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Le madri interrotte di L. Bulleri e A. De Marco – Recensione

Recensione del libro

Le madri interrotte

Franco Angeli

(2013)

 

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Le madri interrotte Il libro “Le madri interrotte”, scritto da Laura Bulleri (giornalista) e Antonella De Marco (psicologa psicoterapeuta), edizione Franco Angeli, è pensato per tutte quelle donne che non hanno potuto vivere appieno le legittime gioie (e le naturali paure) di una gravidanza, a causa proprio di un lutto pre-natale o perinatale

L’attesa di un figlio è una delle fasi più importanti nella vita di una donna e certamente anche di un uomo, i progetti sembrano prendere forma dal momento della scoperta di una gravidanza fino alle ultime settimane: le aspettative proiettano la coppia in un futuro fatto di tante speranze.

Si comincia a pensare al nuovo bambino, a come sarà, a cosa farà e si comincia a immaginarsi genitori, a porsi mille interrogativi e a cercare un modo per accogliere al meglio la nuova vita. Tale clima di felice attesa viene però a frantumarsi nel modo più brusco quando, purtroppo, il feto non ce la fa a sopravvivere o è gravemente malato o malformato (andando incontro quindi ad aborti spontanei o volontari), oppure quando il bambino non supera i primi giorni di vita. Tali perdite privano la coppia della dimensione genitoriale, lasciando un grande vuoto e un grande dolore, reso più acuto dai sensi di colpa. Il sostegno sociale sembra venir meno poiché vi è la diffusa illusione che a volte sia meglio non parlare e non soffrire per tale perdita e far finta che nulla sia successo.

Il libro “Le madri interrotte”, scritto da Laura Bulleri (giornalista) e Antonella De Marco (psicologa psicoterapeuta), edizione Franco Angeli, è pensato per tutte quelle donne che non hanno potuto vivere appieno le legittime gioie (e le naturali paure) di una gravidanza, a causa proprio di un lutto pre-natale o perinatale. Le autrici cercano di raccontare, dando dapprima voce ai genitori interrotti e fornendo poi una descrizione dei vari processi psicologici attivi durante un lutto pre o perinatale, cosa può accadere a una coppia devastata da un tale lutto e, soprattutto, sottolineano l’importanza di darsi del tempo per accogliere il dolore, elaborarlo e, infine, trasformarlo.

Non a caso le autrici, nella prima parte del libro, raccolgono le testimonianze di alcune madri interrotte, dividendole in due parti: la prima che comprende il racconto vero e proprio di quanto accaduto durante o dopo la gravidanza e la seconda parte, chiamata “Il dono”, che fa riferimento a come è stato possibile per queste madri elaborare il lutto e averlo trasformato, talvolta, in qualcosa di positivo per le loro vite.

Un aspetto da apprezzare notevolmente di questo libro è il non aver pensato alle conseguenze di un lutto pre o perinatale sulle sole donne, le autrici danno infatti voce anche ai padri, a come loro hanno vissuto il lutto, al crollo delle loro aspettative e al loro “dono”, in che modo hanno cioè elaborato e trasformato la perdita.

Il libro si dispiega successivamente lasciando spazio ai vari processi psicologici coinvolti in un lutto pre o perinatale. Attraverso la spiegazione di ciò che un lutto comporta si ha come l’impressione di scorgere, tra le righe, il tentativo delle autrici di accogliere il dolore di tutte le madri interrotte, descrivendo ciò che è normale provare e vivere a seguito di un lutto, nonostante a volte ci si senta incomprese e confuse da tali sentimenti.

La parte relativa ai processi psicologici tocca, senza allontanarsi dall’argomento, altre tematiche importanti della maternità e di come queste si trasformino dopo un lutto pre o perinatale: dall’attaccamento agli altri parenti, dall’importanza del supporto sociale alla necessità di risolvere nodi problematici con le famiglie d’origine, da cosa succede a una coppia colpita dal lutto alle conseguenze sulla sessualità, dall’importanza di trasformare il dolore alle psicoterapie più idonee a sostenere una madre interrotta.

Molto raramente si nota un linguaggio forse un po’ scientifico per lettori con poca dimestichezza in campo psicologico. Tuttavia l’obiettivo delle autrici di riconoscere quanto il dolore per i lutti pre o perinatali, spesso ignorato, sia importante da conoscere ed elaborare al pari di qualsiasi altro lutto o trauma, sembra essere pienamente raggiunto.

La lettura è consigliata a tutte le madri e i padri interrotti e a tutte quelle figure professionali che ruotano intorno alla coppia e alla loro sofferenza, tra cui ginecologi, ostetrici, infermieri e psicologi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale nei pazienti con disturbo ossessivo compulsivo

 

 

Tcc per pazienti DOC. - Immagine: ©-fotovika-Fotolia.comIl Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) rappresenta uno dei disturbi d’ansia maggiormente invalidanti per i pazienti che ne soffrono, con notevole impatto sul funzionamento interpersonale e lavorativo.

Le più accreditate linee guida internazionali per il trattamento del DOC indicano come trattamenti first-line sia la terapia cognitiva comportamentale (TCC), sia la terapia farmacologica con inibitori della ricaptazione della serotonina (SRI). Purtroppo nella pratica clinica accade molto spesso che i pazienti, soprattutto quelli che hanno effettuato terapia farmacologica, non abbiano una adeguata risposta clinica; in questi casi si procede con 2 strategie alternative di augmentation alla terapia con SRI: l’aggiunta di un secondo farmaco, nello specifico un antipsicotico di seconda generazione (Risperidone, Quetiapina, Aripiprazolo, etc.) oppure l’aggiunta di una terapia cognitiva comportamentale. Le 2 strategie, volte ad ottenere un miglioramento della risposta, fino ad ora, venivano considerate ugualmente efficaci, anche se nessuno studio si era mai preoccupato di metterle a confronto.

In un recente lavoro, pubblicato su JAMA Psychiatry, un gruppo di ricercatori coordinati da Helen Blair Simpson, professoressa di Psichiatria presso il Columbia University Medical College della Columbia University di New York, ha effettuato, per la prima volta, questo confronto, con risultati davvero interessanti.

Lo studio clinico randomizzato, condotto dal gruppo statunitense, ha previsto il reclutamento di 100 pazienti con diagnosi prevalente di DOC, da almeno 12 mesi, di gravità moderata (punteggio alla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale [Y-BOCS] ≥ 16), in trattamento farmacologico con un SSRI alla dose massima tollerabile, da almeno 12 settimane. I pazienti arruolati sono stati quindi suddivisi, in modo casuale, in 3 diversi gruppi che, per 8 settimane, hanno aggiunto alla terapia farmacologica:

  • TCC basata sulla Esposizione combinata con Prevenzione della Risposta (40 soggetti);
  • Risperidone, un antipsicotico di seconda generazione (40 soggetti);
  • Placebo, in forma di compresse (20 soggetti).

La TCC basata sull’Esposizione combinata con Prevenzione della Risposta prevede: a) il contatto o esposizione, graduale o prolungata, con lo stimolo o la situazione che generalmente innesca i sintomi per un intervallo di tempo maggiore di quello generalmente tollerato; b) la prevenzione della risposta ossia l’interruzione dei comportamenti generalmente messi in atto dopo il contatto con lo stimolo o la situazione, per un tempo maggiore di quello generalmente tollerato. Il gruppo che ha ricevuto il trattamento psicoterapeutico, ha effettuato complessivamente 17 sedute con frequenza bisettimanale, con 2 sedute introduttive, 15 sedute con esposizioni e homework quotidiano rappresentato da almeno 60 minuti di auto-esposizioni.

Il gruppo trattato con Risperidone ha assunto una dose progressivamente crescente del farmaco fino ad un massimo di 4 mg al giorno. Anche il gruppo che ha assunto placebo è stato trattato con compresse di forma, colore e dimensioni uguali a quelle del Risperidone, in modo tale che né i pazienti né gli sperimentatori fossero in grado di distinguere i 2 gruppi (doppio cieco).

L’outcome primario è stato misurato in termini di gravità sintomatologica attraverso l’ Y-BOCS, la scala che rapidamente è diventata il punto di riferimento per la valutazione della gravità del DOC. La Y-BOCS, valutando la gravità piuttosto che il tipo o la frequenza dei sintomi, è in grado di fornire una buona misura del loro cambiamento; inoltre, essendo una scala di etero-valutazione, consente di evitare i bias tipici delle scale di autovalutazione.

I risultati più significativi dello studio sono stati 2.

Il primo è rappresentato dal primato della TCC con Esposizione combinata e Prevenzione della Risposta rispetto al placebo e al Risperidone; la terapia cognitiva in 8 settimane è in grado di fornire outcome superiori sia in termini di riduzione della gravità dei sintomi, sia in termini di miglioramento della qualità di vita e del funzionamento generale.

Forse, ancora più sorprendente il secondo dei risultati, che ha evidenziato assenza di differenze statisticamente significative tra Placebo e Risperidone, rispetto agli outcome considerati (fig. 1).

In termini clinici lo studio evidenzia che l’80% dei pazienti trattati con terapia di esposizione e prevenzione dei rituali risponde dopo 8 settimane di trattamento (il 43% ha presentato sintomi lievi), mentre solo il 23% dei pazienti che hanno assunto Risperidone e il 15% di quelli che hanno assunto placebo hanno presentato una risposta clinica.

Questi risultati suggeriscono che la migliore strategia di trattamento nei pazienti con OCD che risponde parzialmente ai farmaci SRI è la TCC basata sulla Esposizione e Prevenzione dei Rituali, migliore in termini di efficacia, migliore in termini di accettabilità e tollerabilità.

Sebbene lo studio sottolinei l’efficacia della TCC nel DOC, non bisogna dimenticare che esistono molti pazienti non-responder, così come pazienti nei quali permangono sintomi residui in grado di limitare pesantemente la qualità di vita. In tutti i casi di risposta non adeguata è necessario prendere in considerazione la possibile e frequente comorbilità con altri disturbi, in particolare con i disturbi di personalità, che, come ampiamente dimostrato, peggiorano gli outcome del trattamenti del DOC (Thiel et al., 2013).

Per ottimizzare la terapia del DOC bisogna quindi valutare in modo approfondito la co-occorrenza di disturbi di personalità e affrontare, in parallelo all’uso coerente di tecniche CBT, aspetti di questa patologia che possono permettere di interrompere fattori di mantenimento del DOC legati a problemi di personalità, o aumentare la collaborazione terapeutica, con la ragionevole speranza di ottenere risultati migliori e stabili.

 

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DISTURBO OSSESSIVO – COMPULSIVO – OCD – DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD

FARMACI – FARMACOLOGIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

Figura 1 - Grafico outcomes

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Esercizio fisico & Creatività – L’Ispirazione? Arriva con lo Sport!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori si sono domandati se l’esercizio fisico – praticato in maniera costante- potesse promuovere due ingredienti fondamentali della creatività: il pensiero divergente e convergente. 

Chi fa esercizio fisico regolarmente beneficerebbe di un maggior pensiero creativo. Questo l’esito di una ricerca da poco pubblicata su Frontiers in Human Neuroscience.

I ricercatori si sono domandati se l’esercizio fisico – praticato in maniera costante- potesse promuovere due ingredienti fondamentali della creatività: il pensiero divergente e convergente. 

Due tipologie di soggetti sono state reclutate per lo studio: da una parte coloro che effettuavano esercizio fisico con regolarità almeno quattro volte la settimana e persone non molto attive dal punto di vista sportivo.

I soggetti sono stati sottoposti a diversi test di pensiero e creatività, tra cui per esempio enunciare tutti i possibili usi di un oggetto (ad esempio una penna) e altri compiti associativi.

Le persone facenti parti del gruppo degli “sportivi” hanno ottenuto punteggi di performance significativamente superiori rispetto a coloro che non attuavano regolare esercizio fisico. In qualche modo dunque sembra che una regolare attività fisica possa favorire la flessibilità e la creatività del pensiero.

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ATTIVITA’ FISICA PSICOLOGIA DELLO SPORT

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: intervista a Giancarlo Dimaggio

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta, Co-Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Giancarlo Dimaggio, Psichiatra e Psicoterapeuta e Co-Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

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I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Stress e Salute: l’importanza di un approccio integrato

 

 

Stress e Salute- l'importanza di un approccio integrato. -Immagine: © Schlierner - Fotolia.comLe numerose evidenze scientifiche  fanno riflettere sull’importanza di adottare un approccio integrato nella prevenzione e nel trattamento delle patologie correlate allo stress, che miri al rilevamento degli indici non solo fisici, ma anche comportamentali e psicologici  potenzialmente responsabili dell’alterazione delle condizioni di salute.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un incremento delle cause di stress e appare chiaro quanto ognuno di noi possa essere esposto ai danni fisici e psicologici che da esso derivano.

Le evidenze scientifiche dimostrano l’impatto dello stress sull’alterazione delle condizioni di salute e l’importanza di un approccio integrato (Gaston et al., 1987; King et al., 1991; Chiu et al., 2003; Rosenkranz et al., 2003; Ross, 2005; Levy et al., 2006; Drossman, 2011).

Lo stress è sempre più diffuso, tanto da essere considerato la nuova patologia del secolo.

Per stress s’intende “La risposta non specifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata ad esso e proveniente dall’ambiente”. Dalle parole di Hans Selye (1956), considerato il padre del concetto di stress, si intuisce che di per sé lo stress non ha una connotazione negativa.

Esiste una forma positiva, detta “eustress”, che allena la capacità di adattamento individuale e permette il raggiungimento di obiettivi specifici. I problemi insorgono quando l’organismo entra in una condizione di “distress”, nel momento in cui le richieste dell’ambiente superano le risorse a disposizione. Se questa situazione si protrae nel tempo, l’organismo può produrre forme di risposta patologiche e difficilmente reversibili.

Secondo l’ AISIC (Associazione Italiana contro lo Stress e l’Invecchiamento Cellulare) il 70% delle morti in Italia sarebbe causata da malattie cardiovascolari, cirrosi epatiche, tumori, broncopatie cronico-ostruttive, malattie intestinali, tutte patologie legate allo stress o a comportamenti disfunzionali dovuti alla condizione di stress.

Questi dati fanno riflettere su quanto siano onerosi i costi individuali che ciascun individuo deve sostenere in termini di visite specialistiche, farmaci, giorni lavorativi persi, e danno l’idea della complessità e della gravità del fenomeno.

Negli ultimi anni stiamo assistendo all’aumento di patologie la cui origine pare essere un disturbo del funzionamento dei sistemi interni di autoregolazione, che provoca alterazioni in tutto l’organismo. L’ipotesi è che lo stress prolungato rappresenti il motore di questo circuito a cascata. Studi longitudinali hanno indagato il ruolo dello stress sul decorso delle malattie cutanee, in particolare due studi condotti su piccolo gruppi suggeriscono una correlazione tra il livello dello stress percepito e l’andamento clinico della psoriasi (Gaston et al., 1987) e della dermatite atopica (King et al., 1991), mentre uno studio condotto su studenti universitari ha evidenziato una correlazione stress e l’andamento clinico dell’acne (Chiu et al., 2003).

Alcuni studi mettono in relazione i disturbi funzionali digestivi con esperienze stressanti precoci vissute durante l’infanzia, ad esempio la morte di un genitore, l’abuso sessuale o la presenza di una relazione disfunzionale con il caregiver: tra pazienti con tali disturbi coloro che riferiscono storie di abuso fisico e psicologico risultano maggiori rispetto ai pazienti con disturbi gastroenterologici organici senza la presenza di tali esperienze traumatiche (Drossman, 2011; Ross, 2005).

In particolare, sembra che nei pazienti con sindrome da intestino irritabile la percentuale di anamnesi positiva per abuso sessuale  raggiunga una percentuale che varia dal 30 al 56 % (Levy et al., 2006). Tuttavia, i dati non sono ancora stati confermati e necessitano di ulteriori approfondimenti.

Le malattie cardiovascolari sembrano legate a fattori psicosociali che possono influenzare il verificarsi di un’aterosclerosi o di un evento cardiaco. In particolare, le Linee Guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari (Fourth Joint of the European Society of Cardiology, 2007)  fanno riferimento al livello socio-economico basso, presenza di stress lavorativo e familiare, mancanza di supporto sociale, tendenza all’ostilità.

Infine, per quanto riguarda il sistema immunitario, uno studio condotto nell’Università del Wisconsin ha dimostrato che uno stato psicologico negativo è correlato a una peggiore risposta al vaccino antinfluenzale (Rosenkranz et al., 2003), evidenziando come l’iperattivazione delle cortecce prefrontali determini l’attivazione dell’asse dello stress, con sovrapproduzione di cortisolo e conseguente inibizione della risposta immunitaria.

Le numerose evidenze scientifiche  fanno riflettere sull’importanza di adottare un approccio integrato nella prevenzione e nel trattamento delle patologie correlate allo stress, che miri al rilevamento degli indici non solo fisici, ma anche comportamentali e psicologici  potenzialmente responsabili dell’alterazione delle condizioni di salute.

LEGGI:

STRESS ABUSI E MALTRATTAMENTI NEUROPSICOLOGIA

Lo Stress come causa dei disturbi dell’umore

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Vergogna e Memorie Autobiografiche: l’impatto su Depressione, Ansia sociale e ideazione paranoide.

Caterina Conti.

 

 

Vergogna e memorie autobiografiche. - Immagine: ©-Yael-Weiss-Fotolia.comLa vergogna ha una funzione adattiva nel normale sviluppo, con un ruolo significativo nella promozione di comportamenti socialmente accettabili.

Nonostante il significato evolutivo, quando si presenta come emozione dominante e pervasiva, può contribuire all’evolversi di quadri di sofferenza psicologica.

Esperienze precoci con i caregivers connotate da vergogna come, per esempio, situazioni caratterizzate da umiliazioni, critiche, atteggiamenti degradanti o di sottomissione, hanno un impatto significativo sullo sviluppo dell’identità e sulle rappresentazioni di sé. Diversi studi mostrano l’associazione tra vergogna e sintomi psicopatologici nell’area dei disturbi alimentari, dell’ansia sociale, della depressione e del disturbo post-traumatico da stress. Le esperienze precoci di vergogna possono infatti avere valenza traumatica e generare elevati livelli di arousal, pensieri intrusivi, evitamento.

Infine, memorie legate a situazioni che hanno generato intensa vergogna possono essere integrate come parte centrale delle memorie autobiografiche e, come ampiamente discusso nella letteratura sulle esperienze negative con i caregivers, possono condizionare lo sviluppo di strategie di regolazione emotiva.

Un recente studio (Carvalho et al., 2013) analizza il ruolo delle strategie di evitamento esperienziale nel mediare l’impatto sui sintomi depressivi delle memorie di vergogna, considerando la natura delle esperienze negative che coinvolgono i caregivers e la centralità delle esperienze di vergogna vissute durante l’infanzia e l’adolescenza.

Il concetto di centralità si riferisce alla misura in cui queste memorie divengono punto di riferimento per l’identità personale e per lo sviluppo di aspettative e significati durante le successive esperienze di vita. I risultati mostrano che individui con memorie autobiografiche legate alla vergogna centrali presentano un maggior numero di sintomi depressivi, così come un ruolo altrettanto significativo e indipendente rivestono la frequenza e la natura delle esperienze di vergogna vissute con i caregivers.

 Emerge, inoltre, una maggiore tendenza a controllare o evitare emozioni, sensazioni, pensieri, sia da parte dei soggetti che percepiscono le esperienze di vergogna come fondamentali per la propria identità e storia di vita, sia da parte di coloro che ricordano un maggior numero di esperienze di vergogna e sottomissione legate a critiche e altri comportamenti problematici dei caregivers.

Come ipotizzato dagli autori, il tentativo di evitare le esperienze interne dimostra un ruolo chiave nel determinare l’impatto delle memorie di vergogna e della loro centralità sulla psicopatologia. Ricorrere in modo pervasivo all’evitamento di situazioni che possono evocare vergogna è emerso come un importante mediatore tra memorie di vergogna e sintomi. I risultati dimostrano che l’evitamento media sia l’impatto delle esperienze di vergogna vissute con i caregivers sui sintomi depressivi, sia l’associazione tra la centralità delle memorie di vergogna e lo sviluppo di sintomi depressivi.

Nonostante il campione sia composto da 161 soggetti provenienti dalla popolazione generale, quindi una popolazione non-clinica, questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche. Aprono una riflessione sull’importanza di esplorare queste esperienze all’interno della cornice del trattamento di pazienti che presentano una sintomatologia depressiva, e mettono in luce la funzione terapeutica della riduzione dell’evitamento degli stati interni, allo scopo di favorire nel paziente una diversa relazione con le memorie di vergogna e con i correlati emotivi, sensoriali e cognitivi che le costituiscono.

Ulteriori riflessioni sulla valenza clinica di un lavoro mirato su queste memorie emergono da un altro recente studio (Matos et al., 2013) che mette in luce l’impatto della vergogna e delle memorie di esperienze di vergogna su diverse forme di paura sociale: l’ansia sociale e la paranoia.

Lo studio pone in analisi la relazione tra la vergogna, la natura traumatica e la centralità delle memorie di vergogna e ansia e paranoia, su un campione non clinico di 328 soggetti. Gli autori si propongono lo scopo di esplorare i percorsi attraverso i quali esperienze precoci negative conducono allo sviluppo di una forma di ansia focalizzata sulla rappresentazione di sé come vulnerabile di fronte ad un altro ostile, minaccioso, dominante (paranoia) o focalizzata su vissuti di inadeguatezza, difettosità, scarsa attrattiva del sé e sul pericolo del rifiuto o del giudizio dell’altro (ansia sociale).

Gli esiti del lavoro suggeriscono l’esistenza di differenti storie evolutive, diverse funzioni e processi psicologici alla base della paranoia e dell’ansia sociale, pur essendo presenti aree di sovrapposizione tra le due dimensioni.

Dai risultati emerge una maggiore correlazione tra “vergogna esterna” (termine che denota una maggiore attenzione alla mente dell’altro e a come il sé è rappresentato al suo interno) e ideazione paranoide. D’altra parte, la “vergogna interna” (focalizzata sul sé e sugli stati interni) si rivela maggiormente associata all’ansia sociale.

Un altro interessante dato mette in luce che quanto più le memorie sono traumatiche e centrali per l’identità e la storia di vita, più alta è l’associazione con la dimensione della paranoia. La caratteristica traumatica e la centralità delle memorie sembrano essere fattori predittivi della paranoia, ma non dell’ansia sociale, indipendentemente dai vissuti di vergogna attuali.

Queste evidenze contribuiscono alla comprensione dei meccanismi che interagiscono con diversa intensità nel continuum su cui si dipana il pensiero paranoide e al cui estremo patologico troviamo il delirio persecutorio. Una lettura dei risultati alla luce del recente modello proposto da Salvatore (Salvatore et al., 2012) – al quale gli autori degli studi menzionati fanno riferimento -, porta a considerare il significativo ruolo delle precoci e traumatiche esperienze di vergogna nell’evoluzione delle rappresentazioni di sé.

In pazienti proni a vergogna e ansia sociale si è strutturata la rappresentazione di un sé vulnerabile, debole, inferiore, sottomesso, privo di potere e indesiderato a fronte di un altro percepito come dominante, ostile, che può ferire, rifiutare o perseguitare. Le memorie autobiografiche di vergogna contribuiscono a gettare le basi sulle quali si radica un costante senso di minaccia, nutrito dall’alterazione della capacità di comprendere la mente degli altri in modi che permetta di tenere in disparte le attribuzioni automatiche agli altri di intenzioni ostili.

Secondo Salvatore et al. (2012) il senso basico di vulnerabilità e le significative difficoltà di comprendere la mente dell’altro comportano un iperfunzionamento del threat/self protection system e impediscono l’accesso a sentimenti di sicurezza, elevando la vulnerabilità ai sintomi paranoidi.

La riflessione sui risvolti clinici dello studio invita i clinici a focalizzarsi, in pazienti con ansia sociale, depressione legata alla vergogna, e aspetti paranoidi, sulla ricostruzione delle memorie autobiografiche di vergogna e dei loro significati. Il paziente può essere invitato a focalizzare come principale obiettivo terapeutico sull’idea che il senso di vergogna sia legato all’idea di sé vulnerabile e oggetto di derisione o aggressione. Aiutare il paziente a prendere distanza critica da questa prospettiva accedendo a memorie di sé cariche di affetti positivi, discrepanti dallo schema, può essere una strategia fruttuosa (Dimaggio et al., 2013).

 

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EVITAMENTOANSIA SOCIALEMEMORIADEPRESSIONE

 PSICOEDUCAZIONE EMOTIVA. QUANDO LA PAURA DIVENTA UNO STRESS A LUNGO TERMINE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Depressione: Riflessioni sul sé e attività cerebrale

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una ricerca condotta dalla University of Liverpool ha scoperto che le persone che fanno esperienza di episodi depressivi durante tali episodi mostrano un aumento dell’attività cerebrale nel momento in cui viene loro chiesto di pensare a sé stessi.

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale i ricercatori hanno scoperto che le persone con episodio depressivo processano differentemente l’informazione non solo nella loro mente ma anche nel loro cervello rispetto alle persone non depresse.

Ai soggetti è stato richiesto di scegliere alcuni aggettivi positivi, negativi e neutri sia per descrivere sé stessi che la Regina d’Inghilterra (una figura popolare e ben conosciuta ma distante dalla loro quotidianità).

Come ci si poteva aspettare i partecipanti con umore depresso scelsero in misura significativamente minore parole positive e un maggior numero di parole negative per descrivere sé stessi rispetto ai soggetti non depressi.

Il punto più interessante è però che a livello cerebrale durante il compito di autodescrizione di sé si è registrato un maggiore livello di attivazione nella corteccia frontale mediale superiore (area solitamente associata all’elaborazione di informazioni sul sé e sulla propria identità) nei pazienti depressi rispetto ai non depressi; tale effetto inoltre non si verifica se è in gioco la descrizione della Regina.

Lungi dal riduzionismo neurobiologico, gli autori auspicano futuri studi mirati a connettere maggiormente gli aspetti psicologici con quelli neurobiologici nella continua comprensione dei fenomeni depressivi.

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DEPRESSIONENEUROPSICOLOGIA – DEPRESSIONE MAGGIORE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il manipolatore perverso: come riconoscere un narcisista maligno

Il narcisista maligno (manipolatore perverso): l’inganno e il raggiro sono il pane quotidiano di tutti coloro che fanno della manipolazione un’arte, uno stile di vita avente come fine ultimo annientare l’altro. Si tratta di ragni che tessono bene la loro tela, in attesa della prossima vittima.

Doctor Jekyll e mister Hyde, dolce al cospetto degli altri, ma vendicativo e subdolo alla spalle. Avete capito di chi stiamo parlando? No, nessun soggetto in particolare, ma sole persone: narcisisti maligni o manipolatori perversi. Non la persona affetta da disturbo narcisistico di personalità in generale, ovvero colui che ha dei tratti inerenti a questo disturbo, ma il narcisista cattivo, il narcisista maligno (come lo chiama Otto Kernberg), il più patologico dei narcisisti.

I narcisisti maligni sono bugiardi, ipocriti e manipolatori affettivi. Hanno un’alta considerazione di loro stessi, esagerano le proprie capacità, appaiono spesso presuntuosi, credono di essere speciali, superiori, di dover essere soddisfatti in ogni loro bisogno e pretendono di avere diritto ad un trattamento particolare. Ma questo non basta, altrimenti avremmo a che fare con un “normale” narcisista. Il tutto risulta condito dal comportamento maligno che porta tale soggetto ad avere anche tratti borderline, antisociali e paranoici.

I manipolatori perversi hanno come obiettivo quello di agire attraverso la manipolazione e il raggiro per far compiere al proprio interlocutore delle azioni che tornano ad esclusivo vantaggio personale, si approfittano dell’amore altrui a scopo egoistico. I manipolatori non provano senso di colpa per quello che fanno poiché tutto è finalizzato a soddisfare il proprio ego. Manipolano la vittima amorosa con falsa tenerezza, e dopo averla conquistata se ne nutrono in maniera avara.

Le vittime sono minate e fiaccate nei loro punti deboli e, di conseguenza, piombano in una spirale negativa dalla quale non escono senza traumi. Ogni relazione deve soddisfare regole e richieste rigidamente imposte.

 

Identikit del manipolatore perverso

L’indizio che ci fa capire se abbiamo a che fare con un manipolatore perverso è la sensazione di soffocamento, la presenza costante di critiche, insinuazioni, sarcasmo che hanno come scopo finale quello di distruggere l’autostima dell’altro fino all’incapacità di vivere. I manipolatori godono dell’umiliazione altrui e non vorrà mai mettersi in discussione, non accettano alcuna critica. Preferiscono criticare  e accusare piuttosto che confrontarsi in modo adulto e maturo con l’altro.

I manipolatori fanno finta di amare, ma non provano alcun sentimento anzi tendono a maltrattare: l’altro è solo lo specchio in cui si riflette.
Si tratta di persone altamente danneggiate, che a loro volta hanno subito traumi, maltrattamenti, abusi comportamentali ed emotivi verificatisi in tempi molto precoci e a causa di questo perpetuano il trauma traumatizzando a loro volta.

La manipolazione costituisce il fulcro di ogni relazione e la perseverazione nella stessa la connota di perversione, ed è l’unica modalità per entrare in contatto con l’altro.

 

Gli strumenti della manipolazione

Gli strumenti di manipolazione più diffusi sono:

1) il ricatto affettivo e le minacce: l’affettività diventa una merce di scambio, il ricatto è sottile a volte impercettibile, ma alla lunga si ha l’impressione di essere imprigionati in una modalità di relazione che non da libertà di scelta poiché ogni gesto viene valutato e misurato in funzione del tornaconto personale.

2) la colpevolizzazione: la causa dei propri problemi è sempre attribuita all’altro e se si trova rimedio si è sottoposti a minacce di vario tipo che confluiscono spesso nell’interruzione della relazione.

3) le bugie e le lusinghe: quando arrivano complimenti e apprezzamenti in quantità e limitati nel tempo molto probabilmente il vostro interlocutore vuole ottenere qualcosa da voi. È fondamentale ricordare la differenza tra affetto e gentilezza, il primo è un sentimento profondo la seconda invece è un comportamento che non coincide necessariamente con un sentimento genuino.

4) la denigrazione: è un processo continuo e minuzioso, mirato a denigrare il partner, a minarne l’autostima attraverso la restituzione di una immagine negativa di sé che con il tempo finirà per fare propria.

5) l’ invadenza: consiste nel mettersi sempre al posto dell’altro e di intromettersi nelle sue scelte e decisioni senza prendere in considerazione il suo punto di vista.

6) le spalle al muro: è la tecnica che chiude il dialogo mettendo in evidenza le contraddizioni dei ragionamenti, manipolandoli in modo tale così da far passare l’altro come una persona incoerente e dalle idee poco chiare.

7) la dipendenza indotta: comprende sia la dipendenza affettiva che materiale, entrambe hanno come obiettivo di depotenziare e minare l’autonomia e l’indipendenza del partner mettendone in luce le debolezze e gli errori.

Insomma, se riconosceste uno di questi comportamenti cominciate a pensare di avere a che fare con un manipolatore perverso e correte subito ai ripari. Ma, chi è la vittima del manipolatore?

Lo scopriremo nel prossimo articolo!

TakeControl: arriva la prima app per combattere il disturbo binge eating

TakeControl: un app per curare il binge eating. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.comBenvenuti nell’era della rivoluzione smart-phone, o meglio benvenuti nell’era in cui le App si mettono al servizio della cura del disagio psichico.

La notizia arriva dall’America, precisamente dal Laboratory for Innovations in Health-Related Behavior Change, Università di Dexel (Philadelphia) che sta mettendo appunto la nuova Applicazione per smart-phone “TakeControl”, con lo scopo di aiutare le persone a ridurre i comportamenti di binge-eating.

L’App, attualmente in fase di sviluppo sarà in grado, tra le varie funzioni, di monitorare lo stile alimentare del soggetto, avvisandolo quando egli è a rischio di mettere in atto un comportamento di alimentazione incontrollata.

Il disturbo Binge Eating, solo recentemente identificato come una diagnosi ufficiale nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, si caratterizza per periodi di assunzione di grandi quantità di cibo, associati a sensazione di perdita di controllo, quindi vergogna ed isolamento sociale.
Il trattamento di eccellenza come scientificamente dimostrato, è la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), efficace in termini di remissione completa solo però nel 50-60 per cento delle persone.

Ed è qui che secondo il suo creatore, Dr. Forman, arriva in aiuto la tecnologia, con una nuova App che aiuta il paziente a individuare i “momenti più a rischio”.

Ma come funziona? Prima di tutto l’applicazione consente alla persona di registrare giorno per giorno gli episodi di binge-eating, i pasti regolari e non, i propri stati d’animo e l’avvenuta assunzione o meno della terapia farmacologica. Il programma è in grado quindi, in base alle informazioni ricevute, di costruire un modello di funzionamento del soggetto, ed inviare un avviso quando identifica una situazione di potenziale rischio.

Un’intensa emozione di rifiuto, di tristezza o ansia, così come un pensiero o un avvenimento esterno possono essere quindi riletti dal programma come “rischiosi” per quella persona, con conseguente segnalazione del rischio attraverso l’emissione di un avviso sonoro. A questo punto il soggetto ha la possibilità di usufruire di una serie di interventi personalizzati della App, che lo aiutino a superare il momento del bisogno.

Gli utenti della App “TakeControl” possono quindi scegliere quanto dei propri dati personali inserire nell’applicazione, possono accedere a dei moduli specifici di apprendimento e di definizione degli obiettivi personali e possono ancora accedere ad un Social Network creato ad hoc, che gli consenta di dialogare con altre persone che condividono lo stesso problema.

La possibilità di utilizzare l’App al fine di tracciare i propri modelli di comportamento nel tempo consente di essere immediatamente consapevoli dei miglioramenti fatti, aumentando conseguentemente il proprio senso di autostima ed efficacia personale. Non solo, ma gli utenti potrebbero imparare a riconoscere come le abbuffate non avvengano per caso ma siano strettamente legate a specifici stati emotivi negativi, e ancora connessi a comportamenti ed eventi esterni “grilletto”.

Il progetto è stato uno dei vincitori selezionati nel corso di una competizione interna dell’Università sotto gli auspici di una partnership tra Università e case farmaceutiche. A Dicembre 2013 ogni progetto verrà preso in esame per una futura espansione e commercializzazione. Se verrà finanziato una nuova versione dell’applicazione per iOS potrebbe essere realizzata, così come nuove funzioni e la possibilità per l’utente di condividere i dati con il proprio terapeuta e medico, in modo che possano essere oggetto di lavoro all’interno del setting clinico.

 

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CYBERPSICOLOGIA

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – BINGE EATING DISORDER – BED – TECNOLOGIA & PSICOLOGIA

CURARE LA DEPRESSIONE POST-PARTUM TRAMITE TRATTAMENTO ONLINE

SITOGRAFIA:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autismo: trattamento basato sull’integrazione sensoriale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’ottica è quella di migliorare il processo mediante il quale le informazioni sensoriali vengono processate e integrate per favorire la comprensione di specifiche situazioni quotidiane vissute con difficoltà.

Un nuovo studio pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorder supporta l’efficacia di trattamenti basati sull’integrazione sensoriale nel migliorare la comprensione delle situazioni e dei contesti in cui vivono i soggetti con autismo.

I ricercatori della Thomas Jefferson University negli Stati Uniti hanno messo a punto un trial clinico randomizzato in cui 32 soggetti con autismo (di età compresa dai 4 agli 8 anni) sono stati sottoposti a trattamento di Integrazione Sensoriale (SI) oppure trattamento standard. Nel trattamento standard vengono strutturati interventi comportamentali relativamente alle sensazioni che sono vissute in maniera particolarmente stressante e con maggiore disagio.

Nell’ambito del protocollo di intervento basato sulla Sensory Integration invece dopo avere identificato particolari situazioni e sensazioni vissute con difficoltà dal piccolo paziente – ad esempio la sensazione di disagio rispetto all’acqua mentre si è sotto la doccia- vengono progettate alcune attività ludiche che aiutino il bambino a comprendere la situazione e le proprie sensazioni.

L’ottica è quella di migliorare il processo mediante il quale le informazioni sensoriali vengono processate e integrate per favorire la comprensione di specifiche situazioni quotidiane vissute con difficoltà.

Dai risultati del trial è emerso che i bambini sottoposti a trattamento di Integrazione Sensoriale in una fase di post-assessment avevano avuto miglioramenti nei comportamenti problematici connessi a difficoltà nel processamento sensoriale, nel raggiungimento di obiettivi nella loro vita quotidiana con un maggior livello di autonomia dai genitori in tali attività rispetto ai pazienti sottoposti a trattamento standard. Ad ogni modo, è necessaria cautela nel leggere le implicazioni di tale studio a fronte di una ridotta numerosità del campione e della necessità di replica di tali risultati.

LEGGI:

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Pt.5

Il conflitto pt. 5

Il conflitto: Interrompere la logica dell’ “occhio per occhio”, ovvero de-escalation, contenimento, risoluzione.

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

 

Il conflitto - da ragionevole divergenza a escalation violenta - Pt.5. - Immagine: © NLshop - Fotolia.comPer quanto l’acutizzazione di un conflitto sia un processo molto più semplice e immediato del suo contenimento, risulta necessario, se non inevitabile, in molte condizioni sociali e relazionali promuovere e attuare interventi per una risoluzione quanto più pacifica e costruttiva dell’escalation.

Quando si parla di de-escalation non si intende sbrigativamente il processo simmetricamente opposto all’escalation, ma una procedura che ripercorra a ritroso le fasi che hanno caratterizzato l’incremento e l’intensificazione del conflitto, favorendo la rielaborazione e l’analisi delle azioni, percezioni ed emozioni degli agenti coinvolti (Arielli e Scotto, 2003). La de-escalation mira all’abbandono da parte degli agenti di obiettivi massimalisti e di posizioni ingessate, alla depolarizzazione, all’esaurimento della spirale aggressiva e alla ricostruzione della relazione. Lo scopo finale è quello di favorire scambi cooperativi e costruttivi tra forze in conflitto, aprendo nuovi canali comunicativi, favorendo la riconciliazione reciproca e il riconoscimento della corresponsabilità di quanto accaduto (ibid.). Dal momento che, come già detto sopra, i conflitti divenuti intrattabili sono caratterizzati da una diminuzione della complessità, un intervento di de-escalation dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione e reinstaurazione della multidimensionalità relazionale (Coleman et al., 2007).

Il primo passo è quello di identificare gli elementi rilevanti alla base del conflitto, per rompere i legami univoci tra di loro e favorire negli attori coinvolti nuove strategie di comunicazione e di problem solving; il secondo passo è quello di amplificare le possibilità di scelta, di azione e di interazione, moltiplicando così anche i possibili esiti, non solamente distruttivi, della dinamica conflittuale (ibid.; Martello, 2006a).

Queste linee guida possono essere applicate alle situazioni conflittuali estreme a diversi livelli, da quello micro a quello macrosociale (Coleman et al., 2007; Anderson, Buckley e Carnagey, 2008). Concentrandosi a livello interpersonale, gli interventi di prevenzione e gestione del conflitto dovrebbero essere progettati e costruiti tenendo conto della multidimensionalità del costrutto in oggetto (Anderson e Bushman, 2002); concentrarsi solo sulle azioni oggettive e sui comportamenti concreti non rende giustizia ai vissuti emotivi profondi e disturbanti che, come descritto sopra, accompagnano il conflitto, così come valutare solo la dimensione covert rischia di giustificare azioni concrete socialmente e/o umanamente inammissibili.

Un primo aspetto da considerare dovrebbe riguardare la modificazione del contesto relazionale, allo scopo di renderlo un frame caratterizzato da sicurezza e supporto in cui percepire il conflitto non come una rigida opposizione in cui vince il più forte o il più ostinato anche a rischio di incrinare la relazione, ma come un’occasione di confronto, di approfondimento, di arricchimento personale e relazionale (Martello, 2006b). Pensare al conflitto come una possibilità grazie a cui meglio conoscere i propri e altrui diritti, bisogni e scopi, rappresenta un fattore di protezione e consolidamento della relazione (Geiger e Fischer, 2006).

Dal momento poi che le dinamiche conflittuali all’interno delle relazioni umane tendono a stabilizzarsi nel tempo e a cristallizzarsi in scripts (Winstok e Eisikovits, 2008), un intervento efficace dovrebbe tentare di de-stabilizzare queste componenti cristallizzate e di favorire l’uscita degli attori dalla logica rigida e dicotomica del “vincere o arrendersi”; i destinatari di questi interventi dovrebbero convincersi del fatto che il conflitto non deve necessariamente presentarsi sempre mediante le stesse dinamiche ed avere sempre la stessa conclusione distruttiva per gli attori in causa o per la loro relazione. Dal momento che gli esseri umani sono agenti attivi all’interno del proprio ambiente sociale e relazionale, sono essi stessi in prima persona a decidere con intenzionalità ed autoefficacia come gestire le relazioni cui partecipano e quali insegnamenti trarre dalle dinamiche coinvolte (Bandura, 2001).

Nell’intento di conferire importanza alla multidimensionalità del costrutto, gli interventi dovrebbero agire a livello sia cognitivo, favorendo la riduzione della tendenza all’azione, il controllo cognitivo, la gestione di pensieri e rimuginazioni ostili, sia a livello comportamentale, potenziando le competenze di automonitoraggio, autocontrollo e pianificazione (Smits e De Boeck, 2007).

Essendo inoltre il conflitto orientato e alimentato da una reciproca attribuzione di biases cognitivi e percettivi, gli interventi di contenimento del conflitto dovrebbero porsi l’obiettivo di far comprendere agli agenti che le proprie posizioni sono spesso influenzate da aspettative irrealistiche, da esperienze personali, da schemi cognitivi preesistenti, da sistemi di valori e di credenze e da bisogni di protezione del Sé (Kennedy e Pronin, 2008). Riconoscere in noi stessi queste tendenze erronee e tendenziose, rappresenta il primo passo concreto verso la loro correzione, ma anche verso la prevenzione dell’escalation e la risoluzione costruttiva del conflitto (Pronin, 2007).

A livello emotivo, restituire dignità e umanità ai reduci di una forte escalation risulta essere il primo passo verso una migliore comprensione dei fatti e una più lucida valutazione di sé e delle proprie azioni; questo significa a sua volta riportare i ruoli all’interno della relazione, che con il conflitto si erano irrigiditi e polarizzati, alla complementarietà e alla flessibilità, garantendo il diritto alla diversità e alla complessità individuale (Arielli e Scotto, 2003; Coleman et al., 2007; Gray et al., 2007; Martello, 2006b).

 

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LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Reportage dal workshop avanzato ”Fare Act” – Milano

 

Reportage dal workshop avanzato ”Fare Act”

Milano – 30 novembre

 

LEGGI MONOGRAFIA ACT

Fare ACT - HarrisSei molto di più e molto di meno di quella roba lì”. Tra i tanti momenti interessanti vissuti durante il workshop avanzato “Fare ACT”, organizzato da ACT Italia sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre, questa frase di Giovanni Miselli, socio fondatore ACT Italia, ha forse il merito di riassumere l’importanza verso i processi rispetto al contenuto delle credenze stimolando un continuo distanziamento dalle proprie esperienze mentali.

Questo è stato il focus di entrambe le giornate: intervenire sui processi, in particolare sui sei processi ACT dell’Hexaflex, di cui già abbiamo parlato qui su State of Mind (https://www.stateofmind.it/2013/03/monografia-act-intermezzo-2-hexaflex/). In questo l’ACT rappresenta la Terza Ondata in modo chiaro e definito.

Il percorso di psicoterapia si concentra sulle qualità dell’esperienza, sul focus nel momento presente e sull’azione impegnata verso i propri valori, qualità con cui si svolgono le esperienze.

Uno dei vantaggi nell’aver frequentato un workshop di livello avanzato è proprio quello di aver avuto la possibilità focalizzare interamente le due giornate su esercizi esperienziali, terreno su cui di fatto si costruisce l’ACT, dando per acquisita tutta la parte teorica con la descrizione dei singoli processi dell’Hexaflex. L’utilizzo da subito della pratica ha aiutato a comprendere meglio un modello che, come detto, ha proprio come peculiarità tutta una serie di tecniche che spaziano dall’uso delle metafore, ai paradossi per giungere agli esercizi prettamente esperienziali.

Le due giornate sono state molto utili per capire come poter favorire i processi fondamentali della flessibilità psicologica intesa come “abilità di essere nel momento presente con piena consapevolezza e apertura alla nostra esperienza e di intraprendere azioni guidate dai nostri valori (Harris, 2011) prima di tutto su di noi e poi su casi portati dai colleghi apprendendo competenze pratiche tipiche dell’ACT. Leggendo i volumi pubblicati dal gruppo di terapeuti ACT capitanati da Steven C. Hayes, si coglie subito il senso e la estrema importanza dell’aspetto esperienziale, non solo per i pazienti ma prima di tutto per i terapeuti stessi. Quasi tutti i libri ACT si concludono con il “consiglio”, che spesso ha la forma della procedura necessaria e basilare per applicare l’ACT con in pazienti, di provare su se stessi il modello ACT, la defusione, le pratiche di mindfulness e l’azione impegnata secondo i propri valori.

Durante il workshop, ma soprattutto nell’utilizzo degli esercizi, è risultato da subito evidente come lavorare su di un processo comporta obbligatoriamente toccare tutte le altre componenti dell’Hexaflex descritte infatti come “sei facce di un unico diamante” (Harris, 2011).

Ho parlato di tecniche ma non è corretto pensare all’ACT come a un esercizio, come afferma Giovanni Zucchi, Presidente di ACT-Italia, L’ACT non è una tecnica, è porsi sullo stesso piano del paziente cercando di stare con quello che ti porta”, sottolineando l’importanza della componente relazionale.

Se pensiamo, infatti, che per il modello la sofferenza è il frutto di tentativi controproducenti di evitare o sopprimere esperienze interne il compito del terapeuta è quello di aiutare il paziente ad avere verso quelle esperienze dolorose un rapporto di apertura dopo avergli fatto fare esperienze di come questa continua lotta che porta avanti verso di esse lo ha bloccato dal punto di vista di investimento verso ciò che per lui è veramente importante. E per fare questo, così come per le applicazioni della mindfulness, è necessario prima fare esperienza del proprio rapporto con le esperienze dolorose e con le difficoltà incontrate nel percorso di “scoperta e riscoperta di una vita ricca e soddisfacente (Hayes, Stroshal & Wilson, 1999).

Questo è il motivo per cui ci portiamo a casa dal workshop un percorso esperienziale, svolto nell’arco delle intere due giornate, in cui i partecipanti hanno avuto molte occasioni per entrare in rapporto con le proprie difficoltà e “provare in vivo” il modello ACT e i suoi processi.

Un piccolo esempio di questa esperienza può essere riassunto in un famoso esercizio creato proprio da Russ Harris.

Esercizio (adattato da Andrea Bassanini):

1- Prova a pensare ai giudizi, critiche e autovalutazioni che la tua mente spesso ti presenta all’attenzione.

2 – Ora prova a ripeterteli uno dopo l’altro. Potrebbe essere sgradevole e spiacevole, ma ti chiedo di continuare a ripeterli e a soffermarti su cosa noti in questo momento.

3 – Dopo qualche tempo, prova a immaginare di continuare a ripetere nella tua mente questi giudizi e critiche dando loro una voce “strana”, allegra, ripresa di un cartoon, molto acuta o molto grave. Poi prova a rallentare la voce di questi pensieri, ad esempio dicendo a te stesso: “s………..o………n……….o………u……..n…..” e così via.

4 – Soffermati su cosa noti nel momento presente.

5 – Con questa esperienza potresti notare che con i nostri pensieri possiamo farci molte cose e che tu Sei molto di più e molto di meno di quella roba lì.

Fare ACT - Milano
Da sinistra: Dott. Calzolari, Dott. Miselli, Dott. Zucchi, Dott. Bassanini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LEGGI MONOGRAFIA ACT

LEGGI ANCHE:

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT  – CREDENZE – BELIEFS

ACT – TEORIA E PRATICA DELL’ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Highly Superior Autobiographical Memory – Memorie eccezionali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Highly Superior Autobiographical Memory (HSAM)-Recentemente nell’ambito delle ricerche sulla memoria si è evidenziato come in alcuni individui vi sarebbero memorie autobiografiche altamente dettagliate quasi aventi la forma di un diario.

Cioè a dire che se si fornisce una data del passato tali individui sarebbero in grado di fornire un report dettagliato descrivendo quel che stavano facendo il quel giorno, avvenimenti pubblici, e riuscendo anche ad azzeccare il giorno della settimana.

Anche nel momento in cui la data proposta è di una decina di anni prima! Tecnicamente il fenomeno si chiama Highly Superior Autobiographical Memory (HSAM). 

Alcuni ricercatori si sono chiesti se e in che misura il falso ricordo potesse impattare anche in questi soggetti. A tal fine sono stai reclutati circa 20 soggetti con HSAM e 38 soggetti di controllo (con capacità mnestiche nella media) e sono stati sottoposti a una serie di test sulla distorsione mnestica.  Tra questi compiti sperimentali, per esempio uno prevedeva che i partecipanti studiassero una lista di parole, e successivamente veniva richiesto loro di riconoscere queste parole in una nuova e diversa lista. In questo caso i soggetti HSAM riportavano percentuali di errore equiparabili a quelle dei soggetti di controllo. Parimenti il profilo di performance  si è dimostrato simile – o anche peggiore in diversi compiti mnestici.

Quindi se le persone superdotate a livello di memoria autobiografica sono comunque soggette a distorsioni mnestiche – proprio come tutti gli altri- come è possibile che i loro ricordi della vita quotidiana siano cosi dettagliati e precisi? 

Secondo i ricercatori i soggetti con HSAM avrebbero processi ricostruttivi della memoria simili a quelli dei norrmomnestici con bias e distorsioni, anche se tuttavia nell’area dei ricordi situati autobiografici avrebbero chiaramente una maggiore ricchezza di dettagli e precisione. Ancora difficile dunque collocare in un quadro più ampio questo fenomeno di ipermnesia della vita quotidiana.

LEGGI:

MEMORIA MEMORIA EPISODICA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents

Carmela Mento, Ph.D.

Assistant Professor of Clinical Psychology

 

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents

Settineri S., Mento C., Rizzo A.

(University of Messina)

 

The Impact of Dental aesthetics among adolescents. -Immagine:© brunobarillari - Fotolia.comThe relationship between global self-esteem and dental self-confidence suggests the need to draw attention to psychological aspects involved in the treatment in order to promote not only the dental health, but also the psychological well-being. 

 

Background

The concern for some imaginary defect in the physical appearance, more often referred to the face, in a person with normal appearance is called, according to the DSM-IV, Body Dysmorphic Disorder (BDD). It occurs between adolescence and early adulthood, and about 2% of these patients resort to visits dermatology, plastic and dental interventions in a continuous, excessive and ineffective way to satisfy them both physically and psychologically.

During the adolescence, a delicate and transitional stage of physical and psychological development to new environmental and psychological structures, some elements of appearance and, more specifically, dental aesthetics have great importance for the adolescent’s self-image and self-esteem (de Paula et al., 2009).

Furthermore, malocclusion significantly affects the appearance of the smile, which is a part of notable facial attractiveness and an effective way of expressing emotions.

Therefore, the aesthetic impact of malocclusion may have a more or less significant consequence on the adolescent’s quality of life, can impair social interaction, interpersonal relationships, and psychological well-being; until producing feelings of inferiority (Broder et al., 2000).

Our study, recently published in the Indian Journal of Research [Paripex article], Settineri S., Mento C., Rizzo A., Liotta M., Militi A., Terranova A. (2013). Dysmorphic level and impact of Dental Aestetics among adolescents. Indian Journal of research, 1; 2(7), aimed to verify the relationship between the dysmorphic level and the psychosocial impact of dental aesthetics among adolescents undergoing orthodontic treatment. 

Main Results

〉 Quality of Body Image. Patients suffering of BDD tend more easily both to require orthodontic treatments and to be dissatisfied about their most recent treatment (De Jongh et al.,2009; Crerand et al., 2006). Adolescents in our sample showed a dysmorphic level from mild to moderate, except for 8% of the cases to which could be diagnosed as a BDD: 32% of subjects identifies their physical defect in the braces, mouth and/or teeth. Generally in adolescents the most common areas of concern are skin, hair, stomach, weight, and at least teeth (Phillips, 2006). Orthodontists should be alert for patients extremely concerned about insignificant or negligible dental flaws or defects, reporting multiple requests for orthodontic treatment or seeking evaluations with several professionals (Hepburn, S., & Cunningham, 2006).

〉 Self esteem. Malocclusion and aestetics concerns affect self esteem. In our sample its level is at the lower limits of normal and 18% of subjects showed even lower than normal level of self-esteem. Most of them are females and this data confirms a well-established knowledge in the literature: girls have lower levels of self-esteem than boys (Kling, 1999).

〉 Self perception of malocclusion. Dentists and patients could differ in the evaluation of the gravity of malocclusion. Several studies compared the self perception with the objective judjement established by professional. Most (Danaei & Salehi, 2010; Badran, 2010; Kerosuo et al., 2004; Grzywacz, 2003; Fox et al., 2000; Birkeland et al.,1996) showed significant agreement (between 77% and 85%) for what concern dental aesthetic and a less agreement (usually little more than 50%) for what concern dental health component. It’s an interesting fact that, in our study, there was no relationship between the subjective judgment of the patient on its degree of malocclusion and the evaluation of the dentist. 

〉 Personal experience of dental aestethics. Younger patients, who wear the braces from less time, emerged as more concerned and with higher levels of psychological and social impact linked to dental aesthetics. This is an aspect that should be considered during the treatment in order to early detect signs of discomfort in adolescent’s quality of life and well-being.

In conclusion, from the psychological point of view, it is possible that self-esteem is a protective factor in the development of body image disorders, being strongly linked not only with each other but also to higher levels of obsessive-compulsive, depressive and somatization tendencies (Biby, 1998). Moreover, from the dental point of view, the relationship between global self-esteem and dental self-confidence suggests the need to draw attention to psychological aspects involved in the treatment in order to promote not only the dental health, but also the psychological well-being. 

The Research Project

This study is part of a broader line of research that originates from the collaboration between two disciplines: Dentistry and Psychology. Since 2005, several studies have been carried out by the Chair of Clinical Psychology and the Chai of Dentistry, at the University of Messina, which have focused on different aspects of dental and mental health such as: gender differences in dental anxiety (Settineri et al., 2005), self reported halitosis (Settineri et al. 2010), dental anxiety and psychopathologies (Settineri et al., 2013).

 

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REFERENCES:

 

Autismo – Esplorare i sentimenti, di Tony Attwood (2013) – Recensione

 

Recensione del libro:

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitiva – comportamentale per gestire ansia e rabbia

di Tony Attwood (2013)

Armando Editore

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbiaIl libro “Esplorare i sentimenti” di Tony Attwood illustra un programma elaborato per intervenire su bambini con la Sindrome di Asperger che può essere utilizzato anche con bambini affetti da Autismo ad Alto Funzionamento, Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, Disturbi dello Spettro Autistico e in generale con soggetti che presentano difficoltà nella regolazione emotiva.

Il programma prevede gruppi dai 2 ai 5 bambini di età compresa fra i 9 e i 12 anni con due adulti che conducono l’incontro; ogni bambino dispone di un quaderno dove lavora per sei sessioni di due ore ciascuna che comprendono attività e informazioni finalizzate all’esplorazione di sentimenti quali felicità, ansia e rabbia. Viene inoltre fornito un libro dei progetti in cui il bambino può scrivere i commenti e le risposte alle domande rivolte dagli adulti.

Al termine di ogni sessione viene assegnato un progetto, un compito da completare prima della sessione successiva e all’inizio di quest’ultima ne viene discusso l’esito col singolo bambino o con l’intero gruppo. “Esplorare i sentimenti” comprende due moduli, uno per la conoscenza e la gestione dell’ansia, l’altro per la rabbia. Il primo incontro approfondisce due emozioni positive, la felicità e il rilassamento, attraverso attività che misurano, stimolano e pongono a confronto sensazioni di benessere in situazioni specifiche. La seconda sessione spiega cosa sono l’ansia e la rabbia promuovendo il riconoscimento delle alterazioni che si verificano a livello fisiologico, cognitivo, comportamentale e comunicativo.

Al termine dell’incontro viene descritta la Cassetta degli Attrezzi ossia la categoria degli strumenti che riparano i sentimenti, in particolare gli strumenti fisici che permettono un rilascio immediato di energia emotiva (correre, saltare) e gli strumenti di rilassamento che riducono il ritmo cardiaco (ascoltare musica, leggere un libro).

Nella terza sessione vengono trattati gli strumenti sociali, spiegando per esempio come le persone attorno al bambino possano aiutarlo a ristabilire pensieri positivi attraverso parole e gesti rassicuranti. Viene insieme esplicitato che la solitudine, cioè il temporaneo evitamento del contatto sociale, può essere in alcuni casi una strategia efficace per i soggetti con la Sindrome di Asperger.

La terza sessione si occupa infine degli strumenti di Pensiero e Prospettiva, una gamma di strategie e attività utili a esaminare la realtà e a stimare la probabilità degli eventi temuti.

Il quarto incontro è dedicato al concetto di Misuratore come modalità per determinare l’intensità di uno stato emotivo; ci si confronta inoltre sulle possibilità a disposizione del bambino per prestare o condividere strategie e abilità di fronteggiamento dell’ansia o della rabbia.

Nella quinta sessione vengono presentate le Storie Sociali, che si configurano come strumenti per migliorare la competenza sociale ed emotiva nonché le risposte comportamentali e l’elaborazione cognitiva degli stati problematici; accanto ad esse viene introdotta la nozione di antidoto per i pensieri negativi, che prende forma attraverso la costruzione di pensieri alternativi e la distrazione dai contenuti mentali fonte di sofferenza.

Nell’ultimo incontro i bambini progettano per sé e per gli altri membri del gruppo un intervento cognitivo-comportamentale volto ad accrescere le risorse di coping emotivo. Il programma prevede lo svolgimento di un test o di un’attività prima e dopo i sei incontri per verificare i risultati ottenuti; è importante sottolineare che “Esplorare le emozioni” può essere adattato a soggetti adolescenti e adulti e rappresenta un progetto clinico sull’ansia e sulla rabbia a disposizione non solo dei terapeuti ma anche di insegnanti adeguatamente formati.

LEGGI:

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – BAMBINI – RECENSIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Effetti della TV sullo sviluppo della teoria della mente nei bambini

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Molti studi hanno indagato gli effetti dell’esposizione alla TV sui comportamenti sociali dei bambini, senza però esaminare se l’esposizione alla TV influisce sullo sviluppo della teoria della mente, cioè capacità del bambino di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio comportamento e quello degli altri.

Secondo i risultati di un recente studio, pubblicato sul Journal of Communication, i bambini in età prescolare che hanno un televisore in camera da letto e sono esposti spesso alla  TV hanno una comprensione più debole delle credenze e dei desideri delle altre persone.

Un team di ricercatori della Ohio State University ha intervistato e analizzato 107 bambini e i loro genitori per studiare la relazione tra l’esposizione alla TV in età prescolare e lo sviluppo della teoria della mente.

Ai genitori veniva chiesto quanto tempo i loro figli guardassero la televisione, in seguito i bambini svolgevano dei compiti basati sulla teoria della mente, per valutare la loro capacità di discriminare tra le proprie e le altrui credenze e desideri, la conoscenza del fatto che le credenze possono essere sbagliate e che queste influenzano i comportamenti.

Avere una TV camera da letto ed esserne esposti con frequenza correlava con una comprensione più debole degli stati mentali, anche dopo aver considerato le differenze di prestazioni basate sull’età e lo status socio-economico del genitore. Tuttavia, il dialogo tra figli e genitori su ciò che i bambini stanno guardando sembra essere un fattore di protezione anche per quei bambini che vedono molta TV, infatti in questi casi la teoria della mente risultava comunque buona.

Questi risultati sono importanti perchè i bambini con una teoria della mente ben sviluppata sono facilitati nelle relazioni sociali, hanno maggiore sensibilità e capacità di cooperazione, e sono meno aggressivi con gli altri nel tentativo di raggiungere i loro obiettivi.

LEGGI:

BAMBINITEORIA DELLA MENTE TELEVISIONE E TV SERIES

 

BIBLIOGRAFIA:

DSM 5: Pedofilia, disturbo o disordine? – Psicologia

 

DSM5 . - Immagine @ o-DSM-5-facebookI criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa!

La diagnosi di pedofilia, inclusa fino al DSM IV TR tra le parafilie ha provocato rumor nel settore, per le modifiche inserite nel DSM 5 rispetto a questa categoria diagnostica.

I criteri diagnostici sono rimasti sostanzialmente immutati, ma l’etichetta è stata modificata da “pedophilia” a “pedophilic disorder”, in linea con la nuova nosografia presentata nel DSM 5. Questa variazione ha sollecitato l’interesse e lo scalpore della stampa, poiché erroneamente il termine disorder è stato tradotto come “disordine” e non come “disturbo” (traduzione corretta del termine). Considerare la pedofilia un disordine e non una patologia declasserebbe il problema, rendendola una patologia non più patologica. 

In realtà l’intento dell’APA era, al contrario, quello di evidenziare e sottolineare la componente psicopatologica che sottende e mantiene il  pedophilic disorder.

Partiamo dall’origine. Nel DSM IV si effettuava una diagnosi differenziale tra egodistonia ed egosintonia della sintomatologia, per cui se i sintomi erano egodistonici, cioè causa di disagio sociale o di altre aree di funzionamento nel pedofilo, allora si poteva parlare di patologia; se, al contrario, i sintomi erano egosintonici non risultavano clinicamente rilevanti.  Nel DSM IV-TR questo criterio è è stato modificato: l’agito dell’impulso sessuale è stato introdotto come criterio diagnostico rilevante quanto l’egodistonia.

Torniamo ai giorni nostri. Nel DSM-5 colui che mostra un’attrazione sessuale e agito verso i bambini, mostra un disagio clinicamente significativo e una compromissione dell’area sociale e psicologica. 

Ma, la polemica non si è fermata qui ed è continuata incessantemente. Infatti, la stampa internazionale, questa volta, si è scagliata contro il termine, introdotto nel DSM IV 5 pedophilic sexual orientation. Ancora peggio, non solo disordine, ma orientamento sessuale! Effettivamente, questa dicitura lasciava molto perplessi: la pedofilia non era più un problema psicologico? Ed ecco che arriva la correzione: si tratta di sexual interest e non di orientamento. 

Tutti coloro che non soddisfano pienamente i criteri per la diagnosi di pedophilic disorder, in quanto presentano un’attrazione sessuale rivolta verso i bambini non agita, in assenza di sentimenti di colpa, vergogna e ansia, quindi egosintonica, presentano un “orientamento sessuale”.

Questa sotto categoria è stata introdotta nel DSM-5 per operare una distinzione col disturbo mentale vero e proprio. L’utilizzo di questo termine è stato travisato dall’opinione pubblica, pertanto l’APA ha provveduto repentinamente, attraverso comunicato on -line, a modificare la terminologia sostituendola con “interesse sessuale”. Infatti così facendo sembrava legittimasse “l’interesse” nei confronti dei bambini, e anche se questa cosa non passava all’atto, si trattava sempre di un interesse atipico.

L’intento, però, era solo quello  di demarcare il confine tra soggetti che presentano un interesse sessuale atipico e non agito e quelli che sono affetti da un disturbo mentale vero e proprio, cioè agito.

Per non farci mancare nulla, la sezione dei disturbi sulle parafilie include, oltre al pedofilic disorder, altri sette disturbi: exhibitionistic disorder,fetishistic disorder, frotteuristic disorder, sexual masochism disorder, sexual sadism disorder, transvestic disorder and voyeuristic disorder.

Altro rumor: l’introduzione del transvestic disorder per definire coloro che si vestono con abbigliamento tipico del sesso opposto. Nel DSM IV-TR questo disturbo era specifico per i  maschi eterosessuali, mentre nel DSM 5 sono state incluse nel disturbo anche le donne. Ma, anche qui, se queste persone traggono piacere nell’effettuare questo travestimento sono patologici?

Aspettiamo buone nuove!

LEGGI ANCHE:

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM5 

SESSO – SESSUALITA‘ – DISTURBI SESSUALI

Guarda l’ Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ortoressia nervosa: quando mangiare bene non fa più bene.

 

Ortoressia: oggi il cibo fa paura, siamo costantemente sottoposti ad un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute, sugli alimenti “buoni” e “cattivi”, sui rischi che corriamo scegliendo o meno certi prodotti. Non c’è quindi da meravigliarsi se il rapporto con il cibo si sia fatto sempre più complesso e problematico.

Ortoressia. - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.
Ortoressia. Immagine: © 2013 Costanza Prinetti.

Recentemente, i mass-media e gli specialisti del settore dell’alimentazione hanno segnalato la diffusione di un nuovo disturbo, chiamato Ortoressia Nervosa (ON).

Il termine ortoressia (da orthos, giusto, corretto, e orexis, appetito) fu utilizzato per la prima volta nel 1997 dal dietologo americano Steven Bratman per descrivere l’ossessione patologica riguardo al consumo di cibi sani e naturali (Bratman, 1997).

Oggi, sebbene non esistano né una definizione universalmente accettata né dei criteri diagnostici formalmente riconosciuti, si intende per ortoressia nervosa (ON) l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni sostanziali nella dieta e presenza di:

  • ruminazione ossessiva sul cibo;
  • comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti;
  • insoddisfazione affettiva e isolamento sociale dovuti alla persistente preoccupazione riguardo al mantenere le regole alimentari autoimposte (Brytek-Matera, 2012).

Le persone con Ortoressia Nervosa, infatti, mettono in atto dei veri e propri rituali ossessivi, che posso essere suddivisi in 4 fasi (Brytek-Matera, 2012):

  1. forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare, con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi (ad es., cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o “artificiali”, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale);
  2. impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;
  3. preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (ad es., cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);
  4. sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

Infatti, come scrive Bratman nel suo libro, “una persona che riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa può sentirsi altrettanto pia di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto”, ma di fronte ad uno strappo alla regola la stessa persona si trova a dover affrontare forti sensi di colpa, e spesso si punisce mettendo in atto restrizioni ancora più severe (Bratman & Knight, 2000).

Diventa impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena da amici; con il passare del tempo, la gamma alimentare diviene sempre più ristretta e la qualità del cibo arriva ad essere più importante dei valori morali, delle relazioni sociali, dell’attività lavorativa e della vita affettiva, minando il funzionamento globale ed il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).

Ortoressia nervosa: quanto è diffusa?

Donini e colleghi (2004) hanno valutato la prevalenza dell’ortoressia nervosa in Italia: su 404 soggetti inclusi nella ricerca, il 17.1% (n= 69) è stato definito “fanatico della salute”, mentre il 6,9 % (n=28) è risultato corrispondere ai criteri definiti dagli autori per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa (presenza di comportamenti di selezione del cibo, sintomi fobici e ossessivo-compulsivi riguardo al cibo).

La prevalenza del disturbo è risultata maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%). Questo dato può essere spiegabile con la crescente diffusione di stereotipi culturali legati alla forma fisica maschile ed è in accordo con i dati relativi ad un altro recente disturbo prevalentemente maschile, la vigoressia o preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso.

 

Come misurare l’ Ortoressia nervosa

Ancora Donini e colleghi (2005) hanno sviluppato l’ORTO-15, uno strumento per fare diagnosi di Ortoressia Nervosa. Si tratta di un questionario auto-somministrato composto da 15 item che valutano la presenza di comportamenti ossessivi relativi a selezione, acquisto, preparazione e consumazione dei cibi considerati salutari (ad es.:“ Quando entri in un negozio di alimentari ti senti confuso?”; “Sei disposto a spendere di più per avere cibi più sani?”; “Pensi che la convinzione di mangiare solo cibo sano aumenti la tua autostima?”). Ciascun item è valutato su una scala Likert a 4 punti (sempre, spesso, a volte, mai) in cui i comportamenti a rischio ricevono punteggio 1 e i comportamenti normali punteggio 4; un punteggio al di sotto di 40 è considerato indice di ortoressia.

 

Ortoressia nervosa: quale categoria diagnostica?

Da qualche tempo in letteratura si è aperto un dibattito sulla natura dell’ortoressia: si tratta di un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare (DCA), di una condotta patologica nei riguardi del cibo oppure di un sotto-tipo di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)?

Alcuni autori, infatti, (ad es., Mac Evily, 2001), sostengono che il motivo per cui l’ortoressia non è stata per il momento inserita all’interno dei DCA è legato al fatto che ci sono alcune differenze tra Ortoressia Nervosa e anoressia o bulimia. In particolare, l’esordio dell’Ortoressia Nervosa non sembra legato ad una bassa autostima, come accade invece frequentemente nei DCA; inoltre, la natura delle ossessioni del soggetto ortoressico non riguarda il peso o la forma corporea, ma la purezza degli alimenti; infine, pare che l’Ortoressia Nervosa si possa trasformare in anoressia o bulimia quando la dieta si fa eccessivamente restrittiva e compulsiva.

Altri autori (ad es., Catalina Zamora et al., 2005) sottolineano invece le somiglianze tra soggetti ortoressici e soggetti con DCA, in particolare anoressici, come ad esempio la presenza di elevato perfezionismo e bisogno di controllo, rigidità, meccanismi fobici e ipocondriaci.

Anche la relazione tra ortoressia nervosa e DOC appare interessante; infatti, sembra che le persone che soffrono di DOC abbiano elevate tendenze ortoressiche (Arusoĝlu et al., 2008).

Infine, Brytek-Matera (2012) sostiene che si possa considerare l’ Ortoressia Nervosa come un’abitudine o una condotta patologica verso il cibo (al pari del vomito, dell’uso di lassativi o del “dieting”) connessa con sintomi ossessivi-compulsivi.

Per il momento il dibattito sull’argomento rimane aperto; sono auspicabili ulteriori studi che vadano ad incrementare la scarsa letteratura riguardante l’ortoressia.

 

Cura dell’ ortoressia nervosa

Ci sono evidenze di buoni risultati per trattamenti che combinano la psicoterapia cognitivo-comportamentale con farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012).

In generale, il trattamento dell’ortoressia dovrebbe avvalersi di un’equipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti; dovrebbe essere pensato per rispondere alle specifiche esigenze della popolazione ortoressica e dovrebbe porsi come obiettivo quello di insegnare alla persona a mangiare (bene) senza che questo costituisca un’ossessione, lavorando non solo con il soggetto, ma anche con l’ambiente che lo circonda (ad es., familiari).

Per fortuna, sembra che i soggetti ortoressici rispondano meglio alle cure rispetto a soggetti con DCA, probabilmente a causa di una maggiore compliance dovuta alla preoccupazione per la propria salute che caratterizza questo disturbo (Mathiew, 2005).

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DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD)

LA DISMORFIA MUSCOLARE O VIGORESSIA: LO SPECCHIO DEFORME DI ADONE

 

BIBLIOGRAFIA:

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