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Il bisogno di appartenenza e il difficile rapporto con gli altri

Il bisogno di appartenenza è un bisogno universale di socializzazione dell'uomo che rende però talvolta difficile il rapporto con l'altro, con il diverso.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 29 Apr. 2015

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta di Domenica 26 Aprile 2015

 

Il rapporto con gli altri, con i migranti, con i diversi tira sempre in ballo i nostri peggiori pensieri più o meno xenofobi e che più o meno non condividiamo (en passant: battuta di Pino Caruso prima ancora che di Altan).

La reazione chimica tra la novità dell’incontro e il bisogno di appartenenza che pur nutriamo rischia di infilarci in un vicolo cieco. Troppi massacri del secolo scorso sono avvenuti in nome del bisogno di appartenenza nazionalistico. Ed è ancor più vero che nella sua forma estrema, il nazismo, il bisogno di appartenenza si è mostrato in una forma definitivamente bestiale e distruttiva. Che sia giusta quindi una lunga penitenza è desiderabile.

Tuttavia il bisogno di appartenenza, come tutti i bisogni psicologici, tende a ripresentarsi in forma camuffata quando è negato.

Il problema è che si è indebolito anche il senso di appartenenza politica e ideologica (e questo potrebbe spiegare certe conversioni da sinistra al leghismo). Un tempo –e io c’ero- l’affiliazione politica era anche una comunità che si caratterizzava non solo per le idee condivise ma anche per segni di riconoscimento che, decifrati, riscaldavano il cuore. Ci si riconosceva tra comunisti con lo steso trasporto con il quale si riconosce immediatamente un compatriota che s’incrocia casualmente nelle strade di un lontano paese straniero, con il quale si scambia una rapida occhiata affettuosa nella folla estranea di una città che non è la nostra, in una di quelle sere in cui si è fuori casa per lavoro e ci si sente particolarmente a disagio e privi delle solite piccole cose che accompagnano la nostra vita nei luoghi che ci sono familiari.

Cose che magari una volta tornati a casa reputeremo fastidiose e perfino odiose, ma la cui mancanza in quel pub così estraneo al nostro gusto, le cui pareti sono rivestite fino all’angolo più lontano di un legno fin troppo caloroso mentre fuori il tempo è umido e inclemente e tutto questo ci ricorda che il clima soleggiato e i baretti dalle pareti imbiancate del nostro paese mediterraneo non appartengono a quelle atmosfere nordiche; tutto questo ci affligge il cuore.

Roy F. Baumeister e Mark R. Leary (1995) sono stati coloro che hanno dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie (https://www.stateofmind.it/2014/05/essere-sestessi-identita-sociale/). Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non eliminato.

Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Di questo bisogno la nostra -più che giusta- mentalità progressista favorisce soprattutto la componente di apertura agli altri, di costruzione dei legami. Tuttavia la socializzazione è fatta anche di un bisogno –se vogliamo più emotivo- di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini; o peggio: etnicamente affini. Si tratta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Tuttavia fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali può essere un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta anche di disagio, non di superficiale amichevolezza.

Tutti noi abbiamo bisogno del contatto con gli altri, e negli altri si cerca una giusta contemperanza di differenza e somiglianza. Quel tanto di differenza necessaria per non annoiarsi, qual tanto di somiglianza necessaria per non disorientarsi. Tutti noi, scrivono Baumeister e Leary, cerchiamo nel contatto con l’altro sia la novità e lo stimolo che un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.

È proprio la possibilità di riconoscere nell’ altro sia dei tratti nuovi che dei tratti prevedibili che ci fornisce l’energia di incontrare il diverso e di esserne stimolati. Non c’è incontro senza barriera. Il problema è che la barriera è inevitabilmente eretta con materiale poco nobile: i mattoni della barriera sono i segnali più primitivi di appartenenza al gruppo, segnali che sono spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni e semplicismi culturali. Quel popolo è reputato chiassoso, caloroso, inaffidabile e portato alla musica, e quell’altro invece schivo, riservato e così via.

Inoltre, la capacità di convivere con culture straniere è diventata il test con le quali le società occidentali verificano la propria capacità di rispettare il valore liberale della tolleranza. Ma a questo test sono sottoposti anche i migranti, le persone che vengono a vivere nei paesi occidentali. Test che include la tolleranza per stili di vita che in paesi non occidentali sono invece attivamente repressi. Questi stili di vita incomprensibili per molti migranti comprendono, lo si è capito, soprattutto i comportamenti sessuali. E in particolare le libertà sessuali. E ancora più in particolare, le libertà sessuali delle donne, dei gay e in generale del mondo LGBT.

Per Mark Sedgwick (2011) al momento questi stili di vita possono essere in tal grado inaccettabili per chi proviene da culture non occidentali da determinare un dilemma per i governi europei: come tollerare la possibile intolleranza altrui verso stili di vita occidentali? Una ricerca effettuata in Danimarca ha mostrato come il sentimento di appartenenza per la loro nuova patria dei giovani immigrati sia basso, per non dire insoddisfacente (Kühle, Lindekilde, 2010).

In passato ci si è illusi che il processo di secolarizzazione potesse, per virtù sua propria, eliminare i conflitti religiosi e culturali riducendoli a problemi economici, risolvibili sull’arena del mercato senza utilizzare la violenza se non quella sublimata della concorrenza economica.
Purtroppo si sta scoprendo che il cosiddetto “ritorno di Dio” non è affatto un fenomeno che si oppone alla secolarizzazione, ma che la accompagna. È vero che nelle società secolarizzate all’occidentale si assiste a una diminuzione del numero di persone che partecipano a forme di vita comune dotate di senso rituale e religioso. Ma è anche vero che questo numero diminuito di devoti fa di costoro dei militanti molto più agguerriti e organizzati, con l’effetto paradossale di un aumento della loro partecipazione incisiva alla vita sociale e culturale (Casanova, 1994). Il che può essere un contributo prezioso alla vitalità della vita sociale. Ma non quando ci sia la tendenza a coltivare nel proprio milieu gruppi di azione terroristica (Achterberg, Houtman, Aupers e coll., 2009).

La speranza è che sia proprio questo accompagnarsi di secolarizzazione e rinnovato bisogno simbolico di appartenenza in minoranze attive, militanti e agguerrite a generare una felice dialettica tra libertà liberale e conservatorismo comunitario. In fondo, perfino le democrazie occidentali più laicizzate comunque si poggiano su un armamentario simbolico che è comunitario: il mito della rivoluzione in Francia è una simbologia che è anche profondamente nazionale. I festeggiamenti annuali del 14 luglio -presa della Bastiglia- possono esprimere un valore universale e proponibile all’intera umanità, ma sono anche la commemorazione sacra di un evento leggendario e fondante della Francia. Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno una loro mitologia non facilmente esportabile altrove e che fornisce carne e sangue ai principi liberali di quel paese. Il cittadino americano non è un astratto utente di diritti, ma l’uomo della frontiera americana. Si può ammirare o rifiutare questa mitologia, ma è indubbio che essa è un mastice che unisce i singoli individui in una storia e una narrazione, fornendo contenuto storico ai principi liberali.

In conclusione, ogni singolo paese e ogni singola cultura deve riuscire a personalizzare nella propria storia il contenuto universale della modernità, pena l’eterna e inquietante sensazione di scimmiottare usanze altrui, malgrado tutto il loro nobile contenuto universale. Non è un mistero che oggi tutte le varie sensibilità culturali debbano fare i conti con la potente pervasività simbolica dell’immaginario americano, della mitologia individualistica americana. Mitologia che fa sì che le situazioni, gli ambienti e le usanze tipiche del popolo americano siano percepite come un “grande ovunque” in cui ognuno può identificarsi, salvo poi scoprire che però permane una barriera che fa sì che le riproposizioni locali suonino imitative. Di qui un sottile disagio universale, un’attrazione verso il centro della civiltà che è al tempo stesso un timore e una repulsione. E che ci rende poi più difficile proporre un discorso di integrazione a chi viene a vivere da noi. Però, dobbiamo provarci.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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