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Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 2

Il conflitto pt. 2

Da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 1

Il conflitto 2. - Immagine: ©-christophe-BOISSON-Fotolia.comIl conflitto: componenti e processi comportamentali.

Analizzando le modalità con cui si manifesta in superficie a livello comportamentale e comunicativo, è possibile affermare che l’escalation è caratterizzata da un aumento dell’arousal a livello psicofisiologico (Geiger e Fischer, 2006), dalla comparsa di atteggiamenti e comportamenti aggressivi (Anderson e Bushman, 2002) e da un progressivo cambiamento della comunicazione verbale, che si caratterizza per nuove strategie coercitive o lesive come l’offesa, l’insulto o la minaccia (Arielli e Scotto, 2003).

Nei casi più estremi, l’escalation può sfociare in veri e propri comportamenti violenti miranti a recare direttamente danno agli altri partecipanti al conflitto (Anderson e Bushman, 2002; Geiger e Fischer, 2006).

Dal punto di vista comunicativo, seguendo i principi della pragmatica della comunicazione umana, è possibile affermare che l’escalation è un’azione congiunta tra due o più attori coinvolti attraverso cui essi affermano qualcosa non solo a livello del messaggio ma anche della relazione a cui partecipano; ad esempio, la minaccia e la squalifica, due modalità comunicative tipiche dell’escalation, trasmettono a livello del messaggio la propria posizione all’interno del conflitto, ma, al contempo, veicolano informazioni importanti a livello della relazione e cioè, nel caso specifico, un ultimatum nel caso della minaccia e la disconferma diretta della persona o della relazione stessa, nel caso della squalifica (Arielli e Scotto, 2003).

Nel processo escalativo gli agenti tendono infatti alla sempre maggiore polarizzazione della propria posizione e all’irrigidimento estremo della propria ragione; in questo caso la comunicazione a sua volta tende ad irrigidirsi e a spostarsi su due fronti opposti ma compresenti. Il primo fronte è rappresentato dalla generalizzazione e apertura delle questioni del conflitto, attraverso cui si abbandonano le questioni oggettive originarie per passare a questioni sovraordinate di ordine ideologico, valoriale e identitario (Arielli e Scotto, 2003); si tende così a fare appello a valori morali superiori, alla propria presunta superiorità ideologica o intellettuale, all’ipse dixit o agli slogan (ibid.). Il secondo fronte è rappresentato diametralmente dal restringimento delle invettive che si trasformano da generali e esterne a specifiche e interne; l’oggetto del conflitto non riguarda più questioni esterne agli agenti, su cui entrambi possono confrontarsi e apportare la propria opinione, ma comportamenti e attributi specifici degli individui coinvolti, compresi i loro comportamenti, la loro personalità, la loro provenienza geografica, la loro appartenenza sociale e/o culturale (Geiger e Fischer, 2006; Pronin, 2007).

A livello comportamentale, l’escalation è caratterizzata da un sensibile aumento di aggressività, in termini di severità, intensità e impulsività (Winstok, 2008). Anderson e Bushman (2002) definiscono l’aggressività come qualsiasi comportamento diretto verso un altro individuo e messo in atto con l’immediato intento di causare danno; inoltre, colui che attua questo tipo di comportamento deve avere piena coscienza che il suo comportamento arrecherà danno al bersaglio e che quest’ultimo è motivato a eludere l’attacco. Gli autori propongono un modello generale dell’aggressività basato sulla costante interazione a più livelli di due macro-categorie di variabili: le variabili situazionali, che includono tutte quelle qualità specifiche di un dato contesto o situazione sociale che possono innescare una dinamica conflittuale e/o aggressiva (tra cui la presenza di cues aggressivi, frustrazione, possibilità di ottenere rinforzi), e le variabili individuali, che comprendono tutte la caratteristiche idiosincratiche che gli individui apportano all’interno delle dinamiche relazionali (tra cui tratti di personalità, credenze, atteggiamenti, valori, scripts cognitivi).

Esiste un rapporto di influenza reciproca e bidirezionale tra queste due variabili; i fattori situazionali possono influenzare alcune disposizioni e atteggiamenti personali verso la conflittualità e l’aggressività, come ad esempio la ripetuta esposizione a scene violente proposte dai media (Anderson, Buckley e Carnagey, 2008), e, allo stesso modo, può verificarsi il processo inverso, come quando ad esempio alcuni specifici tratti di personalità, tra cui l’ostilità o la rabbia di tratto, favoriscono la ricerca attiva di alcuni ambienti in cui la possibilità di confliggere è resa più disponibile (ibid.).

Queste due tipologie di variabili fungono da input a una serie di processi interni e covert; primi fra tutti alcuni importanti processi cognitivi, come lo sviluppo di pensieri ostili e l’attribuzione arbitraria di intenzioni maligne agli altri agenti, ma anche alcuni processi affettivi e psicofisiologici, come l’aumento dell’attivazione neurologica basale e l’aumento di emozioni negative, dolore e tensione psicologica. Quando gli input situazionali sono percepiti come salienti e quando i processi cognitivo-affettivi si attivano potenziandosi a vicenda, la probabilità di mettere in atto un comportamento aggressivo aumenta notevolmente (Anderson e Bushman, 2002).

A riprova di ciò, un recente studio di Winstok e Eisikovits (2008) analizza le fasi caratterizzanti l’escalation dei conflitti nelle relazioni intime tra partners. Utilizzando una metodologia qualitativa che mirava a sviscerare i diversi livelli di aumento del conflitto, gli autori hanno intervistato 50 coppie che avevano vissuto in passato uno o più episodi di aggressività verbale e fisica.

Dalle interviste emergono due fattori cruciali e centrali dell’escalation nei conflitti di coppia. Il primo riguarda le motivazioni alla base del conflitto, mentre il secondo il senso di controllo; la dimensione delle motivazione e quella del controllo rappresentano due traiettorie che decidono in maniera determinante l’esito della dinamica conflittuale verso diversi livelli di aggressività. Gli autori hanno infatti notato dalle interviste dei partecipanti che, mentre nelle prime fasi del conflitto le motivazioni rivestono maggiore importanza cognitiva ed affettiva rispetto al bisogno di controllo del partner e/o della situazione, questa tendenza tende a invertirsi completamente nella fase terminale del conflitto, quando le motivazioni originarie e il senso di autocontrollo si affievoliscono mentre parallelamente aumenta il bisogno di porre termine al conflitto, indipendentemente dalla modalità. Nel momento in cui le due traiettorie si incrociano tra la prima e l’ultima fase del conflitto, esse segnano un punto di non ritorno in cui l’escalation assume forma e sostanza, il conflitto diventa distruttivo e si verifica con maggiore probabilità il passaggio dall’aggressività verbale a quella fisica.

Queste osservazioni confermano i dati ottenuti da uno studio di Smits e De Boeck (2007) in cui gli autori hanno dimostrato che il controllo cognitivo incide sulla messa in atto di comportamenti aggressivi a due diversi livelli: a livello della tendenza all’azione e a livello del comportamento vero e proprio. L’inibizione e la pianificazione comportamentale, caratteristiche basilari della vita sociale degli esseri umani, agiscono a questi due livelli per scongiurare effetti potenzialmente distruttivi per i singoli agenti e per la relazione; l’escalation si presenta invece quando entrambe questi dispositivi di controllo falliscono o si affievoliscono.

Secondo Winstok (2008) i freni inibitori e di controllo si fanno più deboli sulla base di una razionale valutazione dei pro e dei contro della situazione; se i vantaggi della condotta aggressiva come culmine di una dinamica escalativa sono percepiti come maggiori o più rilevanti dei suoi eventuali costi, la persona sarà maggiormente motivata e intenzionata a frenare a tutti i livelli i propri sistemi inibitori e di autocontrollo.

Tuttavia, come lo stesso Winstok nota, si tratta di un modello basato su processi di decision-making razionale che lasciano poco spazio ai processi emotivi, percettivi e cognitivi sottostanti. Ciò che osserviamo direttamente nel conflitto e nell’escalation è in realtà soltanto la punta dell’iceberg di complessi processi cognitivi, affettivi, motivazionali e identitari più profondi.

 

LEGGI: PARTE 1

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALIPSICOLOGIA SOCIALEAROUSAL 

PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

PSICOLOGIA SOCIALE: GLI ESSERI UMANI SONO PRO-SOCIALI

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Sesso occasionale: conviene? – Il circolo vizioso della solitudine – Psicologia

 

Sesso occasionale: conviene? - Il circolo vizioso della solitudine. - Immagine: © George Mayer - Fotolia.comFare sesso occasionale fa star bene! Falsa credenza o dura realtà?

Pare che avere rapporti occasionali porti a un vissuto di frustrazione, colpa e ansia verso il sesso che funzionerebbe da tappa buchi emotivo. 

Film, giornali, media grondano di notizie relative alle relazioni occasionali, creano gossip, fanno notizia, sia se riguarda il migliore amico sia se si tratta di persone note.

In molti, giovani e adulti, intraprendono spesso sesso occasionale o esperienze sessuali al di fuori di una relazione di coppia. Si tratta di un comportamento molto diffuso: si esce, si va a ballare si conosce gente e si passa la serata insieme, un fugace prendere qualcosa di limitato dell’altro. Recentemente, le chat facilitiamo questo tipo di relazione e lo sconosciuto diventa subito un qualcosa a portata di mano.

Il sesso occasionale può avvenire tra perfetti sconosciuti o tra amici, amici con benefit, ma secondo voi porta effetti positivi oppure solo sofferenza?

Nell’immaginario collettivo è noto che dire di avere molti partner potrebbe essere sinonimo di gran divertimento e di essere dei gran viveur, chiaro che deve essere fatta una distinzione tra uomini e donne. Infatti, gli uomini e le donne riferiscono comportamenti divergenti verso il sesso occasionale.  In generale, le donne mostrano un atteggiamento più negativo verso il sesso occasionale rispetto agli uomini, che sono più predisposti ad avere relazioni occasionali.

Spesse volte il sesso occasionale costituisce una valida alternativa rispetto all’impegnarsi seriamente con qualcuno, richiede meno impegno comportamentale ed emotivo e dall’altra parte fa sentire attraenti, impegnati e desiderati, richiesti, ambiti. Quindi dovrebbe provocare benessere, e, invece, non è così!

Pare che avere rapporti occasionali porti a un vissuto di frustrazione, colpa e ansia verso il sesso che funzionerebbe da tappa buchi emotivo. Le persone che ricercano un rapporto sessuale occasionale mostrano scarsa autostima, poca soddisfazione nella vita in generale e di conseguenza si celano dietro queste false relazioni che erroneamente si pensa possano provocare piacere. Invece, non fanno altro che aumentare il buco emotivo, che dopo aver consumato fugacemente la relazione, piombano nel vortice caleidoscopico della tristezza. Ed eccoli subito dopo pronti a ricominciare!

Si tratta di persone sole o che sperimentano un senso di solitudine e che vorrebbero provare un senso di rivalsa nel ricreare una falsa relazione con una falsa vicinanza emotiva.

In altre parole, un disagio relazionale e emotivo può procedere il comportamento che porta all’intraprendere una relazione sessuale occasionale.

Il rapporto “one night” fa sentire vuoti, insoddisfatti e psicologicamente fragili. Questo ha ovviamente ripercussioni negative sull’intera persona e sul sociale. Quindi, aumenta quel vortice che ha portato inizialmente alla ricerca del rapporto occasionale.

Per non patologizzare sempre, è possibile che avere rapporti occasionali potrebbe essere anche un modo di sperimentarsi e di discriminare cosa piace da cosa non piace.

Magari, chissà, potrebbe portare ad uscire dal guscio e scoprire l’amore vero.

LEGGI:

SESSO-SESSUALITA’PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Innamorarsi danneggia l’attenzione. Amore & Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli innamorati sarebbero meno in grado di focalizzare l’attenzione ed eseguire compiti che richiedono un impegno attentivo, questo quanto ha dimostrato empiricamente uno studio pubblicato recentemente su Motivation and Emotion. 

Circa quaranta individui impegnati in una relazione da meno di sei mesi hanno eseguito una serie di compiti attentivi (ad esempio, discriminare informazioni irrilevanti da quelle rilevanti). Tra i risultati vi è una correlazione positiva statisticamente significativa: più i soggetti riportavano di essere innamorati (variabile misurata attraverso il questionario Passionate Love Scale) e meno erano in grado di svolgere in maniera adeguata i compiti attentivi proposti, facendo quindi un maggior numero di errori e impiegando più tempo per portarli a termine. Nessuna differenza significativa è stata rilevata in tale effetto tra uomini e donne.

Gli autori dello studio si spiegano il fenomeno – ben conosciuto dalla psicologia naif – riferendosi alla massiva quota di risorse cognitive che vengono investite sull’amato, al limite dell’ossessività: in altre parole durante i primi mesi di una storia d’amore si pensa costantemente al partner, rendendo cosi difficile la concentrazione e la focalizzazione dell’attenzione. Questo effetto dell’affettività sulla cognizione, studiato in laboratorio è facilmente generalizzabile a contesti della vita quotidiana in cui l’innamorato non ha testa per studiare o lavorare.

Ulteriori studi si proporranno di approfondire se tale fenomeno sia presente in relazioni romantiche più durature, cercando di comprenderne anche il ruolo di variabili individuali e relazionali in grado di modularlo. 

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – ATTENZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Interview with Warren Mansell on Method of Levels Therapy

STATE OF MIND INTERVIEWS:

Warren Mansell Ph.D

Reader in Clinical Psychology at the University of Manchester

 

 

State of Mind interviews Dr. Warren Mansell, Reader in Clinical Psychology at the University of Manchester, about a novel form of Cognitive Behavioural Therapy known as Method of Levels.

Resources: http://www.pctweb.org/

 

FURTHER READINGS:

ENGLISH ARTICLES ON STATE OF MIND

OTHER INTERVIEWS:

Interview with Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D at APA 2013 Annual Convention, Honolulu

Peter Fonagy – Interview on Mentalizazion Based Therapy

Interview with John F. Clarkin in New York

Interview with Tom Borkovec – EABCT 2012 Genève

Il cigno nero (The Black Swan, 2010) – Cinema & Psicoterapia #13

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #13

Il cigno nero (Black Swan).(2010)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Il cigno nero (Black Swan).(2010). -Immagine: locandina

Il concetto di controllo si estende alle pulsioni affettive, sessuali, e a una routine strutturata, tutta volta solo alla realizzazione. I bisogni della giovane non compaiono: esplodono.

Info:

Un film di Darren Aronofsky, con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder. Thriller. USA 2010.

Trama: 

Nina è una ballerina di danza classica che vuole spasmodicamente la parte del cigno nell’allestimento del “Lago dei cigni” fatta da Thomas Leroy. Leroy le assegna il ruolo, ma poi ha dei dubbi: forse Nina non ha la sensualità necessaria per le parti in cui il cigno nero seduce il principe.

Nina è competitiva e concentrata sulla propria prestazione. In più, la madre è un’ex ballerina che non ha avuto successo e che, in modo ambivalente, ripone nella figlia le proprie speranze ma,al contempo, spera che la figlia fallisca come lei.

Il controllo di ciò che mangia in Nina è proporzionale alla determinazione rispetto alla riuscita della carriera. Il concetto di controllo si estende alle pulsioni affettive, sessuali, e a una routine strutturata, tutta volta solo alla realizzazione. I bisogni della giovane non compaiono: esplodono. Perché lei reprime se stessa con la forza con cui spera di esprimere la propria arte.

Rispetto alla perfettibilità emula se stessa e non può vincere. Per essere sensuale come il ruolo richiede, deve svincolare il controllo.

Una collega che compete per la stessa parte la invita a cena e le fa assumere un acido. Da questo momento in poi scatta lo scompenso: lentamente, ma in modo inesorabile, la soggettività si allarga, la metacognizione si distorce in interpretazioni maligne e le paure diventano solide immagini, diventano ‘realtà’: le paure si materializzano.

Il nemico di Nina è Nina, la quale combatte se stessa fino alla morte. 

Motivi di interesse: 

Le fasi della psicosi sono ben delineate, passo dopo passo dalla confusione angosciosa fino all’intuizione finale che tutto fa quadrare nel delirio franco e nella realizzazione del cigno nero. 

Nelle prime scene del film lei si mangia le cuticole attorno alle unghie e si gratta le spalle per il nervosismo. Poco dopo c’è una scena in cui lei ha una visione del dito che le si apre come se la pellicina invece di staccarsi fosse tirata fino alla nocca della mano.

In una scena successiva l’irritazione della pelle sulle spalle sembra notevolmente peggiorata, quasi viva, come se i pori ‘friggessero’ sotto il derma.

Poi si convince di aver avuto un rapporto sessuale con la sua competitor, cosa che non è mai avvenuta, dopo aver preso l’acido offerto da lei.

Nella scena finale sul palco scenico la psicosi è consolidata: dai pori escono le piume nere del cigno e lei con lo sguardo iniettato di furia vince se stessa allargando le ali.

La protagonista presenta anche aspetti relativi a disturbi del comportamento alimentare: dal voler dominare l’appetito alla ricerca della perfezione, dalla dipendenza dal parere degli altri al conflitto inconfessato con la madre.

In una prima scena lei e la madre fanno colazione e si beano fintamente di mangiare pompelmo rosa: è chiaro che si tratta di uno sforzo necessario alla linea di Nina.

In una scena successiva la madre le fa trovare una torta di compleanno con panna e frutta e la invita almeno ad assaggiarla: Nina considera questo invito una provocazione, un’aggressione, una specie di violenza e, anche se poi mangia un cucchiaio di panna e frutta, lo fa con faccia disgustata.

In un’altra scena ancora il regista dichiara durante un cocktail che sarà lei a fare la parte e non la prima ballerina dell’anno prima. L’ex prima ballerina scappa disperata e la gente guarda Nina con riprovazione e giudizio (o almeno così percepisce lei) chiedendosi come abbia ottenuto la parte. Lei ne è profondamente turbata.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può essere utilizzato a fini didattici.

Trailer

 

 LEGGI:

PSICOSI DISTURBO DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – CONTROLLO

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Amore, sesso e poesia, detto e non detto dell’amore di coppia – Recensione

Recensione del libro

Amore, sesso e poesia, detto e non detto dell’amore di coppia

di Massimo Biondi

(2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Amore, sesso e poesia Amore, sesso e poesia, tre parole, tre grandi temi, tre importanti questioni affrontate nel libro scritto da Massimo Biondi, professore ordinario di psichiatria, psichiatra e psicoterapeuta.

Non vi aspettate di trovare capitoli o sottocapitoli, ma solo paragrafi o brevi prose che pian piano dipanano, in modo non convenzionale, quanto si può sapere dell’amore e della relazione di coppia. La non convenzionalità, la poca scientificità, cede il posto al racconto di quanto comunemente si respira realmente in una relazione di coppia, che duri 15 minuti o una intera vita, che sia fatta di frugalità o di amore convenzionale.

Sei innamorato? Cosa sai dell’amore? Forse poco o niente al punto da confondere l’innamoramento con l’amore vero e proprio. Invece, l’amore che porta e tramanda la memoria della coppia muove ogni cosa e scandisce le fasi della vita coniugale fino a raggiungere il polo opposto allo stesso: la morte.

“La vita non è dolore, ma il dolore è una componente importante della vita cui nessuno sfugge”. Eppure, esiste sempre il faro di riferimento, o detto alla Bolwby la nostra base sicura , il principio di sicurezza affettiva scrive Biondi, che porta alla consapevolezza di avere delle certezze sentimentali nella vita familiare su cui contare. Ma i legami col tempo cambiano e mutano, si evolvono, non sono statici e a questo cambiamento ci si deve adeguare previa la fine della relazione e la scoperta di altre situazione clandestine che fungono da approdo sicuro.

L’idea dell’amore, il piccolo delirio e l’altra persona sono gli ingredienti che portano alla formazione del legame, e tutti quelli che pensano che avere affinità elettiva possa facilitare il legame, beh, è possibile dire che sono fuori binari. Secondo Biondi la differenza è data dal fare molte cose insieme ovvero costruire il legame di coppia e non vivere dell’idillio, ma creare la storia partendo dalla realtà. A questo punto si forgia la poesia, “che nasce e si alimenta di passioni e di contrasti, di alti e bassi, di contrappunti, di chiaro e scuro“. E’ un venirsi incontro e scontrarsi, un mare spinto dal bisogno di appartenere all’altro e dal perdersi nell’altro, onde di emozioni lunghe e corte che muovono l’amore e dell’amore.

La passione condisce la relazione e stimola il gioco di coppia. Lui o lei si muovono diversamente, provano piaceri diversi, ma l’importante è attivare i feromoni che portano poi a muoversi verso l’altro fino a creare la giusta armonia delle parti, sublime bellezza!

L’altro, diverso da noi, tira fuori una nostra particolare attitudine che nella relazione ci fa sentire in un modo particolare. Questo è ciò che determina l’andamento della relazione.

Quando l’altro non fa sentire più niente di particolare la magia dell’amore finisce e si passa alla normalità, all’apatia. Da qui si possono intraprendere tante strade, si soffre, ci si dispera, si crea dipendenza patologica, ci si arrabbia fino a picchiare o si trova rifugio tra altre braccia: tradimento. Il tradimento, lungo o corto, passionale o fugace porta una sferzata nella vita della coppia determinando una traiettoria parabolica: Vous n’avez pas la prioritè!

Vi starete chiedendo: l’amore in terapia? “Il terapeuta deve capire e aiutare le persone a capirsi; deve fargli trovare soddisfazione nella vita reale e non nel medico. Questo è l’amore che deve provare“. Quindi, si tratta di un confine da definire: non è amore!

 

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LEGGI ANCHE:

AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALISCELTA DEL PARTNER – SESSO E SESSUALITA’ – ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

AMORE E FAMILIARITA’: UNA QUESTIONE DI ATTACCAMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

Internship position (research assistant) on Visual Perception and Control of Action available at IIT-CNCS

La Redazione di State of Mind segnala questa posizione aperta presso l’Istituto Italiano di Tecnologia -sede di Trento-

THE DEADLINE FOR THE APPLICATION IS DECEMBER 5TH, 2013

The Istituto Italiano di Tecnologia (http://www.iit.it) is a private law Foundation, created with special Government Law no. 269 of September 30th 2003, with the objective of promoting Italy’s technological development and higher education in science and technology. Research at IIT is carried out in highly innovative scientific fields with state-of-the-art technology.

An internship (research assistant) position will be available and confirmed in 2014 at the Active Vision Lab of the IIT Center for Neuroscience and Cognitive Systems (http://cncs.iit.it/).

This would be an excellent position for graduates who wish to sharpen their research skills before continuing to postgraduate study. Applicants should have an undergraduate degree in cognitive science, psychology, neuroscience, biology, engineering or related fields, familiarity and ease with computers and strong organizational and interpersonal skills. Expertise with programming, prior independent research experience, and/or statistics is strongly desirable. The salary will be commensurate to qualification and in line to that of top European research institutes.

The successful candidate will assist with all aspects of experimentation including designing, preparing and running the experiments, recruiting participants, analyzing behavioral and kinematic data and publication.

Internship position (research assistant) on Visual Perception and Control of Action available at IIT-CNCSConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
An internship (research assistant) position will be available and confirmed in 2014 at the Active Vision Lab of the IIT Center for Neuroscience and Cognitive Systems (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: Intervista a Lucio Sibilia

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Lucio Sibilia

Professore di Psicologia Clinica, Università La Sapienza di Roma.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Lucio Sibilia, Professore di Psicologia Clinica all’ Università La Sapienza, Roma. Il Professor Sibilia è anche stato co-fondatore della SITCC, la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.  Il Prof. Sibilia ha anche gentilmente spedito le risposte al nostro set di domande standard in forma scritta, come utile complemento all’intervista video, le risposte scritte le trovate QUI.

 CONTENUTI CORRELATI:

LE 8 RISPOSTE DEL PROF. SIBILIA

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA 

LE MIE RISPOSTE ALLE OTTO DOMANDE.

Lucio Sibilia

1 Credo di poter dire che ognuno di noi ha dei principi teorici e clinici che ritiene irrinunciabili. O almeno molto importanti per orientarsi ed effettuare il lavoro clinico. Quali sono i tuoi?

Il nostro approccio CBT si può definire traslazionale. Alla pari della “medicina traslazionale”, si applica il portato della ricerca sperimentale in psicoterapia e psicopatologia ai problemi del paziente. Per fare questo, ovviamente, si ha bisogno di un quadro di riferimento generale, per la selezione delle ricerche.

Il determinismo reciproco di A. Bandura e M. Mahoney è questo quadro di riferimento entro il quale principi e teorie del cambiamento possono essere inquadrati ed acquistano senso come regioni teoriche, o ambiti di applicabilità. Questo è per noi (fondatori del CRP) il “planisfero” delle teorie che qualunque “cittadino del mondo” psicologico farebbe bene a conoscere. Sono profondamente convinto infatti che non vi sia alcuna teoria che possa spiegare l’intero comportamento umano, che si presenta sempre come un fenomeno multideterminato. Tuttavia, ogni teoria, se scientifica, dovrebbe essere compatibile con quelle limitrofe, così come ogni regione geografica con quelle vicine.

Il determinismo reciproco comporta inevitabilmente una visione sistemica, in cui si riconosce al soggetto, quale livello di analisi ed intervento, una dotazione biologica ed una collocazione all’interno di contesti ambientali suoi propri, livelli questi intesi anch’essi come ambiti di analisi ed intervento, a loro volta scomponibili nei loro sottosistemi; le variabili soggettive interagiscono con le variabili pertinenti a tali livelli mediante il comportamento osservabile, comprese le reazioni emozionali. Quindi, comportamenti, stati e reazioni somato-emotive, eventi e condizioni esterne, nonché contenuti e processi cognitivi sono in interazione, modificando continuamente il sistema mente-cervello-corpo-ambiente. Il comportamento si presenta come un’interfaccia tra l’ambiente (immediato e remoto, prossimale e distale, sociale e non) e l’individuo; tuttavia, interagendo con l’ambiente, l’individuo la fa “proprio”. Bisogna quindi accettare che il soggetto (o se si vuole il “Sé”) sia un’entità dai confini continuamente variabili e sfumati, particolarmente in una società “liquida” come la nostra, anche se può mostrare alcune caratteristiche emergenti (come ad es. tratti di personalità o disturbi psichici), che inducono a pensare alla sua continuità nel tempo.

Attraverso le interazioni con i suoi contesti ed i suoi sistemi cognitivo ed emotivo l’individuo risponde alle esigenze che sia le variabili alfa (ambientali) che beta (biologiche) gli pongono in ogni momento della vita. Il sistema cognitivo (variabili gamma) elabora soluzioni (coping), o le assimila dagli altri (modeling), e re- gistra la memoria di successi e fallimenti di tali interazioni (rinforzi o punizioni). E’ ciò che viene chiamato apprendimento, se riguarda comportamenti complessi, o condizionamento se riguarda comportamenti più semplici.1 Il sistema cognitivo ha quindi la funzione primaria di elaborare un’attività (comportamento), più o meno competente (abilità) che gli consenta di risolvere problemi ed esigenze poste dagli altri due livelli alfa e beta, realizzando così l’adattamento personale mediante il repertorio sviluppato. Tale apprendimen- to avviene ed è descrivibile attraverso “schemi condizionali” (es.: “SE il problema è X, ALLORA la soluzione è Y”, oppure “SE lo può fare lui, ALLORA lo posso fare anch’io”, etc.) e può anche essere molto creativo.

E’ un obiettivo clinico, quindi, quello di esaminare come il paziente abbia acquisito (appreso) la sua psicopatologia, ovvero le sue disfunzioni, chiedendosi: a quali stress non era preparato? E quali fattori cognitivi, emotivi o contingenze ambientali (che possono essere diversi da quelli originari) la mantengono? Si assume quindi che i meccanismi che l’hanno mediata possano essere molteplici, ma riguardino comunque i rapporti tra i quattro ambiti menzionati (cognitivo-emotivo-comportamentale-ambientale).

2 Secondo te, come si traducono questi principi nel tuo lavoro con il paziente?

Ogni intervento, così come il progetto terapeutico, si dovrebbe basare sulla formulazione del caso clinico (FCC), unico passo che consente di selezionare gli obiettivi in maniera ragionata. Possibilmente, insieme al paziente. La FCC non è che il quadro complessivo delle interazioni stereotipe acquisite dal paziente – così come si riflettono nei suoi schemi condizionali – che hanno condotto al disadattamento e alla psicopatolo- gia, una rappresentazione logica dell’organizzazione dei problemi del paziente (non della sua personalità!).

Tale formulazione è l’obiettivo dell’assessment, eseguito mediante l’analisi cognitivo-comportamentale (ACC), trasversale e longitudinale, eventualmente integrata da scale e questionari clinici, ma anche da osservazioni dirette, sia del terapeuta, che dei familiari, se consentito, ed autosservazioni del paziente.

Tale analisi si deve semplicemente ispirare al determinismo reciproco. Non si accetta quindi una concezione esclusivamente intrapsichica del paziente, come nella psicoanalisi o nel cognitivismo radicale,

1 Tale memoria, tuttavia, è soggetta a vari gradi di esplicitabilità (con cui si può concepire la consapevolezza e la metacognizione).

né si riduce il paziente ad un mero elemento del sistema o ambiente sociale cui sembra appartenere, come nell’approccio relazionale-sistemico.

3 Questi principi si traducono in tecniche specifiche? E se si, quali?

Per realizzare qualunque cambiamento, è necessario che ci sia un contesto stabile, se si vuole che il cam- biamento sia guidato e stabile. Il primo obiettivo del terapeuta sarà quindi quello di stabilire una relazione positiva, che consenta la collaborazione. Quando questa condizione non si può realizzare, come ad es. in alcuni pazienti con disturbo borderline, non a caso si necessita di una forte struttura organizzativa.

Stabilita l’alleanza terapeutica, si aiuta il paziente a sviluppare un atteggiamento verso il cambiamento, mediante i principi chiariti da F. H. Kanfer (guardare al futuro, in termini positivi, di comportamento, etc.), eventualmente aiutandolo ad esplicitare i suoi scopi e motivazioni, se necessario. Ciò porta a concordare gli obiettivi generali del trattamento e il “contratto terapeutico”, che comunque non deve necessariamente essere scritto. In seguito, si definiscono gli obiettivi specifici del cambiamento.

Si aiuta quindi il paziente ad acquisire delle competenze autosservative, che possano contribuire all’ACC. Si completa quindi l’ACC con l’analisi funzionale (trasversale e longitudinale) e l’analisi delle convinzioni (o schemi condizionali) di base, relative a se stesso, al problema presentato e agli altri significativi. Per fare ciò ci si avvale sia di tecniche classiche come l’ABC RET, che di schede di autosservazione ad hoc.

Il nostro approccio è conseguenziale e pragmatico. Conseguenziale perché le tecniche di CBT vengono selezionate in base agli scopi, così come derivano dalla FCC e sono stati concordati con il paziente. E vengono applicate flessibilmente. Pragmatico perché qualunque tecnica abbia mostrato la sua efficacia è ammissibile. Se efficace, soprattutto in modo stabile, significa che la procedura ha prodotto apprendimento (cambiamento) a livello sia cognitivo, che emotivo e comportamentale. Il punto di attacco può essere variabile in base al caso clinico, così come emerge dalla FCC, che viene comunque aggiornata ricorsivamente durante la terapia.

Le tecniche sono molto numerose. Alcune di queste sono già descritte nel progetto CLP (Common Language for Pscyhotherapy procedures). Problem solving, tecnica “dell’amico”, autodialogo alternativo, esposizione, tecniche immaginative, recitative (role playing), di autocontrollo, di scrittura espressiva, etc.

4 Per noi terapeuti è importante monitorare e valutare il cambiamento. Tu adotti delle procedure per fare questo? E quali?

Il cambiamento viene periodicamente sorvegliato, usando soprattutto le autosservazioni del paziente, cosa che consente di aggiustare il tiro, o individuare nuovi problemi da affrontare.

Per i cambiamenti specifici concordati con il paziente, è possibile usare scale e schede ad hoc, non standardizzate (ad es., n. di bevute e quantità di alcolici, per un alcolista, il differenziale semantico di Osgood, per una varietà di problemi di percezione di sé). Periodicamente ogni 2-3 mesi, si possono usare l’Inventario dei pensieri automatici (traduz. dell’Automatic Thoughts Questionnarie di Hollon e Kendall), per valutare l’ideazione ansioso-depressiva, ed una scala di “Sintomi da stress”, molto sensibile al malessere psicoemotivo e somatico.

Invece, per una valutazione iniziale e finale, il Middlesex Hospital Questionnaire (di Meyer e Crisp), per una rapida valutazione psichiatrica, e la Dysfunctional Attitude Scale (DAS) per le convinzioni disfunzionali. A ciò vengono aggiunte scale specifiche, come il Beck Depresion Inventory, da noi modificato (BDIM), se è evidente un problema di depressione, o altre.

5 La chiusura della terapia è un momento che a volte rischiamo di dare per scontato. Tu hai delle procedure specifiche da raccontarci, o delle linee guida cliniche e/o teoriche che ci puoi descrivere e raccontare?

Sarebbe preferibile chiudere la terapia in modo concordato. Spesso si riesce in questo intento, talvolta non si riesce. Quando si è raggiunto un livello “sufficientemente buono” negli obiettivi concordati e nei sintomi inizialmente lamentati, lo si segnala al paziente e si sonda quanto sia disposto ad andare avanti da solo, ap- plicando le metodiche acquisite, eventualmente aggiungendo un periodo “di controllo”, con sedute meno ravvicinate e poi ancora più diradate. Noi abbiamo anche eseguito uno studio catamnestico, richiamando vecchi pazienti, da cui si è ricavato che i cambiamenti ottenuti sono abbastanza conservati a distanza.

6 Il paziente difficile. Riconosci l’utilità di questa categoria introdotta da Perris? E se si, come ritieni che si modifichino le tue tecniche e procedure terapeutiche con questo tipo di paziente?

Il “paziente difficile” richiede particolari competenze relazionali al terapeuta. Tecniche e procedure devono tener conto del basso livello di “sintonia” di cui il paziente è capace; in altri termini il paziente difficile impegna il terapeuta ad operare dando un’attenzione primaria all’interazione in corso, piuttosto che a questioni strategiche. Ciò significa che il terapeuta farebbe bene ad occuparsi di queste ultime dedicando del tempo (5-15′) prima e/o dopo la seduta.

Tuttavia, il “paziente difficile” come categoria riflette la tendenza degli psichiatri a categorizzare. In realtà, ogni paziente presenta gradi diversi di difficoltà, a seconda delle sue specifiche variabili rilevanti.

7 I modelli di terza ondata. Cosa ne pensi in generale, in bene e/o in male? Li vedi accomunati da un qualche principio comune o molto diversi tra loro? Ne hai studiato qualcuno approfonditamente? E quale/i e perché?

La cosiddetta “III onda” è solo un modo di denominare un gruppo eterogeneo di proposte teoriche e cliniche, che – complessivamente considerate – non risultano avere una sola caratteristica comune, tranne forse il fatto di essere presentate come “alternative” alle proposte precedenti, soprattutto quelle cognitive.

Tale caratteristica alternativa, peraltro, non è neanche ben chiara e netta. Ad esempio, la terapia metacognitiva di Wells è di I, II o III onda? Sembrerebbe un ibrido delle prime due. La mindfulness, considerata una disciplina buddista secolarizzata, in cosa differisce dalle tecniche di meditazione di cui si servivano i terapeuti della I onda per ottenere una riduzione dell’attivazione emozionale? Il concetto di “accettazione” nella ACT, qualora lo volessimo operazionalizzare per studiarlo, in che cosa differisce dall’estinzione, di lontana memoria? La FAP (Terapia Funzionale Analitica) in cosa differisce dalle tecniche operanti (I onda)? E così via. Solo se si dimenticano concetti e modelli storicamente precedenti si può pensare di essere totalmente originali.

Un’altra caratteristica comune, se si vuole, è la scarsa elaborazione teorica. A parte la terapia meta- cognitiva di A. Wells, non sono quasi mai ben chiari i principi del cambiamento ipotizzati ed i relativi modelli di psicopatologia; qualora questi siano abbastanza chiari, non è chiaro come siano compatibili con gli attuali paradigmi di studio della mente e del comportamento, e talvolta non è neanche chiaro come le procedure proposte derivino dai principi proposti (vedi ad es. nella ACT di S. Hayes).

Un’idea di fondo sembra essere che i problemi psicopatologici derivino dal rifiuto o dai tentativi del soggetto di soppressione delle emozioni (v. Barlow); gli interventi psicologici, pertanto, dovrebbero promuovere l’esposizione all’esperienza emotiva e la sua accettazione. Tuttavia, questa idea, per quanto comune, non è chiaramente visibile in tutte le proposte della III onda e comunque non è nuova.

Per quanto riguarda l’efficacia delle procedure, solo ora cominciano ad emergere alcuni risultati, ma almeno fino a pochi anni fa i criteri di Chambless e Ollendick (2001) per poter etichettare questi trattamenti psicoterapici come “empiricamente fondati” (EST) non erano soddisfatti, laddove lo sono invece per la CBT tradizionale in molte condizioni cliniche (Ost L.G., 2008).

8 L’integrazione con gli approcci non cognitivi. Cosa ne pensi? Tu l’hai effettuata in prima persona? In modo solo teorico e o seguendo varie forme di training? Se lo hai fatto, cosa ne hai ricavato e come lo ha inserito nella cornice teorica di riferimento?

Io ho inizialmente effettuato l’integrazione inversa, da quando ho iniziato ad usare l’approccio comportamentale, insieme a S. Borgo, a seguito della nostra formazione con V. Meyer (un allievo di H.J. Eysenck). Ho cioè integrato inizialmente l’approccio cognitivo (successivo) a quello comportamentale (precedente), di cui credo di aver acquisito e conservato la lezione metodologica.

Tuttavia, il determinismo reciproco, come ho detto inizialmente, non può essere considerato semplicemente “cognitivo” o “comportamentale”. Credo che, in termini di paradigmi scientifici, potrebbe essere considerato un approccio vicino al connessionismo, secondo alcuni un paradigma emergente.

Non dimentichiamo che la psicoterapia è ben lontana dall’aver raggiunto uno statuto di scienza. A malapena stiamo uscendo adesso da un lungo periodo pre-scientifico che ha inquinato pesantemente il linguaggio, le teorie e le prassi dal fare psicoterapia. Questa rimane una disciplina applicativa, non ancora una scienza, anche se consente uno speciale osservatorio sul comportamento umano.

Infine, non credo affatto che altri approcci debbano essere integrati con quello cognitivista. Credo piuttosto che chi vuole fare proposte nuove le debba presentarle abbastanza chiaramente da consentire le necessarie verifiche: sia verifiche di efficacia delle procedure che di validità dei presupposti teorici. Solo qualora queste verifiche siano state superate si può pensare all’utilità di qualunque “integrazione”.

 

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Star wars – Analisi della coppia in uno scenario sistemico

 

Star wars – Analisi delle coppie  in uno scenario sistemico.    

Parte I

L’incontro tra Amigdala e Anakin:

La morsa dell’intergenerazionale e transgenerazionale.   

 

Star wars - Analisi della coppia in uno scenario sistemico. #1Spesso le neocoppie si ritrovano a dover fare i conti con questioni inerenti il contesto e la famiglia allargata e spesso trovare un equilibrio equo risulta complesso.

La prima trilogia (prima, ma non di genesi cinematografica) di Star Wars si apre in uno scenario politico dove la repubblica costituita dai senatori e dall’ordine dei jedi (cavalieri che dotati di grande maestria salvaguardano la pace e l’equilibrio) è in preda alla ricerca del misterioso nemico (il senatore Palpatine) che minaccia il benessere e l’integrità dello stato.

La principessa Amigdala, orfana e senatrice, sotto mentite spoglie e con l’appellativo di Padme, decisa a voler dare un volto a questo nemico, in una spedizione con due cavalieri jedi nel paese di Tatooine, si imbatte nel  piccolo Anakin ( più giovane di lei), orfano di padre e schiavo in un negozio per saldare i debiti contratti dalla madre.

Già dal primo incontro, nonostante la giovane età, fra Padme e Anakin scatta un interesse. In chiave sistemica, rispetto l’incontro della coppia, ci sono diverse teorie al riguardo.

Personalmente mi ritrovo, rispetto la genesi della coppia con quanto sostengono Bowen, Framo, Whitaker, Canevaro, Cigoli circa l’importanza e l’influenza che esercita il trigenerazionale (influenza delle generazioni precedenti) e, per certi aspetti, il transgenerazionale (miti che si tramandano spesso senza il filtro della consapevolezza).

In questo contesto Amigdala e Anakin, oltre ad avere un debito filiare con le rispettive radici (nobiliari per l’una e rurali per l’altro) si ritrovano in un contesto che, in quanto matrice di significati (Bateson docet) non favorisce la loro nascita come coppia ufficiale bensì ufficiosa, nonostante gli effetti trasformativi retroattivi che questa unione porterà al sistema in futuro. Ciò che la coppia si troverà ad affrontare, oltre la sfera sentimentale, saranno anche tematiche inerenti il benessere collettivo (salvaguardia della pace nella repubblica) che porterà inevitabilmente ad un ritaglio di tempo e  spazio (nel secondo episodio della saga faranno un viaggio che li porterà nello scenario della nostra Reggia casertana) della loro vita affettiva.

Spesso le neocoppie si ritrovano a dover fare i conti con questioni inerenti il contesto e la famiglia allargata e spesso trovare un equilibrio equo risulta complesso.

Infatti, nello specifico, l’incontro di Anakin e Amigdala sarà severamente minacciato da alcuni che, nell’universo simbolico, rappresentano il padre (il senatore Palpatine nel caso di Anakin) e la madre (Obi Wan Kenobi nelle funzioni accudenti verso la principessa). Non avendo la coppia sufficiente indipendenza rispetto questi  personaggi, si ritroverà coinvolta in un qualcosa di più grande che la porterà alla inevitabile separazione (nonostante il concepimento di due gemelli), separazione dove gli artefici non sono due bensì  il sistema intero impersonato nelle figure del senatore Palpatine e del jedi Obi Wan kenobi.

A mio avviso, ciò che gioca a questo proposito è, oltre l’immaturità affettiva, intesa in ottica Boweniana come una difficoltà a mantenere la sfera pubblica (il lavoro di senatrice per Amigdala e la formazione a cavaliere jedi per Anakin)  lontano da quella privata ( il loro essere una coppia generatrice di due gemelli), qualcosa che, forse, si tramanda.

Probabilmente un mito implicito che recita così “il benessere del sistema in toto avviene a discapito di quello privato”. Questi potrebbe essere il fil rouge che collega le dinamiche che si vengono a innescare.  Essendo il mito, come testè citato, un qualcosa che si trasmette non seguendo le vie della conoscenza esplicita, bensì di quella implicita, è probabile che questo influenzi Anakin e Amigdala che perseguono un ideale di stato democratico non sapendo che proprio all’interno di esso si nasconde ciò  (il tradimento del senatore Palpatine) che  porterà ad un duplice crollo: quello dello stato democratico e quello del “ noi” di coppia.

FINE PRIMA PARTE

 

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PSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE – TERAPIA DI COPPIA AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIFAMIGLIA – TERAPIA TRIGENERAZIONALE

La coppia in terapia: la prospettiva trigenerazionale

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mindfulness e pressione arteriosa

Mindfulness e pressione arteriosa . - Immagine: ©-Dmytro-Smaglov-Fotolia.comI ricercatori della Kent State University (Ohio), con un nuovo studio pubblicato su Psychosomatic Medicine: Journal of Biobehavioral Medicine, la rivista ufficiale dell’American Psychosomatic Society, ci sottolineano come praticare la mindfulness possa ridurre lo stress ed abbassare la pressione arteriosa nei pazienti con ipertensione borderline o pre-ipertensione.

Altro studio a favore dell’efficacia della Mindfulness nell’essere una pratica di “buona salute”.

I ricercatori hanno applicato il protocollo MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) su un gruppo di cinquantasei uomini e donne con diagnosi di pre-ipertensione e ipertensione borderline, cioè che ancora non necessita di una farmacoterapia. La pre-ipertensione è una condizione che spesso viene sottovalutata, ma ormai i medici sono concordi nel considerarla associata a diverse malattie cardiache e a problemi cardiovascolari.

Il campione sperimentale è stato diviso in due gruppi. Uno ha partecipato al programma MBSR, che prevede otto sedute di gruppo della durata di due ore e mezzo; ai partecipanti, oltre ad alcune tecniche mindfulness, body scan, meditazione seduta, consapevolezza del respiro, meditazione camminata, sono stati insegnati anche alcuni esercizi di yoga. Inoltre è stata data loro la consegna di praticare gli esercizi imparati più volte durante la settimana.

L’altro gruppo, il gruppo di controllo, ha fatto alcuni incontri di psicoeducazione rispetto ad un corretto stile di vita, e i partecipanti hanno appreso qualche tecnica di rilassamento muscolare. Prima, durante e dopo il trattamento ai partecipanti è stata misurata la pressione sanguigna, così da poter confrontare i diversi valori.

Alla fine del trattamento, il gruppo che ha seguito il protocollo MBSR ha, secondo i ricercatori, mostrato una significativa riduzione del valore della pressione arteriosa. In particolare, la pressione arteriosa sistolica era diminuita in media di quasi 5 mmHg, rispetto a una diminuzione di meno di 1 mmHg del gruppo di controllo. 
Per quel che riguardava la pressione arteriosa diastolica, nel gruppo MBSR si è verificata una riduzione media di 2 mmHg, rispetto a un aumento di 1 mmHg del gruppo di controllo.

Resta il fatto che sono necessari ulteriori studi per valutare quanto e in che misura la Mindfulness sia efficace nella riduzione dei valori di pressione arteriosa in pazienti con pre-ipertensione, e anche per valutare quanto i benefici ottenuti vengano mantenuti nel tempo. Tuttavia i ricercatori, ad oggi, sostengono che una via da percorrere e da andare a valutare meglio sia quella dell’utilizzo della Mindfulness nella prevenzione.

Di fatto, la meditazione di consapevolezza potrebbe essere un’ottima tecnica per prevenire, o quanto meno ritardare, la comparsa di una sintomatologia pre-ipertensiva, ritardando quindi la necessità di dover prendere una terapia farmacologica anti-ipertensiva.

LEGGI ANCHE:

MINDFULNESS

MBSR – MINDFULNESS BASED STRESS REDUCTION

Articolo: IL RILASSAMENTO MODIFICA L’ESPRESSIONE GENICA

 

 

 BIBLIOGRAFIA:

 

Videogiochi & Psicologia: Super Mario fa aumentare la materia grigia?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’uso di videogiochi potrebbe essere terapeuticamente utile per i pazienti con disturbi mentali in cui le regioni del cervello sono state alterate o ridotte di dimensioni, come ad esempio la schizofrenia, il disturbo da stress post-traumatico o malattie neurodegenerative, come la demenza di Alzheimer.

L’uso dei videogiochi provoca aumenti nelle regioni del cervello responsabili per l’orientamento spaziale, la memoria, la pianificazione strategica e le capacità motorie. È quanto emerge da un nuovo studio condotto Max Planck Institute for Human Development and Charite University Medicine St. Hedwig-Krankenhaus. Gli effetti positivi dei videogiochi potrebbero rivelarsi utili anche in interventi terapeutici mirati ai disturbi psichiatrici.

Al fine di indagare come i videogiochi influenzano il cervello, i ricercatori hanno chiesto a dei soggetti adulti di giocare a “Super Mario 64” per un periodo di due mesi, per 30 minuti al giorno. Un gruppo di controllo non ha giocato al videogioco. Volume del cervello è stata quantificato utilizzando la risonanza magnetica (MRI). In confronto al gruppo di controllo, il gruppo di gioco mostrava un incremento della materia grigia nell’ippocampo destro, nella corteccia prefrontale destra e nel cervelletto.

Queste regioni del cervello sono coinvolte in funzioni come l’orientamento spaziale, la formazione della memoria, la pianificazione strategica e le capacità motorie delle mani. Più interessante ancora il fatto che questi cambiamento erano più pronunciati in quei soggetti che dichiaravano maggiore desiderio di giocare al videogioco.

Questo studio dimostra, sostengono i ricercatori, il legame causale diretto tra l’uso di videogiochi e un aumento volumetrico del cervello, ciò dimostra che specifiche regioni del cervello possono essere addestrate con i videogiochi.

L’uso di videogiochi potrebbe essere terapeuticamente utile per i pazienti con disturbi mentali in cui le regioni del cervello sono state alterate o ridotte di dimensioni, come ad esempio la schizofrenia, il disturbo da stress post-traumatico o malattie neurodegenerative, come la demenza di Alzheimer. Molti pazienti accetterebbero più facilmente di giocare ai videogiochi piuttosto che altri tipi di interventi medici.

Ulteriori studi sugli effetti dei videogiochi in pazienti con problemi di salute mentale sono in programma. Uno studio sugli effetti dei videogiochi nel trattamento del disturbo da stress post -traumatico è attualmente in corso.

LEGGI:

TECNOLOGIA & PSICOLOGIA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Il sorriso dell’invidia – Psicologia e Biologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Cikara e Fiske due ricercatori presso l’università di Princeton , si sono proposti di studiare la natura dell’invidia.

Dall’esperimento che consisteva nel rilevare se l’immagine presentata provocava piacere o no, utilizzando la misurazione dell’attività dei muscoli coinvolti nel sorriso attraverso un elettromiogramma. Le immagini presentate erano o di avvenimenti positivi o di avvenimenti negativi o neutre.

I ricercatori hanno concluso che quando si prova invidia si esperisce un reale piacere (si sorride) nel vedere l’altro soffrire.

Secondo gli autori questi dati sono importanti nel momento in cui si ragiona in termini di competizione, infatti dallo studio emerge chiaramente un desiderio di fare male ad un altra persona o di sperare che l’altro non raggiunga i propri obiettivi. Questo ha un ruolo cruciale  nel momento in cui si è in competizione con una persona che occupa la posizione desiderata e quindi secondo gli autori bisognerebbe riflettere rispetto al senso di creare competizione ad esempio negli ambienti lavorativi.

 

“Le persone sorridevano di più in risposta ad eventi negativi che in risposta ad eventi positivi – ha spiegato Fiske – ma solo nel caso dei gruppi di cui erano invidiosi”

 

Psicologia, la cattiveria è una questione biologicaConsigliato dalla Redazione

invidia

E\’ l\’invidia a far gioire delle disgrazie altrui. Quella che potrebbe sembrare un\’affermazione scontata trova… (…)

 

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Psicopatologia della Vita Quotidiana
Il potere della chain analysis: comprendere i nostri comportamenti problematici può generare cambiamenti e migliorarci la vita
La chain analysis aiuta a comprendere a fondo i comportamenti problematici, ricostruendo i processi che li precedono e li mantengono nel tempo
La Not Just Right Experience: quando tutto deve essere “a posto”
La Not Just Right Experience descrive una condizione di disagio legata alla sensazione che qualcosa non sia completamente a posto
“Silenzio, Bruno!”: quel dialogo interno che regola le nostre emozioni e ci prepara alle sfide
Il dialogo interno aiuta a regolare emozioni e pensieri, ma quando diventa negativo può alimentare ansia e stress
Come l’empatia tra partiti può sanare le divisioni politiche
Secondo un recente studio, l’empatia può rappresentare una risorsa in grado di connetterci al di là delle divisioni politiche
La paura che diverte: perché amiamo film horror e case infestate
I film horror sono un’esperienza emozionale unica che riesce a mescolare paura ed eccitazione in modi sorprendenti. Perché questo avviene?
L’afantasia: quando la mente non vede immagini
Come funziona la mente di chi non visualizza le immagini mentali? Esploriamo insieme il fenomeno dell’afantasia
Cosa succede nel nostro cervello quando facciamo un regalo?
La scienza spiega come il donare attiva le aree della ricompensa, stimola il rilascio di ossitocina e ci rende più felici
Perché sembra che il Natale arrivi sempre prima?
Perché eventi come il Natale sembrano ripresentarsi più velocemente ogni anno? Cosa determina questa impressione?
Jamais vu: quando qualcosa di familiare diventa stranamente nuovo
Il jamais vu è un’esperienza unica che rivela i meccanismi complessi della percezione e della memoria. Qual è il suo significato?
Perché gli sbadigli sono contagiosi?
Lo sbadiglio, legato all'attivazione dei neuroni specchio, svolge un ruolo importante nella coesione sociale e nella sincronizzazione dei comportamenti
Crunch, crock, ftzzzzz: mangiare con le orecchie
I suoni del cibo, come il crunch delle patatine o il fizz delle bevande, influenzano la nostra percezione di croccantezza e freschezza
“So di non sapere”: come l’umiltà intellettuale aiuta noi e le nostre relazioni
L'umiltà intellettuale è un concetto discusso per secoli dai filosofi, ma esplorato solo recentemente dalla ricerca psicologica. Cosa è stato scoperto finora?
Il cane muore? L’inutile trovata dei trigger warning nell’epoca della fragilità
Il trigger warning è un messaggio volto ad avvisare che certi temi potrebbero riattivare traumi passati. Ma funziona davvero?
Il Metodo Scortese (2024) di Ilaria Albano – Recensione libro
Il libro Il Metodo Scortese (2024) è un invito a mettersi in discussione, a cambiare prospettiva per guardare le cose in modo diverso
Choice overload, why more is less
Avere molte opzioni da un lato aumenta la libertà di scelta, ma dall'altro può anche portare effetti negativi. Perchè questo avviene?
Qual è il peso dei segreti?
Una recente ricerca ha analizzato se mantenere i segreti e nascondere informazioni può influenzare il benessere e le relazioni sociali
Gli scritti ritrovati di Roberto Lorenzini – Un semplice caso
Continua la pubblicazione a puntate dei racconti "Gli scritti ritrovati", di Roberto Lorenzini e a cura di Pierangelo D'Ambra.
Stare nelle crisi: psicoterapia e co-costruzione di pratiche di cura collettiva nell’incontro con le giovani
Pubblichiamo l’articolo vincitore della seconda edizione del Premio “Un contributo per il diritto alla salute psicologica”, promosso da Psicoterapia Aperta
Gli scritti ritrovati di Roberto Lorenzini – Spun
Continua la pubblicazione a puntate dei racconti "Gli scritti ritrovati", di Roberto Lorenzini e a cura di Pierangelo D'Ambra.
I paradossi della psicopatologia (2024) di Francesco Mancini e Amelia Gangemi – Recensione
I paradossi della psicopatologia (2024) è un libro che insegna al lettore a pensare alla mente, alle sue funzioni e ai suoi disturbi
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Adolescenti ed Impulsività – la difficoltà di fare una scelta diversa

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Un recente studio di Cristina Caudle, neuroscienziato del  Weill Cornell Medical College di New York,  presentato al meeting della Society for Neuroscience e riportato dalla rivista Science ci mostra come gli adolescenti mettano realmente in atto un maggior numero di comportamenti impulsivi (fino ad arrivare ad atti criminali) e perchè.

Gli adolescenti confrontati con bambini ed adulti dovevano distinguere tra immagini di volti neutri e minacciosi e premere un tasto mentre erano monitorati a livello di attività cerebrale.

I risultati fanno emergere come gli adolescenti compino un maggior numero di errori in percentuale rispetto agli altri partecipanti. Questo perchè rispondevano più impulsivamente temendo la minaccia. I ragazzi che sono riusciti a non far prevalere la risposta impulsiva mostravano a livello cerebrale una grande attività come se il cervello di un adolescente avesse bisogno di più risorse ed energie per compiere una scelta non impulsiva davanti ad un eventuale stimolo minaccioso.

Questi dati sono importanti per capire la logica adolescenziale e come mai ci siano cosi tanti atti criminali da parte di una popolazione più giovane.

“È come se il cervello adolescente avesse bisogno di lavorare un po’ di più per trattenere il primo impulso ad agire”

 

Perché gli adolescenti sono più impulsiviConsigliato dalla Redazione

Perché gli gli adolescenti compiono più crimini rispetto agli adulti? Una spiegazione potrebbe essere scientifica: gli adolescenti … (…)

Tratto da: Panorama

 

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Bambini e Adolescenti
Lab Apprendimento Clinica Eta Evolutiva Milano
Lab-Apprendimento: strategie per un apprendimento autonomo
Un mini-corso estivo promosso dalla Clinica età Evolutiva di Milano per imparare un metodo di studio efficace. Dal 1 al 22 luglio a Milano.
I videogiochi d’azione possono migliorare le abilità di lettura
I videogiochi d’azione possono potenziare la consapevolezza fonologica nei bambini in età prescolare, riducendo il rischio di dislessia
Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti. (2025) di Lancini – Recensione
Il libro Chiamami adulto (2025) di Lancini, esplora la solitudine degli adolescenti e il ruolo degli adulti nella relazione educativa
La DBT per la cura del Disturbo Borderline nei giovani: intervista al Prof. Cesare Maffei
Intervista al Prof. Cesare Maffei sull'uso della Terapia Dialettico Comportamentale (DBT) per la cura del disturbo borderline negli adolescenti
Connessi e sconnessi (2024) di Pamela Pace – Recensione
Il libro Connessi e sconnessi (2024) raccoglie i contributi di diversi autori che esplorano l’adolescenza di oggi tra tecnologia, identità e relazioni
I paradossi degli adolescenti (2024) di Massimo Ammaniti – Recensione
I paradossi degli adolescenti (2024) di Ammaniti è un testo utile per comprendere questa età attraverso la prospettiva delle teorie psicoanalitiche
In che modo i sistemi scolastici ostacolano il vero potenziale degli studenti?
I sistemi scolastici spesso limitano il potenziale degli studenti, ma un ambiente di supporto e strategie mirate possono favorire il successo scolastico
Soffrire di adolescenza. Il dolore muto di una generazione (2024) di Loredana Cirillo – Recensione
Nel libro Soffrire di adolescenza (2024), l'autrice descrive il grido muto degli adolescenti per provare a dare senso al loro dolore
Dismorfismo muscolare e disturbi alimentari negli adolescenti maschi: fenomeni in aumento
I disturbi alimentari tra gli uomini sono in aumento e spesso legati al dismorfismo muscolare e a pratiche alimentari estreme
Dai giocattoli alle esperienze: l’evoluzione della felicità
La felicità deriva dai beni materiali o dalle esperienze? Uno studio ha indagato come la felicità dei bambini derivante dalle esperienze cambia nel tempo
Perché è più difficile essere adolescenti (e genitori) oggi
Essere adolescenti oggi è più difficile rispetto al passato: social media, pressioni sociali e isolamento influenzano la crescita e la salute mentale
Cronotipi e condotte alimentari disfunzionali
Una ricerca ha evidenziato che i soggetti con un cronotipo serale hanno una maggiore propensione a comportamenti alimentari disregolati
Conseguenze del cyberbullismo legato all’aspetto fisico nelle vittime adolescenti
Una recente ricerca suggerisce che il cyberbullismo nelle ragazze adolescenti aumenta l'insoddisfazione corporea e colpisce l'autostima
Il sé ”oltre il lucchetto”: il diario segreto dell’adolescente
Il diario segreto è un compagno fondamentale nell'adolescenza che aiuta a esplorare l'identità, gestire emozioni e costruire un Sé autonomo
La differenza tra campi di rieducazione e interventi terapeutici
I campi di rieducazione per adolescenti agiscono sui comportamenti considerati problematici. Ma che tipo di interventi sono previsti?
L’efficacia della Psicoterapia Interpersonale per adolescenti depressi (IPT-A)
Le ricerche sottolineano l'efficacia della Psicoterapia interpersonale per adolescenti depressi (IPT-A) e il mantenimento dei benefici del trattamento
Assessment psicodiagnostico in adolescenza (2024) a cura di Quadrana e Zotti – Recensione
“Assessment psicodiagnostico in adolescenza” (2024) fornisce indicazioni utili su come effettuare una corretta valutazione con un paziente adolescente
Adolescenti in bilico. Come stanno gli adulti di domani (2024) di Nardone, Balbi e Boggiani – Recensione
Adolescenti in bilico (2024) di Nardone, Balbi e Boggiani approfondisce le variabili che entrano in gioco nello sviluppo del disagio adolescenziale
I gruppi basati sulla CBT sono in grado di migliorare l’umore degli adolescenti?
Una nuova ricerca ha verificato gli effetti negli adolescenti di un workshop basato sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale
Introduzione alla Psicoterapia Interpersonale per adolescenti depressi (IPT-A)
La psicoterapia interpersonale per adolescenti depressi è un intervento efficace per ridurre i sintomi depressivi e migliorare il funzionamento interpersonale
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I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza – Recensione

 

Recensione del libro:

I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza.

Come riconoscerli e liberarsene.

di Carolyn Stone

Armando Editore (2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l'esistenza. Come riconoscerli e liberarsene.  di Carolyn Stone Armando Editore (2013). - Immagine: Copertina

Il libro “I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza. Come riconoscerli e liberarsene”, scritto da Carolyn Stone  ed edito da Armando editore nella sezione scaffale aperto, potrebbe essere la base da cui partire per riuscire a riconoscere il malessere e capire da cosa potrebbe essere determinato.

Si tratta di un libro di auto-aiuto dove step by step si dipanano disturbi, consigli e test.

Comportamenti dannosi, tensioni, difficoltà, fallimenti lavorativi possono compromettere la qualità della vita. Sì, rimanere incastrati in un funzionamento disfunzionale, disadattivo che provoca sofferenza e determina malessere. Non è facile riuscire a disfarsi di questi comportamenti, perché spesse volte, erroneamente, si rimane intrappolati  in meccanismi di pensiero ripetitivo che inesattamente si assume possano funzionare come soluzione al problema, senza sapere che costituiscono il problema stesso.

Per cui, la persona rimane incastrata nel malessere che si ripercuote in tutte le aree della sua vita, compromettendo il proprio funzionamento psico-sociale.

A questo punto sarebbe necessario che qualcosa si modificasse, che mutasse, ma per cambiare è necessario conoscere le proprie arie di vulnerabilità e adottare delle strategie per non farsi male o riuscire a gestire le emozioni che derivano da situazioni/pensieri di malessere.

A tal proposito il libro “I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza. Come riconoscerli e liberarsene”, scritto da Carolyn Stone  ed edito da Armando editore nella sezione scaffale aperto, potrebbe essere la base da cui partire per riuscire a riconoscere il malessere e capire da cosa potrebbe essere determinato.

Si tratta di un libro di auto-aiuto dove step by step si dipanano disturbi, consigli e test.

Ogni capitolo si apre con un proverbio cinese, che rispecchia l’essenza del problema e poi si passa alla definizione del disturbo, al test a risposta dicotomica del tipo si/no che permette di dire se è presente in noi quella patologia, e si finisce con una manciata di consigli utili.

Si parte dallo shopping compulsivo, poi si passa all’aggressività, all’ansia, all’arroganza, al fanatismo lavorativo, alla volgarità, alla sottomissione, alla violenza, etc.

Un mix tra disturbi d’ansia e tratti di personalità presentati con leggerezza e semplicità anche rispetto al linguaggio utilizzato. Si presentano sotto forma di comportamenti, attitudini, tratti, che possono richiamare atteggiamenti presenti nell’immaginario collettivo.

Come dice l’autrice, “Ricordatevi che ogni persona ha il suo giardino segreto e che quando le erbacce lo invadono è necessario strapparle. Coltivare il nostro io, in realtà, è essenziale per sentirci bene. Il nostro benessere richiede questo prezzo!”. 

Concludo con un proverbio cinese su cui riflettere: “Le verità che meno desideriamo imparare sono proprio quelle che più dovremmo sapere“.

 

LEGGI:

LETTERATURA PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Prima e dopo l’incidente stradale: il progetto di una nuova vita in terapia di gruppo

Paola Alessandra Consoli

 

“Vivo a modo mio, ma vivo,

vivo sperando continuamente, vivo…”

Mirta Bertolodo, L’albero spoglio, 1995

 

Prima e dopo l'incidente stradale. - Immagine: © fotomek - Fotolia.comL’incidente stradale costituisce la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 24 anni, le misure protettive imposte dal codice della strada hanno diminuito notevolmente il numero di morti adulti per incidente, ma è rimasta pressoché invariata la mortalità giovanile, a dimostrazione che l’adolescenza stessa è uno dei fattori individuali che espongono i giovani a rischio di incidente (Fioravanti et al., 2009).

La ricerca ha dimostrato l’esistenza, in età adolescenziale, di una corretta percezione dei pericoli presenti sulla strada, ma anche una tendenza a sopravvalutare le proprie capacità di controllo e a ritenersi invulnerabili al pericolo. Inoltre i cambiamenti fisici e la fisiologica fragilità narcisistica adolescenziale si manifesterebbe in comportamenti trasgressivi che vogliono celare le sofferenze ansiose o depressive (Carbone et al., 2009).

Una ricerca realizzata presso quattro ospedali romani ha interessato 203 giovani pazienti ricoverati per trauma da incidente, grazie ai quali si sono esplorate le caratteristiche psicologiche e relazionali di questi pazienti per promuovere lo studio dei fattori psicodinamici che intervengono nel rischio di incidenti. L’intervista semi-strutturata e la somministrazione del Defence Mechanism Inventory (DMI) hanno portato ad alcune interessanti conclusioni:

  • i ragazzi che hanno subito uno o più incidenti provengono generalmente da famiglie che hanno vissuto maggiori traumi (decessi, incidenti), vivono conflitti familiari, delusioni sentimentali, fallimenti scolastici ripetuti, ricordano più facilmente gli eventi negativi del passato rispetto a quelli positivi;
  • i ragazzi poli-incidentati hanno un’autostima eccessiva e sopravvalutano la propria autonomia, sintomi di una maniacalità che rappresenta una fuga dalla depressione;
  • gli adolescenti incidentati utilizzano maggiormente, rispetto al gruppo di controllo, lo stile difensivo REV (negazione, diniego, formazione reattiva) e lo stile difensivo INT (intellettualizzazione, razionalizzazione, isolamento).

L’incidente stradale sarebbe allora la tendenza a tradurre in atto problemi e sofferenze che non si riesce ad affrontare e che possono aggravarsi con la coazione a ripetere tipica di quei giovani che hanno vissuto più di un incidente (Carbone et al., 2009).

In qualche caso, sembra che l’incidente sia la sola modalità attraverso cui il giovane sente di poter vivere, ricercando una seconda possibilità all’esperienza traumatica della propria nascita, alla vergogna di essere visti diversamente dal modo in cui si ha bisogno di apparire; una condanna interna a cui si cerca un freno disperato e disastroso all’angoscia di frammentazione, alla dispersione dell’identità o a stati mentali vissuti come intollerabili (Di Cioccio, 2009).

Ne consegue come sia prioritario insegnare ai giovani la distinzione tra esperienze di rischio che favoriscono la maturazione (rischio accettabile) ed esperienze che la bloccano tragicamente (rischio inutile), il rispetto per la propria vita e per quella altrui (Biondo, 2009).

La prevenzione deve essere una priorità per le istituzioni; l’educazione stradale non è sufficiente, ma è necessario imparare la lingua adolescenziale, entrare nel gruppo dei giovani, capire i loro codici perché solo così si potranno avviare con successo esperienze di prevenzione.

Il Patto per il Rischio Accettabile ritiene che i fattori protettivi specifici per gli adolescenti siano: la possibilità di vedere valorizzate nel proprio ambiente naturale le proprie competenze, la possibilità di trovare nel proprio gruppo una posizione equilibrata (accettabile) sui comportamenti di rischio, relazioni significative. Si deve quindi impiegare il gruppo dei pari per la promozione del codice della strada, rendendo protagonisti gli adolescenti che sono allo stesso tempo attori e fruitori di questo percorso: un laboratorio in cui elaborare “la distruttività individuale per trasportarla dall’area del rischio inutile […] a quella del rischio accettabile” (Biondo, 2009).

Nell’ambito della psicologia sociale, sono considerati fattori predittivi per il rischio di incidente stradale l’autoefficacia regolatoria, cioè la “capacità di autoregolare affetti ed emozioni che si costruisce nel corso dello sviluppo attraverso l’interazione coi caregiver primari, ma che è stabilmente acquisita, nei casi fortunati, solo al raggiungimento della maturità” (ovviamente insufficiente in adolescenza), e la sensation seeking, “un tratto definito dalla ricerca di nuove, diverse, complesse e intense sensazioni ed esperienze e dalla volontà di correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari allo scopo di amplificarle” (Zuckerman, 1979), più frequente nei giovani maschi occidentali (Pazzagli et al., 2009).

Le ricerche psicosociali sono state considerate insufficienti e riduzioniste nella spiegazione dei fattori di rischio e nella psicodinamica dell’incidente e quindi disdegnati dalla psicologia clinica che non può accontentarsi di pochi costrutti per analizzare la complessità della psiche giovanile.

Il paziente vittima di trauma cranico è costretto a riparare o ricostruire un senso del Sé e un’identità che l’incidente ha frammentato; cambiano le priorità, tutto ciò che prima aveva importanza assume adesso un significato differente. I familiari scoprono nel paziente una persona completamente diversa da quella con cui convivevano e devono sforzarsi di costruire con lui una nuova relazione. Lo staff medico e riabilitativo vede nel paziente l’espressione delle proprie umane paure: la vulnerabilità, la perdita di funzionalità, la morte (Cattelani, 2006).

L’impatto del trauma cranico è di tale gravità da giustificare l’affermazione secondo cui le vittime dell’incidente sono due: il paziente e la famiglia. Nelle prime ore dopo l’incidente, le reazioni di incredulità, impotenza, ansia, ingiustizia sono giustificate dalla sopraffazione del dolore, la famiglia si trova poi a dover decidere il miglior percorso assistenziale e riabilitativo e ad assumere ruoli per i quali non è preparata: infermiere, terapista, rappresentante legale.

Ad una prima fase di shock e disorientamento che accompagna la fase acuta e post-acuta dell’evento traumatico (rifiuto di allontanarsi dall’ospedale, interruzione della cura verso se stessi e verso gli altri familiari), segue una fase di depressione, ansia e negazione, quando è possibile trarre un bilancio dei deficit e del programma riabilitativo che il paziente dovrà affrontare (Cattelani, 2006).

Quando il paziente rientra in famiglia, è necessario che tutti i membri, dopo un esame della realtà, riassumano il loro ruolo in società e in famiglia. Il processo è reso più difficile se il paziente torna con gravi disabilità croniche o in stato vegetativo, perché i familiari sono costretti ad elaborare una perdita di validità del paziente e dell’intera famiglia: nulla sarà mai come prima. Per questo motivo si parla di lutto incostante” (mobile mourning): la persona è ancora viva, ma non partecipa attivamente alla vita familiare e i congiunti passano da uno stato d’animo di disperazione da lutto di chi ha perso la persona amata, alla rassegnazione di chi accetta un figlio, genitore, fratello inabile ma vivo e da questa considerazione cerca di reinventarsi la quotidianità della famiglia normale (Cattelani, 2006).

Le conseguenze emotive del TCE colpiscono anche la relazione coniugale di una coppia con un figlio vittima di trauma cranico, a cui si deve garantire assistenza emotiva e materiale. Gli effetti riguardano un indebolimento del legame coniugale e un cambiamento di ruolo della moglie che diviene solo madre, acquisendo un potere/controllo sul figlio disabile e sul marito (Camilli, 1995).

Il rapporto tra il giovane paziente e la madre è conflittuale: il figlio può manifestare una rinnovata dipendenza dalla madre, diventare egoista e noncurante delle necessità altrui, ma al tempo stesso può rivelare un comportamento di evitamento e di rifiuto verso di lei, perché è consapevole di non essere più un bambino.

L’istinto materno spinge la donna alla totale dedizione al figlio, trascurando le sue necessità e la sua vita sociale: madre e figlio vivono una rinnovata fase di simbiosi che deve evolversi in una separazione-individuazione, indispensabile affinché il secondo ricostruisca una propria identità anche e nonostante la sua disabilità cronica (Fiscarelli, 1995).

L’incidente che interessa un adolescente è persino più grave di uno occorso ad un adulto perché agisce su una personalità in formazione. Ancor prima che si verifichi l’incidente, in una fase della crescita distinta dalla fragilità narcisistica e da un lavoro di ricerca di se stesso, la sofferenza esistenziale dell’adolescente può rivelarsi nell’assunzione di comportamenti a rischio, ad esempio nella guida di veicoli (Carbone, 2005).

L’incidente è provocato da fattori esterni (il fondo stradale, la nebbia, le condizioni del mezzo), fattori consci (sfida, ricerca di emozioni forti) e inconsci (depressione, autolesionismo); può essere interpretato come “un agito autolesivo che coinvolge concretamente il corpo” (Carbone, 2005).

L’adolescente tende a “sovrainvestire il motorino di una potenza speculare e contraria al proprio senso di impotenza” (Giori, 2005, pag.157): il giovane è frustrato dalle richieste e imposizioni dell’ambiente di cui fa parte (familiare, scolastico, amicale) e il motorino (o l’auto) è un mezzo fisico e tangibile della possibilità di scappare dai suoi problemi.

L’adolescenza è quindi un fattore di rischio perché il giovane vuole dimostrare di non essere più un bambino, costruisce la propria identità e il rischio della velocità fornisce quelle emozioni di cui ha bisogno per sentirsi vivo e presente; il motorino o l’auto invitano alla velocità e a prove di coraggio; il gruppo dei pari e la società in cui il giovane è inserito incitano a violare i limiti; infine i sentimenti di tristezza, di rabbia, di impotenza che caratterizzano l’adolescenza, sono tutte possibili fonti di distrazione dalla guida sicura (Giori, 2005).

Il trauma cranico non è solo fisico ma anche emotivo: è dolore, impotenza e dipendenza, è qualcosa che si è irrimediabilmente rotto per sempre, e che a fatica si proverà a ricostruire, pur sapendo che “non potrà mai più essere come prima” (Carbone, 2003).

La dignità della vita è al centro dell’attenzione: subito dopo l’arrivo dei soccorsi, perché qui la solitudine di chi non può esprimersi è legata indissolubilmente alla solitudine di chi deve decidere per lui, che sia un medico, che sceglie la terapia che ritiene migliore, o un familiare a cui si propone la scelta faticosa della donazione degli organi. Ma la dignità è in gioco anche quando ci poniamo la domanda se vivere coincida con la possibilità di gestire lo stare al mondo, godere delle proprie scelte e investire coraggio nei propri desideri o se invece corrisponda alla semplice presenza: esserci, se non nella propria vita, almeno nella speranza e nell’esistenza di chi ci è vicino.

Purtroppo la dimissione dell’ospedale coincide con una presa di responsabilità totale da parte della famiglia, che viene lasciata sola ad affrontare le conseguenze psicologiche del trauma sul giovane paziente e con poche istruzioni rispetto ai deficit cognitivi.

Sono quindi degne di nota le poche e coraggiose esperienze di accompagnamento e terapia di gruppo che si sono organizzate con lo scopo di creare un contenitore alle angosce dei pazienti traumatizzati cranici e delle loro famiglie.

Un esempio positivo è quello descritto da Bruni, che riguarda una breve psicoterapia di gruppo condotta presso il S. Filippo Neri di Roma, e che ha interessato 4 giovani pazienti traumatizzati cranici (da incidente stradale, rissa e caduta da cavallo), con una storia di recente coma post-traumatico e degenza in terapia intensiva di circa 2 settimane. Un gruppo a termine e omogeneo, quindi, la cui finalità non è riabilitativa, ma di integrazione dell’esperienza emotiva del trauma, attraverso la tecnica delle libere associazioni (Bruni, 2009).

La terapia è di ispirazione bioniana, secondo cui “il gruppo si sviluppa fino a che le emozioni diventano esprimibili in termini psicologici, e la costituzione della mente gruppale (funzione gamma) permette la trasformazione di elementi sensoriali e grezzi (elementi beta) in emozioni narrabili” (Bion, 1961).

I sogni del gruppo narrano la vicenda somatica, riguardano il vissuto personale e gruppale della malattia: il trauma non può essere né ricordato né rimosso, ma segnala il sovraffollamento affettivo che ha superato le capacità integrative dell’esperienza del Sé. Dal sogno emerge la solitudine e la difficoltà a comunicare l’esperienza del buio vissuta durante il coma: nessuno, al di fuori del gruppo, può realmente capire la violenza di questa esperienza.

Il sogno gruppale è il segnale dell’investimento affettivo sul gruppo, che diviene fonte di appagamento per i partecipanti, un seno buono a cui affidarsi con fiducia.

Il gruppo si dota quindi di un apparato per pensare i pensieri, i ragazzi condividono i temi più dolorosi (la terapia intensiva, la paura di morire, la rabbia, il dolore fisico e l’idea del suicidio) e le speranze per un futuro che sentono ancora come un forte richiamo alla vita. E’ il contenitore necessario dove riversare le paure, del passato, quindi di ciò che erano e, forse, non vogliono più essere, e del futuro, che deve essere costruito con nuovi e più motivati progetti, c’è l’assoluta necessità a non gettare via la seconda possibilità ricevuta, anzi a meritarla, e fare di questa esperienza un’opportunità di crescita (Bruni, 2009).

Il gruppo dona ai giovani pazienti, la possibilità di elaborare il proprio lutto, per una vita che è tutta da ricostruire. C’è la possibilità di chiudere un cerchio esistenziale e aprirne un altro, già avviato grazie all’omogeneità dei pazienti: corpi a contatto, che hanno il piacere della condivisione, drammatica ma personalissima del proprio dolore. Ma da questo dolore rinascono con un nuovo sé corporeo rivolto al futuro.

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BIBLIOGRAFIA:

In gruppo…siamo più attraenti che da soli

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo l’ipotesi del cheerleader effect siamo più attraenti per gli altri quando siamo in un gruppo rispetto a quando siamo da soli.

Per testare questa ipotesi i ricercatori della University of California hanno condotto cinque esperimenti con 130 studenti universitari.

Il primo esperimento prevedeva che i partecipanti guardassero 100 fotografie di persone e che ne valutassero la bellezza. Le persone ritratte nelle fotografie comparivano nelle foto da sole o insieme ad altre due persone dello stesso sesso.

Complessivamente i partecipanti all’esperimento hanno valutato come più attraenti le persone che comparivano in una foto di gruppo rispetto a quando erano raffigurate sole.

In un altro esperimento ai partecipanti sono state mostrate le foto delle singole persone che però erano riunite in un collage di 4 , 9 o 16 immagini. Anche in questo caso l’effetto cheerleader è stato confermato, con voti più alti per i singoli nei collages piuttosto che da soli.

Secondo i ricercatori l’ “effetto cheerleader” può essere il risultato di tre diversi fenomeni cognitivi: il nostro sistema visivo può calcolare automaticamente tutte le “rappresentazioni” di facce presentate all’interno di un gruppo, inoltre i singoli membri del gruppo possono essere influenzati da questa media generale, e infine percepiamo i volti “medi” come più attraenti.

In altre parole i singoli volti saranno più attraenti quando appaiono in un gruppo perché essi appariranno più simili alla faccia media del gruppo, che è più attraente delle singole facce dei membri del gruppo.

 

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BIBLIOGRAFIA

Walker D., Vul E. Hierarchical Encoding Makes Individuals in a Group Seem More Attractive, published in Psychological Science, 29 October 2013.

 

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR – Report dal Convegno Nazionale 2013

Report dal Convegno Nazionale EMDR 2013

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre, Milano

 

labirinti traumatici emdr - 300Si è concluso ieri il Convegno Nazionale EMDR e nonostante la stanchezza delle tre giornate di lavori, l’entusiasmo e la speranza nelle nuove prospettive terapeutiche presentate sono le uniche emozioni che si respirano tornando al lavoro.

LEGGI LA DEFINIZIONE DI EMDR SU PSICOPEDIA

L’EMDR sta proseguendo con il suo tam tam tra i terapeuti di tutto il mondo e anche nel nostro paese si registra ormai un crescente numero di terapeuti praticanti, appassionati e soddisfatti dei risultati ottenuti sul campo.

L’idea forte che guida la sua diffusione non è tanto l’aver posto il trauma al centro dello sviluppo patologico di un individuo, ma piuttosto l’aver colto la necessità di un intervento precoce e rapido per ridurre l’impatto delle violenze non solo su quell’individuo traumatizzato, ma sulle generazioni successive.

I traumi, gli abusi o l’aver assistito a episodi di violenza in età infantile hanno infatti un effetto diretto sul nostro sistema nervoso: violenze fisiche o verbali, creano nella nostra memoria procedurale degli script e dei modelli di comportamento che vengono mantenuti e ripetuti nel tempo e che possono continuare a causare sofferenza all’individuo e ai suoi figli. Interrompere questo ciclo tempestivamente è prioritario.

L’Associazione EMDR Italia a questo proposito ha raccolto con questo Convegno Nazionale una sfida importantissima: mettere al centro dell’attenzione clinica i “carnefici”. Per la prima volta infatti i trattamenti e numerosi protocolli di cura presentati hanno visto, accanto alle vittime, gli autori delle violenze e le loro storie.

L’idea che ha guidato questa scelta è stata da subito chiara: nonostante la fatica nell’affrontare la violenza da questa prospettiva, è tuttavia necessario e indispensabile affrontare, per programmare interventi efficaci e risolutivi, la storia di chi trova nella violenza l’unica soluzione per esprimere e soddisfare bisogni per lui importanti. La sola responsabilità del reato non può di per sè impedire che quel comportamento deviante si ripeta, questo il punto di partenza.

Una seconda ma altrettanto importante sfida pienamente raccolta dall’Associazione riguarda invece il costante riferimento alle neuroscienze e alla ricerca dei substrati neurofisiologici in grado di spiegare quello che avviene nel processo terapeutico. Tema importantissimo per il futuro della psicoterapia!

Julie Stowasser apre così: “il luogo più pericoloso per una donna è la sua stessa casa” e il suo lavoro si concentrerà soprattutto sul rendere quel luogo più sicuro. Poi si scusa, ma ci chiede di concederle il “maschile” nel parlare dei casi che affronterà. Le statistiche del resto, italiane e americane, sono chiare: più del 50% dei femminicidi è operato da un partner o da un ex partner, quindi si parlerà soprattutto di uomini, violenti. L’importanza del suo lavoro si evidenzia subito con la descrizione di un interessante protocollo di intervento, sulla coppia o sull’intera famiglia, per casi di violenza domestica. La necessità di comprendere gli schemi relazionali e i pattern comportamentali dell’aggressore, è fondamentale perché la donna o l’intera famiglia riesca ad uscire dal circolo vizioso di rabbia, in cui tutti, nessuno escluso, si trovano incastrati.

Derek Farrell racconta poi la sua esperienza decennale nella cura delle vittime del clero, cercando di spostare l’attenzione dai comuni e più ovvi giudizi, alle caratteristiche peculiari che invece accomunano i sopravvissuti a questi tipi di violenza: obbligo alla segretezza e traumatizzazione ripetuta nel tempo, sono due aspetti centrali di cui occuparsi nella psicoterapia con queste vittime.

Ronald Ricci ci introduce al trattamento integrato dei sex offenders, che combina EMDR individuale e gruppi di prevenzione e controllo sociale “Good Lives”. Offre inoltre attraverso testimonianze video, un modello per comprendere il percorso evolutivo del loro comportamento deviante soffermandosi su quattro principali meccanismi psicologici: deficit nelle esperienze di intimità e nelle abilità sociali, script sessuali distorti, disregolazione emotiva, credenze a sostegno del reato.

Infine Mark Nickerson descrive con generoso dettaglio, modelli di intervento e protocolli di psicoeducazione da usare nel trattamento di rabbia, ostilità e comportamenti aggressivi. Suggerimenti molto pratici e illuminanti per differenti situazioni cliniche, e questa volta declinate non solo al maschile.

Nonostante le scuse con cui tutti i relatori hanno iniziato introducendo il loro lavoro, le nostre sensibilità cliniche e personali sono state toccate e più volte scosse dalle storie e dai racconti di terapie, ma del resto lo sforzo del cambio di prospettiva è portatore di un importante messaggio sociale e politico: la riabilitazione della devianza è almeno in alcuni casi non solo possibile, ma auspicabile. E resta l’unica via davvero preventiva alla messa in atto di violenze future.

 

La sfida delle neuroscienze è stata invece brillantemente raccolta nell’ultima giornata di lavori dal gruppo di Benedikt Amann, specializzato nel trattamento di pazienti bipolari con una storia di traumatizzazione importante, e dal Dott. Marco Pagani del CNR di Roma, che ha condotto una ricerca importantissima per il futuro dell’EMDR.

I contributi scientifici raccontati sembrano infatti confermare l’efficacia dell’EMDR non solo nel migliorare il vissuto soggettivo del paziente rispetto alla sua sofferenza, ma anche nel modificare in modo funzionale e adattivo le reti neurali coinvolte in quella sofferenza.

Insomma la connettività e la conformazione del nostro cervello verrebbero attivamente modificate durante la rielaborazione di ricordi negativi e traumatici, insieme ai pensieri, alle emozioni e ai comportamenti…..Finalmente abbiamo le prove!

Ai prossimi contributi il dettaglio dei singoli interventi …

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

EMDR: INTERVISTA A ISABEL FERNANDEZ, PRESIDENTE EMDR ITALIA

EMDR: INTERVISTA A MARCEL VAN DEN HOUT

EMDR – Eye Movement Desensitization and Reprocessing

EMDR

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LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

L’EMDR è un approccio complesso utilizzato per elaborare eventi traumatici e consiste in una metodologia strutturata che può essere integrata nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.

Il modello considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici e vede nella patologia il “sintomo” di un’informazione immagazzinata in modo non funzionale, su tutti i livelli: cognitivo, emotivo, sensoriale e fisiologico.

Quando avviene un evento ”traumatico” l’equilibrio tra le nostre reti neurali (eccitatorie e inibitorie) viene disturbato e l’elaborazione di conseguenza resta bloccata, come “congelata” nella sua forma ansiogena originale. Questo è il modo in cui le sensazioni del passato si ripropongono come “sintomi” nel presente.

Questa metodologia si fonda su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione (AIP) e utilizza movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio neuro fisiologico, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano infatti la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

Le ricerche condotte su vittime di violenze sessuali, di incidenti, di catastrofi naturali, ecc. indicano che il metodo permette una desensibilizzazione rapida nei confronti dei ricordi traumatici e una ristrutturazione cognitiva che porta a una riduzione significativa dei sintomi del paziente (stress emotivo, pensieri invadenti, ansia, flashback, incubi).

L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.

Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età  dello sviluppo
  • Eventi stressanti  nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza)

 

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità . Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association (APA) ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.

 

(Fonte: Associazione EMDR Italia )

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