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Il piacere di essere se stessi. L’identità sociale tra essere e dover essere

Psicologia: riscoprire se stessi, in un'ottica liberatoria, superando i vincoli della nostra identità condizionata dall'accettazione e pressione sociale

Di Vincenzo Amendolagine

Pubblicato il 19 Mag. 2014

Aggiornato il 22 Ott. 2014 15:54

 

 

 

il piacere di essere se stessi e identità sociale© Marek - Fotolia.comNel corso del ciclo vitale l’individuo costruisce l’identità sociale. Tale costrutto è composto da due dimensioni, una privata per se stessi e una pubblica per gli altri. Spesso l’identità per sé contiene le costrizioni che le agenzie formative hanno imposto durante l’età evolutiva. Nelle situazioni di stress capita, sovente, di percepire con più forza questi vincoli e allora non resta che riscoprire se stessi, in un’ottica liberatoria, per ristabilire l’equilibrio psicologico.

 

 

La microstoria dell’infante

Ognuno di noi è portatore di emozioni, di modi di pensare e di abitudini che sono stati acquisiti nel corso dell’intero ciclo di vita. Questo bagaglio costituisce la nostra ricchezza, ma talvolta in esso sono insiti i semi del disagio, nella misura in cui tale apparato non ci appartiene o meglio ci appartiene solo in parte.

Al momento della nascita l’infante già possiede una microstoria che è fatta dalle percezioni che i genitori proiettano sul nuovo nato. Nell’immaginario genitoriale subentrano una serie di attribuzioni che consentono di costruire un’intelaiatura concettuale su cui si adagerà la vita dell’infante.

In altre parole, i genitori percepiscono il proprio figlio in base a quella che è stata la loro storia nella propria famiglia di origine. Questo determina un’ipoteca nell’accostamento emozionale al piccolo che influirà successivamente, ovvero l’esperienza di figlio, nel vissuto genitoriale, ha difficoltà ad essere separata dall’esperienza di genitore.

Così in questa piccola istituzione sociale che è la famiglia il nuovo nato si trova ad avere due genitori che sono contemporaneamente ancora figli dei propri genitori e questo incide sulla mappa concettuale che successivamente si formerà.

La socializzazione primaria

La diade genitoriale è chiamata a far incamerare al nuovo nato quelli che sono i prodotti culturali della società in cui vive, attraverso quel processo che va sotto il nome di socializzazione primaria. Per mezzo di tale procedura l’infante viene colonizzato al vivere sociale, che è fatto di abitudini, routine e modi di essere che riflettono la cultura dominante e che sono egemoni in quel contesto di vita.

In altre parole, con la socializzazione primaria il bambino interiorizza il mondo dei genitori. In questo modo si pongono le basi per una costruzione della personalità che è sintonica con la cultura nella quale si vive (Benedict, 1960).

Con il concetto di cultura si definiscono le convinzioni, le abitudini e le istituzioni sociali che caratterizzano una società. Le istituzioni traggono origine dai comportamenti individuali che si ripetono nel corso dello scorrere del tempo e che si consolidano in modelli di comportamento, che sono adottati da tutti gli individui che fanno parte della stessa società (Kardiner, 1965).

In pratica, il bambino si trova a dover assimilare nei primi anni di vita quella che è la struttura culturale della società in cui vive. Che questo non sia un atto indolore è rappresentato dalle ribellioni a cui il piccolo sovente accede, quando, attraverso le crisi di opposizione, che caratterizzano la sua crescita, vuol affermare il proprio io in termini differenti da quello che la volontà genitoriale vorrebbe.

Uno strumento potente per la trasmissione di questo mondo culturale è rappresentato dal linguaggio. In altri termini, attraverso il linguaggio la diade genitoriale provvede a socializzare il proprio figlio, per mezzo degli aspetti semantici e pragmatici che sottendono al dato linguistico.

Essere e dover essere

La crescita dell’infante si struttura come una doppia storia, ovvero una storia di superficie fatta da tutti quei comportamenti, quelle abitudini e quei pensieri che privilegiano la sintonia con il mondo dei propri genitori, che è il mondo sociale, e una storia sotterranea, dove albergano le opposizione, ovvero quelle abitudini, quei comportamenti e quei pensieri che sono poco sintonici con i processi della socializzazione primaria.

In pratica, si crea una distanza fra quello che il bambino è e quello che in realtà deve essere se vuol continuare ad avere l’affetto dei propri genitori, la stima sociale dei suoi coetanei e di tutti quelli adulti con cui si interfaccia nel corso della suo ciclo di vita.

In questa maniera si sviluppa quello che Fromm, citato in Caprara e Gennaro (1994), definisce il carattere sociale, ovvero una struttura di personalità che è sintonica con l’ambiente nel quale il bambino vive. I due mondi, in realtà, procedono per percorsi paralleli.

Il primo si ipertrofizza e si implementa grazie ai riconoscimenti sociali che il piccolo riceve e che gli fanno adottare, in modo completo e profondo, le caratteristiche sociali del contesto in cui è immerso.

L’altro mondo, quello sotterraneo, vive di riverberi, che sono fatti di veri bisogni, di desideri ed di un’ideologia della vita che non collima con quella vigente nella cultura dominante. Man mano che la crescita procede si crea una discrepanza maggiore fra quello che Rogers, menzionato in Caprara e Gennaro (op. cit.), chiama vero sé e il mondo fittizio del sé condizionato dall’accettazione sociale.

Il bambino vorrebbe, ma non può. Deve adattarsi a quelle che sono le limitazioni dell’esserci, mentre la sua persona vorrebbe tutta la libertà dell’essere, ovvero una libertà incondizionata, come afferma Binswanger, riportato in Caprara e Gennaro (op. cit.).

In questo periodo la sua storia è fatta da due movimenti contrastanti, sintonici con i due mondi vissuti interiormente, che sono l’obbedienza e la disobbedienza. Il non perdere l’affetto dei propri genitori e delle altre figure carismatiche che entrano nella sua vita lo induce ad essere obbediente, l’amore per la libertà e per la sperimentazione lo spingono alla disobbedienza.

In questa fase, come Piaget (1972) segnala, la morale del bambino è eteronoma, ovvero deriva dai divieti posti dalla volontà genitoriale, che sono vissuti come norme imposte dai genitori e non come propri desideri e per questa ragione non sono ancora interiorizzati.

La socializzazione secondaria

La crescita, dal punto di vista sociale, si completa nel corso degli anni con quella che Berger e Luckmann (1969) chiamano socializzazione secondaria, ovvero quel processo che induce ad interiorizzare i saperi professionali e che determina il possesso di un lessico, di una metodologia e di una ideologia della realtà sintonica con la scelta lavorativa che si compie.

L’identità sociale

Attraverso questo lungo percorso l’individuo acquisisce la propria identità sociale, che come Dubar (2004) avverte, è costituita da due componenti, cioè l’identità per sé e l’identità per l’altro.

Entrambe si formano attraverso dei processi sociali, in quanto alla base di esse ci sono delle procedure che coinvolgono l’alterità o se stessi, in qualità di soggetto sociale.

In pratica, nel corso della storia individuale, le due identità, da cui è composta l’identità sociale, si strutturano attraverso due processi ben precisi:

  • il processo biografico;
  • il processo relazionale.

Nello specifico, attraverso la propria storia di vita o biografia si costruisce l’identità sociale per sé e attraverso le interazioni sociali si realizza l’identità per l’altro, che permette di essere percepiti dall’alterità.

L’identità per sé è costituita da i due mondi di cui si diceva. In pratica, l’individuo costruisce questa idea di sé, tramite quello che è, ma in tale identità sono contenuti anche i germogli di quello che non è e che, di fatto, vorrebbe essere. L’identità per l’altro si costituisce nel corso della propria storia mediante le varie esperienze che portano a stare con gli altri.

In tali circostanze, noi forniamo il materiale, attraverso il mostrarci, l’essere e il reagire, che consente agli altri di farsi un’idea di noi.

La liberazione dal dover essere

In alcune circostanze, specificatamente nelle situazioni di stress, l’identità per sé si sfibra nei due mondi, da cui è composta, ovvero quello palese che ha costituito l’immagine che si ha di sé e quello più intimo dove sono sepolti i veri bisogni e i desideri.

In questa circostanza tale realtà profonda reclama di uscire allo scoperto inviando segnali, che incrementano l’insoddisfazione e il senso di infelicità. In questo frangente diventa imperativo riscoprire se stessi, in pratica far emergere quello che per diverso tempo si è tenuto ai margini. Tale mondo è fatto di creatività, di cambiamenti, del dare un senso diverso alla propria vita, al proprio lavoro, ai rapporti con gli altri.

In altre parole, il mondo parallelo, che ha costituito l’altra faccia dell’identità, invita a cambiare vita, a riscoprire cose che nel corso degli anni sono state abbandonate per far posto ad una serie di doveri e responsabilità, il più delle volte non in sintonia con i veri bisogni.

Ecco allora riscoprire il vero sé, per mezzo di attività nuove, più gratificanti o semplicemente cambiando la maniera di percepire se stessi e la propria vita. È un modo per ritornare a provare il piacere di essere se stessi, in una prospettiva di liberazione, che, come Bauman (2011) osserva, presuppone il liberarsi da vincoli o catene, che il più delle volte sono solo nella mente.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Bauman, Z. (2011). Modernità liquida. Roma – Bari: Laterza.
  • Benedict, R. (1960). Modelli di cultura. Milano: Feltrinelli.
  • Berger, P. e Luckmann, T (1969). La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Caprara, G.V. & Gennaro, A. (1994). Psicologia della personalità. Bologna: Il Mulino.
  • Dubar, C. (2004). La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Kardiner, A. (1965). L’individuo e la sua società: psicodinamica dell’organizzazione sociale primitiva. Milano: Bompiani.
  • Piaget, J. (1972). Il giudizio morale nel fanciullo. Firenze: Giunti.

 

Autore: Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta, psicopedagogista. Insegna, come docente a contratto, Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Psicologia delle Diverse Abilità, Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

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Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta psicopedagogista. Insegna come Professore a contratto presso la Facoltà/Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro.

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