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Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 1

Il conflitto - Definizione Psicosociale. Parte essenziale ed integrante della natura umana, rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo.

Di Elena Copelli

Pubblicato il 11 Nov. 2013

Aggiornato il 20 Nov. 2013 13:23

 

Il conflitto pt. 1

da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 2

Il conflitto parte 1. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Il conflitto: un tentativo di definizione psicosociale.

Il conflitto costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo.

La guerra è padre di tutte le cose, re di tutte le cose, rivela la divinità degli dei e l’umanità degli uomini.”

Così scrisse Eraclito nel suo frammento 53, che rappresenta forse il primo modello di filosofia del conflitto; secondo la sua prospettiva infatti, la conflittualità costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo. Nell’opposizione si costituiscono l’individualità e la natura degli uomini, i rapporti umani e sociali e i valori che ne regolano l’esistenza. Eraclito utilizza il termine πόλεμος (pólemos) che in lingua greca non indicava solamente il conflitto bellico o il combattimento vero e proprio, ma anche il principio vitale naturalmente opposto all’armonia e alla pace. Nel pensiero di Eraclito, che sarà poi ripreso, riadattato e riconcettualizzato in tempi moderni da altri autori, πόλεμος diviene un principio regolatore universale e una condizione naturale intrinseca sia a livello del microcosmo umano, sia a livello del macrocosmo sociale.

Quale sia la definizione di conflitto e quali siano le sue funzioni, sono state domande al centro del pensiero dei più grandi filosofi e intellettuali dell’età moderna e contemporanea; le risposte mostrano un movimento oscillatorio tra coloro che vedono nella conflittualità un valore positivo e un motore di conoscenza e potenzialità, e coloro che invece leggono il conflitto come elemento negativo e come forza distruttiva che si oppone alla naturale tendenza degli esseri umani ad aggregarsi e a costruire relazioni.

La diatriba riguardante la portata positiva o negativa del conflitto risale all’antichità e si è prolungata fino ai tempi della scienza moderna; i teorici del conflitto sono attualmente concordi nel ritenere che esso è inevitabile all’interno delle relazioni umane, ma rimangono divisi tra coloro che lo interpretano come una risorsa e una possibilità di cambiamento e adattamento, e coloro che invece lo ritengono una forza distruttiva portatrice di caos e distruzione (Winstok e Eisikovits, 2008).

Definire in maniera univoca e uniforme un processo complesso come quello del conflitto non è compito semplice.

Martello (2006a), riconosce nel conflitto, in quanto dinamica essenziale delle relazioni umane, una multidimensionalità che lo rende un processo sfaccettato e complesso. Il conflitto può infatti manifestarsi a livello intrapersonale, ma anche interpersonale o intergruppi, può essere causato da carenze oggettive, ma anche dalla divergenza di opinioni, valori e interessi in merito a una questione, coinvolge direttamente non solo gli aspetti visibili del comportamento umano ma anche le strutture conoscitive, motivazionali e identitarie profonde. Secondo l’autrice dunque, il conflitto è parte integrante della natura e delle relazioni e non rappresenta necessariamente con un effetto distruttivo o negativo sugli agenti. Il conflitto infatti può costituire un’occasione di crescita personale e relazionale nel momento in cui accresce la tendenza al rinnovamento, permette di chiarire le proprie convinzioni e opinioni, aiuta a comprendere meglio la propria posizione all’interno delle relazioni accrescendone il valore e l’autenticità (ibid.; Martello, 2006b). Tuttavia, il conflitto può anche essere un fattore di rischio per il felice mantenimento e rinnovamento delle relazioni, soprattutto quando una o tutte le parti in causa tendono a irrigidire il proprio ruolo, a distorcere la realtà dei fatti a proprio favore e, soprattutto, quando virano le proprie invettive dalla questione oggettiva alle caratteristiche individuali dell’altro agente (Martello, 2006a; Geiger e Fischer, 2006).

Arielli e Scotto (2003) descrivono il conflitto come “un’azione o una situazione prodotto di azioni in cui vi è un contrasto, una incompatibilità, tra le intenzioni, le aspettative o i bisogni degli agenti” (p. 18); gli autori sostengono dunque che il fulcro della conflittualità risiede nella mancata soddisfazione dei propri bisogni o scopi di un agente a causa dell’interferenza di un altro agente. Gray e collaboratori (2007) aggiungono che alla base del conflitto non risiede semplicemente l’incompatibilità delle azioni, ma la percezione di tale incompatibilità; per gli autori il conflitto esiste quando effettivamente gli attori lo percepiscono come tale. Quando un conflitto è percepito, quindi, gli attori ne interpretano il significato e la portata attraverso strutture cognitive preesistenti, tra cui credenze, schemi, stereotipi; ad ogni punto di questo processo di percezione e interpretazione, i conflitti possono essere letti e vissuti come più o meno importanti, più o meno minacciosi, più o meno intrattabili, definendone il destino futuro e il loro cambiamento qualitativo e quantitativo nel tempo.

La caratteristica centrale dei processi conflittuali risulta dunque essere la loro dinamicità e la loro tendenza a modificarsi nel tempo, in riferimento non solo alle nuove questioni apportate all’interno della discussione da parte degli agenti (Arielli e Scotto, 2003), ma anche ai cambiamenti della percezione che gli agenti hanno della discussione stessa (Kennedy e Pronin, 2008) nonché della partecipazione emotiva e dell’intensità degli affetti messi in gioco (Geiger e Fischer, 2006).

Quando il conflitto si colora di una sempre maggiore intensità emotiva, di risorse cognitive e comunicative sempre più forti, di questioni sempre meno riguardanti la causa scatenante e sempre più mirate alle persona singola, si parla di escalation. L’escalation può essere definita come un “aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto” (Arielli e Scotto, 2003, p. 69) che nasce dalla percezione e interpretazione dell’incompatibilità tra agenti come negativa, intenzionale e ingiustificata (Gray et al., 2007).

Alcuni autori (Gray et al., 2007; Coleman, Vallacher, Nowak e Bui-Wrzosinska, 2007) definiscono i conflitti caratterizzati dall’escalation come conflitti intrattabili; la persistenza, la distruttività e la resistenza sono le caratteristiche centrali che fanno apparire i conflitti intrattabili impossibili da risolvere. I conflitti intrattabili emergono da tematiche e questioni profonde, vissute come non negoziabili, spesso di natura morale o identitaria e sono percepiti dagli agenti come impossibili, vincolanti e invischianti (Gray et al., 2007). Facendo riferimento ad una cornice teorica di matrice sistemica, Coleman et al. (2007) descrivono il conflitto intrattabile come un’unità dinamica e olistica, le cui componenti tendono all’influenza, all’adattamento e al bilanciamento reciproci; il conflitto come sistema si evolve nel tempo, adattandosi ai mutamenti contestuali e strutturali, e ogni cambiamento a livello di un elemento genera una riorganizzazione e una ristabilizzazione globale del sistema stesso. Per questo motivo, i conflitti divenuti irreparabili e intrattabili sono caratterizzati sempre da un processo escalativo, tendono a rimanere stabili nel tempo e mantengono al proprio interno equilibrio omeostatico ed auto-organizzazione. Secondo gli autori, il conflitto diventa intrattabile quando nega e appiattisce la fisiologica complessità e multidimensionalità delle relazioni umane; il collasso della multidimensionalità, per usare la terminologia degli stessi autori, appiattisce la struttura e i processi alla base delle relazioni interpersonali e gruppali, promuovendo l’acutizzazione e l’escalation del conflitto.

L’escalation si caratterizza a livello osservabile per un aumento di intensità emotiva e di aggressività verbale e/o comportamentale; tuttavia, gli aspetti direttamente visibili non sono gli unici a costituirne il nucleo. Winstok e Eisikovits (2008) descrivono l’escalation come il culmine di un conflitto che, se anche poteva essere stato originato da intenzioni costruttive e positive, in questa fase diventa distruttivo e resistente a una sua eventuale conclusione pacifica; secondo gli autori l’escalation si presenta nel momento in cui una dinamica conflittuale devia totalmente dalla questione o situazione da cui ha tratto origine e continua a persistere anche oltre il punto in cui gli obiettivi originari sono diventati secondari o irrilevanti.

Inoltre, sempre gli stessi autori, sostengono che l’escalation conflittuale sia un processo dinamico, complesso e determinato da tre diverse componenti: comportamentale, cognitiva ed emotiva. Solo tenendo conto di questi tre livelli diversi ma strettamente interagenti e interdipendenti tra loro, è possibile studiare le caratteristiche e gli effetti di questo fenomeno (ibid.; Winstok, 2008).

LEGGI: PARTE 2

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Elena Copelli
Elena Copelli

Psicologa scolastica, dello sviluppo e dell’educazione.

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