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Altra Europa di Rossella Schillaci (2011) – Psicologia Film Festival – PFF

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL PRESENTA:

altra europa - pff

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Videocommunity, SUR, Azul Produzioni e Cinemaitaliano.info vi invitano al

2° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Domenica 10 Novembre ore 21,00

Area EX- MOI, via Giordano Bruno 201

con la proiezione del film documentario

ALTRA EUROPA

di Rossella Schillaci (2011, 75′)

Ingresso libero ad offerta libera

 

Nel novembre del 2008 circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in uno storico quartiere operaio di Torino. La clinica è per loro l’unico rifugio, nonostante l’allacciamento all’energia elettrica sia precario e pericoloso e l’acqua corrente ci sia solo in quelle che erano le vecchie cucine della clinica, una per piano, una per circa 80 persone. Ma i rifugiati sono ben intenzionati a costruirsi qui un’alternativa, impegnandosi in corsi di avviamento al lavoro e nello studio della lingua italiana. Ed è proprio la loro determinazione ad animare gli squallidi e gelidi interni della clinica.

Un’altra storia, forse: nell’aprile di quest’anno 2013 circa trecento migranti rimasti senza tetto e speranza dopo la fine del Programma ENA (Emergenza Nord Africa) occupano tre palazzine dell’ex Villaggio Olimpico. Gli stabili, costruiti in occasione delle Olimpiadi del 2006 e abbandonati da più di 6 anni dall’amministrazione pubblica, hanno ripreso vita e sono ora la casa dei rifugiati dimenticati dalle istituzioni del nostro paese. Terminati i fondi del solito business emergenziale si sono ritrovati per strada; vincolati da una convenzione comunitaria non possono migrare verso altri paesi europei, mentre l’Italia, che avrebbe dovuto accoglierli e favorirne l’integrazione, chiude gli occhi sull’ennesimo disastro sociale.

Da aprile a oggi sono arrivati all’ex-Moi altri rifugiati nella stessa situazione raggiungendo il numero di 600 persone alle quali le istituzioni locali negano la concessione della residenza, requisito indispensabile per il rinnovo dei permessi e l’accesso ai servizi sociali.

Gli occupanti dell’ex Moi, hanno intrapreso un percorso collettivo per reclamare i loro diritti ma oggi si trovano alle porte dell’inverno con la necessità di affrontare gli stessi problemi raccontati nelle vicende di “Altra Europa”: la mancanza di acqua calda e riscaldamento.

Dopo la proiezione proveremo a confrontare la situazione attuale con l’esperienza di ieri, saranno presenti anche la regista Rossella Schillaci, il prof. Roberto Beneduce, docente di Antropologia Culturale e naturalmente gli occupanti dell’ex-Moi.

La proiezione è ad offerta libera per sostenere il Comitato di Solidarietà Rifugiati e Migranti.

Altra Europa (2011, 75’) di Rossella Schillaci, prodotto da Azul Film.

Il documentario segue le vicende di Khaled, Shukry e Alì nell’arco di un anno in cui, insieme ad altri compagni, i tre viaggiano tra mille difficoltà per arrivare in Europa e conquistarsi una vita migliore. La meta che vogliono raggiungere è un’”Altra Europa”, ma si trovano bloccati in Italia perché la legislazione europea li obbliga a risiedere nel primo paese in cui arrivano, dove vengono prese loro le impronte digitali.

La vicenda narrata nel film prende spunto da quanto accaduto nel novembre 2008, quando circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in un quartiere operaio di Torino, che rappresenta per loro l’unico rifugio, per quanto precario e pericoloso. La determinazione dei rifugiati nel costruirsi un’alternativa li porterà a studiare la lingua italiana e a frequentare corsi di avviamento al lavoro, animando allo stesso tempo gli squallidi interni della clinica. La vicenda dei tre personaggi rivela da vicino il loro punto di vista sull’Italia e sull’Europa attraverso uno sguardo intimo e partecipe. La storia collettiva mostra, tra sogni e delusioni, il costante desiderio di fuga e la ricerca di un’altra Europa in grado di offrire loro la possibilità di una vita dignitosa.

Il documentario, prodotto da Azul Film, è stato diretto da Rossella Schillaci, autrice e regista per Raisat, che in passato è stata assistente alla regia in produzioni Rai e Mediaset ed ha collaborato con la casa di produzione Laranja Azul di Lisbona. Tra le sue realizzazioni figura Living beyond borders, un documentario televisivo trasmesso dalle reti nazionali indiane nel’ambito del progetto Eu-india documentary.

ARTICOLI SU CINEMA

L’errore del terapeuta in psicoterapia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

L’errore del terapeuta in psicoterapia

 Ruocco F., Montali A., Fiore F.

(Psicoterapia Cognitiva e Ricerca – Bolzano)

 

INTRODUZIONE:

Nel linguaggio clinico l’errore viene spesso attribuito al paziente. Per quanto riguarda, invece, l’approccio CBT, è importante stabilire che l’obiettivo terapeutico si gioca nella relazione terapeutica. Tre grossi elementi sono coinvolti nell’errore terapeutico: emozioni, cognizioni e comportamenti, sia del terapeuta che del paziente. Nel nostro lavoro abbiamo, quindi, estrapolato quattro tipologie di errore: 1. competenza tecnico-terapeutica; 2. conduzione del colloquio; 3. formulazione del contratto terapeutico; 4. competenza interpersonale. Abbiamo inoltre preso in considerazione la presa di consapevolezza dell’errore e la determinazione della causa.

L’obiettivo posto è stato quello di sondare la percezione dell’errore in un ambiente di professionisti, per ricercare eventuali spiegazioni che i terapeuti si danno sul drop-out dei pazienti, confrontandoli con un precedente lavoro su terapeuti formati (S. Errico, 2011). Abbiamo inoltre comparato i dati con una recedente ricerca: ‘Analisi delle Aspettative di Errore in Gruppi di Allievi in Corso di Formazione in Terapia’ (S. Lissandron, 2010). Ciò che ci si chiede è se fosse possibile rintracciare delle categorie formali nelle aspettative di errore da parte dei professionisti.

Il questionario utilizzato è un riadattamento del questionario utilizzato per le precedenti ricerche (S. Lissandron 2010). Abbiamo raccolto 30 questionari compilati in forma anonima. Sono state prese in considerazione le seguenti categorie di errore: il tipo di errori ricorrenti, l’attribuzione causale e la consapevolezza. Si sono, così, confrontati i differenti approcci terapeutici rispetto alla tipologia di errore, all’attribuzione e alla modalità di acquisizione della consapevolezza rispetto all’errore, sui gruppi maggiormente rappresentati: sistemico, cognitivo-comportamentale e costruttivista. La risposta più rappresentata per le ‘categorie di errore’ è relativa alla competenza tecnico-terapeutica, con un 38%. L’attribuzione di errore maggiormente rappresentata è relativa alle abilità professionali, mentre la consapevolezza dell’errore deriva per il 26% dalle reazioni del paziente e segnali di questi al terapeuta e dalla riflessione esplicita del terapeuta stesso.

I dati si sono potuti suddividere in due filoni che corrono paralleli. Ciò che li separa sembra essere l’approccio psicoterapeutico. È, difatti, emerso che per terapeuti di stampo cognitivo-comportamentale e costruttivista il focus dell’errore è decisamente più interno rispetto ai colleghi di stampo sistemico. Questo è suggerito dal tipo di risposte raccolte. Se da un lato per terapeuti cognitivo-comportamentali e costruttivisti l’errore è di competenza tecnica, l’attribuzione è alle proprie abilità professionali e la consapevolezza è dovuta a riflessione esplicita o interna. Per il colleghi sistemici invece l’errore è maggiormente causato dalla conduzione del colloquio, l’attribuzione è data dalle caratteristiche del paziente e la consapevolezza deriva dalla supervisione clinica.

I risultati più evidenti di questa ricerca sono diversi. Possiamo, infatti, alla fine confermare che sia i terapeuti esperti che terapeuti non esperti hanno la percezione dei propri errori. Per diversi indirizzi di specializzazione in psicoterapia si hanno diverse tendenze alla percezione ed all’attribuzione dell’errore. Infatti, sia ad una attribuzione dell’errore, sia all’attribuzione della causa che per la presa di coscienza emerge la tendenza interna per terapeuti cognitivi-comportamentali e costruttivisti ed invece uno stile esterno per terapeuti sistemici.

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

LEGGI ANCHE:

Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 1

 

Il conflitto pt. 1

da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 2

Il conflitto parte 1. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Il conflitto: un tentativo di definizione psicosociale.

Il conflitto costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo.

La guerra è padre di tutte le cose, re di tutte le cose, rivela la divinità degli dei e l’umanità degli uomini.”

Così scrisse Eraclito nel suo frammento 53, che rappresenta forse il primo modello di filosofia del conflitto; secondo la sua prospettiva infatti, la conflittualità costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo. Nell’opposizione si costituiscono l’individualità e la natura degli uomini, i rapporti umani e sociali e i valori che ne regolano l’esistenza. Eraclito utilizza il termine πόλεμος (pólemos) che in lingua greca non indicava solamente il conflitto bellico o il combattimento vero e proprio, ma anche il principio vitale naturalmente opposto all’armonia e alla pace. Nel pensiero di Eraclito, che sarà poi ripreso, riadattato e riconcettualizzato in tempi moderni da altri autori, πόλεμος diviene un principio regolatore universale e una condizione naturale intrinseca sia a livello del microcosmo umano, sia a livello del macrocosmo sociale.

Quale sia la definizione di conflitto e quali siano le sue funzioni, sono state domande al centro del pensiero dei più grandi filosofi e intellettuali dell’età moderna e contemporanea; le risposte mostrano un movimento oscillatorio tra coloro che vedono nella conflittualità un valore positivo e un motore di conoscenza e potenzialità, e coloro che invece leggono il conflitto come elemento negativo e come forza distruttiva che si oppone alla naturale tendenza degli esseri umani ad aggregarsi e a costruire relazioni.

La diatriba riguardante la portata positiva o negativa del conflitto risale all’antichità e si è prolungata fino ai tempi della scienza moderna; i teorici del conflitto sono attualmente concordi nel ritenere che esso è inevitabile all’interno delle relazioni umane, ma rimangono divisi tra coloro che lo interpretano come una risorsa e una possibilità di cambiamento e adattamento, e coloro che invece lo ritengono una forza distruttiva portatrice di caos e distruzione (Winstok e Eisikovits, 2008).

Definire in maniera univoca e uniforme un processo complesso come quello del conflitto non è compito semplice.

Martello (2006a), riconosce nel conflitto, in quanto dinamica essenziale delle relazioni umane, una multidimensionalità che lo rende un processo sfaccettato e complesso. Il conflitto può infatti manifestarsi a livello intrapersonale, ma anche interpersonale o intergruppi, può essere causato da carenze oggettive, ma anche dalla divergenza di opinioni, valori e interessi in merito a una questione, coinvolge direttamente non solo gli aspetti visibili del comportamento umano ma anche le strutture conoscitive, motivazionali e identitarie profonde. Secondo l’autrice dunque, il conflitto è parte integrante della natura e delle relazioni e non rappresenta necessariamente con un effetto distruttivo o negativo sugli agenti. Il conflitto infatti può costituire un’occasione di crescita personale e relazionale nel momento in cui accresce la tendenza al rinnovamento, permette di chiarire le proprie convinzioni e opinioni, aiuta a comprendere meglio la propria posizione all’interno delle relazioni accrescendone il valore e l’autenticità (ibid.; Martello, 2006b). Tuttavia, il conflitto può anche essere un fattore di rischio per il felice mantenimento e rinnovamento delle relazioni, soprattutto quando una o tutte le parti in causa tendono a irrigidire il proprio ruolo, a distorcere la realtà dei fatti a proprio favore e, soprattutto, quando virano le proprie invettive dalla questione oggettiva alle caratteristiche individuali dell’altro agente (Martello, 2006a; Geiger e Fischer, 2006).

Arielli e Scotto (2003) descrivono il conflitto come “un’azione o una situazione prodotto di azioni in cui vi è un contrasto, una incompatibilità, tra le intenzioni, le aspettative o i bisogni degli agenti” (p. 18); gli autori sostengono dunque che il fulcro della conflittualità risiede nella mancata soddisfazione dei propri bisogni o scopi di un agente a causa dell’interferenza di un altro agente. Gray e collaboratori (2007) aggiungono che alla base del conflitto non risiede semplicemente l’incompatibilità delle azioni, ma la percezione di tale incompatibilità; per gli autori il conflitto esiste quando effettivamente gli attori lo percepiscono come tale. Quando un conflitto è percepito, quindi, gli attori ne interpretano il significato e la portata attraverso strutture cognitive preesistenti, tra cui credenze, schemi, stereotipi; ad ogni punto di questo processo di percezione e interpretazione, i conflitti possono essere letti e vissuti come più o meno importanti, più o meno minacciosi, più o meno intrattabili, definendone il destino futuro e il loro cambiamento qualitativo e quantitativo nel tempo.

La caratteristica centrale dei processi conflittuali risulta dunque essere la loro dinamicità e la loro tendenza a modificarsi nel tempo, in riferimento non solo alle nuove questioni apportate all’interno della discussione da parte degli agenti (Arielli e Scotto, 2003), ma anche ai cambiamenti della percezione che gli agenti hanno della discussione stessa (Kennedy e Pronin, 2008) nonché della partecipazione emotiva e dell’intensità degli affetti messi in gioco (Geiger e Fischer, 2006).

Quando il conflitto si colora di una sempre maggiore intensità emotiva, di risorse cognitive e comunicative sempre più forti, di questioni sempre meno riguardanti la causa scatenante e sempre più mirate alle persona singola, si parla di escalation. L’escalation può essere definita come un “aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto” (Arielli e Scotto, 2003, p. 69) che nasce dalla percezione e interpretazione dell’incompatibilità tra agenti come negativa, intenzionale e ingiustificata (Gray et al., 2007).

Alcuni autori (Gray et al., 2007; Coleman, Vallacher, Nowak e Bui-Wrzosinska, 2007) definiscono i conflitti caratterizzati dall’escalation come conflitti intrattabili; la persistenza, la distruttività e la resistenza sono le caratteristiche centrali che fanno apparire i conflitti intrattabili impossibili da risolvere. I conflitti intrattabili emergono da tematiche e questioni profonde, vissute come non negoziabili, spesso di natura morale o identitaria e sono percepiti dagli agenti come impossibili, vincolanti e invischianti (Gray et al., 2007). Facendo riferimento ad una cornice teorica di matrice sistemica, Coleman et al. (2007) descrivono il conflitto intrattabile come un’unità dinamica e olistica, le cui componenti tendono all’influenza, all’adattamento e al bilanciamento reciproci; il conflitto come sistema si evolve nel tempo, adattandosi ai mutamenti contestuali e strutturali, e ogni cambiamento a livello di un elemento genera una riorganizzazione e una ristabilizzazione globale del sistema stesso. Per questo motivo, i conflitti divenuti irreparabili e intrattabili sono caratterizzati sempre da un processo escalativo, tendono a rimanere stabili nel tempo e mantengono al proprio interno equilibrio omeostatico ed auto-organizzazione. Secondo gli autori, il conflitto diventa intrattabile quando nega e appiattisce la fisiologica complessità e multidimensionalità delle relazioni umane; il collasso della multidimensionalità, per usare la terminologia degli stessi autori, appiattisce la struttura e i processi alla base delle relazioni interpersonali e gruppali, promuovendo l’acutizzazione e l’escalation del conflitto.

L’escalation si caratterizza a livello osservabile per un aumento di intensità emotiva e di aggressività verbale e/o comportamentale; tuttavia, gli aspetti direttamente visibili non sono gli unici a costituirne il nucleo. Winstok e Eisikovits (2008) descrivono l’escalation come il culmine di un conflitto che, se anche poteva essere stato originato da intenzioni costruttive e positive, in questa fase diventa distruttivo e resistente a una sua eventuale conclusione pacifica; secondo gli autori l’escalation si presenta nel momento in cui una dinamica conflittuale devia totalmente dalla questione o situazione da cui ha tratto origine e continua a persistere anche oltre il punto in cui gli obiettivi originari sono diventati secondari o irrilevanti.

Inoltre, sempre gli stessi autori, sostengono che l’escalation conflittuale sia un processo dinamico, complesso e determinato da tre diverse componenti: comportamentale, cognitiva ed emotiva. Solo tenendo conto di questi tre livelli diversi ma strettamente interagenti e interdipendenti tra loro, è possibile studiare le caratteristiche e gli effetti di questo fenomeno (ibid.; Winstok, 2008).

LEGGI: PARTE 2

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VIOLENZA – CREDENZE – BELIEFS

RELAZIONI TOSSICHE: UN RISCHIO PER LA SALUTE COME IL JUNK FOOD

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Teoria e clinica del perdono di Barcaccia e Mancini – Recensione

 

 Recensione del libro:

Teoria e clinica del perdono

di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini

Raffaello Cortina Editori (2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

Teoria e clinica del perdono di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini Raffaello Cortina Editori (2013)

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Nonostante il tema del perdono sia stato da sempre dibattuto nei domini appartenenti alla filosofia e alla religione, solo di recente è stato affrontato in una prospettiva psicoterapeutica, evidenziandone le potenzialità curative. La ricerca scientifica internazionale sta indagando sulle potenzialità terapeutiche del perdono da oltre 10 anni ma è solo con l’opera di Mancini e Barcaccia che assistiamo alla prima sistematizzazione sull’argomento nel panorama italiano.

Uno dei motivi che ne ha reso difficile la riflessione scientifica in ambito psicologico è senz’altro l’impronta religiosa che il costrutto del perdono porta con sé. Sebbene le religioni, e in particolar modo il cristianesimo, forniscano spesso delle linee guida rispetto a una pratica morale come il perdono, alcuni studi sottolineano che chi è praticante di fatto non riesce a perdonare le offese subìte più di quanto faccia chi praticante non è.

Con lo svilupparsi della recente prospettiva psicologica positiva assistiamo allo spostamento del focus di ricerca dalle carenze ai punti di forza dell’uomo, tra i quali viene annoverata la propensione al perdono. Si tratta infatti di una abilità utile a migliorare la qualità della vita e a potenziare le capacità personali di resistenza e adattamento, competenza che tradizionalmente veniva concepita solo come eticamente desiderabile.

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Per contro, la ruminazione mentale sugli eventi che ci hanno visto come vittime di un torto perpetua nella persona quelle emozioni e quei pensieri intrusivi negativi legati all’offesa, in primo luogo la rabbia, non facendo altro che amplificarne la sofferenza. Allo stesso modo il desiderio di vendetta sembra prolungare lo stato di sofferenza della vittima, al contrario di quanto si possa credere. Ciò che è particolarmente nocivo è il risentimento cronico associato ad una condizione di passività, vale a dire non accompagnato dai tentativi di sanare la situazione.

Il libro viene così diviso in due parti. La prima parte si occupa dell’analisi cognitiva del costrutto di perdono. Per avere ben chiaro il costrutto di perdono infatti, vengono distinte le differenze con concetti affini ma solo apparentemente sovrapponibili. Si è reso così necessario svincolare la tematica del perdono dalla dimensione esclusivamente religiosa e di analizzarne le componenti, i modulatori, il processo, prima ancora di proporne delle applicazioni cliniche.

Magistrale in questo senso è il capitolo redatto da Castelfranchi e Miceli che con la precisione di un bisturi operano una vera e propria “anatomia cognitiva” del perdono distinguendone il processo da altri affini, quali lo scusare, il giustificare, il dimenticare o il riconciliarsi e spiegano con accuratezza quali siano le condizioni necessarie e non perché si possa parlare di vero e proprio perdono.

La seconda parte del libro affronta invece le applicazioni cliniche del perdono interpersonale e del perdono di sé, fornendo indicazioni per l’utilizzo terapeutico del perdono nel disturbo ossessivo compulsivo, nei disturbi di personalità borderline ed evitante, e nella depressione.

Come spiegano gli autori, il disturbo ossessivo compulsivo sarebbe caratterizzato da un eccessivo senso di colpa nel paziente legato alla morale generale. In questa ottica, le ossessioni altro non sarebbero che contenuti mentali che, agli occhi del paziente, minacciano, ammoniscono, segnalano il rischio di violazione della norma, mentre le compulsioni rappresenterebbero le azioni, tentativi volti a prevenire, contrastare o neutralizzare tale rischio. Il paziente andrebbe quindi accompagnato in un processo di perdono del sé, dibattendo in seduta circa la liceità della fallibilità umana.

Allo stesso modo la rabbia del borderline potrebbe essere modulata attraverso una implementazione delle capacità di decentramento, portando il paziente a valutare ad esempio le attenuanti al comportamento degli altri, imparando al tempo stesso a perdonare i propri agiti sganciandosi dalla spirale dell’odio di se stessi.

Facile dedurre come le condotte di evitamento possano nuocere con il medesimo processo all’individuo stesso che fugge dalle persone che ritiene abbiano commesso un torto nei loro confronti. In questo modo infatti, il paziente arriva a costruirsi una vera e propria gabbia intorno, evitando in tutti i modi di affrontare quello che ritiene il proprio carnefice.

Utile nella depressione sarebbe invece il discorso del perdono nei riguardi dei propri disturbi. Molto spesso infatti assistiamo a quello che in letteratura è chiamato problema secondario. Il paziente in questo caso si rimprovera per i propri disturbi, arrivando inconsapevolmente ad alimentarli. È così che il perdono di sé sembra arrivare a rappresentare l’unica strada terapeutica primariamente percorribile.

È per questo che con la precisa analisi del costrutto del perdono e l’elenco dei principali disturbi che beneficerebbero di un intervento su questo tipo di tematica, il libro di Mancini e Barcaccia viene a costituirsi quindi come un ottimo manuale che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni terapeuta di orientamento cognitivista e non solo.

LEGGI:

ETICA & MORALEDISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’DISTURBO OSSESSIVO -COMPULSIVO -OCD – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA‘ – DEPRESSIONE

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

GUARDA L’INTERVISTA DI STATE OF MIND A FRANCESCO MANCINI

Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Obesità e vita di coppia: le conseguenze relazionali del dimagrimento

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

In alcune coppie la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

In caso di forte sovrappeso, perdere peso è sicuramente un bene per la salute ma può non essere altrettanto benefico dal punto di vista delle ripercussioni che questo dimagrimento ha sulla vita di relazione.

Secondo una recente ricerca, infatti, se l’obiettivo di una vita più sana non è pienamente condiviso da entrambi i partners, l’ impegnarsi in questo senso da parte di uno dei due può rompere un delicato equilibrio di coppia e portare a non pochi problemi.

I ricercatori della North Carolina State University e l’ Università del Texas a Austin hanno esaminato 21 coppie (42 adulti) su tutto il paese. Uno dei due coniugi aveva perso più di 30 chili in meno di due anni, con una perdita media di peso di circa 60 chili. Il dimagrimento era stato raggiunto in diversi modi: dieta, esercizio fisico e procedure mediche. Ciascun membro della coppia rispondeva a dei questionari che indagavano l’impatto della perdita di peso sulla vita di relazione.

I ricercatori hanno scoperto che la perdita di peso, nella maggior parte dei casi, ha influenzato positivamente la comunicazione di coppia. Dai risultati emerge infatti che il membro della coppia che è dimagrito parlava con maggiore frequenza di comportamenti salutari e incoraggiava il/la partner a condurre una vita più sana, e che tutte le coppie in cui entrambi i partners si sono impegnati in comportamenti salutari hanno riferito interazioni più positive e una maggiore intimità fisica ed emotiva.

In alcune coppie, tuttavia, la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

Questi partners “poco collaborativi” risultavano essere fortemente resistenti al cambiamento degli equilibri di coppia, che contrastavano con commenti critici, comportamenti di sabotaggio (proporre cibo malsano) e azioni passivo aggressive (come l’astinenza sessuale). I risultati di questo studio ci fanno riflettere sulla complessità delle dinamiche di coppia e su come non dobbiamo mai dare niente per scontato o casuale nella vita di coppia, ma chiederci sempre su quali comportamenti si regge il patto implicito sul quale ogni coppia, nessuna esclusa, costruisce la sua unione e il suo equilibrio.

Anche i comportamenti apparentemente più negativi, infatti, possono essere la base su cui si costruisce l’intesa di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIALIMENTAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’esame di stato per Psicologi di Piccinini e Zoppi – Recensione

Recensione  del libro:

L’esame di stato per Psicologi

di Laura Piccinini e Alessia Zoppi

edito da Alpes Italia 2013

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

L'esame di stato - Piccinini e Zoppi. -Immagine: copertinaQuesto testo è uno strumento importante per gli studenti che si stanno preparando per le prove che dovranno sostenere durante l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di psicologo.

Il testo è suddiviso in tre parti per facilitare lo studente ad orientarsi e a organizzare il lavoro in maniera semplice ed efficace. Lo scopo è padroneggiare un’organizzazione concettuale che guidi lo studente ad affrontare con metodo e precisione le varie prove.

Infatti  la prima parte è focalizzata  sulla prima prova dell’esame di stato ovvero il tema, la seconda parte verte sul  progetto, ed infine il caso clinico inoltre è presente una bibliografia per argomenti per approfondire le varie tematiche di interesse.

Il testo si propone di delineare in maniera chiara la modalità  di svolgimento per ogni prova con degli esempi e delle esercitazioni pratiche, dove lo studente può cimentarsi a completarle.

Per la prima prova  è necessario  comprendere bene la richiesta della traccia quindi tracciare dei nessi logici tra vari argomenti  con coerenza concettuale sviscerando i punti chiave.  E’ importante essere flessibili per adempiere alle richieste della commissione in maniera coerente.

Inoltre mette in luce i trabocchetti delle tracce che possono mandare in crisi lo studente. Inoltre il libro propone come organizzare il tema seguendo i vari punti dall’introduzione alla definizione generale del costrutto, i punti deboli e i punti di forza che possono essere segnalati, i metodi di ricerca e le variabili che il costrutto intende argomentare. Il confronto con le varie teorie, i fenomeni che si propongono di indagare.

Nella prima parte ci sono anche delle mappe concettuali  per una visione globale e per porre l’attenzione sulle aeree maggiormente trattate  e gli argomenti più rilevanti.

Lo scopo è facilitare lo studente nel percorso di organizzazione del materiale teorico, per identificare gli elementi più rilevanti per svolgere la prova. Inoltre sono presenti delle tracce svolte di temi uscite nelle sessioni precedenti.

La seconda parte del libro orienta lo studente a sviluppare un progetto  in ambito psicologico e nelle sue  varie branche (Clinica e Comunità, Evolutiva Lavoro).

L’importanza di questa prova è mettere in evidenza  le competenze dello psicologo in riferimento alle capacità di sapersi muovere nell’ambito della progettazione con utenze diverse tra loro ed attuare  interventi mirati e specifici. In maniera esplicativa delinea i passaggi della progettazione e propone degli esempi su come va impostato il progetto e viene spiegato come svolgerlo. Bisogna tener presente che nel rispondere alle richieste è necessario rispettare una coerenza interna al progetto e alla realtà entro cui si interviene.

Bisogna considerare in primo luogo a chi è indirizzato il progetto, la tipologia dello stesso, che può essere  ad esempio di prevenzione o di riabilitazione e promozione della salute psicologica.  Ma anche il  modello teorico di riferimento che si intende usare. Gli obiettivi  che si intende raggiungere devono essere chiari accurati, come anche la descrizione sui metodi per ottenerli,  le risorse a disposizione e i risultati attesi.  Nel libro sono spiegati in maniera esaustiva tutti  i punti. Troviamo una lista delle tematiche più spesso trattate nelle tracce con cui confrontarsi e delle esercitazioni.

Infine viene spiegata  la modalità di svolgimento della terza prova che verte  su un caso clinico su cui formulare delle ipotesi diagnostiche e segnalare la tipologia  d’intervento più indicata rispetto al trattamento dei disturbi ipotizzati.

E’ mostrato il corretto inquadramento del caso clinico che implica la capacità di individuare all’interno della traccia  gli elementi significativi rispetto ai quesiti posti, il ragionamento sulle informazioni a disposizione. Ci sono le tabelle di sintesi dei criteri diagnostici del DSM-IVper facilitare la memorizzazione.

Concludendo ci sono anche in appendice i principali trattamenti evidence-based che si possono usare a seconda del disturbo psicopatologico considerato. Sono anche suddivisi i principali disturbi di Asse I del DSM-IV e l’età media di insorgenza.

Questo testo non si propone di sostituirsi ai manuali di preparazione per l’esame di stato, ma dopo un ripasso accurato, lo si può usare per svolgere degli esercizi e mettere in gioco il proprio apprendimento e le proprie conoscenze.

LEGGI:

PSICOLOGIA & FORMAZIONE

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Esame di Stato – Professione Psicologo: Timori, Speranze e Riflessioni –

24 Temi Svolti di Psicologia. Download Booktrailer

 

BIBLIOGRAFIA:

Rigidità e dicotomia: la personalità ossessiva – Psicologia

Rigidità e dicotomia . - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.comLa personalità ossessiva vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Ricordate la signorina Rottenmeier , la governante di Heidi? Ops, “devo essere molto precisa“, governante di Clara, amica di Heidi. Sì, proprio lei, la terribile, perfettina, petulante, severissima, rigorosissima e professionalmente implacabile Rottenmier. Non ne lasciava passare una ed era sempre pronta a castigare le mal capitate. La sua vita era fatta di estremi, tutto scandito da una serie di rigide regole ed eccessi.

Ma, secondo voi, che disturbo della personalità presentava? Anancastico, ergo Ossessivo-Compulsivo!

L’ossessivo vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Salta da un estremo all’altro di un continuum, non esistono vie di mezzo, anzi non sono neppure considerate le mezze misure. Si tratta, dunque, di una personalità dicotomica, che si muove tra il tutto o il nulla, fra contraddizioni morali, di pensiero e di comportamento.

L’ossessivo vive di logica, nella razionalità e nell’ordine, concetti che mal si miscelano alle emozioni. E’ molto formale nelle relazioni, educato e corretto al punto da risultare giudicante, critico, controllante e punitivo nei confronti di coloro che non rientrino negli schemi. Nel rapporto con gli altri tende al comando, a dare disposizioni per potere controllare meglio, e quando dice qualcosa in realtà impartisce ordini da far eseguire meticolosamente, solo cosi appaga il bisogno di tranquillità. Non ha fiducia in nessuno, il delegare sarebbe un rischio, se lo facesse verrebbero meno il controllo e le regole.
Svolge una vita dedita alla produttività, raggiunta attraverso attività programmate, elaborazione di schemi, liste. E il denaro? E’ da accumulare in vista di catastrofi future.

Ma, il vero nemico della personalità ossessiva è il controllo minuzioso di ogni minima cosa fino al punto da riuscire a procrastinare gli impegni più importanti per raggiungere la minima perfezione.

Anche le emozioni sono soggette a severissimo controllo, perché se mostrate sono sinonimo di debolezza e vulnerabilità. L’ossessivo può essere felice se e solo se ha la sorte di imbattersi in qualcuno di estremamente elastico che attraverso l’emotività, esperita tramite rispecchiamento cui deve assolutamente esporsi poco alla volta, potrebbe fargli incontrare l’altro nella sua interezza. Vive la rabbia ogni qualvolta non è in grado di mantenere il controllo del proprio ambiente fisico e interpersonale, tuttavia, difficilmente la esprime direttamente, perché concentrato su cosa vuole l’altro, modalità di controllo della dipendenza.

Rischia la noia e per questo è disposto a qualsiasi esagerazione: è una personalità inquieta. E alla fine approda nella depressione, perché fondamentalmente l’ossessivo si auto-svaluta, si auto-critica, e, così facendo, i pilastri della rigidità crollano.

L’affettività è anch’essa controllata e ampollosa, vissuta con disagio, al punto che la relazione affettiva è percepita come una potenziale minaccia alla propria autostima, fragile e traballante visto l’alto grado di dubbio mosso da se stesso nei confronti delle proprie capacità.

L’infanzia di questa persona, pare sia stata costellata da una scarsa valorizzazione, poco riconoscimento e un insufficiente amore da parte dell’ambiente familiare sterile, di conseguenza il bimbo ha dovuto sviluppare una serie di regole rigide che gli permettessero di sopravvivere.

La soluzione? Empatizzare con le difficoltà per riuscire ad abbandonare o smussare la rigidità e il rigore. Abbandonare le intellettualizzazioni, i pragmatismi, le procrastinazioni, i vissuti di frustrazione e rabbia per portare l’ossessivo ad accettare la sua umanità e fragilità.

Cosa fare?

1) facilitare l’identificazione dei sentimenti e la tendenza a minimizzarli;

2) facilitare lo sfogo dei sentimenti sia positivi che negativi;

3) esplorare insieme i problemi legati al controllo e alla frustrazione associati con il perfezionismo;

4) sviluppare delle aspettative più realistiche su di sé, riportandoli alla realtà dei fatti;

5) ridurre la frequenza dei comportamenti dispotici/prepotenti;

6) aiutare a sviluppare fiducia verso gli altri, delegando loro dei compiti;

7) ridurre la frequenza del criticismo verso gli altri e se stesso;

8) aumentare la bassa autostima dopo averla riconosciuta.

Concludo con una celeberrima frase di un celebre film in cui il protagonista ossessivo è finito alla pazzia: “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy“, dedicata agli ossessivi, meticolosi,estimatori del cinema Horror.

 

 LEGGI ANCHE:

DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD – DISTURBO OSSESSIVO DI PERSONALITA’ – DEPRESSIONE

L’OSSESSIVO FURIO ON BIANCO, ROSSO E VERDONE. CINEMA E PSICOTERAPIA NR. 9

 

BIBLIOGRAFIA:

La relazione di coppia compromessa dall’uso degli sms?- Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno; questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione” che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Secondo la CTIA – The Wireless Association, nel 2012 circa 2.190 miliardi di sms sono stati inviati negli Stati Uniti, l’equivalente di 171.300 milioni ogni mese; tra questi un numero significativo è stato inviato al/alla partner.

Un gruppo di ricercatori della Brigham Young University si è interessato alla frequenza e ai contenuti di questi messaggi scoprendo che questa modalità di comunicazione gioca un ruolo importante nel determinare la qualità della relazione di coppia.

Lo studio ha coinvolto 276 soggetti tra i 18 e i 25 anni e impegnati in una relazione; di questi il 38% ha dichiarato di essere in una relazione seria, il 46% di essere fidanzato e il 16% sposato. Tutti i partecipanti rispondevano a un sondaggio dettagliato sull’uso della tecnologia come mezzo di comunicazione con il/la partner.

I risultati, pubblicati sul Journal of Couple and Relationship Therapy, hanno rivelato che circa l’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno e che questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione”, che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Via sms infatti ci si confronta in merito alle reciproche differenze, si chiede scusa, si prendono decisioni e si fanno programmi di coppia, evitando in questo modo un confronto diretto con il partner. Ma è solo grazie al “faccia a faccia” che riusciamo a cogliere l’altro nella sua interezza, a vederlo cioè per come è realmente e a fare i conti con eventuali delusioni.

La comunicazione via sms quindi, quando è la forma di comunicazione prevalente e si sostituisce all’abitudine di un confronto diretto con il partner, rischia di favorire una sorta di “disconnessione” con l’altro e di peggiorare inevitabilmente la qualità della relazione di coppia.

In particolare i ricercatori hanno scoperto che, per quanto riguarda i maschi, più hanno l’abitudine di usare sms per comunicare con la partner minore è la qualità della relazione di coppia.

Non tutti gli sms però peggiorano la comunicazione di coppia, la frequenza di messaggi romantici, infatti, correla positivamente, sia negli uomini che nelle donne, con una maggiore soddisfazione di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALITECNOLOGIA & PSICOLOGIATELEFONI CELLULARI-SMARTPHONES-MOBILE – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Studi Sperimentali: risposta di Lucio Sibilia a Giancarlo Dimaggio

Con questo articolo Lucio Sibilia risponde a Giancarlo Dimaggio che aveva descritto un lavoro che paragonava l’efficacia di una terapia psicodinamica (PP, psychodinamic psychotherapy) e una terapia cognitivo comportamentale (CBT, cognitive behavioural therapy). 

 

LEGGI L’ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

Lucio Sibilia - foto
Prof. Lucio Sibilia

Studi che dimostrano l’efficacia della psicoterapia detta “psicodinamica” ne sono stati pubblicati ormai parecchi. Ma affinché si possa parlare di “scienza” in psicoterapia, molti pensano, e io concordo, che non basti la semplice dimostrazione di efficacia. È necessario anche mostrare che i presupposti hanno fondamenti empiricamente validati.

In altri termini, non basta che io ti dimostri di saper fare un buon caffè, ma se voglio parlare di una “scienza del caffè”, è necessario che ti dimostri di farlo seguendo dei principi fondati, mostrando che sono fondati.

In questo senso la CBT, nella misura in cui mantiene un saldo ancoraggio ai suoi principi fondanti, potrebbe ambire al riconoscimento di disciplina scientificamente fondata. Ovviamente, ciò non sottrae mai le sue procedure all’indagine e verifica sperimentale. Perciò, quando la verifica ci conferma un’efficacia della CBT, presente ma limitata, si possono subito porre alcune domande. Per esempio: sono stati applicati bene quei principi? Sono stati applicati correttamente?  Sui giusti bersagli? Con un’analisi cognitivo-comportamentale adeguata? Da terapeuti esperti, come ha appunto contestato Clark? Domande che non devono necessariamente mettere in dubbio i fondamenti, ma la correttezza della loro attuazione.

Passando alla PP, invece, c’è da chiedersi su quali principi si fondi. I suoi sostenitori affermano che sia ispirata alla psicoanalisi. Se così fosse, sarebbe molto problematico il suo status di disciplina scientificamente fondata. Invece, un’ispezione anche superficiale delle sue procedure ci mostra che la PP è tutt’altro dalla psicoanalisi. Come ho avuto modo di scrivere altrove, se partisse dalla psicoanalisi, si direbbe che abbia fatto un viaggio agli antipodi.

Le sue caratteristiche procedure, infatti, almeno come definite da Gabbard (2004), sono le seguenti:

• Focus sull’affettività e l’espressione dell’emozione (stimolare le risposte emotive è già presente in tipiche procedure di behavior therapy)
• Esplorazione dei tentativi di evitare aspetti dell’esperienza (impedire gli evitamenti, come nelle tipiche procedure di esposizione, o di blocco della risposta)
• Identificazione di schemi e temi ricorrenti (come nell’analisi cognitiva, alla Beck o alla Ellis, e così via)
• Discussione sulle esperienze passate (procedure di rielaborazione narrativa, ristrutturazione, e così via)
• Focus sulla relazione terapeutica (autoosservazione del comportamento relazionale)
• Esplorazione di desideri, sogni e fantasie (contenuti cognitivi, oggetto anch’essi di alcune procedure CBT)

Oppure le caratteristiche generali (non procedurali) della “psicoterapia psicodinamica breve” sono così descritte (Leichsenring, Rabung, Leibing, 2004):
time limited (di solito 16-30 sedute in un ventaglio da 7 a 40)
setting faccia a faccia

  • terapista relativamente attivo
  • sviluppo dell’alleanza terapeutica
  • sviluppo di un transfert positivo
  • focalizzazione su conflitti specifici o temi formulati precocemente in terapia
  • focalizzazione sul qui e ora
  • attenzione all’aderenza al focus
  • attenzione all’accordo su obiettivi realistici
  • attenzione alla relazione presente tra paziente e terapista, non necessariamente ricondotta al passato

Come si vede, non dovrebbe sorprendere affatto che anche la cosiddetta PP sia efficace. Infatti, essa contiene alcune procedure terapeutiche molto simili se non identiche a quelle della CBT, per quanto definite in maniera meno precisa. Eventuali altre componenti procedurali non riferibili all’area dell’apprendimento socio-cognitivo, se presenti nella PP, dovrebbero comunque dimostrarsi necessarie per il cambiamento, per essere prese in considerazione.

Trovo comunque che c’è un aspetto nella PP, il lavoro sul comportamento relazionale, che manca nella “terapia cognitiva”, almeno quella tradizionale alla Beck per intenderci, anche se non manca ovviamente in approcci di tipo più comportamentale. D’altra parte Beck aveva un approccio intrapsichico in sintonia con la sua formazione psicoanalitica. Forse questo aspetto potrebbe da solo spiegare la mancata differenza di efficacia: un possibile vantaggio della PP su di una psicoterapia soltanto “cognitiva”, per la presenza di una componente che vi manca, appunto il comportamento relazionale del paziente.

Confesso di essere un po’ stanco di leggere articoli sulla PP, come se questa fosse una versione attualizzata della psicoanalisi. Non lo è. Ma se non lo è, e aspira comunque ad uno status “scientifico”, i suoi sostenitori dovrebbero chiarire quali ne siano i fondamenti e perché sono validi. Che l’efficacia clinica fosse usata per dimostrare la validità dei principii usati accadeva sì negli anni ’50, ma allora si trattava di principii sperimentalmente stabiliti, non teorici!

In conclusione: ben vengano gli studi sperimentali, ma attenzione alle trappole che vi possono essere!

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ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

 

BIBLIOGRAFIA:

I paradigmi sperimentali nelle ricerche sullo schema corporeo

Paola Alessandra Consoli.

 

“Io sento il mio io.

Mi pare di conoscerlo meglio degli altri.

Ne sono sicuro”.

Peccarisi Luciano, Riflessioni sulla mente, 2010

Schema corporeo . - Immagine: ©-dimdimich-Fotolia.comSchema corporeo: la rappresentazione mentale del nostro corpo ci consente, continuamente, di compiere piccoli o grandi gesti, come pettinarci, utilizzare correttamente le posate, o utilizzare gli strumenti del nostro lavoro.

Solo quando questi comportamenti, che diamo per scontati, sono disturbati da una patologia, ci rendiamo conto di quanto siano importanti nella nostra vita.

I disturbi della rappresentazione corporea si possono manifestare in patologie psicologiche e psichiatriche, ma molto più spesso come conseguenza di patologie neurologiche (lesione cerebrale o lesione periferica, epilessia, ictus, emicrania). Nel primo caso si parla di “interruzione dell’immagine del corpo”, nel secondo di “disturbi dello schema corporeo” (Vignemont, 2010).

Il protagonista del funzionamento di una corretta rappresentazione corporea è il lobo parietale, ritenuto responsabile dell’organizzazione di tutte le aree sensomotorie e connesso con l’orientamento nello spazio. Gli studi sulla somatotopia hanno permesso di predisporre mappe della corteccia cerebrale per cui ad “ogni punto della superficie cutanea corrisponde un punto di massima eccitabilità corticale” (Benedetti, 1969, p.467).

Non si tratta di una rappresentazione punto per punto, perché ogni punto eccitabile della cute corrisponde a una superficie di diversi millimetri del giro post-centrale e alcune regioni del corpo (labbra, dita) sono rappresentate da superfici più vaste della corteccia rispetto ad altre. Questi recettori periferici, oltre alla percezione tattile, hanno un ruolo importante nell’orientamento spaziale. Il lobo parietale ha diverse funzioni, distinte ma correlate fra loro: la percezione tattile, la percezione del proprio corpo (somatognosia), la percezione dello spazio (gnosia spaziale), l’organizzazione superiore dei movimenti (prassia) (Benedetti, 1969).

La ricerca neuropsicologica moderna impiega paradigmi sperimentali differenti e forse stravaganti per comprendere le modalità di funzionamento della nostra corteccia cerebrale quando viene eccitata da uno stimolo tattile.

I risultati ottenuti suggeriscono che l’illusione di essere toccati in un punto del corpo impegna la stessa area del cervello che avrebbe risposto se quella parte del corpo fosse stata effettivamente toccata e illuminano la strada a chi si occupa di riabilitazione neuropsicologica per pazienti amputati o con diagnosi di disturbo della rappresentazione corporea.

Le informazioni sensoriali e propriocettive che riceviamo dall’esterno e dall’interno del corpo sono molteplici, convergenti e ridondanti. Spesso non è facile discriminare quale sia il contributo di un senso o di un altro perché il nostro cervello compie continuamente un lavoro di integrazione sensoriale. La multisensorialità e le sue conseguenze sulla rappresentazione del corpo possono essere analizzate creando situazioni sperimentali in cui un’informazione sensoriale è in contrasto con un’altra.

Un soggetto sottoposto all’esperimento della mano di gomma (Rubber Hand Illusion, RHI) viene ingannato quando ha la percezione di un tocco applicato su una mano di gomma posta di fronte a lui.

Nel paradigma RHI, i partecipanti siedono con il braccio sinistro a riposo su un tavolo, nascosto alla vista da un paravento. Viene chiesto loro di fissare visivamente una mano di gomma posta di fronte al soggetto, nella stessa posizione del braccio reale, e lo sperimentatore, con l’aiuto di due pennelli, toccherà ripetutamente e contemporaneamente la mano del partecipante e la mano finta.

Dopo poco tempo, la maggior parte dei partecipanti sentirà il tocco nello stesso posto in cui è stata toccata la mano di gomma e alcuni percepiranno questa mano finta come propria (Kammers et al., 2010).

L’effetto dell’illusione è ridotto quando la postura o la lateralità della mano di gomma è incongruente con la mano reale nascosta dietro il paravento e scompare se la mano di gomma è ruotata di 90° rispetto alla mano del partecipante (Pavani et al., 2000).

La somiglianza tra la mano reale e quella fittizia non influenza la RHI, ma lo stesso non si può dire di una precedente esperienza. Questo dimostra che l’integrazione sensoriale che conduce alla rappresentazione del nostro corpo non è sufficiente a generare la RHI, ma quest’ultima avviene a dispetto di un preesistente senso di auto-attribuzione del corpo (Gallese, Sinigaglia, 2010).

L’integrazione fra le informazioni propriocettive, motorie e visive è disturbata dalla vista della mano di gomma e dall’apparente assenza della propria mano reale. La corteccia premotoria, che ha la funzione di definire l’appartenenza dei propri arti, si fa ingannare perché è portata ad integrare le informazioni che riesce a vedere. In questo caso l’informazione visiva è più potente di quella tattile.

Questo paradigma si basa sull’opportunità quotidiana di poter raccogliere informazioni visive e tattili concorrenti durante la manipolazione di oggetti. Se queste informazioni vengono elaborate in strutture cerebrali diverse, la visualizzazione di una parte del corpo accelera l’elaborazione tattile.

Diverse ricerche hanno dimostrato che l’acuità tattile migliora quando i pazienti vedono stimolare il loro braccio, realizzando un rinforzo visivo del tatto (visual enhancement of touch) (Serino, 2010).

La visualizzazione dell’arto (reale, protesico o mano di gomma) influisce sull’attività della corteccia somatosensoriale, inducendo una rinnovata attività neurale mediante un circuito di interneuroni responsabili del giudizio dell’acuità tattile. La visione contribuisce a definire meglio lo spazio del corpo a cui fa riferimento l’informazione tattile (Serino, 2010).

Lo svantaggio di questo paradigma è che si basa su una rappresentazione illusoria di una mano di gomma statica che non può essere incorporata nello schema corporeo del soggetto proprio per la sua immobilità. I partecipanti a cui si richiede una risposta motoria, perdono immediatamente l’illusione della mano di gomma tornando alla rappresentazione della mano reale (Newport et al., 2010).

Una ricerca interessante è stata condotta da Kammers e coll. (2010) e ha coinvolto 11 studenti universitari che non conoscevano l’esperimento. Per la prima volta si è studiato l’effetto della RHI sui parametri cinematici del movimento di afferrare. I partecipanti erano posti di fronte ad un tavolo alto e indossavano un grande grembiule nero per nascondere le braccia alla loro stessa vista. Il braccio destro era posto nello scomparto inferiore di un dispositivo di legno che conteneva, nello scomparto superiore, la mano di gomma, nella stessa posizione della mano reale.

La RHI veniva indotta da carezze simultanee su pollice e indice della mano reale e contemporaneamente su quella di gomma. Si chiedeva poi ai partecipanti di prendere, in un unico movimento, un piccolo cilindro posto di fronte al dispositivo e nel frattempo si registravano i movimenti della mano destra reale.

Si è verificato che gli studenti avviavano il movimento con la stessa apertura della mano di gomma e se questa non era sufficiente per afferrare il cilindro o la posizione non era corretta, il programma motorio avviato dalla mano reale conduceva al fallimento del compito, a causa di un errore di puntamento. L’errore accadeva più frequentemente se la consegna prevedeva di svolgere il compito ad occhi aperti. Questo succede perché il cervello “si fida” maggiormente di ciò che vede, quindi dell’informazione visiva, rispetto a quella propriocettiva (posizione di partenza, configurazione della mano), ma in questo esperimento la vista si fa ingannare dalla mano di gomma.

Un paradigma davvero curioso è quello del coniglio cutaneo. Applicando colpetti sequenziali prima in una posizione, poi in un’altra del braccio, con vibrazioni puntuali alla giusta frequenza e distanza, si crea l’illusione somatosensoriale di un piccolo coniglio che salta sulla pelle.

Applicando 5 brevi impulsi della durata di 2 msec ciascuno ad intervalli di 40-80 msec sul polso e poi, senza interruzione, gli stessi a 10 cm di distanza dalla prima applicazione e ancora 5 a 10 cm dalla seconda applicazione, i colpetti successivi non si sentiranno solo nei tre posti in cui sono stati somministrati, ma anche in posizioni intermedie, in maniera uniforme, dando la sensazione di un piccolo coniglio che saltella dal polso al gomito. Applicando solo 4 impulsi sulle 3 posizioni si ha una minore distinzione del coniglio illusorio, che scompare del tutto se si applicano solo 3 impulsi (Sherrick, Geldard, 1972).

Il coniglio cutaneo illusorio (cutaneous rabbit) non attraversa la linea mediana del corpo e sembra attribuibile all’attività somatotopica in S1 (corteccia primaria somatosensoriale), che corrisponde al sito di pelle in cui la sensazione illusoria si è verificata. Il “coniglio cutaneo” può anche saltare su un bastone tenuto tra le dita del soggetto esaminato, a dimostrazione che l’oggetto può essere incorporato nello schema corporeo e che quest’ultimo è dinamico e adattabile agli strumenti abitualmente utilizzati dall’individuo, anche se, ovviamente, lo strumento manca di una specifica zona reattiva in S1, che risulterebbe quindi dotata di una plasticità transitoria (Miyazaki et al., 2010).

La ricerca di Miyazaki e coll. (2010) ha coinvolto 8 soggetti con nessuna conoscenza pregressa dell’esperimento. Gli studi con fMRI hanno dimostrato un coinvolgimento delle aree premotoria e prefrontale nella rappresentazione dell’oggetto inclusa nella rappresentazione corporea.

La percezione della forma del corpo può essere modificata sperimentalmente utilizzando l’illusione di Pinocchio. I fusi neuromuscolari sono recettori propriocettivi, posti nei muscoli striati volontari; forniscono informazioni sulla variazione di lunghezza dei muscoli. E’ possibile attivarli sperimentalmente stimolando il tendine con uno stimolo vibratorio. Applicando questa stimolazione al bicipite, la percezione sarà quella di una estensione del braccio, anche se il braccio rimane fermo. Se questo viene stimolato mentre contemporaneamente le dita dello stesso braccio tengono la punta del naso, si produce una condizione paradossale: percepiamo il braccio che si prolunga, la mano si allontana dalla faccia e il naso si allunga fino a 30 cm (Medina, 2010).

In questo caso, contrariamente al paradigma della mano di gomma, l’informazione tattile si integra con l’informazione vestibolare per sovrastare l’informazione visiva e creare l’illusione di allungamento (Lackner, 1988).

L’illusione di Pinocchio costituisce la soluzione di un conflitto sensomotorio: la vibrazione crea l’illusione di allungamento del braccio, ma essendo la mano in contatto con il naso, anche quest’ultimo sembrerà in movimento. Visto che la testa e il corpo sono stazionari, sembrerà che sia il naso a muoversi, crescendo in lunghezza. Le parti del corpo vengono rappresentate nel loro rapporto reciproco e questa rappresentazione è il risultato delle numerose informazioni sensoriali che provengono dal corpo e sono integrate in un tutto funzionale (Vignemont, 2005).

Una variante di questo esperimento è stata proposta da Ehrsson (2005): si è chiesto ad una giovane donna di porre le mani sui fianchi mentre le venivano somministrati rapidi impulsi sul tendine del polso, creando la sensazione che le mani si curvavano verso l’interno. Allo stesso tempo, la donna sentiva la vita e i fianchi restringersi di diversi centimetri per circa 30 sec.

Lo stesso Ehrsson ha sottoposto 24 persone a questo esperimento durante una fMRI e ha verificato un’attivazione parietale tanto maggiore quanto minore è la circonferenza illusoria della vita. L’esperimento può essere ripetuto quante volte sono necessarie per la rilevazione della fMRI, poiché l’illusione di restringimento della vita si manifesta ogni volta che sono applicati gli impulsi.

La plasticità cerebrale, con le sue infinite possibilità di recupero, parziale o totale, da una lesione, consente di mettere in dubbio l’assoluta somatotopia descritta negli ultimi decenni. Il corpo rappresentato nel cervello potrebbe non essere perfettamente isomorfo al corpo reale.

Fino a quando queste infinite opportunità di rappresentazione corporea non saranno scoperte e fino a quando le tecniche riabilitative non avranno raggiunto l’eccellenza nella possibilità di guarigione di un paziente, potremo avere il ragionevole dubbio di possedere non uno ma diversi “corpi nel cervello”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Chi trova un amico, trova un tesoro! Proverbio o evidenza scientifica?

 

 

 

Chi trova un amico trova un tesoro. - Immagine: © Igor Yaruta - Fotolia.comVi siete mai chiesti da dove derivi il vecchio adagio “chi trova un amico, trova un tesoro”? Se ne trova traccia anche nella Sacra Bibbia, dove l’amicizia viene descritta come un tesoro dal valore inestimabile: “l’amico fedele è un balsamo nella vita” (Libro dell’Ecclesiastico, 6,5-17).

Una ricerca condotta nel 2011 a Montrèal, in Canada, fornisce prove scientifiche che sembrano confermare quanto i nostri nonni ci hanno sempre insegnato: la presenza di amici, in particolare del migliore amico, è uno strumento utile in grado di mitigare gli effetti che esperienze negative (un litigio, un brutto voto, etc.) possono avere sulla propria autostima.

Adams, Santo e Bukowski hanno monitorato per quattro giorni un gruppo di 103 tra ragazzi e ragazze (55 maschi e 48 femmine) con età compresa tra i 10 e i 12 anni.

Ciascuno di loro ha dovuto compilare un quaderno annotando ciò che capitava loro durante la giornata e nel contempo veniva misurato il livello di cortisolo presente nella saliva, un ormone il cui aumento sembra direttamente collegato ad esperienze stressanti.

Secondo i ricercatori in un bambino, di fronte ad un’esperienza negativa, si verifica un aumento di cortisolo e una diminuzione di autostima, ma se accanto a lui è presente il migliore amico tale effetto negativo è meno forte e si ristabiliscono più velocemente le condizioni precedenti all’evento, ossia riduzione del livello di stress (diminuzione di cortisolo) e miglioramento del tono dell’umore e del livello di autostima.

I risultati raggiunti sembrano quindi confermare l’ipotesi di effetti protettivi dovuti alle amicizie: la presenza del migliore amico durante un’esperienza negativa riduce in modo significativo il suo effetto su cortisolo e autostima globale.

In assenza del migliore amico invece si verifica un significativo aumento di cortisolo e una significativa riduzione dell’autostima globale.

Non sarà un tesoro in denaro, ma l’amicizia sembra essere effettivamente un “balsamo nella vita”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Tra Alzheimer e ApoE4 c’è SirT1, la proteina target del vino rosso

Viviana Spandri

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare l’Alzheimer. Le anomalie associate ad ApoE4 e Alzheimer, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1.

La Malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease-AD) è la forma più comune di malattia degenerativa invalidante a esordio prevalentemente senile, tipicamente esordisce con un deficit di memoria per i fatti recenti ed è caratterizzata da morte neuronale in seguito alla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, attribuibili alla proteina beta-amiloide.

I malati di AD in Italia sono circa 492000, mentre nel mondo nel 2006 ammontavano a 26.6 milioni, principalmente di sesso femminile. Al momento non esistono trattamenti curativi, o anche solo efficaci al 100% nel fermare la progressione della malattia e la ricerca si sta muovendo in più direzioni per cercare le cause di questa forma di demenza e riuscire a sviluppare trattamenti preventivi.

Una di queste strade di ricerca mira a trovare un trattamento preventivo per il 2.5% della popolazione portatrice di due alleli ApoE4, condizione che nella popolazione di razza caucasica o giapponese porta a un rischio stimato di 10 o 30 volte superiore di sviluppare la malattia rispetto a coloro che non hanno neanche un allele; inoltre l’allele singolo ApoE4 è presente nel 25% della popolazione.

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi quindi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare AD. L’ApoE4 è una delle 3 principali isoforme, insieme ad ApoE2e ApoE3, dell’ApoE (apolipoproteina E), è normalmente coinvolta nelle reazione metaboliche del colesterolo, e nello specifico del Sistema Nervoso Centrale (SNC) viene prodotta dagli astrociti e trasporta il colesterolo ai neuroni attraverso i recettori ApoE.

Resta un mistero quale sia il meccanismo attraverso cui l’ApoE4 aumenti il rischio di sviluppare una malattia degenerativa. In una ricerca pubblicata recentemente dal gruppo di ricerca del Buck Institute è stata dimostrata una correlazione negativa tra ApoE4 e SirT1, una proteina “anti-aging” bersaglio del resvaratrol, presente nel vino rosso.

Nello specifico questo gruppo di ricerca ha scoperto che ApoE4 provocherebbe una grave riduzione nella concentrazione di SirT1, una delle 7 sirtuine che possiede l’uomo, sia in cellule neuronali coltivate in laboratorio che in campioni di tessuto cerebrale di pazienti con ApoE4 e AD.

Le anomalie associate ad ApoE4 e AD, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1, che è stata dimostrata avere un ruolo di protettore per la neurotossicità in quanto associata a un cambiamento nell’elaborazione della proteina precursore dell’amiloide (APP), mentre ApoE4, al contrario, favorisce la formazione del peptide beta-amiloide associato con le placche amiloidi, uno dei segni distintivi di AD.

Inoltre la presenza dell’allele ApoE3 (che non porta ad aumentare il rischio di sviluppare AD) sembrerebbe essere correlata ad una concentrazione più elevata di peptide anti-AD (alfa sAPP) invece che di peptide beta-amiloide pro-AD. Il meccanismo d’azione di SirT1 sarebbe quindi spiegato, dal momento che la sovra-espressione di SirT1 è stata precedentemente connessa all’aumento di ADAM10, la proteasi che scinde APP per produrre sAPP alfa e prevenire la beta-amiloide. L’ApoE4 porterebbe a una diminuzione della SirT1 in rapporto alla SirT2, nota per essere tossica per le cellule neuronali, e quindi mediante questo meccanismo porterebbe alla morte neuronale.

LEGGI:

MORBO DI ALZHEIMERTERZA ETA’GENETICA & PSICHE – DEMENZA

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La cura della Fobia Sociale e il primato tra CBT e terapia Psicodinamica

 

 

 

Dimaggio ansia sociale - Immagine: © intheskies - Fotolia.com - SQUAREMeccanismi differenti per trattare la fobia sociale: terapia cognitivo-comportamentale e terapie psicodinamiche a confronto

Da sempre in psicologia clinica ci si chiede quali siano i trattamenti psicoterapeutici, o almeno gli interventi, più efficaci per determinati sintomi. La risposta definitiva non è ancora arrivata, e le risposte –solide ma non conclusive- che la scienza ci mette a disposizione non sempre ci soddisfano. Per questo desidero tentare una riflessione e condividerla con i lettori di State of Mind.

I sintomi psicologici sono sorretti da meccanismi molteplici. L’ansia sociale può essere mantenuta da rappresentazioni schematiche maladattive di sé con l’altro che portano ad anticipare una risposta negativa quando si attiva il desiderio di essere accettati e apprezzati. Può essere sostenuta da meccanismi di evitamento comportamentale che rinforzano il ritiro sociale e impediscono di contrastare le rappresentazioni maladattive schematiche. Variabili temperamentali possono essere in gioco, ad esempio una timidezza su base genetica. Altri meccanismi di mantenimento possono essere prevalenti, bias attenzionali a segnali di rifiuto o meccanismi di rimuginio metacognitivo che mantengono nella mente il focus su rappresentazioni di umiliazione, derisione e rifiuto.

Se i meccanismi di mantenimento sono molteplici, ne consegue che i punti di attacco sono vari, e che si possa generare miglioramento sintomatico attraverso vie diverse.

In questa ottica, il problema è meno: quale trattamento manualizzato può offrire la migliore soluzione all’ansia sociale (o ad altri disturbi sintomatici)?
Una domanda più interessante mi sembra: quale meccanismo o meccanismi sottendono l’ansia sociale in questo specifico paziente e tra le tecniche disponibili, qual è la più adatta a risolvere il problema?

La logica della ricerca di efficacia sui trattamenti psicoterapeutici non aiuta a dirimere la questione. Il trend prevalente è quello di gettare due trattamenti nell’arena e vedere quale funziona di più. Dimenticandosi che, anche se un trattamento funziona meglio dell’altro, non è detto che sia utile a tutti i pazienti. E non è detto che molti dei pazienti per cui il trattamento che appare superiore non beneficerebbero dell’altro trattamento, più adatto al problema che effettivamente presentano.

Questo dibattito si è recentemente ravvivato a seguito di un trial che comparava la terapia cognitivo-comportamentale (da questo momento CBT: cognitive behavioural therapy) per l’ansia sociale con la terapia psicodinamica, trial che offre spunti di riflessione in questa direzione.

Leichsenring e colleghi (2013) hanno trattato un totale di più di 400 pazienti assegnati random ai due trattamenti (Link). Gli autori concludevano che: entrambi i trattamenti erano efficaci ed entrambi superiori a pazienti in lista d’attesa; che la CBT era superiore per la remissione dall’ansia sociale ma non per la risposta globale; rispetto alle misure secondarie di outcome, ovvero depressione e fobia sociale la CBT era anche lievemente superiore. La differenza tra i due gruppi era però considerata dagli autori piccola. Detto in termini semplici, la CBT emergeva non come nettamente superiore alla terapia psicodinamica.

Alla pubblicazione del trial è seguito un dibattito. David Clark, uno dei principali autori del modello di terapia CBT per l’ansia sociale, e sempre in prima linea nel difendere le ragioni della CBT nei dibattiti scientifici, ha sollevato una serie di obiezioni, tutte mirate a sostenere che la CBT non era stata effettuata al meglio e quindi gli esiti ottenuti erano inferiori a quelli che avrebbe prodotto una CBT applicata secondo canone.

La risposta di Clark si trova qui. La riassumo:

la forma di CBT applicata era stata diluita in 8-9 mesi contro i 3-4 mesi consigliati. Le sedute erano di 55 minuti invece dei 90 minuti consigliati per potere applicare gli esercizi di esposizione comportamentale; la competenza dei terapeuti CBT era inadeguata; i terapeuti CBT non erano abbastanza esperti ed avevano in media meno anni di esperienza dei terapeuti psicodinamici. Clark quindi concorda con gli autori che entrambi i trattamenti erano risultati efficaci e la CBT era superiore. Tuttavia obiettava che la magnitudine della superiorità è stata sottostimata a causa dei problemi sopra elencati. Invoca quindi nuovi studi di confronto in cui la CBT venga applicata in modo pienamente corretto.

 

Gli autori dello studio hanno replicato: Link  Le loro argomentazioni erano le seguenti:

la CBT non era stata modificata e seguiva il manuale di Stangier, Clark e Ehlers. L’esperienza dei terapeuti non aveva avuto un impatto sui risultati. Controbiettano poi che in studi precedenti condotti dallo stesso Clark la competenza dei terapeuti CBT non era stata analizzata, quindi la sua obiezione non aveva fondamento su prove empiriche precedenti e mettevano in dubbio la generalizzabilità del precedente studio di Clark che includeva pochi (21) pazienti trattati da 6 terapeuti super-esperti. Aggiungono poi che se la CBT è stata manualizzata da tempo, la terapia psicodinamica per l’ansia sociale lo è stata da poco e il livello di competenza con cui era stata applicata in questo trial era sub-ottimale, quindi essa per prima suscettibile di miglioramento. Infine precisano di non avere sostenuto che la CBT era superiore alla terapia psicodinamica, ma solo di avere mostrato alcune significatività statistiche in alcune misure di esito specifiche. Il tasso di differenza nei successi tra i due trattamenti era infatti basso (tra 8 e 10%) e insufficiente per affermare la superiorità di un trattamento rispetto all’altro. Concludono quindi che sulla base del loro studio non è possibile affermare che la CBT sia superiore ed è necessario che lo studio venga ripetutamente replicato.

Il dibattito è interessante ed entrambe le parti portano argomenti sensati. Quello che appare evidente è che la differenza nell’efficacia, se esisteva, era minima, e che entrambi gli approcci hanno buone ragioni per dire che il loro trattamento poteva essere implementato meglio. Il che, ed è un merito, invita a raffinare i trattamenti e migliorarne l’applicazione.

Tornando al mio punto di partenza, è probabile che il punto interessante non sia quanto le terapie siano efficaci, una volta stabilito che nessuna della due si imponga come chiaramente migliore e quindi da suggerire ai pazienti come prima scelta.

I due trattamenti erano completamente diversi rispetto a tecniche usate. La terapia psicodinamica cercava di aiutare i pazienti a riconoscere i propri schemi interpersonali che sottendevano l’ansia sociale e a prenderne distanza. La CBT usava un repertorio di tecniche, quali esperimenti comportamentali e rescripting immaginativo.

Il clinico che è interessato per motivi politici ed economici a mostrare che un approccio è superiore all’altro tenderà a leggere i risultati di studi come questo in termini: questo trattamento è superiore e va proposto o imposto sugli altri.

Il clinico interessato a comprendere la psicopatologia e a smantellare la psicoterapia scoprendone gli ingredienti efficaci può imparare da studi del genere e da questo dibattito che esiste un repertorio di tecniche adatto a trattare aspetti diversi alla sorgente dello stesso problema. Diventa un clinico con più frecce al proprio arco, capace di intervenire con più strumenti tecnici dopo un’adeguata case-formulation.

LEGGI LA RISPOSTA DI LUCIO SIBILIA A QUESTO ARTICOLO

LEGGI ANCHE:

ANSIA SOCIALE 

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

BIBLIOGRAFIA:

AUTORE DELL’ARTICOLO:

Giancarlo Dimaggio – Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma.

Alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche – Assisi 2013

Assisi 2013

La relazione tra alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche

Andrea Poli 1, 2, Cristina Meoni 1, Claudio Bartolozzi 3, Giancarlo Muscas 4† & Ferdinando Galassi 5

1Scuola Cognitiva di Firenze, via delle Porte Nuove, 10, Firenze; 2Istituto di Neuroscienze, CNR, via Moruzzi, 1, Pisa; 3AOU Careggi, Dipartimento di Fisiopatologia Clinica, Reparto di Genetica Medica, Firenze; 4AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Neurologia, Firenze; 5AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Psichiatria, Firenze.

INTRODUZIONE:

E’ ormai noto che i pazienti con PNES (Psychogenic Non-Epileptic Seizures) mostrino un’esperienza emotiva più intensa (Roberts et al., 2012) e che un estremo arousal emozionale possa risultare in un fallimento integrativo della memoria (van der Kolk, 2006), ma non vi sono ancora evidenze definitive sulla relazione tra dissociazione ed alessitimia in questi pazienti. (Myers et al., 2013; Schacter & LaFrance, 2010).

La ricerca si propone di verificare le seguenti ipotesi: 1) la predisposizione alla dissociazione è un fattore predittivo per lo sviluppo di PNES; 2) l’alessitimia è mediatore degli effetti della dissociazione sulle probabilità di sviluppare PNES.    

14 pazienti con PNES, 13 pazienti con PNES in comorbidità con epilessia (PNES+EP), 9 pazienti con EP (tutti selezionati con monitoraggio video-EEG) e 16 controlli sani (HC, Healthy controls) hanno compilato i seguenti strumenti: DES-II, TAS-20, BDI-II, STAI-S e STAI-T.

Dai modelli di regressione logistica risulta che solo le sottoscale EOT (della TAS-20) ed Abs (della DES-II) sono in grado di predire in maniera significativa l’appartenenza al gruppo PNES. Dall’analisi di mediazione/moderazione risulta che la sottoscala Abs è in grado di predire l’appartenenza al gruppo PNES, ma non al gruppo PNES + EP, ed sil suo effetto è pienamente mediato (full mediation) da EOT.

La predisposizione ad uno stile dissociativo di gestione emotiva è un fattore predisponente allo sviluppo di PNES e il suo effetto si concretizza in uno stile di pensiero prevalentemente orientato all’esterno.

 

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DISSOCIAZIONE PRESENTAZIONI

Il trauma e il corpo. (2012) – Recensione dell’edizione italiana

Tutti gli articoli sul V Forum sulla Formazione in Psicoterapia di Assisi 2013

 

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) – Recensione

 

Recensione del Film:

La vita di Adele – Palma d’oro a Cannes 2013

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I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I, I follow you, dark boom honey 

I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I follow you dark boom honey 

I follow you ..

(da “I follow rivers”, di Likke Li)

 

La vita di adele di abdellatif kechiche. -Immagine: Locandina

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La semplicità e leggerezza della musica che accompagna Adele verso la pienezza dei suoi sentimenti descrive in modo perfetto quell’attimo, quella luce che vediamo all’improvviso accendersi nel suo volto durante la festa del suo 18esimo compleanno.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) è un affresco coloratissimo di umanità, di sguardi, di volti ed emozioni che difficilmente si trovano così ben rappresentate e con la delicatezza mostrata dal regista. Adele è un’adolescente, tormentata lettrice di romanzi, affamata di vita, curiosa e solida nelle sue certezze e nei valori che la accompagnano: le piacciono gli spaghetti al ragù che cucina il papà e da grande vuole fare la maestra, per restituire al mondo quello che le è stato insegnato.

La storia d’amore con Emma arriverà come arriva ogni storia d’amore a 17 anni: improvvisa, dirompente e accesa da un forte desiderio di perdersi nell’altro, di sentire l’altro vicino con il corpo e con la mente, in modo totale e assoluto. 

Emma è una studentessa di belle arti, dai capelli blu, trasgressiva e pienamente consapevole della sua sessualità. Entra in scena come una guida adulta per Adele, ma a poco a poco trova in lei una musa, trae forza e passione dalla spontaneità con cui Adele si tuffa nella vita.

Attraverso lo sguardo di Emma, Adele inizia allora a conoscersi, a scoprire il suo corpo e la sua sessualità e a costruire una lenta ma necessaria frattura tra il suo mondo prima e dopo l’incontro con lei. Si alternano sul volto di Adele, sempre in primo piano e sempre generoso nell’esprimere emozioni, paura ed eccitamento, tormento e spensieratezza in una danza che descrive la lenta esplorazione dei suoi sentimenti e bisogni più profondi.

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. 

Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La normalità della scelta di un amore omosessuale è un dato assodato, non più neanche in discussione. L’omofobia compare solo un attimo negli insulti degli adolescenti compagni di classe di Adele, e neppure tutti. Viene presto liquidata come una reazione dovuta all’immaturità, al facile giudizio. Null’altro.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La storia di Adele è la storia di chiunque si sia innamorato a 17 anni e abbia lottato per affermare il suo sentimento, forte e impossibile da lasciare inascoltato.

Il bisogno di capire cosa vuol dire “che manca qualcosa al cuore” – domanda con cui si avvia il film in un’appassionata lezione dell’insegnante del liceo di Adele – è un bisogno che diventa quasi fisiologico, che guiderà tutte le scelte di Adele da lì in poi. Proprio come la fame, il sonno. Semplicemente una necessità.

Il film assume dunque le caratteristiche di un romanzo di formazione, piuttosto che di una storia d’amore.

Permette di spiare la sua protagonista da una prospettiva vicinissima, di coglierne dubbi e incertezze, di seguirla per tutti i 179 minuti della pellicola, mentre esplora il mondo altro da casa sua. 

Quell’ “impressione di fare finta su tutto” è la scintilla che avvia la sua ricerca: la sensazione di non avere un’identità stabile, di non essere completa passeranno da lacrime amare ed esplosioni di gioia, ma nel vestito blu in cui si muove nel secondo ed ultimo capitolo del film possiamo vederla finalmente autentica e completa.

Pronta a continuare la sua corsa, a soffrire e a crescere ancora.

 

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ADOLESCENTILGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDERCINEMA – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

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La madre-drago delle pazienti anoressiche – Disturbi alimentari

Di Paola Alessandra Consoli

“’E’ difficile mettere in discussione la relazione con una madre di vetro,

 fragile e infantile, incapace a sua volta di avere una propria autonomia, 

una madre che pensa potrebbe spezzarsi qualora venisse disattesa, 

delusa e abbandonata”

Fabiola De Clercq, Donne invisibili. 1995. 

 

La madre-drago delle pazienti anoressiche - Disturbi alimentari. -Immagine: © olly - Fotolia.comLa madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico.

La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Il disturbo alimentare è un evento che colpisce l’individuo e il suo nucleo familiare, come un trauma, una violenza inaspettata, che coglie impreparati e provoca dolore, impotenza, ansia, rabbia.

I problemi che interessano la figlia o la sorella anoressica (in 9 casi su 10 la paziente è una donna) sono così evidenti e drammatici da rendere impossibile la negazione. Il dimagrimento, i disturbi psico-fisici, il rischio di morte devono essere affrontati ad ogni costo e, possibilmente, accettati.

L’accettazione implica però una presa di responsabilità, soprattutto da parte dei genitori, che costituiscono, involontariamente, la principale causa eziologica della malattia anoressica.

Quando è evidente che i tentativi di far mangiare la figlia non sono sufficienti, quando si scopre che non esistono farmaci per “far tornare l’appetito” (la prima facile spiegazione che si dà una famiglia), allora diviene necessario capire cosa porta una ragazza al desiderio di scomparire, cosa nasconde la magrezza. Ed è in questo momento che la famiglia si scopre falsamente perfetta e la madre fa i conti con il suo essere un Drago per la figlia.

Si scopre ancora, paradossalmente, che la “non fame” alimentare dell’anoressica nasconde un’immensa fame d’amore: verso il padre, poco o nulla presente o, al contrario, portatore di un abuso materiale, mentale o fantasticato, o verso la madre che nutre meccanicamente e senza amore con un cibo materiale, freddo, elargito per dovere che sostituisce con gli alimenti la presenza fisica e psichica che non è capace di dare (Recalcati, 1997).

La madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico. La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Tutti i desideri di nutrimento tipici dell’individuo (alimentari, sessuali, affettivi) sono, per l’anoressica, esperienze di perdita, rinuncia, confusione e orrore.

Il suo bisogno di essere riempita, amata, fecondata, dall’amore materno e dal piacere del padre, dall’esperienza della propria efficacia e coesione, è andato distrutto o è stato sostituito dalla difesa compiacente, dalla rinuncia di sé per fare spazio alla madre e alla vita di quest’ultima.

L’anoressica arriva a negare i suoi bisogni per non sentire la dipendenza, vivendo la tragica esperienza di una lotta continua tra bisogno della madre e necessità di separazione dalla madre, per una fisiologica separazione/individuazione, resa più difficile da una madre che non accoglie ma respinge, non abbraccia ma divora. La dipendenza dal materno diviene un incollamento alla madre, l’identificazione non è simbolica, non c’è separazione (quindi non ci sarà identificazione), ma è un voler diventare come la madre (Marinelli, 2004).

L’anoressia è quindi una manovra di separazione dalla madre, che invade ed impedisce la costruzione di se stessa. La malattia della figlia apre un vuoto, anzi è un vuoto che delimita la distanza tra i desideri e le aspettative materne e le rinnovate aspettative della figlia.

Scomparire, ridursi, paradossalmente, è necessario per comparire, per farsi vedere come Altro dalla madre. Il sintomo anoressico è il primo annuncio di un sistema familiare patologico, finalmente alla luce, che si mantiene in equilibrio su una falsa normalità che l’erompere del sintomo manda in frantumi (Dillon Weston, 2005).

Il rapporto del soggetto con il cibo non riguarda solo il bisogno fisiologico della fame, ma è lo strumento con cui intessiamo relazioni familiari, sociali e relazionali (cuciniamo come ci hanno insegnato, in contesti definiti dalla nostra cultura, per condividere momenti intimi con gli altri).

Il rapporto con il cibo è il rapporto con l’altro, è un messaggio, uno scambio, un dono ricevuto o rivolto all’altro, è il primo dono di una madre alla propria figlia appena nata.

Fino allo svezzamento, madre e figlia sono uno stesso corpo, dipendono l’una dall’altra perché anche una madre smette di essere solo figlia al momento del parto.

Lo svezzamento è una separazione necessaria all’individuazione come altro dalla madre. Lacan parla di “complesso di svezzamento”, cioè la forma arcaica di imago materna che fonda i sentimenti più antichi che legano l’individuo alla famiglia; è un processo costituito da due elementi diversi:

– la fissazione di una tappa dello sviluppo psichico,

– la ripetizione del complesso, cioè un’attività che si realizza in modo inadeguato quando si presenta un certo tipo di esperienza.

Mentre l’allattamento è una relazione biologica e istintuale, lo svezzamento non è frutto dell’istinto, ma dei fattori culturali. Ogni madre, pur con le indicazioni della cultura, può agire in autonomia, e darà allo svezzamento un significato personalissimo, lasciando la sua impronta eterna nello psichismo materno e filiale. Per questo motivo, lo svezzamento può rappresentare un trauma ed essere causa di diversi effetti patologici: anoressia, tossicomania per via orale, nevrosi gastriche.

Quando lo svezzamento non avviene in maniera corretta, madre e figlia divengono due parti dello stesso corpo; la dipendenza che si instaura soffoca in un abbraccio mortale la figlia che vorrebbe avere un ruolo e una funzione diversa da quella impostale dalla madre (Onnis, 2005).

Quest’ultima ha il compito di passare il testimone alla figlia che deve affrontare autonomamente le proprie esperienze. Una donna che cerca o confonde la sua identità nel solo statuto di madre ha il terrore di perdere la propria bambina che sta diventando donna, perché con lei perderebbe lo scopo della propria esistenza: essere donna ed essere madre sono due aspetti del sé che possono convivere senza sacrificare il primo al momento del parto.

La figlia, a sua volta, per non deludere la madre, sceglie per sé un corpo anoressico, sempre più piccolo per somigliare alla bambina che è stata. La scomparsa delle mestruazioni è vissuta come una conquista perché riesce a riportare indietro il tempo, lì dove l’ansia e la rabbia materna sono iniziate. Questa difficoltà di confronto con il materno è vissuta in maniera tragica, il passaggio dal corpo di bambina al corpo di donna, in qualche caso, non è vissuto come una transizione ad una nuova fase della vita, ma come una perdita della vita stessa (Selvaggi, 2005).

L’anoressica è allora la protettrice di una falsa e precaria unità familiare: fermando ad ogni costo la sua crescita e la separazione dalla famiglia (da cui anzi diventa anche più dipendente per i problemi di salute che accompagnano l’anoressia), l’angoscia di separazione dalla madre (e talvolta anche dal padre) trova consolazione e congela la famiglia in un “tempo sospeso” (Ferro et al., 1992).

L’illusione di riuscire a sospendere la transizione adolescenziale è una credibile risposta alle difficoltà della famiglia a compiere il passaggio da una fase all’altra del ciclo vitale della figlia, in stretta adesione ad un mito di rigida unità familiare che non si può trasgredire e che blocca la famiglia in un eterno presente senza futuro. La ragazza anoressica vive il duplice ruolo di difendere questo mito rimanendo con le fattezze di una bambina, che segue “vincoli invisibili di lealtà” per regredire e proteggere la famiglia e, al tempo stesso, trasgredire questo mito, perché il suo digiuno ostinato spezza traumaticamente la tranquillità familiare (Onnis, 2005).

Molto spesso queste angosce di separazione percorrono almeno tre generazioni perché anche la madre della paziente anoressica è stata, a sua volta, paladina di unità familiare per contrastare costruzioni difensive del nucleo di appartenenza, dove il lutto, la malattia, la separazione richiamano il tema della perdita che incombe su queste famiglie.

Il paziente anoressico è quindi il messaggero di un gruppo primario che funziona in assunto di base di dipendenza: “da un lato c’è una persona i cui bisogni non hanno potuto trovare riconoscimento da parte delle figure primarie, con particolare riferimento all’investimento precoce del corpo sessuato come elemento capace di generare conflitti generazionali; dall’altra, un gruppo famiglia che teme il confronto con le emozioni connesse alla novità, all’eccitazione e all’aggressività e si rifiuta di elaborarle, le nega e le isola; un gruppo incastrato […] nel tentativo di mantenere una posizione al di qua del lutto e della separazione” (Selvaggi, 2005).

La paziente anoressica arriva ad odiare il suo corpo, dannoso per la famiglia che ama, perché è un corpo sessuato che suscita repulsioni e conflitti con le figure di accudimento.

Recalcati parla di una “repulsione per il vuoto” che caratterizza i pazienti anoressici che cercano di “sfuggire all’ossessione della pienezza che affolla le loro menti” (Dillon Weston, 2005).

Ricercare avidamente il vuoto assoluto è una sorta di denuncia per una ragazza anoressica che non vuole riempire la sua solitudine illimitata con il cibo offerto dalla madre: bisogno di amore, esperienze, libertà e fiducia al posto del cibo (Recalcati, 1997).

Winnicott parla di “vuoto controllato” con il quale si cerca di affrontare il “terrore del vuoto”. Questo vuoto controllato può essere anche una difesa da una madre divoratrice, vuota a sua volta, che vuole alimentarsi con le risorse della figlia, con la sua giovinezza, con la sua fame di esperienze e di vita. Una madre che chiede alla figlia di colmare il suo stesso vuoto, proietta in lei i suoi bisogni, la sua impossibilità a reagire, diviene a sua volta una bambina che cerca nella figlia la madre contenitore che non ha avuto (Winnicott, 1985).

L’anoressica, figlia di una madre Drago che vuole divorarla, non può far altro che ridurre il proprio corpo, renderlo solo ossa dure, impenetrabili e inaccessibili. Solo così potrà salvarsi dalla madre divoratrice (Recalcati, 1997).

Invece, la figlia di una madre sufficientemente buona, utilizzando l’holding materno e la rêverie percepirà la situazione di calma necessaria per lo sviluppo del proprio Sé, per il riempimento del proprio vuoto, diverso da quello materno, entrambi vivi, due contenitori con contenuti diversi, come diverse sono le due individualità. Questa madre porta dentro di sé e vive nella realtà, un rapporto sufficientemente strutturato e positivo con il maschile, senza inibizioni e conflitti corporei e lo trasmetterà alla figlia, concedendole, come un dono, oltre che un diritto, “il passaggio da una corporeità infantile e relazionale ad una corporeità sensuale e progressivamente adulta” (Manzoni, 2010).

Una ragazza che in famiglia non ha la possibilità di vivere esperienze di oggetto-Sé rispecchianti e validanti, che non si sente accettata, confermata, che sente invece di dover compiere riparazioni di sé per essere presentabile e accolta dagli altri, bloccherà il progetto nucleare del Sé,  sostituendolo con uno compiacente alle aspettative materne (Di Luzio, 2010).

L’anoressica utilizza il corpo per narrare le carenze empatiche della madre, per manifestare la propria sofferenza, ma al tempo stesso per dimostrare la padronanza del proprio corpo, che la Madre Drago vorrebbe plasmare a suo piacere: un corpo che contiene le sane pulsioni adolescenziali, che però devono essere messe a tacere in una continua dolorosa danza che va dal soddisfare la madre al soddisfare se stessa. Il corpo diviene la raffigurazione di oggetti interni inconsci, e gli attacchi e i rifiuti sono diretti sempre ai propri oggetti interni, soprattutto la madre (Gabrielli, Nanni, 2010).

Attraverso l’identificazione primaria, il corpo anoressico è il corpo della madre cattiva e minacciosa, quindi i suoi stimoli e i suoi bisogni alimentari, seppure avvertiti, devono essere ignorati, un sentimento che la Selvini Palazzoli definisce come “diffidenza cenestetica”, una difesa dell’Io dominata dal rinnegamento del corpo e del cibo-corpo (Selvini Palazzoli, 1965).

Secondo Jung, l’archetipo della Madre Drago è il “simbolo della madre bisognosa che non può permettere ai figli di andarsene, perché ha bisogno di loro per la sua stessa sopravvivenza psichica”; è una Madre Terribile che divora i figli prima che riescano a reclamare un diritto alla separatezza (Dillon Weston, 2005).

L’anoressia è quindi un meccanismo di difesa dalla Madre Drago che non potrà più divorare la figlia (che ri-diventata bambina potrà nuovamente essere accudita come tale, reiterando la non-indipendenza tra i due corpi), ma anche un mezzo per difendere la madre reale dalla Madre Drago interiorizzata: una figlia divorata dalla madre e verso cui prova una divorante rabbia orale e che esprime, attraverso l’anoressia, una forma simbolica della stessa rabbia.

Il vuoto anoressico appartiene alla paziente ma anche al suo gruppo familiare, che manca dell’ossigeno psichico che mantiene vivo il sé. Questo impoverimento emotivo risale alle generazioni precedenti, è intessuto da regole segrete che legano i familiari con legami asfissianti e patologici (Dillon Weston, 2005).

La conquista dell’Io è un percorso lungo e difficile che segna la nascita dell’Eroe, capace di fare esperienza dell’archetipo della Grande Madre, di coglierne gli aspetti fecondi e benefici e di sfuggire ai suoi aspetti castranti. L’Eroe viene alla luce da una coscienza arricchita dei propri desideri, che ha saputo accogliere ed elaborare i propri contenuti inconsci, senza il timore di essere divorato o di divorare a sua volta. E’ finalmente possibile vivere un’esistenza meno pesante, meno opprimente, il vuoto anoressico può essere riempito di vita, di amore, di cibo.

 LEGGI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – EDANORESSIA NERVOSA – ANPSICOANALISIPSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE FAMIGLIAGRAVIDANZA & GENITORIALITA’

Maternità conflittuale: un percorso nella cura dei disturbi alimentari – Di Sabba Orefice

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 17 – Perseguire o desiderare – Rubrica di Psicologia

Il progetto CARE per ridurre lo stress degli insegnanti

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Se è vero che l’apprendimento non è trasmissivo ma si gioca nella relazione esperto-novizio, lo stress e burn-out degli insegnanti è un tema caldo (al di là del benessere dei singoli)  in relazione all’impatto che questo può avere rispetto alla loro efficacia educativa con gli allievi.

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Il progetto combina interventi di skills training emotivo e di  mindfulness per fornire agli insegnanti strumenti utili per regolare efficacemente le emozioni nel contesto della relazione di apprendimento con gli allievi – anche pensando a situazioni relazionali difficili in classe con gli studenti.

Il programma ha previsto 30 ore di training nell’arco di 4-6 settimane nonché sedute di coaching telefonico. 53 insegnanti sono stati arruolati nel progetto e randomicamente assegnati al gruppo CARE oppure a una condizione di controllo.

Rispetto al gruppo di controllo, gli insegnanti che hanno partecipato al training CARE avrebbero riportato miglioramenti in termini di benessere e riduzione del burn-out, nonchè una percezione di maggiore efficacia nella gestione degli studenti e della classe.

Secondo i ricercatori il punto di forza del progetto risiederebbe proprio nella specificità e tailorizzazione del training rispetto alle specifiche esigenze degli insegnanti in termini di situazioni che con un grado di regolarità si presentano come cronicamente stressanti e difficili da gestire anche dal punto di vista emotivo.

LEGGI:

MINDFULNESS – STRESS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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