Introduzione: cos’è la psicologia sociale
La psicologia sociale è lo studio scientifico degli effetti dei processi sociali e cognitivi sul modo in cui gli individui percepiscono gli altri, li influenzano e si pongono in relazione con loro; l’interesse centrale della psicologia sociale è il modo in cui gli individui comprendono gli altri e interagiscono con loro. La psicologia sociale studia i comportamenti dei singoli individui, un obiettivo che la distingue dunque dalle altre scienze sociali come la sociologia o le scienze politiche. I processi sociali sono i modi in cui i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni sono influenzati dalle persone che ci circondano, dai gruppi a cui apparteniamo, dai rapporti personali, dagli insegnamenti trasmessi dai genitori e dalla cultura e dalle pressioni che subiamo da parte degli altri.
I processi cognitivi invece sono i modi in cui i ricordi, le percezione, i pensieri, le emozioni e le motivazioni guidano la nostra comprensione del mondo e le nostre azioni. Processi sociali e processi cognitivi sono intrecciati inestricabilmente tra loro. I processi sociali, infatti, ci influenzano anche quando gli altri non sono fisicamente presenti: siamo creature sociali anche quando siamo soli. Dovendo affrontare da soli una decisione importante, spesso ci chiediamo quali sarebbero le reazioni dei nostri amici o familiari. Si parla di gruppo nell’individuo, poiché gli psicologi studiano l’influenza che un dato gruppo (famiglia, lavoro, sport) ha sui singoli individui quando il gruppo non è fisicamente presente. I processi sociali, però, ci influenzano anche quando gli altri sono fisicamente presenti: ci facciamo persuadere spesso? Come interpretiamo il comportamento degli altri? E come modifichiamo il nostro comportamento di fronte ai comportamenti degli altri? In questo caso si parla di individuo nel gruppo, poiché gli psicologi studiano il comportamento dell’individuo quando il gruppo è fisicamente presente.
Vediamo ora, più nello specifico, quali sono gli ambiti di studio della psicologia sociale e i costrutti ad essi sottostanti.
Psicologia sociale: la costruzione della realtà
I bias e le distorsioni cognitive
Nell’ambito della psicologia sociale si indagano i bias e le distorsioni cognitive. Poiché alla base della nostra percezione c’è un processo cognitivo di osservazione ed interpretazione, ovvero di costruzione della realtà, possono esserci delle distorsioni cognitive (bias valutativi), indotte da un pregiudizio del soggetto che percepisce.
Nessuno di noi è immune dalle distorsioni cognitive (o bias cognitivi), tuttavia essere consapevoli della loro esistenza può aiutare; una generica componente delle distorsioni cognitive è presente infatti in qualsiasi giudizio, in quanto esso è legato ad un fattore percettivo e dunque ad una visione della realtà filtrata soggettivamente da chi valuta.
Consideriamo innanzitutto il cosiddetto bias di conferma: a ciascuno di noi piace essere d’accordo con le persone che sono d’accordo con noi e ciascuno di noi tende ad evitare individui o gruppi che ci fanno sentire a disagio: questo è ciò che lo psicologo B.F. Skinner (1953) ha definito “dissonanza cognitiva”. Si tratta di una modalità di comportamento preferenziale che porta al bias di conferma, ovvero l’atto di riferimento alle sole prospettive che alimentano i nostri punti di vista preesistenti. Molto simile al bias di conferma è il bias di gruppo, che ci induce a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo, a considerare i successi del nostro gruppo come risultato delle qualità dello stesso, mentre si tende ad attribuire i successi di un gruppo estraneo a fattori esterni non insiti nelle qualità delle persone che lo compongono. Le valutazioni affette da queste tipologie di distorsioni cognitive possono risultare poco chiare a chi viene valutato, il quale spesso non comprende le basi sulle quali la valutazione si fonda e che invece nota, d’altra parte, un’eccessiva intransigenza di pensiero.
Un altro bias frequente è la cosiddetta fallacia di Gabler, ovvero la tendenza a dare rilevanza a ciò che è accaduto in passato e a ritenere che i risultati di oggi siano del tutto influenzati da tali eventi. Quindi, i collaboratori valutati sempre positivamente nel corso della loro carriera tenderanno ad essere valutati ancora positivamente anche se a volte le loro prestazioni non risulteranno così positive.
L’errore per somiglianza, invece, è un bias legato alla tendenza di un manager con forte autostima a sopravvalutare i collaboratori che hanno delle caratteristiche analoghe alle sue, mentre l’errore per contrasto è un bias di un manager con bassa autostima che tende a premiare i collaboratori che presentano delle caratteristiche in lui carenti o assenti.
Altamente nocivo risulta essere anche il cosiddetto bias della negatività, ovvero un’eccessiva attenzione rivolta verso elementi negativi, che vengono considerati come i più importanti. A causa di questa distorsione, si tende a dare maggior peso agli errori, sottovalutando i successi e le competenze acquisite ed attribuendo così una valutazione negativa alla prestazione.
Infine, il bias dello status quo è una distorsione valutativa dovuta alla resistenza al cambiamento. Il cambiamento spaventa, si ama la propria routine e si tenta, quindi, di mantenere le cose così come stanno. La parte più dannosa di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose.
Una riflessione sulle diverse tipologie di distorsioni cognitive può certamente contribuire a ridurne alcuni effetti e spingere chi valuta ad agire come gli scrittori naturalisti, che assegnavano all’opera narrativa il compito di attenersi ad una descrizione impersonale ed oggettiva della materia rappresentata. Applicando all’arte i metodi ed i risultati della scienza, gli scrittori naturalisti si prefiggevano di riprodurre la realtà con perfetta obiettività. Il metodo scientifico galileiano venne assorbito a tal punto dalla letteratura naturalista che gli autori, ancor prima di scrivere i loro romanzi, si dedicavano all’osservazione ravvicinata del fenomeno da descrivere in modo da essere i più oggettivi possibile; analogamente, in azienda, chi ricopre ruoli di responsabilità ed è chiamato a valutare i propri collaboratori dovrebbe innanzitutto osservare i fatti e poi valutarli con il giusto distacco ed oggettività.
Gli stereotipi
Spesso e volentieri, purtroppo, le distorsioni cognitive e i biases possono portare alla formazioni di giudizi o percezioni che si rivelano poco accurati e disfunzionali per il nostro modo di percepire e relazionarci con l’altro.
Nella psicologia sociale il termine stereotipo, nacque in ambito tipografico molto tempo fa, e indicava gli stampi di cartapesta usati per le lettere. La caratteristica che li rendeva unici era il poterli utilizzare più volte perché molto rigidi e resistenti. Lippmann (1992), per primo introdusse questo concetto nelle scienze sociali asserendo che il processo di conoscenza non è diretto, ma mediato da immagini mentali costruite in relazione a come ognuno di noi recepisce e percepisce la realtà.
Gli stereotipi, dunque, sono delle particolari rappresentazioni mentali, o idee sulla realtà, che se dovessero essere condivise da grandi masse in determinati gruppi sociali, prenderebbero il nome di stereotipi sociali. Gli stereotipi sono molto simili a degli schemi mentali e per questo sono considerati affini alle euristiche. Permettono di attribuire, senza nessuna distinzione o critica, delle caratteristiche a un’intera categoria di persone, non curanti delle possibili differenze che potrebbero, invece, essere rilevate. Per questo, gli stereotipi sono spesso delle valutazioni o giudizi grossolani non del tutto corretti. Si tratta di idee difficilmente criticabili (rigidità degli stereotipi), in quanto ancorate alla provenienza culturale o alla personalità.
Insomma, lo stereotipo non è nient’altro che un giudizio che si forma su una determinata cultura o classe sociale. Questo giudizio può diventare pregiudizio quando non deriva da una conoscenza diretta, ma appresa. Il più delle volte si tratta di valutazioni spicce legate sempre a giudizio negativo non sottoponibile alla critica. Non si tratta di un concetto errato, sbagliato, ma di un pregiudizio vero e proprio. Un pensiero, dunque, diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Il pregiudizio su alcune categorie di persone, spesso, induce a modificare il proprio comportamento sulla base di queste credenze. Si creano, così, condizioni tali per cui le ipotesi effettuate sulla base di pregiudizi ineluttabilmente si manifestano e la conseguenza è andare a confermare gli stereotipi.
È possibile eliminare i pregiudizi? Non è qualcosa di immediato, perché i pregiudizi hanno delle basi molto solide confermate da credenze fortuitamente verificatesi. Solo una grossa forza di volontà e intenzione di entrare realmente in contatto con l’altro potrebbe portare, alla lunga, a mettere in discussione queste forme di rigidità di pensiero.
La profezia che si autoavvera
Come già accennato, gli stereotipi possono spesso generare profezie che si autoavverano, poiché relazionandoci con una persona sulla quale abbiamo un dato stereotipo inconsapevolmente ci comportiamo in modo da elicitare in quella persona quei comportamenti che possano confermare proprio il nostro stereotipo.
La profezia che si autoavvera è uno dei fenomeni più noti e più studiati in psicologia sociale. Il sociologo Merton ne parlò per la prima volta negli anni ‘70, ed è stata anche riprodotta sperimentalmente a dimostrazione dell’influenza che esercitano le convinzioni sulla costruzione della realtà. Infatti, pensiamo agli effetti dell’ipnosi sulla comunicazione di massa o all’effetto placebo, succede che chi subisce questo comportamento ottiene esattamente quello che vorrebbe si verificasse, a conferma della grande potenza della suggestionabilità umana.
In sostanza, le profezie autoavveranti incidono significativamente sulla visione che gli individui hanno di loro stessi, del loro modo di apparire con gli altri e con il mondo. Per questo si creano schemi stabili, rigidi, di comportamento che ovviamente si ripeteranno nel tempo confermando la propria visione delle cose. Lo stesso meccanismo funziona anche con i gruppi e le collettività. Ad esempio qualche mese fa i media comunicarono che i titoli di stato non avevano più la stessa rendita di un tempo e la gente si affrettò a vendere quello che aveva. A quel punto non valevano realmente più nulla.
La profezia che si autoavvera, però, funziona anche in senso positivo. Per esempio, con i sondaggi preelettorali: si dà per vincente o in crescita un partito, questo fatto incoraggia alla preferenza e i voti crescono fino a poter raggiungere la vetta della vittoria. Funziona anche nella scuola: i docenti utilizzano comportamenti più funzionali nei confronti di studenti promettenti che seguiranno con maggiore enfasi e il risultato sarà riuscire a ottenere migliori rendimenti in seguito a una maggiore autostima sviluppata.
La profezia che si autoavvera ricorre spesso nel nostro immaginario: dalla leggenda di Edipo al Macbeth di Shakespeare, tutte storie dall’esito già annunciato. Ma sono situazioni che si presentano spesso, infatti, a tutti è capitato di percepire una situazione come problematica e di mettere in atto comportamenti che portavano esattamente alla conferma della pericolosità della situazione.
Insomma, le definizioni di una situazione e i comportamenti attuati, fanno parte della situazione stessa che ci sta spaventando e può portare all’epilogo famigerato. Infatti, quelli che a noi sembrano solo conseguenza sono, in realtà, le cause che permettono di far percepire noi stessi come responsabili nel momento in cui continuiamo a evocare i comportamenti dannosi che porteranno alla concretizzazione della paura.
Psicologia sociale: la costruzione del Sè
Nella psicologia sociale si indaga come avviene la costruzione del sè. Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali: le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa. Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.
Definire il costrutto di autostima non è semplice, in quanto si tratta di un concetto che ha un’ampia storia di elaborazioni teoriche. Una definizione concisa e condivisa in letteratura potrebbe essere la seguente: [blockquote style=”1″]Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso[/blockquote] (Battistelli, 1994).
Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James (cit. in Bascelli e al, 2008), il quale la concepisce come il risultato scaturente dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi (autostima = successo / aspettative). Alcuni anni dopo Cooley e Mead espongono il concetto di autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, e si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.
L’autostima di una persona non scaturisce esclusivamente da fattori interiori individuali: hanno una certa influenza anche i cosiddetti confronti che l’individuo fa, consapevolmente o no, con l’ambiente in cui vive. A costituire il processo di formazione dell’autostima vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.
Il sé reale è una visione oggettiva delle proprie abilità, corrisponde a ciò che noi realmente siamo. Il sé ideale corrisponde a come l’individuo spera e vorrebbe essere. L’autostima scaturisce dai risultati delle nostre esperienze confrontati con le aspettative ideali. Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di noi stessi.
La presenza di un sé ideale può essere uno stimolo alla crescita, in quanto induce a formulare degli obiettivi da raggiungere, ma può generare insoddisfazioni ed altre emozioni negative se lo si avverte molto distante da quello reale. Per ridurre questa discrepanza l’individuo può ridimensionare le proprie aspirazioni, e in tal modo avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).
Possedere un’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra il sé reale e il sé ideale. Significa saper riconoscere in maniera realistica di avere sia pregi che difetti, impegnarsi per migliorare le proprie debolezze, apprezzando i propri punti di forza. Tutto ciò enfatizza una maggiore apertura all’ambiente, una maggiore autonomia e una maggiore fiducia nelle proprie capacità. Le persone con un’alta autostima dimostrano una maggiore perseveranza nel riuscire in un’attività che le appassiona o nel raggiungere un obiettivo a cui tengono e sono invece meno determinate in un ambito in cui hanno investito poco. Si tratta di persone più propense a relativizzare un insuccesso e ad impegnarsi in nuove imprese che le aiutano a dimenticare.
Quando la stima di sé è alta l’individuo passa molto frequentemente all’azione, rallegrandosi di fronte a un successo e relativizzando un eventuale fallimento. Al contrario, una bassa autostima scaturisce da un’elevata differenza tra sé ideale e sé percepito. Questa discrepanza può condurre a una ridotta partecipazione e a uno scarso entusiasmo, che si concretizzano in situazioni di demotivazione in cui predominano disimpegno e disinteresse. Vengono riconosciute esclusivamente le proprie debolezze, mentre vengono trascurati i propri punti di forza. Spesso si tende a evadere anche dalle situazioni più banali per timore di un rifiuto da parte degli altri. Si è più vulnerabili e meno autonomi. Le persone con una bassa autostima si arrendono molto più facilmente quando si tratta di raggiungere un obiettivo, soprattutto se incontrano qualche difficoltà o sentono un parere contrario a ciò che pensano. Si tratta di persone che faticano ad abbandonare i sentimenti di delusione e di amarezza connessi allo sperimentare un insuccesso. Inoltre, di fronte alle critiche, sono molto sensibili all’intensità e alla durata del disagio provocato. Quando la stima di sé è bassa, l’individuo passa raramente all’ azione, dubitando di fronte ad un proprio successo e sottovalutandosi di fronte ad un fallimento.
Ma cosa concorre a far sì che un individuo si valuti positivamente o negativamente? Come già detto non sono semplici fattori individuali a costituire l’autostima di una persona, bensì ci si autovaluta in merito a tre processi fondamentali:
- Assegnazione di giudizi da parte altrui, sia direttamente che indirettamente.
Si tratta del cosiddetto “specchio sociale”: mediante le opinioni comunicate da altri significativi noi ci autodefiniamo. Pare che gli individui alimentino la propria autostima sulla base della fiducia nelle opinioni di chi li giudica favorevolmente. Una rilevanza evidente le hanno in questo processo anche le valutazioni indirette, ossia la possibilità di imparare a valutare se stessi a seconda del comportamento degli altri nei propri confronti. - Confronto sociale: ovvero la persona si valuta confrontandosi con gli altri che la circondano e da questo confronto ne scaturisce una valutazione. Festinger (1954) ha sostenuto che in ogni individuo c’è un’esigenza di valutare azioni e capacità personali e, nel momento in cui i criteri soggettivi di valutazione sono assenti, si tende a valutare se stessi confrontandosi con altri, solitamente soggetti ritenuti simili.
- Processo di autosservazione: la persona può valutarsi anche autosservandosi e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri. Kelly (1955) considera ogni persona uno “scienziato” che osserva, interpreta e predice ogni comportamento, costruendo così una teoria di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.
Alla luce di queste considerazioni si evince quindi che l’autostima è un concetto complesso che viene a formarsi sulla base di varie fonti, sulla base delle quali l’individuo si valuta e si attribuisce un voto. Senza dimenticare che si tratta di un costrutto multidimensionale, nel senso che il soggetto può valutarsi differentemente anche in merito alle situazioni in cui si trova a vivere; per esempio è possibile che un individuo abbia un’alta stima di sé sul luogo del lavoro, dove ciò che egli realmente è si avvicina notevolmente al sé ideale, di contro potrebbe valutarsi negativamente nell’ambito dei rapporti interpersonali, dove magari potrebbe aspirare a volere qualcosa di più rispetto a ciò che egli possiede realmente.
In conclusione appare chiaro che l’autostima si sviluppa tramite un processo individuale ma anche interattivo – relazionale e può essere concettualizzata come uno schema cognitivo – comportamentale che viene appreso man mano che gli individui interagiscono con gli altri e con l’ambiente (Bracken, 2003).
Psicologia sociale: la costruzione dell’identità sociale
Un altro tema del quale si occupa la psicologia sociale è quello dell’identità sociale. Nel corso del ciclo vitale l’individuo costruisce l’identità sociale. Tale costrutto è composto da due dimensioni, una privata per se stessi e una pubblica per gli altri. Spesso l’identità per sé contiene le costrizioni che le agenzie formative hanno imposto durante l’età evolutiva. Nelle situazioni di stress capita, sovente, di percepire con più forza questi vincoli e allora non resta che riscoprire se stessi, in un’ottica liberatoria, per ristabilire l’equilibrio psicologico.
La microstoria dell’infante
Ognuno di noi è portatore di emozioni, di modi di pensare e di abitudini che sono stati acquisiti nel corso dell’intero ciclo di vita. Questo bagaglio costituisce la nostra ricchezza, ma talvolta in esso sono insiti i semi del disagio, nella misura in cui tale apparato non ci appartiene o meglio ci appartiene solo in parte. Al momento della nascita l’infante già possiede una microstoria che è fatta dalle percezioni che i genitori proiettano sul nuovo nato. Nell’immaginario genitoriale subentrano una serie di attribuzioni che consentono di costruire un’intelaiatura concettuale su cui si adagerà la vita dell’infante. In altre parole, i genitori percepiscono il proprio figlio in base a quella che è stata la loro storia nella propria famiglia di origine. Questo determina un’ipoteca nell’accostamento emozionale al piccolo che influirà successivamente, ovvero l’esperienza di figlio, nel vissuto genitoriale, ha difficoltà ad essere separata dall’esperienza di genitore.
Così in questa piccola istituzione sociale che è la famiglia il nuovo nato si trova ad avere due genitori che sono contemporaneamente ancora figli dei propri genitori e questo incide sulla mappa concettuale che successivamente si formerà.
La socializzazione primaria
La diade genitoriale è chiamata a far incamerare al nuovo nato quelli che sono i prodotti culturali della società in cui vive, attraverso quel processo che va sotto il nome di socializzazione primaria. Per mezzo di tale procedura l’infante viene colonizzato al vivere sociale, che è fatto di abitudini, routine e modi di essere che riflettono la cultura dominante e che sono egemoni in quel contesto di vita. In altre parole, con la socializzazione primaria il bambino interiorizza il mondo dei genitori. In questo modo si pongono le basi per una costruzione della personalità che è sintonica con la cultura nella quale si vive (Benedict, 1960).
Con il concetto di cultura si definiscono le convinzioni, le abitudini e le istituzioni sociali che caratterizzano una società. Le istituzioni traggono origine dai comportamenti individuali che si ripetono nel corso dello scorrere del tempo e che si consolidano in modelli di comportamento, che sono adottati da tutti gli individui che fanno parte della stessa società (Kardiner, 1965).
In pratica, il bambino si trova a dover assimilare nei primi anni di vita quella che è la struttura culturale della società in cui vive. Che questo non sia un atto indolore è rappresentato dalle ribellioni a cui il piccolo sovente accede, quando, attraverso le crisi di opposizione, che caratterizzano la sua crescita, vuol affermare il proprio io in termini differenti da quello che la volontà genitoriale vorrebbe.
Uno strumento potente per la trasmissione di questo mondo culturale è rappresentato dal linguaggio. In altri termini, attraverso il linguaggio la diade genitoriale provvede a socializzare il proprio figlio, per mezzo degli aspetti semantici e pragmatici che sottendono al dato linguistico.
Essere e dover essere
La crescita dell’infante si struttura come una doppia storia, ovvero una storia di superficie fatta da tutti quei comportamenti, quelle abitudini e quei pensieri che privilegiano la sintonia con il mondo dei propri genitori, che è il mondo sociale, e una storia sotterranea, dove albergano le opposizioni, ovvero quelle abitudini, quei comportamenti e quei pensieri che sono poco sintonici con i processi della socializzazione primaria. In pratica, si crea una distanza fra quello che il bambino è e quello che in realtà deve essere se vuol continuare ad avere l’affetto dei propri genitori, la stima sociale dei suoi coetanei e di tutti quegli adulti con cui si interfaccia nel corso della suo ciclo di vita. In questa maniera si sviluppa quello che Fromm, citato in Caprara e Gennaro (1994), definisce il carattere sociale, ovvero una struttura di personalità che è sintonica con l’ambiente nel quale il bambino vive. I due mondi, in realtà, procedono per percorsi paralleli.
Il primo si ipertrofizza e si implementa grazie ai riconoscimenti sociali che il piccolo riceve e che gli fanno adottare, in modo completo e profondo, le caratteristiche sociali del contesto in cui è immerso.
L’altro mondo, quello sotterraneo, vive di riverberi, che sono fatti di veri bisogni, di desideri e di un’ideologia della vita che non collima con quella vigente nella cultura dominante. Man mano che la crescita procede si crea una discrepanza maggiore fra quello che Rogers, menzionato in Caprara e Gennaro (op. cit.), chiama vero sé e il mondo fittizio del sé, condizionato dall’accettazione sociale. Il bambino vorrebbe, ma non può. Deve adattarsi a quelle che sono le limitazioni dell’esserci, mentre la sua persona vorrebbe tutta la libertà dell’essere, ovvero una libertà incondizionata, come afferma Binswanger, riportato in Caprara e Gennaro (op. cit.).
In questo periodo la sua storia è fatta da due movimenti contrastanti, sintonici con i due mondi vissuti interiormente, che sono l’obbedienza e la disobbedienza. Il non perdere l’affetto dei propri genitori e delle altre figure carismatiche che entrano nella sua vita lo induce ad essere obbediente, l’amore per la libertà e per la sperimentazione lo spingono alla disobbedienza. In questa fase, come Piaget (1972) segnala, la morale del bambino è eteronoma, ovvero deriva dai divieti posti dalla volontà genitoriale, che sono vissuti come norme imposte dai genitori e non come propri desideri e per questa ragione non sono ancora interiorizzati.
La socializzazione secondaria
La crescita, dal punto di vista sociale, si completa nel corso degli anni con quella che Berger e Luckmann (1969) chiamano socializzazione secondaria, ovvero quel processo che induce ad interiorizzare i saperi professionali e che determina il possesso di un lessico, di una metodologia e di una ideologia della realtà sintonica con la scelta lavorativa che si compie.
Psicologia sociale: l’identità sociale
Secondo la psicologia sociale attraverso questo lungo percorso l’individuo acquisisce la propria identità sociale, che come Dubar (2004) avverte, è costituita da due componenti, cioè l’identità per sé e l’identità per l’altro.
Entrambe si formano attraverso dei processi sociali, in quanto alla base di esse ci sono delle procedure che coinvolgono l’alterità o se stessi, in qualità di soggetto sociale. In pratica, nel corso della storia individuale, le due identità, di cui è composta l’identità sociale, si strutturano attraverso due processi ben precisi: il processo biografico e il processo relazionale.
Nello specifico, attraverso la propria storia di vita o biografia si costruisce l’identità sociale per sé e attraverso le interazioni sociali si realizza l’identità per l’altro, che permette di essere percepiti dall’alterità.
L’identità per sé è costituita dai due mondi di cui si diceva. In pratica, l’individuo costruisce questa idea di sé, tramite quello che è, ma in tale identità sono contenuti anche i germogli di quello che non è e che, di fatto, vorrebbe essere. L’identità per l’altro si costituisce nel corso della propria storia mediante le varie esperienze che portano a stare con gli altri.
In tali circostanze, noi forniamo il materiale, attraverso il mostrarci, l’essere e il reagire, che consente agli altri di farsi un’idea di noi.
La liberazione dal dover essere
In alcune circostanze, specificatamente nelle situazioni di stress, l’identità per sé si sfibra nei due mondi, da cui è composta, ovvero quello palese che ha costituito l’immagine che si ha di sé e quello più intimo dove sono sepolti i veri bisogni e i desideri.
In questa circostanza tale realtà profonda reclama di uscire allo scoperto inviando segnali, che incrementano l’insoddisfazione e il senso di infelicità. In questo frangente diventa imperativo riscoprire se stessi, in pratica far emergere quello che per diverso tempo si è tenuto ai margini. Tale mondo è fatto di creatività, di cambiamenti, del dare un senso diverso alla propria vita, al proprio lavoro, ai rapporti con gli altri. In altre parole, il mondo parallelo, che ha costituito l’altra faccia dell’identità, invita a cambiare vita, a riscoprire cose che nel corso degli anni sono state abbandonate per far posto ad una serie di doveri e responsabilità, il più delle volte non in sintonia con i veri bisogni.
Ecco allora riscoprire il vero sé, per mezzo di attività nuove, più gratificanti o semplicemente cambiando la maniera di percepire se stessi e la propria vita. È un modo per ritornare a provare il piacere di essere se stessi, in una prospettiva di liberazione, che, come Bauman (2011) osserva, presuppone il liberarsi da vincoli o catene, che il più delle volte sono solo nella mente.
Il bisogno di appartenenza ad un gruppo sociale
Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Di questo bisogno la nostra mentalità favorisce soprattutto la componente di apertura agli altri, di costruzione dei legami. Tuttavia la socializzazione è fatta anche di un bisogno –se vogliamo più emotivo- di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini; o peggio: etnicamente affini. Si tratta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Ogni individuo costruisce la propria identità su una serie di fattori diversi ma quando l’identità personale è costruita soprattutto nei termini dell’appartenenza ad un gruppo si è più preparati a far fronte alle difficoltà, si resiste e reagisce meglio agli svantaggi e agli ostacoli che la vita può far incontrare.
Tuttavia fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali può essere un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta anche di disagio, non di superficiale amichevolezza.
Tutti noi abbiamo bisogno del contatto con gli altri, e negli altri si cerca una giusta contemperanza di differenza e somiglianza. Quel tanto di differenza necessaria per non annoiarsi, qual tanto di somiglianza necessaria per non disorientarsi. Tutti noi, scrivono Baumeister e Leary, cerchiamo nel contatto con l’altro sia la novità e lo stimolo che un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.
È proprio la possibilità di riconoscere nell’ altro sia dei tratti nuovi che dei tratti prevedibili che ci fornisce l’energia di incontrare il diverso e di esserne stimolati. Non c’è incontro senza barriera. Il problema è che la barriera è inevitabilmente eretta con materiale poco nobile: i mattoni della barriera sono i segnali più primitivi di appartenenza al gruppo, segnali che sono spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni e semplicismi culturali.
Psicologia sociale: la costruzione delle norme
Nell’ambito della psicologia sociale si sostiene che, poiché si è profondamente influenzati dalle azioni e dalle idee altrui, l’interazione fa sì che pensieri, sentimenti e comportamenti dei componenti di un gruppo diventino via via più simili. In presenza di un compito valutativo, sia esso ben definito o ambiguo, i giudizi dei singoli individui finiscono per convergere, dando così vita ad una norma sociale. Le norme sociali riflettono modi di pensare, sentire o comportarsi ampiamente accettati su cui gli appartenenti a un gruppo concordano considerandoli giusti e appropriati.
Per poter guidare il comportamento, le norme devono innanzitutto essere richiamate alla mente. Esse vengono attivate da stimoli deliberati, come ordini diretti o cartelli di divieto, o da suggestioni più sottili, come l’osservazione del comportamento altrui. Talvolta le norme vengono rinforzate tramite ricompense e punizioni. Più spesso, tuttavia, gli individui seguono le norme perché le considerano giuste, perché sono avvallate dal comportamento degli altri componenti del gruppo o perché sono attivate frequentemente da stimoli esterni.
Quando le norme sono stabilite dall’autorità
A tal proposito hanno destato molto scalpore, al tempo, gli esperimenti condotti nell’ambito della psicologia sociale da Stanley Milgram (1961) e da Philip Zimbardo nel 1971 in cui si è messo in luce quanto forte possa divenire l’adesione alle norme sociali, quando queste vengono stabilite da una figura che si ritiene un’autorità.
Ricordiamo brevemente quali furono i termini di questa sperimentazione di psicologia sociale che Milgram condusse all’Università di Yale su migliaia di persone e che è stata più volte oggetto di ripetizione. All’interno di un laboratorio un soggetto che si era reso disponibile a condurre esperimenti sulla memorizzazione doveva correggere un altro soggetto – un attore sotto le mentite spoglie di cavia – somministrandogli delle scosse a intensità crescente ogni volta che questi sbagliava a rispondere alle domande sottoposte dal dottore che conduceva l’esperimento. Lo scopo era vedere fino a che punto il soggetto avrebbe accettato di continuare a somministrare le scosse (che potevano arrivare anche fino a 450 V ed erano contrassegnate con diciture fino a “scossa pericolosa”) pur in presenza dei lamenti, delle proteste e infine degli urli e dei rantoli della “cavia”.
Dunque i partecipanti – a seconda della loro tendenza ad accettare e a eseguire le norme sociali fornite loro – erano categorizzati come obbedienti o ribelli: secondo i risultati del famoso esperimento la maggior parte dei partecipanti erano degli obbedienti disposti a somministrare potenti e pericolose scosse elettriche ai propri consimili.
Analogamente, l’esperimento di psicologia sociale progettato da Zimbardo sull’adesione alle norme di gruppo condusse ad esiti di eguale drammaticità. La procedura ha previsto l’assegnazione casuale di 24 studenti metà al ruolo di guardia e metà al ruolo di carcerato. In seguito, tutti i ragazzi furono inseriti in una prigione artificiale collocata nell’Università di Stanford, seguendo in modo preciso le procedure adottate nelle prigioni del Texas sia per quanto riguarda la costruzione dello stabile che le pratiche di arresto. Le guardie non ricevettero alcuno specifico addestramento e furono istruite a fare tutto ciò che ritenevano fosse utile a far osservare le norme, mentre i detenuti furono informati delle condizioni che li aspettavano in termini di umiliazione e violazione della privacy.
I risultati dell’esperimento furono drammatici e nonostante la durata prevista fosse di due settimane, portarono all’interruzione prematura dopo soli 6 giorni a causa del forte impatto psicologico che la situazione ebbe sugli studenti: in pochissimi giorni le guardie divennero sadiche e maltrattanti e i prigionieri mostrarono evidenti segnali di stress e depressione.
Quando le norme sono stabilite dal leader del gruppo
Come una volta ha detto l’ex presidente degli Stati Uniti Eisenhower[blockquote style=”1″] la leadership è la capacità di decidere ciò che va fatto e poi fare in modo che gli altri desiderino farlo.[/blockquote]
Più in generale, la leadership è il processo in cui a uno o più componenti del gruppo viene permesso di influenzarne e motivarne altri per contribuire a raggiungere gli obiettivi del gruppo. Il leader stabilisce gli obiettivi del gruppo, la sua struttura e la gerarchizzazione dei suoi membri, la divisione dei compiti e dunque le norme sociali in vigore all’interno del gruppo.
Un famoso “esperimento” di psicologia sociale ideato da Ron Jones nel 1967, professore di un liceo americano, ha sorprendentemente rivelato fino a che punto possa spingersi l’adesione di un gruppo alle proprie norme e al leader che le ha promulgate.
Siamo nell’aprile del 1967 e il professor Jones tiene il corso di Storia Contemporanea alla Cubberley High School di Palo Alto, in California. Durante la spiegazione sull’instaurarsi del nazismo in Germania, uno degli studenti chiede come sia possibile che il popolo tedesco abbia sempre sostenuto di non sapere nulla sulle atrocità compiute dai nazisti. Il professor Jones decide di dedicare la settimana seguente alla ricerca di una risposta adeguata. Vediamo come.
La forza attraverso la disciplina. Il primo giorno Jones decide di introdurre nella classe uno dei concetti chiave del nazismo: la disciplina. Dopo aver illustrato la bellezza della disciplina, l’esercizio, la perseveranza, il controllo, ordina alla classe di esercitarsi su una specifica postura da adottare seduti al banco, per mantenere la concentrazione e rafforzare la volontà. Gli alunni si esercitano e in breve tempo sono tutti capaci di mantenere la postura e di alzarsi e sedersi senza far rumore. Perché una norma sociale imposta genera un tale rispetto? Fino a quanto può spingersi? Il desiderio di disciplina e uniformità è un bisogno innato? Jones introduce un protocollo per la comunicazione all’interno della classe e nota come l’ambiente autoritario porti con sé una maggiore attenzione e produttività del gruppo.
La forza attraverso la comunità. Il secondo giorno, quando Jones entra in classe trova gli alunni nella posizione insegnata il giorno precedente. Inizia la lezione, viene spiegato il valore della comunità: sentirsi parte di un insieme, di un movimento, soffrire insieme e lavorare per uno scopo comune. La classe ripete il motto: [blockquote style=”1″]la forza attraverso la disciplina, la forza attraverso la comunità. [/blockquote]Gli studenti accettano questo modello di autorità e anche Jones è compiaciuto nel vederli eccitati e soddisfatti. Si rende conto di star seguendo il gruppo più che dirigerlo. Il professore crea un saluto esclusivo per gli studenti. Il braccio destro davanti, la mano leggermente curva, a mimare un’onda. Il movimento ha un nome: la Terza Onda, la più grande della catena di onde che si muove fino a riva. Alcuni ragazzi dalle altre classi chiedono di potersi unire al movimento.
La forza attraverso l’azione. Il terzo giorno sono ormai diversi gli studenti di altre classi che si sono uniti al gruppo. Jones spiega l’importanza dell’azione, la bellezza del prendersi la responsabilità dei propri gesti e del fare qualsiasi cosa necessaria per proteggere la propria comunità. Alla fine della lezione, agli studenti viene dato il compito di ideare il simbolo della Terza Onda, ma non solo. Il professore chiede di imparare i recapiti di tutti i membri del movimento a memoria, di convincere 20 bambini delle scuole elementari a sedersi come loro, di indicare nuovi possibili membri per il movimento. Infine, vengono stabilite procedure di iniziazione per i nuovi membri. A fine giornata duecento studenti si uniscono alla Terza Onda.
Alla fine del terzo giorno la situazione si fa preoccupante e per lo stesso Jones è difficile distinguere i limiti tra finzione e realtà. Uno degli studenti ritenuti più anonimi si propone per fargli da guardia del corpo: ha finalmente un ruolo, è parte di qualcosa, il professore non può dirgli di no.
La forza attraverso l’orgoglio. Al quarto giorno, Ron Jones decide di porre fine all’esperimento. Dire semplicemente che si tratta di un gioco sarebbe troppo destabilizzante, così viene adottata un’altra strategia: una mossa inaspettata. L’insegnante comincia la lezione parlando dell’orgoglio, ma dopo poco decide di rivelare la reale natura della Terza Onda.
La Terza Onda non è solo un esperimento o un’esercitazione di classe. È molto più importante di questo. La Terza Onda è un programma nazionale per ricercare studenti in grado di lottare per un cambiamento politico in questa nazione. Il professore rivela agli studenti che il programma sarà reso pubblico il giorno seguente, con un messaggio in diretta televisiva rivolto agli oltre 1000 gruppi di giovani coinvolti in tutto lo stato.
La forza attraverso la comprensione. Il quinto giorno l’auditorium della scuola è pieno di studenti e di conoscenti di Ron Jones che si fingono inviati della stampa. Poco prima del collegamento con il fantomatico responsabile del movimento Terza Onda, il professore ripete per l’ultima volta il saluto e il motto insegnato, prontamente seguito dagli studenti. Alle 12:05, si accende un grande schermo. Per due minuti tutti fissano una parete bianca. D’un tratto, qualcuno protesta e inizia a chiedere dove sia il suo leader. Ma non c’è alcun leader, né alcun movimento nazionale giovanile chiamato la Terza Onda. Jones fa notare ai ragazzi come sono stati manipolati e usati, tracciando un parallelismo degli eventi della settimana con quelli della Germania nazista. Secondo Jones, l’esperimento rivelava che [blockquote style=”1″]il fascismo non è qualcosa che qualcuno fa e qualcuno no. No. È proprio qui. In quest’aula. Nelle nostre personali abitudini e nel modo di vivere. Grattate la superficie e appare. Qualcosa in ciascuno di noi. Ce lo portiamo dentro come una malattia. La consapevolezza che l’essere umano è per natura malvagio e quindi incapace di agire per il bene degli altri. Una consapevolezza che richiede un leader forte e disciplina per preservare l’ordine sociale. E c’è dell’altro. La necessità di una giustificazione.[/blockquote]
Per alcuni anni non si parlò più dell’esperimento, che lo stesso Jones descrisse in un saggio nel 1972. Ad oggi, non possiamo evitare di fare parallelismi con alcune realtà tragicamente protagoniste della cronaca attuale. Quello che invece è impossibile condividere è la generalizzazione proposta da Jones in conclusione alla narrazione degli eventi dell’aprile 1967.
a cura di Carola Benelli e Zeno Regazzoni