differenzia insomma in maniera più marcata dal resto della popolazione.
Ma cosa giustifica le differenze riscontrate tra uomini-cane e uomini-gatto? perchè una persona con determinate caratteristiche dovrebbe identificarsi con un animale piuttosto che con un altro?
Non esistono spiegazioni esaustive ma solo ipotesi. Si può per esempio supporre che anche in questo caso “chi si somiglia si piglia” quindi persone disponibili e solari riconoscano affinità con il cane, tipicamente affettuoso e socievole mentre persone più riservate tendano ad identificarsi con i gatti, noti invece per la loro predilizione a farsi i fatti propri.
Ma il quesito a mio parere più interessante è perchè anche questa volta abbiate ceduto alla tentazione di comprendere meglio voi stessi immaginandovi addiritura a quattro zampe.
Gosling, S. D., Sandy, C. J., & Potter, J. (2010). Personalities of Self-Identified Dog People and Cat People. Anthrozoos: A Multidisciplinary Journal of The Interactions of People & Animals, 23(3), 213-222. (DOWNLOAD)