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Internet addiction: quando cinque minuti diventano alcune ore

 

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Internet addiction- quando cinque minuti diventano alcune ore. - Immagine: © mariesacha - Fotolia.comInternet addiction – Ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Tra le nuove psicopatologie emerse negli ultimi dieci anni, va considerata oggi sicuramente l’Internet Addiction o dipendenza da internet. Si tratta di una categoria che include fenomeni e problemi diversi, tra i più comuni troviamo il cybersex e l’online gambling.

Il motivo del successo di queste due forme di dipendenza è facilmente spiegabile: nel primo caso, il cybersex è un tipo di dipendenza sessuale con i “vantaggi del web”: anonimità e facilità di accesso. È facile rimanere nella privacy della propria casa, ingaggiati in fantasie impossibili nella vita reale. Per quanto riguarda il gambling, il discorso è simile: possibilità di accesso in ogni momento del giorno e della notte da un qualsiasi dispositivo che abbia una connessione Internet.

Anche se Internet è attualmente disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e sempre più nei luoghi pubblici, il tempo che ognuno di noi spende connesso alla rete varia notevolmente e se da una parte questo tempo può essere produttivo e talvolta di svago, l’uso compulsivo di Internet può invece interferire notevolmente con la vita lavorativa e sociale di chi ne abusa, determinando un vero e proprio disturbo.

Proprio per l’ampiezza negli usi e per le esigenze personali che variano notevolmente da soggetto a soggetto, non vi è un limite di tempo né un numero di messaggi invitati che definisca la patologia, quanto ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Secondo i dati riportati su Helpguide.org, un’organizzazione internazionale no-profit con sede in California, i segni generali di una possibile dipendenza da Internet sono:

Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?

Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?

Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?

Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?

Sentire un senso di euforia quando connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Se ti riconosci in più di uno di questi segnali, è possibile che tu abbia o stia sviluppando una dipendenza da internet. In questo caso, puoi intanto iniziare a intraprendere alcuni passi da solo per modificare le tue abitudini online, ricordando però che esistono servizi e persone qualificate per un supporto esterno. Un primo passo potrebbe essere quello di realizzare che l’uso eccessivo di internet sia legato a dei problemi emotivi sottostanti, come stati di ansia o depressione, stress o emozioni di rabbia. In questi casi, il web viene spesso utilizzato come modalità per “sentire meno” i sintomi dei disagi o per cercare di uscirne.

In questo senso, alcune ricerche stanno andando sempre più a indagare quanto la dipendenza da internet sia collegata ad altri fattori psicopatologici o semplicemente personologici. Nella seconda parte dell’articolo andremo a vedere i risultati di uno dei primi e più recenti studi in questo campo che sta aprendo la strada a un nuovo filone di ricerche sull’effetto dell’esposizione al web in persone dipendenti da internet.

LEGGI PARTE 2

LEGGI:

DIPENDENZEINTERNET ADDICTION

Nuove dipendenze comportamentali: la Cyberdipendenza

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Come funziona l’EMDR? Il contributo delle neuroscienze

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

Come funziona l’EMDR?

Il contributo delle neuroscienze

LEGGI TUTTI I REPORT DEL CONGRESSO NAZIONALE EMDR

 

labirinti traumatici emdr

Si conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

L’ultima mattinata del congresso non delude le aspettative create in questi giorni densi e faticosi ma proficui e forieri di interessanti riflessioni.

Gli interventi presentati, infatti, esplorano un’area di ricerca importantissima: l’apporto delle neuroscienze alla comprensione dei substrati neurofisiologici del trattamento psicoterapico, con un’attenzione particolare, ovviamente, all’EMDR.

Nel suo intervento Benedikt Amann, ricercatore presso la FIDMAG Research Foundation di Barcellona, parte dall’ipotesi che nel disturbo bipolare via sia una disfunzione a carico del Default Mode Network (DMN), una rete di aree cerebrali che risultano essere maggiormente attive durante le fasi di risposo e che si disattivano durante l’esecuzione della maggior parte dei compiti cognitivi che richiedono un attenzione focalizzata.

Questa rete, che comprende la corteccia prefrontale mediale, la corteccia anteriore e posteriore cingolata, il precuneo, il lobulo parietale inferiore, la corteccia temporale laterale e l’ippocampo, è attiva anche durante attività mentali introspettive, come il recupero di ricordi autobiografici, l’utilizzo della teoria della mente e immaginare il futuro. Il DMN regola le dinamiche di attivazione-disattivazione nel cervello sano.

Studi di neuroimmagine evidenziano che sia il disturbo bipolare sia il disturbo da stress post-traumatico presentano una disfunzionalità del DMN.

Dato che l’EMDR attiva il processo omeostatico naturale di elaborazione dell’informazione, l’ipotesi  è che la modulazione del DMN possa rappresentare il substrato neurobiologico nel trattamento EMDR.

Il gruppo di ricerca di Amann presenta uno studio pilota effettuato su un singolo caso di paziente bipolare con una storia di eventi traumatici, che mostra una significativa disattivazione del DMN dopo un trattamento EMDR di 14 sedute, portandolo ai livelli del gruppo di controllo.

Gli attuali modelli di trattamento per il disturbo bipolare sono prevalentemente farmacologici, talvolta affiancati da interventi psicoterapeutici, di psicoeducazione e interventi con la famiglia. Tutti questi tipi di trattamento non sembrano però molto efficaci nel prevenire ricadute e dai diversi studi emergono ancora troppe recidive.

Il lavoro presentato da Amann parte da un presupposto molto importante purtroppo spesso sottovalutato: le esperienze traumatiche infantili, come molti studi autorevoli hanno ormai dimostrato, sono molto frequenti e hanno un forte impatto nell’esordio di diversi disturbi psichiatrici.

Nel caso del disturbo bipolare la comorbilità con il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è molto alta, circa il 20% e la presenza del PTSD peggiora significativamente la sintomatologia del disturbo bipolare, in termini di maggiori tentativi di suicidio, aumento dei cicli rapidi, sintomi maniacali più elevati, DMN disfunzionale ed in generale un peggiore decorso della malattia.

Tutto ciò ha importanti implicazioni nel trattamento dei pazienti bipolari e dei pazienti psichiatrici in generale, anche se fino ad oggi esistono pochissime evidenze scientifiche al riguardo.

Una di queste deriva da un interessante studio di Van den Berg e colleghi sul trattamento EMDR in pazienti psicotici che mostra, dopo 6 sedute EMDR, un significativo miglioramento sia dei sintomi del PTSD sia di quelli psicotici.

Lo studio BET (Bipolar EMDR Trauma Study), presentato da Amann, è il primo studio relativo all’applicazione dell’EMDR su pazienti bipolari: l’ipotesi di partenza è che l’elaborazione dei traumi attraverso l’EMDR non solo migliori i sintomi post-traumatici, ma che contribuisca a stabilizzare l’umore, a migliorare il funzionamento cognitivo e sia un metodo sicuro con questo tipo di pazienti.

I dati sembrano confortanti: rispetto al trattamento classico, 13-18 sedute EMDR hanno condotto ad un miglioramento significativo rispetto all’impatto degli eventi traumatici sia al termine del trattamento sia al follow-up a 3 e a 6 mesi. Si evidenzia, inoltre, un miglioramento globale del funzionamento e del tono dell’umore, soprattutto rispetto ai sintomi ipomaniacali.  L’EMDR viene infatti consigliato nel casi di sintomi ipomaniacali e subsindromici, mentre non è raccomandato nei casi di mania, fase mista e depressione grave. 

Il gruppo di ricerca ha sviluppato anche un protocollo EMDR specifico da utilizzare con pazienti bipolari. Il piano di trattamento prevede di iniziare con i sintomi legati al presente, che serviranno come via d’ingresso ai ricordi traumatici del passato. Molta importanza viene riconosciuta alla fase di stabilizzazione e installazione delle risorse, anche facendo ricorso a 5 specifici sotto-protocolli creati per questo tipo di pazienti: il protocollo per la stabilizzazione del tono dell’umore, per la consapevolezza di malattia, per l’aumento dell’aderenza, per i sintomi prodromici e per la de-idealizzazione dei sintomi maniacali.

Sarà necessario testare questi risultati su un campione più numeroso, ma sembra una buona direzione per il futuro dell’EMDR e di tanti pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche che troppo spesso vengono trattati solo con farmaci, non sufficientemente efficaci nel prevenire le recidive. 

Il secondo ed ultimo intervento della giornata, presentato da Marco Pagani, del CNR di Roma, esplora la neurofisiologia della violenza e le potenzialità del trattamento EMDR nell’intervenire sulle alterazioni patofisiologiche presenti in questi stati.

La relazione apre con una revisione critica della letteratura scientifica relativa alla neurofisiopatologia dei comportamenti violenti. La neurobiologia degli abusi sessuali è stata al centro dei primi studi di neuroimmagine sul PTSD e diverse ricerche hanno ormai dimostrato che nelle persone con una storia di abuso o trauma psichico sono presenti alterazioni patologiche tipiche a carico di alcune strutture cerebrali: la corteccia frontale, che non esercita più la sua fisiologica inibizione sull’amigdala, la quale per questa ragione è iperattiva e contiene informazioni non processate; l’ippocampo; il cingolo anteriore e posteriore e l’insula.

Vari studi hanno evidenziato come l’ipotalamo sia un area centrale in qualunque reazione aggressiva: l’ipotalamo mediale, insieme al mesencefalo, media la rabbia difensiva, mentre quello laterale è coinvolto nell’attacco predatorio. Entrambe queste forme di aggressività sono controllate dal sistema limbico, a sua volta influenzato da input sensoriali e sottocorticali e da da input provenienti dalla corteccia cerebrale.

Con il miglioramento delle tecniche di rilevazione neuro-fisiologica è stato anche possibile indagare il funzionamento e l’efficacia degli interventi terapeutici. Da una meta-analisi di numerosi studi sull’argomento ne sono uscite “vincenti”, per quanto riguarda il trattamento per il PTSD, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e l’EMDR.

Proprio sull’EMDR numerosi sono stati gli studi di efficacia che hanno preso in considerazione i substrati neurobiologici e tutti hanno messo in evidenza una normalizzazione dell’attività cerebrale associata con una remissione dei sintomi tipi del PTSD. La corteccia prefrontale riacquista il suo ruolo inibitorio riducendo l’attivazione dell’amigdala, e in generale le anomalie cerebrali tipiche del PTSD mostrano una sorprendente inversione di tendenza in seguito al trattamento EMDR.

Il dott. Pagani presenta anche un interessantissimo studio condotto dal CNR in cui l’efficacia del trattamento EMDR è stata testata mediante la misurazione elettroencefalografica in un contesto “ecologico”, ovvero nello studio del terapeuta durante la seduta, riducendo al minimo l’invasività dello strumento di misurazione. Il dato interessante che emerge da questa indagine è l’andamento dell’attivazione cerebrale durante la terapia: nel corso della prima seduta si attivano le regioni del trauma accompagnate da sensazioni molto disturbanti; nella fase intermedia del trattamento si attivano regioni diverse, con valenza cognitiva, e la sensazione disturbante diminuisce; durante l’ultima seduta si attivano regioni cerebrali in cui tutte le informazioni sono elaborate e integrate e non si attivano più le regioni del trauma. In questa fase non sono più presenti le sensazioni disturbanti.

Questo dato conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

Questa ultima considerazione, in linea con quanto emerso dai lavori delle giornate precedenti, sembra essere un’altra importante tessera del puzzle che nel comporsi mostra l’enorme potenziale di questo strumento nell’affrontare non solo la sofferenza dei traumatizzati, ma nel contribuire ad un maggiore benessere sociale, facendosi carico efficacemente dei comportamenti aggressivi e violenti.

L’EMDR in pochi anni ha conquistato molti e si è diffuso con relativa rapidità in tutto il mondo e fra terapeuti provenienti da tutti gli orientamenti, mantenendo tuttavia un certo alone di mistero sui  suoi meccanismi di funzionamento.

La ricerca sta lentamente svelando questi misteri, con l’esito di accrescerne ulteriormente il fascino e nel contempo la solidità, con prove di efficacia convincenti e scientificamente fondate.

LEGGI:

CONGRESSO NAZIONALE EMDR – ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA – TRAUMA – ESPERIENZA TRAUMATICA – DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD – EYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING – EMDR – DISTURBO BIPOLARE – NEUROSCIENZE

EMDR e Dissociazione – Intervista ad Annabel Gonzalez

 

Psicoanalisi: Intervista a Roberto Goisis

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Roberto Goisis

Psichiatra e Psicoanalista, Membro Ordinario della SPI.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Roberto Goisis, Psichiatra e Psicoanalista, socio ordinario SPI, Docente presso l’Università Cattolica di Milano. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

 

 CONTENUTI CORRELATI:

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOANALISI

I monologhi e la fiducia nell’altro – Psicologia del Lavoro

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Secondo un nuovo studio olandese dall’analisi della conversazione all’interno di meeting e riunioni tra diverse parti sarebbe possibile avere degli indicatori relativi all’accrescimento della fiducia.

La frequenza e la lunghezza degli interventi conversazionali dei diversi interlocutori all’interno di riunioni o incontri possono dare indicazioni rispetto alle relazioni in gioco. 

I ricercatori hanno analizzato le audioregistrazioni degli scambi conversazionali all’interno di riunioni di due board per la durata di un anno, monitorando anche per lo stesso periodo di tempo il livello di coooperazione e di fiducia reciproca. Dai risultati della ricerca è emerso che l’aumento della fiducia tra i collaboratori sarebbe correlata a una maggior frequenza degli scambi conversazionali di una breve durata: cioè a dire al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Il numero medio di scambio di turni per minuto è aumentato del 27% in corrispondenza di una maggior quota di fiducia reciproca. Similmente anche il numero di diversi parlanti attivi per misuto aumenta proporzionalmente, mentre cala drasticamente la frequenza dei monologhi della durata superiore al minuto. Quindi, il monologo sarebbe nemico dell’accrescimento della reciproca fiducia tra le parti.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – STILI COMUNICATIVI – PSICOLOGIA DEL LAVORO

Misura l’ arroganza del tuo capo con il Workplace Arrogance Scale

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Smascherare il bugiardo si può: tecniche facial action coding system e body coding system

Agustina Zaka e Rita Cautela.

 

 

Smascherare i bugiardiSmascherare il bugiardo: identificare le tracce comportamentali connesse all’atto di mentire permette di valutare le dichiarazioni rese. Quindi attraverso l’analisi del comportamento non verbale e verbale, si possono individuare i segni indicativi per riconoscere le menzogne o la veridicità delle affermazioni che la persona ha fornito.

Esistono varie tecniche, metodi e strumenti per rilevare gli indicatori di emozioni, interessi, motivazioni e bugie di cui la validità è riportata in letteratura scientifica e in descrizioni applicative (ad esempio Vrij et al 2000, Jensen et al. 2010).
L’accuratezza dell’analisi si ottiene svolgendo un’analisi trasversale che riguarda: le espressioni facciali, il comportamento motorio gestuale, gli aspetti non verbali del parlato e la linguistica utilizzata. I movimenti del volto e del corpo ci forniscono molte sfumature e sono perciò canali fondamentali con cui confrontare il verbale e riconoscere così le eventuali menzogne. (contraddizioni)

La tecnica più completa per esaminare il comportamento mimico del volto è il Facial Action Coding System (FACS) elaborata da Ekman e Friesen nel 1978. Si basa su 41 unità fondamentali denominateUnità d’Azione“, le quali si combinano tra di loro nel determinare specifiche configurazioni di espressioni facciali. A loro volta tali espressioni facciali vengono associate a determinati vissuti emozionali.

Il FACS è, quindi, un sistema di osservazione di carattere descrittivo e non interpretativo. L’interpretazione del significato psicologico si svolge tramite l’utilizzo di tecniche diverse, come per ad esempio EMFACS e FACSAID, che permettono di identificare le emozioni primarie (sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità, tristezza). Nel Laboratorio NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park di Gorizia, è stata elaborata recentemente una tecnica di decodifica del comportamento del volto più completa rispetto alle precedenti in quanto prende in considerazione oltre alle emozioni primarie, quelle secondarie, i segnali manipolatori, di conversazione e regolatori.

Un altro canale non verbale fondamentale nell’analisi riguarda i gesti e i movimenti del corpo. La tecnica che prende in considerazione tutte le parti del corpo, è il Body Coding System (BCS). Tale sistema analizza le espressioni non verbali del corpo, scomponendole nelle unità d’azione al fine di creare una classificazione che faciliti la lettura delle emozioni di una persona. La tecnica è nata per rispondere ai quesiti riguardanti i legami esistenti tra le espressioni del corpo, le caratteristiche di personalità, l’esperienza emotiva e i processi emotivi.

Nel body coding system ogni movimento del corpo è identificato da un nome e un numero ben preciso.
Le singole unità d’azione vengono poi arricchite da altri parametri, se presenti, e in che misura essi vengono osservati:

-unilateralità
-asimmetria
-intensità
-tipologia di appartenenza del movimento: rotatorio, oscillatorio
-orientamento del movimento: avanti, indietro, in basso, in alto, incrociato e così via.

Il movimento può essere inoltre:

ripetitivo: quando ha lo stesso significato dell’espressione verbale (tipicamente i movimenti propiziatori delle mani, le “bacchette” che scandiscono il ritmo del parlato)
aggiuntivo: quando arricchisce di significato quanto detto
-sostitutivo: se apporta significati apparentemente nascosti
-contraddittorio: se contraddice ciò che viene espresso
-indifferente: rispetto ai contenuti può essere ad esempio un segnale di scarico del peso corporeo

I sistemi di analisi FACS E BCS risultano estremamente utili, ad esempio, se applicati nell’ambito del recruitment e nella gestione delle risorse umane.

Durante i colloqui di lavoro o nelle fasi di riorganizzazione del personale i candidati sono sottoposti ad alti livelli di stress emotivo. Utilizzare più canali non verbali rende più facile l’acquisizione di informazioni che il soggetto non vuole, o non può esternare a causa di un’emotività più o meno accentuata, delle aspettative che nutre e delle abilità che inevitabilmente il recruiter sembra richiedere.

Affinché il processo si svolga nella maniera più naturale possibile, bisogna utilizzare una corretta impostazione dell’analisi. Non si tratta di innescare processi di diffidenza reciproca, ma di corretta comunicazione. Solo in tal modo si può raggiungere l’integrazione dei punti di vista tra i due interlocutori.

Conoscere e applicare un protocollo permette di essere preparati ad affrontare opportunamente lo stato emotivo di chi si ha di fronte, a metterlo a proprio agio, a scoprire e valorizzare le sue risorse, idee e aspirazioni.

Seguire delle linee guida chiare, significa allo stesso tempo essere flessibili e obiettivi, per raggiungere un’alta affidabilità ed efficienza.

 

LEGGI ANCHE:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSIONS

INTERVISTA A MARK FRANK – RICONOSCERE LE MENZOGNE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORI DELL’ARTICOLO:

Agustina Zaka e Rita Cautelaneurocomscience.org

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal Workshop di Reggio Calabria – Parte 2

LEGGI PARTE 1

Workshop - Disturbo borderline di personalità e DBT

Dialectical Behaviour Therapy: la seconda parte del workshop si apre con un’altra esercitazione di mindfulness. Concentrate le menti, ci prepariamo per l’intensa giornata sul trattamento, condotta a due voci che con filosofia “dialettica” si muovono armonicamente tra teoria scientifica e pratica clinica.

La DBT prevede un format standard costituito da 1) terapia individuale 2) skills training 3) telefonate 4) team meeting 5) interventi sui familiari. Secondo il modello, il lavoro in team è indispensabile e rappresenta il punto centrale della terapia. Le altre componenti della DBT possono essere invece erogate con maggiore flessibilità e secondo le necessità del caso. Recenti dati dalla letteratura infatti puntualizzano l’efficacia della DBT anche solo erogando lo skills training.

La DBT è in fase di adattamento e perfezionamento per superare alcuni limiti e renderla sempre più raffinata ed efficace”. Ci informano i docenti. “Le stesse skills dell’intervento gruppale sono state aggiornate dalla Linehan nel suo nuovo manuale che uscirà nei prossimi mesi negli Stati Uniti”.

La giornata prosegue con l’insegnamento delle tecniche DBT, individuali e di gruppo, e l’applicazione di queste mediante role-playing e simulate. Rimane spazio nella terza giornata per qualche approfondimento, fatto dalla dr.ssa Fiore, sull’applicazione della DBT anche su altre popolazioni cliniche con DCA, con Dipendenze Patologiche e negli Adolescenti.

La classe partecipa attenta e incuriosita, ma le perplessità e le curiosità ovviamente non mancano. I docenti dedicano un lungo spazio finale ai commenti e alle domande degli allievi.

Il transfert e il contro-transfert che fine fanno nella DBT?” Dal pubblico.

La domanda trova risposta decisa: “Bisogna fare ciò che funziona!”. Spiega il Prof. Maffei. Solo qualche attimo per permettere alla mente saggia di entrare in azione e prosegue “La DBT ci consente di osservare e descrivere ciò che avviene in seduta, la relazione che abbiamo con i nostri pazienti. Ci permette di intervenire sulla relazione se notiamo dei comportamenti che interferiscono con la terapia, che è uno degli obiettivi centrali del trattamento. Importante è che la modalità sia sempre esplicita, chiara e coerente” .

E ancora dall’aula “Come distinguere le richieste e i bisogni reali da quelli invece strumentali che i pazienti mettono in atto per manipolarci e testarci?

Questa è purtroppo la visione diffusa in alcuni ambienti psichiatrici. I pazienti Borderline non manipolano!” sottolinea Cesare Maffei Manipolare significa attribuire intenzionalità che spesso non c’ è nei loro comportamenti e che invece troviamo in altri disturbi, come quello Antisociale. Loro fanno il meglio che possono utilizzando comportamenti problematici perché mancano di abilità più funzionali per affrontare alcune situazioni. Non c’è intenzione di ricevere un vantaggio, ma sofferenza per l’incapacità di fronteggiare l’evento diversamente”.

I pazienti Borderline non ci testano sulla fiducia se siamo chiari e coerenti” Aggiunge Donatella Fiore “La DBT è un intervento chiaro, la nostra è una posizione ben definita. Siamo punti fermi nel caos della loro sofferenza. E se non lo siamo e ci testano, dobbiamo chiederci perché”.

Il workshop si conclude con un’esperienza di partecipazione. Tutti in cerchio, le distanze si riducono, le differenze si abbattono, docenti e discenti, terapeuti e studenti, cognitivisti e analisti, tutti insieme ne “la pioggia nella foresta”.

 

LEGGI PARTE 1

LEGGI ANCHE:

DIALECTICAL BEHAVIOURAL THERAPY – DBT

CONGRESSI

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – MINDFULNESS

REFRAMED: DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY PER IL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE REFRATTARIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 18 – Exit strategy – Rubrica di Psicologia

Etica & Morale – Onesti la mattina, disonesti il pomeriggio

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il nostro self-control riguardo all’osservanza dei nostri valori morali sembra ridursi significativamente con il passare delle ore durante la giornata, fenomeno che renderebbe più probabili menzogne e comportamenti disonesti nel pomeriggio rispetto alla mattina. 

La bizzarra ipotesi è nata nella testa di alcuni ricercatori di Harvard  che si occupano di moralità. Riflettendo sui risultati di molti loro studi hanno inziato ad osservare strane regolarità: gli esperimenti condotti la mattina presentavano tendenzialmente minori occorrenze ci comportamenti non etici e immorali.

Dunque la curiosa domanda di ricerca ha portato a un nuovo esperimento: è più semplice resistere ai comportamenti immorali e non etici la mattina rispetto al pomeriggio? 

Partendo dal presupposto che il nostro autocontrollo è messo a dura prova dalla stanchezza, dalla fatica e da continue decisioni che siamo chiamati a prendere  ogni giorno, gli autori hanno voluto verificare se le normali attività quotidiane nel loro trascorrere lungo le ore della giornata hanno un effetto nell’aumentare i comportamenti immorali.

Gli sperimentatori hanno messo a punto un task sperimentale per metterli nelle condizioni di mentire mentre erano coinvolti in un gioco al computer. In accordo con l’ipotesi iniziale i risultati hanno confermato che i soggetti testati tra le 8.00 e le 12.00 attuavano un minor numero di comportamenti menzogneri rispetto a coloro che venivano sottoposti all’esperimento nel pomeriggio.

Al di là di questo indice comportamentale, è stata valutata implicitamente l’accessibilità al concetto di moralità: in un compito di completamento di parole quali ad esempio “_ _RAL” e “E_ _ _ C_ _” i partecipanti della mattina componenvano con piu probabilità le prole MORAL and ETHICAL rispetto ai partecipanti del pomeriggio che invece componevano con più frequenza termini quali CORAL e “EFFECTS”.

Altro risultato interessante è che il cosiddetto moral disangagement, ovvero la tendenza a comportarsi in modo immorale senza sentirsi in colpa sarebbe un moderatore dell’intensità del fenomeno sopra descritto: nei soggetti con una minore propensione al moral disengagement sarebbe più evidente l’effetto della “moralità mattutina”. 

LEGGI:

ETICE & MORALE

Storie di Terapie #10 – Le bugie di Filippo

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: solitudine, questa sconosciuta

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Segnaliamo questo interessante articolo della Dott.ssa Patrizia Mattioli pubblicato su il Fatto Quotidiano.

Ognuno ha la sua solitudine. Non parlo dello stare da soli, ma del sentirsi soli, quel vissuto emotivo che emerge anche in mezzo alla gente. Ogni solitudine ha il suo significato e per ognuno il sentimento di solitudine prende forme diverse: per alcuni è la percezione di un mondo ostile, negativo e indifferente per altri è il non avere punti di riferimento, per alcuni è il non riuscire a esprimere le proprie idee, per altri è la percezione di un abbandono vissuto o reale, per alcuni è percepire il punto di vista degli altri come non in linea con il proprio, per altri è una percezione di vulnerabilità e fragilità…

 

Psicoterapia: solitudine, questa sconosciuta – Il Fatto QuotidianoConsigliato dalla Redazione

Ognuno ha la sua solitudine. Non parlo dello stare da soli, ma del sentirsi soli, quel vissuto emotivo che emerge anche in mezzo alla gente. Ogni solitudine… (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LEGGI GLI ARTICOLI DI PATRIZIA MATTIOLI PUBBLICATI SU STATE OF MIND


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Fumare durante la gravidanza aumenta il rischio di disturbo bipolare nella prole

Gravidanza e disturbo bipolareChe fumare non faccia bene è ormai noto ed assodato; che fumare in gravidanza possa aumentare il rischio per il feto e il futuro bambino di sviluppare molteplici problematiche tra cui ad esempio una riduzione del peso alla nascita e difficoltà attentive nel corso dello sviluppo è stato ampiamente dimostrato. Ciò che c’è di nuovo è che il fumo in gravidanza aumenta il rischio per il futuro bambino, una volta adulto, di sviluppare un Disturbo Bipolare.

Questo il risultato di uno studio pubblicato una decina di giorni fa dalla famosa rivista American Journal of Psychiatry da parte di un gruppo di ricercatori americani, che ha preso in esame i figli di un gruppo numeroso di donne che avevano preso parte al Child Health and Development Study (CHDS) dal 1959 al 1966. Il risultato è chiaro: il fumo in gravidanza raddoppia il rischio di sviluppare un quadro psicopatologico bipolare nel figlio una volta adulto.

In Disturbo Bipolare, classificato secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali all’interno della sezione delle patologie dell’Umore, si configura con un quadro clinico caratterizzato dall’ alternanza di fasi di umore depresso a fasi di umore euforico, anche dette fasi maniacali. Le diverse tipologie di disturbo bipolare concettualizzate differiscono sulla base della gravità, durata ed alternanza delle due opposte fasi umorali.

L’incidenza di questa patologia psichiatrica è dell’1,2% nel sesso maschile e del 1,8% nel sesso femminile. Tale incidenza può arrivare al 2% nel corso della vita. Qualche variazione nei due sessi si osserva rispetto all’incidenza delle diverse forme di bipolarismo e la tarda adolescenza e la giovinezza sono gli anni di maggior rischio per l’insorgenza del disturbo bipolare. La patologia bipolare rappresenta un quadro clinico estremamente complesso e grave, che determina una significativa compromissione della qualità di vita dell’individuo affetto e delle persone che si prendono cura di lui.

Le cause ipotizzate per il disturbo bipolare sono eterogenee e comprendono fattori biologici, genetici e ambientali, ben descritti all’interno del Modello Vulnerabilità-Stress: l’insorgere della patologia non è ascrivibile ad un solo fattore (che non può essere considerato di per sé necessario e sufficiente), ma deriva dalle interazioni continue tra vulnerabilità genetica, fattori di rischio ambientali e processi intrapsichici. Ciò significa che l’interazione da un lato può potenziare reciprocamente l’effetto dei vari fattori, ma dall’altro può anche neutralizzare l’effetto di alcuni di essi, incrementando la capacità di recupero dei pazienti di fronte alle esperienze negative.

Che significato possiamo quindi dare al risultato della ricerca qui descritta in termini di comprensione della patologia bipolare?

Gli autori hanno sottolineato come da un punto di vista psicopatologico l’esposizione al fumo di tabacco in fase prenatale si associa solitamente allo sviluppo in età adulta da parte del bambino di quadri clinici “esternalizzanti”, quali ad esempio il Disturbo da Attenzione e Iperattività (ADHD), il Disturbo Oppositivo Provocatorio (ODD), il Disturbo della Condotta (CD) e l’abuso di sostanze. Anche se non classificato all’interno dei quadri esternalizzanti il disturbo bipolare condivide con essi molteplici caratteristiche cliniche, tra cui la scarsa attenzione, l’irritabilità, lo scarso autocontrollo e l’uso inadeguato di alcol e droghe, fatto questo che spiegherebbe il rischio aumentato di contrarre tale patologia.

In un’ottica più Bio-Psico-Sociale potremmo considerare il fumo in gravidanza come un fattore di rischio che, a determinate condizioni favorevoli di vulnerabilità genetica e di rischio ambientali può, in alcuni soggetti facilitare lo sviluppo di un quadro clinico bipolare in età adulta.

Ciò significa che la possibilità per una madre che ha fumato in gravidanza di avere un figlio che in età adulta svilupperà questa patologia non è un destino inevitabile ma una realistica possibilità a determinate condizioni di vulnerabilità biologica e ambientale.

La domanda quindi sorge spontanea: perché andar a molestar il can che dorme?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fenomenologia del badantismo – Psicologia & Musica

Gaspare Palmieri  - Fenomenologia del badantismo - Il badantismo è cresciuto in concomitanza al cambiamento della famiglia tradizionale italiana, sicuramente meno coesa di un tempo e in continua evoluzione (Fruggeri, 1997).

Alcuni studi hanno dimostrato in modo preciso come l’inserimento in famiglia di quelle che in termini anglosassoni vengono chiamate Migrant Care Workers (MCW) riduce il carico assistenziale dei familiari, soprattutto in caso di patologie croniche degenerative come il morbo di Alzheimer.

Accetto molto volentieri l’invito di Flavio Ponzio di presentare il video della mia canzone “Le badanti”, che sarà contenuta nel mio prossimo CD da solista “Un lupo” in uscita tra poco sui canali digitali (ormai stampare i CD, aimè, non ha più senso).

Il brano si riferisce al fenomeno italiano del “badantismo”, che negli ultimi anni ha assunto dimensioni veramente notevoli. L’assistenza agli anziani ormai è quasi completamente nelle mani e nelle capacità di accudimento di un vero esercito di donne straniere, provenienti soprattutto dai paesi dell’est. Si contano in Italia più di un milione e seicentomila badanti, con un incremento del 53% nell’ultimo decennio.

Alla base del fenomeno ci sono sicuramente i mutamenti sociali che hanno interessato l’Italia negli ultimi anni. In primo luogo l’invecchiamento della popolazione, con il conseguente aumento della richiesta assistenziale. Fino a qualche tempo fa questo tipo di assistenza era prevalentemente a carico delle donne di famiglia, oggi meno disponibili perché più impegnate dal punto di vista lavorativo. La crisi del sistema ideologico comunista dell’Europa dell’est ha fatto il resto, favorendo un flusso migratorio sempre più massiccio verso il nostro paese. Il badantismo è cresciuto in concomitanza al cambiamento della famiglia tradizionale italiana, sicuramente meno coesa di un tempo e in continua evoluzione (Fruggeri, 1997).

Alcuni studi hanno dimostrato in modo preciso come l’inserimento in famiglia di quelle che in termini anglosassoni vengono chiamate Migrant Care Workers (MCW) riduce il carico assistenziale dei famigliari, soprattutto in caso di patologie croniche degenerative come il morbo di Alzheimer.

Nel mio lavoro di psichiatra ho avuto occasione di conoscere diverse badanti, alcune bravissime e con capacità di accudimento davvero materne, altre un po’ più rigide e autoritarie, forse per l’educazione ferrea ricevuta sotto i regimi socialisti (o semplicemente per via dell’accento dei paesi dell’est, che non è certo morbido e suadente come l’accento sudamericano ad esempio o simpaticamente buffo come l’accento filippino). Spesso le badanti sono molto istruite, certune persino laureate in discipline che di solito non hanno nulla a che fare con l’assistenza geriatrica. Alcune arrivano in Italia con tutta la famiglia, altre arrivano sole lasciando nel paese d’origine il marito e i figli, a cui mandano periodicamente parte dello stipendio. Non di rado hanno alle spalle storie difficili di povertà, maltrattamenti da parte di uomini alcolizzati (nei paesi da cui provengono l’alcolismo è più diffuso tra i maschi rispetto ai paesi mediterranei) e in generale di vite abbastanza dure. Anche il lavoro della badante in Italia non è certo semplice. Assistere 24 ore al giorno persone non autosufficienti, con un solo giorno di riposo alla settimana non è una passeggiata, ma le ragazze sembrano reggere bene.

Mi ricordo una volta in cui un collega geriatra, per la gestione di un anziana psicotica molto impegnativa, richiese specificamente la ricerca di una “badantona”. Per fortuna il fenotipo slavo comprende una buona rappresentanza di donne robuste, oltre che solitamente molto avvenenti. E qui nascono i problemi, almeno in alcuni casi. L’inserimento nel un nucleo famigliare di una figura estranea risulta spesso problematico, se poi si tratta di una bella donna, le cose possono complicarsi ulteriormente.

Una volta ho visto in ambulatorio una donna che aveva superato abbondantemente la mezza età, letteralmente distrutta dalla fuga d’amore del marito con la giovane badante della suocera. Un’altra volta in reparto mi è arrivata una donna anziana che aveva sviluppato un delirio di gelosia nei confronti della badante del marito centenario, che ha necessitato l’introduzione di una terapia neurolettica. Per non parlare dei famigerati matrimoni tra l’anziano e la badante, con le preoccupazioni dei figli rispetto alle possibili conseguenze dell’amore sulla salute del babbo, che dietro hanno spesso sentimenti ben più avidi che riguardano questioni ereditarie. Insomma la relazione d’aiuto nel badantismo può destare un certo interesse anche nel clinico, per le svariate declinazioni che può assumere. Merita sicuramente la nostra attenzione anche perché, con la crisi economica e la disoccupazione dilagante i prossimi badanti potrebbero essere i nostri giovani laureati, magari in psicologia…

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TERZA ETA’SOCIETA’ & ANTROPOLOGIADEMENZA – MUSICA

La Sindrome di Diogene e il museo del Pope

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Leadership negli Sport di Squadra Pt.10 – La caduta della leadership

 

Leadership negli Sport di Squadra #10:

 La caduta della leadership intima e istituzionale

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6 – PARTE 7 – PARTE 8 – PARTE 9

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.10 - La caduta della leadership. -Immagine: © hin255 - Fotolia.com

La tendenza generale sia dei giocatori che del direttivo è quella di individuare un capro espiatorio, una rappresentazione materiale dei problemi della squadra eliminando la quale si da il via a un processo di purificazione. Ovviamente questo capro espiatorio da sacrificare è la guida della squadra e cioè l’allenatore.

Come il leader può essere eletto, può anche essere abbattuto. Sia il leader istituzionale che il leader intimo possono giungere a subire questa amara sorte, anche se le dinamiche che portano alla loro fine spesso seguono percorsi diversi.

La fine dell’allenatore, essendo un ruolo assegnato dalla dirigenza affinché ottenga determinati obiettivi, è strettamente legata ad uno scarso rendimento professionale della squadra. Cosa accade alla leadership istituzionale in questo caso? Se gli obiettivi posti dalla dirigenza non vengono raggiunti e le prestazioni della squadra sono scadenti allora si può parlare di una posizione altamente precaria per l’allenatore.

La tendenza generale sia dei giocatori che del direttivo è quella di individuare un capro espiatorio, una rappresentazione materiale dei problemi della squadra eliminando la quale si da il via a un processo di purificazione.

Questa purificazione in qualche modo deresponsabilizza tutti gli altri membri del gruppo e permette loro, senza più rimorsi o sensi di colpa, di ricominciare a lavorare da zero. Ovviamente questo capro espiatorio da sacrificare è la guida della squadra e cioè l’allenatore. Risulta un eccessiva semplificazione pretendere di addossare tutte le colpe ad una persona; più probabilmente, infatti, andrebbero divise tra tutti i giocatori.

Ma, essendo l’allenatore colui che ha il potere decisionale, il suo esonero risulta anche essere un’opportunità di cambiare il modo di giocare della squadra (risultato finora fallimentare) senza cambiare tutti i giocatori. Questa possibilità non potrebbe ovviamente verificarsi sostituendo un unico giocatore. Ecco perché l’allenatore è il perfetto capro espiatorio. E’ innegabile che in alcuni casi la svolta determinata dal cambiamento dell’allenatore risulta essere positiva se si osservano le successive prestazioni della squadra, spesso dovuto più al cambiamento in quanto tale che all’effettiva innovazione vincente apportata dal nuovo tecnico. Se tuttavia questo cambiamento positivo non avviene, si smaschera l’illusione dell’eliminazione dei problemi con l’eliminazione del vecchio leader, facendo precipitare la squadra in un baratro depressivo da cui difficilmente potrà essere risollevata.

I casi in cui l’allenatore viene sostituito non sono comunque tutti implicabili ad una condizione di capro espiatorio. Carron [1988] ha prodotto svariate indagini su diversi sport analizzando il rapporto tra l’applicazione del turn-over degli allenatori e il successo delle squadre. I risultati ottenuti nella maggior parte dei casi studiati hanno dimostrato che il turn-over non solo è legata principalmente a squadre caratterizzate da prestazioni scadenti ma anche che queste prestazioni in linea di massima non miglioravano attraverso questa pratica. Secondo l’autore gli insuccessi della squadra possono essere attribuiti ad un’incompetenza dell’allenatore, ad un’ incapacità dei giocatori o ad entrambi. Solo in questo ultimo caso si innesca il processo di costruzione di un capro espiatorio, poiché, in alcuni casi, le scelte dell’allenatore possono realmente avere la principale responsabilità.

La partenza e l’arrivo di un nuovo allenatore implica sempre una serie di complesse conseguenze psicologiche, sia per chi è stato cacciato sia per chi subentra in una squadra in pessime condizioni di rendimento. Prunelli [1992] suggerisce l’importanza che queste conseguenze hanno per entrambi, sia come bagaglio di esperienza sia come oggetto di riflessione sul proprio operato.

Come accade anche per la figura del leader istituzionale, il ruolo del leader intimo può deteriorarsi nel corso del tempo fino a crollare definitivamente. Tendenzialmente l’apice di questa condizione è preceduta dall’acuirsi dei contrasti con gli altri componenti del gruppo, sintomo che sta iniziando a mancare la condizione necessaria per la sua esistenza, e cioè il consenso degli altri atleti. Questo è da considerarsi sia un antecedente che una conseguenza della perdita di potere da parte del leader (che per il leader intimo riguarda principalmente un potere d’esempio o di competenza) che gli impedisce di svolgere i propri compiti sia a livello socio-relazionale che a livello della produttività.

Questi contrasti sono destinati a crescere fino all’effettivo rovesciamento del leader che, nella maggior parte dei casi, viene sostituito da un compagno. Inutile dire che questa tendenza si sviluppa principalmente quando la squadra ottiene delle prestazioni negative che attivano un processo di costruzione di capro espiatorio simile a quello che può portare l’allenatore all’esonero ma totalmente interno alle dinamiche inconsce della squadra. Ma ciò può anche avere come causa scatenante l’entrata di un nuovo membro in grado di svolgere le mansioni di leader, sempre agli occhi dei suoi compagni di squadra, meglio di quanto non faccia quello attuale. Una volta persa la posizione di leader e il potere ad essa connesso, difficilmente il giocatore potrà accettare una posizione da subalterno o da gregario [Mazzali, 1995] ma più facilmente tenderà a mettere in atto comportamenti addirittura dannosi per la squadra, guidati principalmente dal rancore per un torto che ritiene di aver subito. Questi comportamenti arriveranno spesso a costringere l’allenatore e la dirigenza ad allontanare l’ex-leader.

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PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il tatto che è in grado di alleviare le paure legate alla morte

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca le persone con bassa autostima potrebbero avere un beneficio anche da brevi ed estemporanee esperienze tattili nella modalità di confrontarsi con il tema della propria morte. 

Il tema della mortatlità attraversa costantemente le nostre vite e ciascuno di noi si relaziona ad esso secondo le proprie modalità – dall’evitamento, al controllo all’accettazione. Secondo una nuova ricerca le persone con bassa autostima potrebbero avere un beneficio anche da brevi ed estemporanee esperienze tattili nella modalità di confrontarsi con il tema della propria morte. 

Da un primo esperimento è emerso che i soggetti -studenti universitari- con bassa autostima che venivano lievemente toccati sulla spalla per la durata di circa un secondo dallo sperimentatore, durante la compilazione di questionari specifici (mirati a valutare le angosce esistenziali) riportavano una minore ansia relativamente alla morte rispetto a coloro che non venivano fisicamente toccati.

In un altro esperimento, i partecipanti sono stati stimolati a riflettere sulla propria morte, e in un secondo momento è stato loro chiesto di valutare il prezzo di un orsetto di peluche. La possibilità di toccare anche solo un animale di peluche (durante un’operazione cognitiva di valutazione del prezzo utilizzata come stratagemma sperimentale)  ha favorito nei soggetti con bassa autostima un lieve decremento delle loro paure esistenziali.

Secondo i ricercatori anche brevi es estemporanee esperienze tattili interpersonali avrebbero dunque la potenzialità di ridurre l’angoscia per la morte – effetto però specifico e rilevato soltanto in soggetti con bassa autostima, e chiaramente a brevissimo termine. 

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ARTICOLI SU ARGOMENTO: MORTE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Risposta alla lettera di Chiara Atzori “Ma esistono ex gay contenti di esserlo”

 

Riceviamo e pubblichiamo un comunicato del Gruppo Psicologia Arcobaleno di Arcigay di Torino in risposta a una lettera della dott.ssa Atzori pubblicata sulla Stampa «Ma esistono ex gay contenti di esserlo» Chiara Atzori (La Stampa, 5-11-2013).

Noi di “State of Mind” concordiamo e appoggiamo il contenuto del comunicato del Gruppo Psicologia Arcobaleno, soprattutto nel non considerare malattia le preferenze sessuali di tipo omosessuale. E quindi nel non considerarle condizioni da curare. In questo senso alcune opinioni della dottoressa Atzori, in particolare la sua fiducia verso il concetto di terapia riparativa del dottor Joseph Nicolosi, ci lasciano perplessi.

Tuttavia, aggiungiamo una nota di lieve dissenso verso il tono un po’ troppo deciso con cui sono state espresse alcune delle convinzioni del Gruppo Psicologia Arcobaleno di Arcigay di Torino. Comprendiamo il timore che può generare il termine “terapia riparativa” e i riflessi automatici che queste parole possono comportare. Tuttavia anche noi terapeuti abbiamo i nostri timori e i nostri riflessi condizionati. In particolare, desideriamo sempre poter lavorare in totale autonomia e senza influenze esterne, di ogni tipo. A ogni terapeuta va assicurata la possibilità di valutare sempre in piena libertà e laicità la richiesta di ogni suo paziente, e di proporre e discutere con i pazienti gli obiettivi terapeutici ritenuti più funzionali per il benessere psicologico. Tra questi obiettivi ci sono sicuramente molto spesso l’aiuto e l’incoraggiamento che va dato a molti gay nella direzione di accettare e vivere la loro omosessualità senza vergognarsene. Può però capitare anche che alcune persone chiedano legittimamente di essere aiutate a costruire una scelta a partire da preferenze e desideri complessi e non facili da decifrare con immediatezza, in cui non c’è una chiarissima prevalenza verso una determinata direzione. Tra questi scenari esiste naturalmente anche quello di colui e/o colei che, partendo da spontanei desideri sia etero- che omo-sessuali e avendo davanti a sé realistiche possibilità di costruire sia una scelta etero-sessuale che omo-sessuale, espressamente chieda consiglio e aiuto verso la scelta etero-sessuale, per ragioni che -dopo accurato accertamento clinico- non sembrano essere dettate da timori e/o ansie. E’ ragionevole proteggere anche la libertà del clinico di optare per questo eventuale obiettivo, di counseling o anche di terapia. Ribadendo che questo ragionevole obiettivo è qualcosa di molto diverso da una irricevibile richiesta di essere aiutati a fingersi etero-sessuali per vergogna e timore dello stigma sociale. Naturalmente siamo consapevoli che, al momento, le influenze sociali di tipo omofobico sono quelle di gran lunga prevalenti e che fanno più male. A State of Mind cerchiamo di essere aperti e di non dimenticarci mai che, al di là delle giuste posizioni antidiscriminatorie, esiste la sofferenza della persona. E a tutti i tipi di dolore di una società non perfetta e non perfettamente giusta dobbiamo dare ascolto.

La redazione

 

Risposta degli PSICOLOGI ARCOBALENO – ARCIGAY TORINO alla lettera di Chiara Atzori “Ma esistono ex gay contenti di esserlo” pubblicata su LA STAMPA il 5 novembre 2013

15 novembre 2013 ore 10.55

Come Gruppo Psicologi Arcobaleno di Arcigay Torino ci teniamo prima di tutto a precisare che in nessun caso la formazione e le competenze di uno psicoterapeuta possono essere sostituite dall’aver scritto la prefazione a qualunque testo. Già perché la Dott.ssa Chiara Atzori, infettivologa e non psicoterapeuta, parla di una qualche forma di psicoterapia riparativa senza averne titolo. Come se non bastasse, le prefazioni dei libri cui fa riferimento si riferiscono alle pubblicazioni di Joseph Nicolosi, fondatore del NARTH (ricordiamo che questa sigla sta per “Associazione Nazionale per la Ricerca e Terapia dell’Omosessualità” quindi non si capisce lo stupore della dottoressa quando afferma che è stata erroneamente identificata come sostenitrice delle terapie riparative). Ci vuole un bel coraggio ad utilizzare la propria autorevolezza di medico per trasmettere pubblicamente dei messaggi che non hanno alcun fondamento scientifico, perché le posizioni “avanzate” da Nicolosi, personaggio col quale la Dott.ssa Atzori sembra vantarsi di aver collaborato, non sono mai state accettate dalla comunità scientifica, la quale non ha mai trovato prove che attestino l’efficacia del suo trattamento. Nel 2009 organismi come l’American Psychological Association (APA) e l’American Psychiatric Association insieme al Royal College of Psychiatrists hanno dichiarato che non vi è alcuna prova scientifica secondo cui l’orientamento sessuale possa essere modificato. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, le terapie riparative promosse da Nicolosi sono state oggetto di una presa di posizione dell’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani che, rifacendosi ai principi del proprio Codice Deontologico, ha espresso una valutazione per cui lo psicologo non può prestarsi ad alcuna “terapia riparativa” dell’orientamento sessuale di una persona, in quanto andrebbe contro i principi espressi dal Codice stesso, non essendo l’omosessualità una psicopatologia (il link alla dichiarazione dell’Ordine contro le terapie riparative è http://www.psy.it/archivio/allegati/2008_01_08.pdf).

Forse qualcuno è rimasto bloccato nel tempo, mentre il dovere di un professionista della salute (mentale e non) è quello di tenersi sempre aggiornato rispetto agli argomenti che intende trattare. Risale ormai a più di dieci anni fa la ricerca condotta da Shidlo e Shoeder (2001)i dove i dati più significativi emersi dalle interviste hanno rivelato il ricorso di molti clinici a descrizioni dell’omosessualità come disturbo mentale, condizione innaturale o addirittura inesistente, nonostante questo orientamento sessuale sia stato derubricato dal DSM nel 1973. Solo il 17% dei clinici sembrava esplicitare la possibilità di prendere in considerazione altri tipi di trattamento (affermativi). Questa condotta da parte dei professionisti costituisce violazione delle linee guida istituzionali mediante forme di coercizione psicologica, soprattutto fra i partecipanti a percorsi di conversione proposti da università religiose o organismi a essa affiliatiii. In poche parole, queste persone stanno peggio, per questa ragione invitiamo la Dott.ssa Atzori a portarci testimonianza di tutti gli “ex-gay contenti di esserlo” magari impegnandosi in una ricerca che riporti numeri scientificamente significativi. Siamo convinti che quando Antonio Gramsci sottolineava l’esercizio della egemonia culturale in una società civile si auspicasse di poter far crescere questa cultura sopra solide fondamenta scientifiche, non sulle ideologie o sulla religione. Ed ecco che leggiamo la lettera della Dott.ssa Atzori, mentre la percentuale di suicidi per omofobia fra gli adolescenti italiani cresce qualcuno ha ancora il coraggio di rivendicare la libertà di opinione. Ma quando un ragazzino si lancia nel vuoto dal tetto di un palazzo lasciando un biglietto dove testimonia il suo disagio nei confronti del proprio orientamento sessuale, quante opinioni si possono avere in merito? È possibile che i giovani di oggi crescano ancora con il timore di essere maltrattati, discriminati, picchiati, derubati, insultati ed isolati perché omosessuali? E chi contribuisce a questo stigma anche in modo indiretto? Queste sono le domande cui è urgente dare risposta. Ammesso e non concesso che il tema effettivo per il quale la professionista fosse stata invitata dall’Istituto Faà di Bruno fosse veramente “Domande e risposte sull’omosessualità” l’unica vera domanda alla quale dovrebbe rispondere la Dott.ssa Atzori è se veramente nel 2013 sia ancora convinta che l’omosessualità possa considerarsi una malattia. Già perché da quanto scritto nella sua lettera profondamente e radicalmente contraddittoria in ogni suo punto (senza contare i riferimenti errati alla disciplina psicoanalitica) si denotano gravissime lacune conoscitive e una tremenda confusione, il tutto condito da uno straordinario abuso di stereotipi sociali. Occorre quindi dire in modo chiaro e inequivocabile che l’orientamento sessuale non è connesso in alcun modo a sintomi o sindromi psicopatologici, né determina disturbi o conseguenze negative (Cabaj, Stein, 1996). La sofferenza, anche psicopatologica è procurata alle persone omosessuali dall’oppressione sociale e dallo stigma, dalle colpevolizzazioni indotte da visioni religiose intolleranti e da leggi discriminanti. È questa svalorizzazione, agìta nel contesto familiare, scolastico, lavorativo, ad attaccare i nuclei più intimi dell’autostima e della sicurezza che ogni persona deve vedere rispettati nell’interazione sociale (Pietrantoni 1999)iii. A tal proposito l‘APA ha pubblicato un report nel quale, a seguito di una completa rassegna della letteratura scientifica, viene evidenziato come l’idea che l’orientamento sessuale possa essere cambiato attraverso una terapia non ha alcun fondamento scientifico. Sarebbe inoltre interessante guardare il documentario “Abomination: Homosexuality and Ex-Gay Movement” a cura dell’Association of Gay and Lesbian Psychiatric, un documentaio che raccoglie le testimonianze di “ex-pazienti” delle cosiddette “terapie riparative” e alcune interviste rilasciate da clinici e ricercatori appartenenti all’American Psychiatrics Association e all’American Psychological Association. Lo scopo principale di questo documentario è quello di mettere in luce le false speranze che il movimento ex-gay offre a quanti si trovino in conflitto (egodistonia) con il proprio orientamento sessuale.

Ribadendo la premessa secondo cui è assurdo parlare di legittimità psicoterapica con chi psicoterapeuta non è affatto, andiamo direttamente al nocciolo della questione. Si può scaricare tutta la responsabilità di una scelta terapeutica sul malcontento manifestato da un paziente rispetto al proprio orientamento sessuale? Quanti eterosessuali esistono non contenti della propria eterosessualità nella società in cui viviamo? Nessuno. La Dott.ssa Atzori si riferisce alla vecchia distinzione fra omosessualità egosintonica e omosessualità egodistonica, rivendicando il diritto di poter “lavorare” in modo correttivo sulle persone che non si dichiarino contente di essere quello che sono, non facendo quindi un’attenta analisi della domanda, dando informazioni errate e non esplicitando che l’egodistonia possa invece derivare dalle forme di omofobia sociale e interiorizzata vissuta dal paziente. È quindi molto importante che ogni terapeuta affermi fortemente il dovere di dichiarare immediatamente al proprio paziente l’impossibilità per chiunque di modificare l’orientamento sessuale (omosessuale o bisessuale) nel momento in cui dovesse riceverne richiesta. Piuttosto sarebbe necessario lavorare su vari fronti come quello dell’omofobia interiorizzata o su quello dell’autostima per aiutarli ad accettarsi in una società (quella italiana) che non ha ancora imparato ad essere accogliente, facendo loro capire che la fonte del disagio non è insita in loro ma è frutto di una cultura arretrata e poco inclusiva, spaventata da ciò che non conosce o che non è in linea con le aspettative ideologiche o religiose. Ma ormai abbiamo seri motivi per dubitare che dietro questo tipo di scelte terapeutiche siano più forti gli ostacoli mentali e i credo religiosi di molti terapeuti, piuttosto che l’effettiva disponibilità dei pazienti che non vivono bene la propria omosessualità ad accettarsi.

A questo punto ci domandiamo a quale codice deontologico faccia riferimento la Dott.ssa Atzori. Non certo a quello degli Psicologi Italiani, per il quale, all’articolo 4: “Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socioeconomico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.” La spiritualità, che ciascun terapeuta è libero di vivere nel modo a sé più congeniale, non può, in nessun modo, scontrarsi con il proprio agire professionale. Il sopra citato art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, punto di partenza per l’individuazione di corrette prassi che lo psicoterapeuta contemporaneo è chiamato ad osservare, fa riferimento al rispetto di quei diritti fondamentali sanciti dalla stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. L’ispirazione democratica irrinunciabile – di cui il codice deontologico nel suo insieme e l’art. 4 in particolare sono portatori – ci porta a sostenere la necessità di non incorrere in un relativismo ipocrita che sotto le mentite spoglie del confronto culturale “aperto” tra colleghi ponga sullo stesso piano posizioni ideologiche esplicite e prassi terapeutiche implicite (non sempre dichiarate, forse perché non sempre dichiarabili) che presentino evidenti ricadute negative sul piano etico e deontologico. 

Il confronto culturale non può prescindere dal rispetto di norme fondanti, democratiche e laiche, autonome rispetto a condizionamenti ideologici, morali o religiosi, di qualunque provenienza essi siano. 

Riteniamo dunque che la comunità LGBT italiana meriti delle scuse sincere non solo per quello che ha detto la Dott.ssa Atzori, ma per la mancata consapevolezza rispetto al peso che assumono le parole di un professionista della salute (in questo caso non “mentale”) che all’inizio della sua carriera ha fatto un giuramento, il giuramento di Ippocrate, che nella sua versione moderna al secondo punto riporta la seguente voce: “[Giuro] di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale”.

PSICOLOGI ARCOBALENO – Arcigay Torino “Ottavio Mai”

Pagina Facebook: Psicologi Arcobaleno – Progetto Evelyn Hooker

Indirizzo Email: [email protected]

NOTE:

iRicerca condotta tra il 1995 e il 2000. Sono state effettuate 150 interviste strutturate a persone che si erano sottoposte a terapie riparative con professionisti della salute mentale per almeno sei sedute, per valutare le percezioni di questi durante il percorso affrontato. 

iiRigliano P., Ciliberto J., Ferrari F. (2012), “Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità” Raffaello Cortina, Milano 

iiiPietrantoni L. (1999), “L’offesa peggiore. L’atteggiamento verso l’omosessualità: nuovi approcci picologici ed educativi.” Edizioni, del Cerro, Tirrenia.

 

Indagine su credenze perfezionistiche in età evolutiva – Assisi 2013

Assisi 2013

Indagine su credenze perfezionistiche in età evolutiva

Francesco E. Pizzoleo, Laura Catullo, Annalisa d’Angelo, Francesca Tesei

(Studi Cognitivi – sede di San Benedetto del Tronto)

 

INTRODUZIONE:

Lo scopo della presente ricerca è di svolgere un’indagine di tipo quantitativo-qualitativa sulle credenze perfezionistiche in età evolutiva, intendendo con perfezionista “una persona che tende a fissare per se stesso o per gli altri standard di comportamento e aspettative molto difficili da soddisfare (Marsigli e Melli, 2008).  Il perseguire standard di comportamento eccessivamente elevati può influire negativamente con lo sviluppo di ansia  e tristezza. Lo scopo è quello di vedere se nei soggetti che sperimentano ansia e tristezza, esiste una correlazione tra autostima e credenze perfezionistiche, da noi indagate con uno strumento costruito ad hoc.

Dall’analisi dei risultati si evince che le credenze positive sul perfezionismo, considerate come strategie utili per evitare il fallimento, correlano positivamente con l’autostima emozionale.

Inoltre si evince che le credenze positive sul perfezionismo, considerate invece come strategie utili per evitare la disapprovazione, correlano positivamente con ansia, depressione ed  Autostima scolastica. Si ritiene che tale indagine possa avere interessanti ricadute cliniche nella valutazione e nell’intervento su credenze perfezionistiche legate ad emozioni negative presenti in pre-adolescenti.

 

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

LEGGI:

PERFEZIONISMO – BAMBINI CREDENZE ANSIA

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal Workshop di Reggio Calabria

 

 LEGGI PARTE 2

Workshop - Disturbo borderline di personalità e DBT

Il 15 novembre si è tenuto a Reggio Calabria il Workshop sulla Dialectical Behaviour Therapy (DBT) per il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), tenuto dal Prof. Cesare Maffei e dalla dr.ssa Donatella Fiore.

La prima giornata si apre con un’esperienza di mindfulness: occhi chiusi e si comincia con l’osservazione consapevole e la descrizione non giudicante della nostra esperienza. 10 minuti di esercitazione per prepararci ai contenuti della giornata.

Nella prima parte del corso vengono introdotte le tecniche nucleari della DBT e le basi teoriche e scientifiche da cui questa deriva.

La DBT non è propriamente una terapia cognitiva” spiega il Prof. Maffei “Marsha Linehan riconosce che le tecniche utilizzate sono maggiormente di derivazione comportamentista e che di cognitivo c’è solo il 20%”.

Il comportamentismo classico però necessitava di un ri-adattamento per questa popolazione, in quanto eccessivamente focalizzato sul cambiamento del comportamento che invece per i pazienti con DBP è più graduale e avviene solo dopo una fase di accettazione. La DBT quindi ha attinto da tecniche di derivazione diversa, tra cui Psicodinamica, Gestalt, Costruttivismo e da tecniche di terza generazione, come la Mindfulness. Questa è una delle peculiarità e originalità della DBT”.

Le tecniche di cui si compone, mirate al cambiamento da una parte (comportamentismo) e all’accettazione dall’altra (mindfulness) vengono messe in atto secondo una filosofia dialettica, che è alla base di tutta la terapia e che consiste in un atteggiamento flessibile e armonico del terapeuta nei confronti del paziente che oscilla tra due visioni opposte e antitetiche (tesi e antitesi).

L’atteggiamento dialettico, che deriva dal Buddismo Zen, è una forma mentis più che una tecnica e si traduce in quello che la Linehan chiama “sintesi”, ovvero l’intervento del terapeuta che ascolta attento la sofferenza dell’altro e fa luce sul problema che genera dolore, costruendo in maniera attiva insieme al paziente una esperienza diversa, non giudicante, flessibile e orientata al cambiamento.

E come si fa un intervento di sintesi?” Dal pubblico.

Si valida innanzitutto l’esperienza emotiva e la sofferenza del paziente che ha un sentimento di impotenza così intenso e doloroso, poi ci si orienta insieme verso il problema che ha generato la sofferenza. Errore sarebbe pensare di dover ridurre il comportamento problematico come se fosse lo scopo della terapia e non il mezzo che ci porta a comprendere meglio il motivo della loro sofferenza”.

Il Prof. Maffei aggiunge infine una sua opinione, che non è parte della DBT, e che riguarda l’assetto valoriale dei pazienti. “Dall’esperienza clinica, e non c’è ricerca su questo, si osserva che spesso la sofferenza dei pazienti risiede nella distanza che c’è tra il loro sistema di valori che da senso alla loro vita e quello che in realtà credono di poter raggiungere e/o hanno raggiunto . Tale distanza rinforza e mantiene nel tempo la loro idea di “indegnità”.

Interessante punto a cui la DBT non ci risponde. Innanzitutto, sarebbe utile definire se per “sistema valoriale” intendiamo l’insieme di pensieri e credenze che la persona struttura nel tempo sulla base delle esperienze e che vanno a costruire l’immagine di sé e il “valore” che ci attribuiamo. Successivamente, occorrerebbe capire come muoversi per ridurre la sofferenza del paziente, se la dialettica può essere sufficiente o necessita dell’integrazione di altre tecniche più mirate ad intervenire sul piano cognitivo.

Insomma, ormai a distanza di 20 anni dalla nascita della DBT possiamo osservarne l’efficacia, da una parte, dimostrata in studi randomizzati e controllati e condotti in diversi setting clinici americani e europei. D’altra parte, si iniziano a notare alcuni limiti della tecnica e le integrazioni di cui potrebbe necessitare.

A questo punto non ci resta che aspettare il 3° congresso internazionale sui Disturbi di Personalità che si terrà il prossimo anno a Roma e in cui sarà prevista una sessione di confronto tra Marsha Linehan e Peter Fonagy, autore del Trattamento basato sulla Mentalizzazione su “cosa funziona e cosa invece abbiamo sbagliato con questi pazienti”, ci anticipano i docenti.

La giornata si conclude in un clima generale di interesse e curiosità, in attesa dello skills training di domani!

 LEGGI PARTE 2

LEGGI ANCHE:

MINDFULNESSMARSHA LINHEAN – DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’  CONGRESSI – DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY

LE TERAPIE PSICOLOGICHE DEL DISTURBO DI PERSONALITA’ BORDERLINE

 

Workshop Reggio Calabria Novembre 2013

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BIBLIOGRAFIA:

Abusati e abusanti – Report dal Congresso Nazionale EMDR

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

labirinti traumatici congresso nazionale emdr Il lavoro con gli abusanti è di fondamentale importanza per la prevenzione di recidive e rappresenta un passo indispensabile per la piena tutela delle vittime.

All’interno del congresso nazionale EMDR, svoltosi negli scorsi giorni a Milano, organizzato dall’Associazione per l’EMDR in Italia, molto spazio è stato dedicato all’abuso e alla violenza, ma affrontando questi delicati temi da una prospettiva nuova e interessante, ovvero prendendo in considerazione tutti gli attori dell’esperienza traumatica: sopravvissuti e abusanti.

Apre i lavori Julie Stowasser, coordinatrice del settore Violenza Domestica dell’American Psychological Association, con un workshop su questo fenomeno di allarmante attualità che ha visto un forte incremento nel nostro Paese negli ultimi anni, in controtendenza rispetto a quanto si sta verificando negli USA.

I dati parlano chiaro: In Italia il 50% delle donne uccise lo sono per mano del convivente, il 30% da fidanzati o ex-partner e nella maggior parte dei casi c’è stato un precedente  stalking per cui non sono state prese le misure necessarie a causa di un sistema penale lento e ancora inadeguato su questo fronte. 

Julie Stowasser sottolinea con molta forza l’idea che gli effetti della violenza domestica non sono solo una questione privata, ma riguardano tutti noi e hanno profonde ricadute sulle generazioni successive.

Le definizioni giuridiche, sociologiche e culturali variano da una paese all’altro, e ad oggi non esiste un profilo coerente di aggressore e vittima. Soprattutto rispetto agli abusanti abbiamo pochi dati: la maggior parte di loro sono uomini, ma non ne conosciamo la percentuale.

Nell’ambito degli interventi terapeutici la violenza domestica può essere definita come un pattern di comportamenti verbali e non verbali messi in atto intenzionalmente e volti ad ottenere dominio e controllo all’interno di una relazione, attraverso umiliazione, minacce, intimidazione, coercizione fino alla violenza vera e propria.

E’ un comportamento intenzionale perché non c’è una totale perdita di controllo: questi abusanti sono in grado di mantenere un comportamento perfettamente calmo e controllato di fronte ai vicini di casa o alle forze dell’ordine che intervengono per poi rientrare in casa e dare sfogo alla violenza verso la partner.

Tipicamente questo pattern di comportamenti ha un andamento ciclico: da una fase di escalation la tensione si trasforma in scatto esplosivo per poi decrescere fino alla fase delle scuse e dei tentativi di riappacificazione. Questo “ciclo della violenza” col tempo aumenta di frequenza e di intensità, a volte con molta lentezza, altre volte, invece, si assiste ad una rapida escalation, con conseguenze anche letali.

L’intervento di Julie Stowasser non mira a fornire al terapeuta specifici strumenti per il trattamento, ma una chiave di lettura utile alla comprensione e alla presa di consapevolezza di una situazione con cui ci si può trovare a fare i conti in terapia.

E’ importante imparare a riconoscere e ad agire innanzi tutto per garantire la sicurezza della vittima e in secondo luogo per farsi carico dell’abusante.

Molto spesso, infatti, gli aggressori mostrano nella loro storia di vita la presenza di un Disturbo da Stress Post-Traumatico o traumi irrisolti, esposizione alla violenza durante la loro infanzia o un ambiente di crescita in cui hanno imparato che la violenza è la risposta ad ogni problema. Il ciclo della violenza si ripete e coinvolge le generazioni successive.

Proprio in virtù di queste considerazioni l’EMDR, integrato con altri strumenti di intervento, sembra essere un trattamento molto promettente per i perpetratori di violenza domestica.

L’attenzione è focalizzata su alcuni target specifici, come la vergogna e i sensi di colpa, prepotenze subite, perdite, abusi e altri eventuali traumi. Solitamente è possibile rintracciare una storia critica con qualche figura maschile di riferimento, più frequentemente il padre. Orgoglio ferito, machismo e odio generale verso le donne sono altri target molto importanti del lavoro con l’EMDR. 

Anche l’intervento di Ronald Ricci responsabile del Sexuality Responsability Program presso il Devereux Kanner Center di West Chester, si focalizza sul trattamento degli abusanti, in questo caso gli autori di reati sessuali. 

Il lavoro con questa tipologia di abusanti è di fondamentale importanza per la prevenzione di recidive e rappresenta un passo indispensabile per la piena tutela delle vittime. Questo tipo di abusanti, infatti, presenta un alto tasso di recidive e un trattamento mirato può contribuire in maniera significativa a diminuirle. Purtroppo in Italia non esiste un piano di trattamento condiviso a livello nazionale per questo tipo di offender e l’iniziativa viene lasciata alle singole amministrazioni.

Nel suo lavoro Ronald Ricci propone, in linea con quanto evidenziato dalle teorie emergenti in questo campo, un modello di trattamento dei sex offenders focalizzato sul trauma.

Il modello di trattamento classico era basato prevalentemente sull’evitamento delle situazioni che potessero innescare il comportamento deviante e sull’assunzione di responsabilità. Gli eventuali abusi subìti da parte del perpetratore venivano concepiti come scuse per giustificare il comportamento deviante e per questa ragione non gli era permesso parlarne. Questo tipo di trattamento non motivava sufficientemente gli offenders a cambiare e non permetteva di ridurre significativamente le recidive. Non teneva inoltre in considerazione il fatto che una precedente storia di abuso fosse un fattore eziologico contribuente allo sviluppo del comportamento deviante.

Molti offenders, infatti, come effetto del trauma, ricordano in maniera distorta i fatti collegati alla loro vittimizzazione, negando il danno subìto o credendo di essere stati loro i responsabili dell’abuso. Generalizzando queste credenze, non percepiscono il danno che causano alle loro vittime e le ritengono in qualche modo responsabili o corresponsabili dell’abuso. 

La letteratura ha messo in evidenza alcuni fattori di vulnerabilità presenti in questo tipo di offenders: deficit d’intimità e di abilità sociali, script sessuali distorti, disregolazione emotiva, credenze a sostegno del reato, oltre alla presenza di script devianti sessuali spesso derivanti dalla vittimizzazione sessuale nell’infanzia.

Gli attuali modelli di trattamento per sex offenders si focalizzano proprio su questi aspetti e includono al loro interno uno spazio dedicato all’elaborazione di esperienze traumatiche, anche attraverso l’uso dell’EMDR.

Il modello proposto da Ronald Ricci integra il trattamento EMDR con il modello “Good Lives”: il reato sessuale viene concepito come un modo maladattivo per ottenere un bene primario e il lavoro consiste nell’offrire al paziente la possibilità di soddisfare i suoi bisogni in modi più adattivi e nel rispetto dei bisogni altrui. 

Il trattamento inizia durante la detenzione e continua in libertà vigilata e comprende gruppi di sostegno, trattamento terapeutico generale e trattamento EMDR focalizzato sui traumi.

Alcune testimonianze video di un gruppo di pazienti sottoposti a questo tipo di trattamento mostrano chiaramente l’efficacia di questo strumento nel permettere a queste persone di elaborare le esperienze di abuso subìto e di entrare in contatto con i propri sentimenti, ponte indispensabile per una vera comprensione dei vissuti delle loro vittime e delle conseguenze dei loro comportamenti devianti. Il trattamento EMDR sembra avere una grande efficacia nel ridurre uno dei fattori maggiormente predittivi delle recidive: l’eccitazione sessuale deviante verso la tipologia di vittime del reato commesso.

Un altro interessante intervento sul tema dell’abuso, questa volta incentrato sulle vittime, è stato quello di Derek Farrell, professore ordinario dell’Università di Worcester, relativo al trattamento EMDR con sopravvissuti ad abusi subìti da parte di membri del clero. 

Fenomeno purtroppo diffuso che coinvolge tutte le fedi e tutte le chiese, affonda le sue radici molto indietro nel tempo e se ne trovano testimonianze in documenti molto antichi.

Fulcro del lavoro presentato da Farrell è l’idea che questo tipo di abuso non sia peggiore di altri, ma che presenti delle differenze di cui è necessario tener conto per offrire un trattamento adeguato ai sopravvissuti.

Queste differenze riguardano innanzi tutto la figura degli abusanti: per quanto il loro ruolo sia profondamente cambiato nel corso degli ultimi decenni, tipicamente essi ricoprono una posizione di grande importanza all’interno della comunità. Questo fa sì che spesso le vittime vengano obbligate alla segretezza ed al silenzio e, nel caso riferiscano l’abuso subìto, non vengano credute né sostenute dalla comunità, andando incontro ad una ri-traumatizzazione.

Altra caratteristica frequente in questo tipo trauma è la credenza che Dio  abbia contribuito all’abuso, attraverso le strategie di obbligo al silenzio utilizzate dai preti abusanti o per aver permesso che accadesse.

Spesso questa esperienza conduce ad un allontanamento dalla fede, che si configura come un ulteriore trauma, un profondo senso di perdita.

Un ulteriore dato importante è che nel trattamento EMDR di questi pazienti il futuro è un target di grande rilevanza. Futuro che va oltre la sola dimensione terrena, come raccontano le parole di una vittima: “Se il mio abusante si dovesse pentire Dio lo perdonerebbe e lo accoglierebbe in paradiso, e ciò renderebbe il paradiso un posto non sicuro”.

Il messaggio che emerge dai diversi interventi è chiaro: farsi carico dei “carnefici” non è solamente utile, ma necessario per interrompere il ciclo della violenza e offrire un reale aiuto alle vittime passate, presenti e potenziali. 

Gli ostacoli che una simile prospettiva deve affrontare sono diversi: innanzi tutto far accettare alle istituzioni e all’opinione pubblica interventi volti ad aiutare chi si rende responsabile di crimini che spesso suscitano reazioni profonde e feroci; in secondo luogo coinvolgere il personale curante in percorsi emotivamente molto faticosi che comportano lo stare a contatto con sentimenti e comportamenti che mettono a dura prova le capacità empatiche; un ulteriore difficoltà è quella di coinvolgere e motivare gli abusanti stessi in un percorso di messa in discussione di sé e dei propri pattern comportamentali. 

Nonostante queste difficoltà quello che i relatori sottolineano è l’imprescindibilità di questo tipo di lavoro, con l’obiettivo primario di proteggere innanzi tutto le vittime e le generazioni future dagli effetti traumatici dell’abuso.

LEGGI:

CONGRESSO NAZIONALE EMDRABUSI E MALTRATTAMENTIVIOLENZA TRAUMA – ESPERIENZA TRAUMATICA DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSDEYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING – EMDR

 

Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR – SITCC 2012

 

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