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Internet addiction: quando il web ci rende tristi – Parte 2

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Internet addiction 2: quando il web ci rende tristi . - Immagine: © viperagp - Fotolia.comCome visto nella prima parte di questo articolo, è frequente che le persone che sviluppano una dipendenza da internet manifestino anche altri sintomi psicopatologici, come stati di ansia o depressione, iperattività, isolamento sociale e bassa autostima (Gundogar et al., 2012; Bernardi e Pallanti, 2009).

Similmente, è stato riscontrato che chi sviluppa una dipendenza da internet ha spesso anche dei tratti personologici distinti, come la tendenza all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).

Quello che ancora si sa poco è l’impatto che l’utilizzo del web ha in persone con una dipendenza da internet rispetto a chi non manifesta questo problema. La letteratura, infatti, assume che l’utilizzo di internet è mantenuto grazie a un sistema di rinforzi positivi, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il trovare informazioni. Se questo è vero per la maggioranza degli utenti che usano quotidianamente la rete, sembra che altri meccanismi, più legati a fattori di personalità, siano implicati al mantenimento di comportamenti problematici legati all’uso di internet; ad esempio, alcune ricerche mostrano che l’esposizione a situazioni di rischio non aumenta l’ansia in persone dipendenti dal gioco d’azzardo.

Come succede spesso in psicopatologia, è possibile che l’impatto psicologico negativo della dipendenza da internet possa in se stesso fungere da fattore di mantenimento della dipendenza stessa, andando a creare nelle persone proprio un maggiore coinvolgimento alla rete per fuggire dalle emozioni negative provocate dallo stesso web.

Uno dei primi studi originali in questo campo è stato pubblicato qualche mese fa su PLOS ONE, da un’idea di una giovane italiana, Michela Romano, che è andata a indagare se l’uso di internet influisce in maniera diversa in base a quanto tempo abitualmente le persone usano la rete. In questo senso, i partecipanti allo studio sono stati divisi in due gruppi in base a quanto l’utilizzo di internet impattasse in maniera negativa sulla loro qualità della vita oppure no. A entrambi i gruppi sono stati somministrati test per misurare i livelli di ansia e depressione e altre variabili psicologiche; dopo aver completato i test, a tutti è stato chiesto di utilizzare in maniera libera internet per 15 minuti facendo quello che preferivano; successivamente, sono stati rivalutati i sintomi ansiosi e depressivi, per vedere se l’esposizione a internet avesse avuto effetti diversi su persone con la dipendenza da internet rispetto a chi non manifestava tale problematica.

I risultati parlano chiaro: l’utilizzo di internet ha un pesante impatto negativo sull’umore nel gruppo dei “dipendenti”. In particolare, nel gruppo di chi mostra comportamenti problematici rispetto all’uso della rete, aumentano in maniera significativa i punteggi alle scale di ansia e depressione, nonché di isolamento e impulsività.

Questi dati potrebbero essere spiegati proprio in riferimento al meccanismo di mantenimento della dipendenza stessa: l’impatto immediato negativo sull’umore, infatti, potrebbe essere la molla che spinge queste persone a re-ingaggiarsi nuovamente online proprio per sfuggire a queste emozioni spiacevoli.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Con la Mindfulness inibiamo i comportamenti negativi

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Mindfulness – La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.

Che cos’è la Mindfulness? È una pratica di consapevolezza e di attenzione intenzionale sul momento presente, priva da giudizi.

Consapevolezza significa stare in relazione con se stessi in ogni momento, godendo della molteplicità di sensazioni e stimoli provenienti ciò che ci circonda.

Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un crescente utilizzo di questa pratica in ambito  clinico e psicoterapeutico che ha portato l’attenzione sugli effetti della pratica, che dà benefici sia nella vita di tutti i giorni sia all’interno di un contesto psicoterapeutico.

Un recente studio diretto dall’Università di Georgetown (Sudafrica) e presentato a “Neuroscience 2013”, il meeting annuale della Society for Neuroscience a San Diego, ha rivelato che le persone che praticano la Mindfulness, o Consapevolezza, siano meno propense ad apprendere implicitamente comportamenti o abitudini negativi. Cosa si intende per abitudini implicite? Ci si riferisce alle abitudini o comportamenti che le persone acquisiscono ogni giorno implicitamente, senza rendersene conto e senza consapevolezza.

Secondo Chelsea Stillman, coordinatrice della ricerca, «uno impara le abitudini, buone o cattive, implicitamente, senza pensare a esse»: lo studio in esame mira, quindi, a valutare se le differenze individuali nella capacità di essere consapevoli influenzano l’apprendimento implicito.

Il campione sperimentale è costituito da soggetti sani e casualmente suddivisi in due gruppi,i quali furono inizialmente sottoposti ad un test per valutare il loro grado caratteriale di consapevolezza. Successivamente, venne chiesto a ciascuno di completare due compiti per la misurazione dell’abilità individuale di apprendere implicitamente pattern complessi e probabilistici.

In entrambi i compiti, si presentava su uno schermo una serie di cerchi e il soggetto era chiamato a riferire la posizione di queste figure in base al colore.

I risultati evidenziano che i partecipanti segnalati con punteggi più bassi al test sulla Consapevolezza tendono ad apprendere di più e i loro tempi di reazioni sono più veloci nei compiti di individuazione degli stimoli che si presentano più spesso. Sembra quindi che la capacità di apprendere in modo implicito sia in stretta relazione con la nostra consapevolezza e più siamo distratti più apprendiamo.

La capacità di osservare e di essere consapevoli a se stessi potrebbe inibire la formazione di processi impliciti e quindi anche l’acquisizione di abitudini negative.

A questo proposito Stillman afferma che «la Consapevolezza può aiutare a prevenire la formazione di abitudini automatiche, come avviene attraverso l’apprendimento implicito, perché una persona consapevole è a conoscenza di ciò che sta facendo».

In altre parole, la Mindfulness accresce la capacità di osservare e di essere presenti a noi stessi, ed è proprio questo che ci dà la possibilità di scegliere quali comportamenti mettere in pratica.

LEGGI:

MINDFULNESS 

La mindfulness migliora l’attenzione anche nei bambini – Psicologia & Meditazione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Report dal Workshop La Schema Therapy in Azione – Firenze 9\10 Novembre

schema therapy in azione workshop firenzeA Firenze lo scorso week end si è tenuto il workshop Schema Therapy in Azione tenuto dal Dr. A. Arntz. Il Dr. Arntz, professore di psicologia clinica e psicopatologia sperimentale dell’Università di Maasttricht, è il ricercatore più importante per gli studi multicentrici riguardanti l’efficacia della Schema Therapy per i Disturbi di Personalità.

Due giorni di lavoro davvero molto interessanti che mi hanno permesso di tornare a casa con nuovi strumenti utili per la clinica, resi ancora più “miei” e “familiari” grazie alle frequenti simulate e esercitazioni che durante le due giornate sono sempre seguiti ai momenti di spiegazione del modello.

Partendo dai concetti fondametali della Schema Therapy, passando per i bisogni e i mode, arrivando al trattamento specifico per ogni mode, andando così a delineare un piano di intervento integrato ed efficace per il Disturbo di Personalità Borderline, il tutto supportato dai dati di alcune ricerche che il Dr. Arntz ci ha presentato.

Credo che uno dei punti a favore della Schema Therapy sia quello di aver creato una cornice integrata di presa in carico del paziente, avendo trovato un linguaggio comune per terapeuti appartenenti a scuole diverse, l’aver dato una forma e aver sistematizzato i punti di forza e di debolezza dei diversi orientamenti teorici andando a creare un modello di cura efficace, integrazione tra diversi orientamenti, terapia psicodinamica breve, terapia cognitivo comportamentale, teoria dell’attaccamento, gestalt, il tutto viene rispecchiato e confermato nella “diversistà” di orientamento dei terapeuti presenti in sala. La mattina del sabato è stata dedicata alla teoria di base del modello focalizzando l’attenzione sui tre ingredienti chiave della Schema Therapy:

  1. Le emozioni che vengono messe in primo piano, la ST fa infatti un massicio uso di interventi esperienziali e focalizzati sulle emozioni (dialogo con le sedie, esercizi immaginativi). Lavorando con i pazienti Borderline mettere in primo piano le emozioni ha una grande importanza considerando che molto spesso sono proprio le emozioni negative e le esperienze emotive problematiche che mantengono i pattern comportamentali disfunzionali.
  2. Le tematiche infantili, grazie alle informazioni bibliografiche è possibile validare il paziente permettendogli di capire le origini dei suoi comportamenti. Uno degli obiettivi è far capire al paziente che i suoi comportamenti disfunzionali sono il frutto di condizioni maladattive durante l’infanzia.
  3. La relazione terapeutica, luogo in cui in paziente può lavorare sui propri problemi. Si parla di re-parenting limitato, questo implica che il terapeuta si prende cura dei bisogni dei paziente, in modo caldo ed empatico entro i limiti della relazione terapeutica. Relazione cardine in cui il paziente può sperimentare nuove abilità sociali e cambiare pattern comportamentali per la prima volta in un contesto non minaccioso.

Velocemente abbiamo passato in rassegna i 18 schemi per arrivare a collegarli con i bisogni che in infanzia sono stati a seconda dei casi soddisfatti o frustrati.

Dominio Bisogni emotivi primari collegati
Distacco e Rifiuto Attaccamento sicuro, accettazione, cura
Mancanza di autonomia e abilità Autonomia, competenza, senso di identità
Mancanza di regole Limiti realistici auto-controllo
Eccessiva attenzione ai bisogno altrui Libera espressione di bisogni ed emozioni
Ipercontrollo e inibizione Spontaneitò e capacità di giocare

Interessante il discorso sui bisogni in termini di Schema Therapy, in quanto si parte dal fatto che gli schemi maladattivi precoci si sviluppano quando i bisogni del bambino non sono stati soddisfatti, nel corso della terapia ci si lavora in modi differenti prima con la psicoeducazione, facendo capire ai paziente quanto i bisogni frustrati nell’infanzia siano la base per le difficoltà di oggi, poi si assume una forma di intervento più strutturato e si assegnano ai pazienti dei compiti a casa in cui diventa necessario trovare i modi per andare incontro ai propri bisogni.

Durante la terapia i modi per cambiare uno schema maladattivo insieme al paziente sono essenzialmente tre che si integrano e condizionano l’un l’altro: il fare, il pensare e il sentire: quindi il terapeuta utilizzerà tecniche cognitive, tecniche comportamentali e tecniche immaginative ed esperienziali.

Viene inserito il concetto di Mode è cioè lo stato predominante in cui si trova il soggetto includendo stati emotivi e cognitivi presenti attimo per attimo e le risposte di coping. In particolare nel paziente con disturbo di personalità Borderline gli schemi attivati sono moltissimi e spesso i pazienti oscillano da un mode all’altro continuamente, per lavorare con loro dobbiamo saper distinguere bene un mode dall’altro, sapere quali sono i trigger per il nostro paziente e soprattutto quale tecnica utilizzare per quello specifico mode.

In linea generale i mode più frequenti dei pazienti con disturbo Borderline di personalità sono protettore distaccato, genitore puntivo, bambino arrabbiato e impulsivo, bambino abbandonato, bambino abusato. Ciò che nella clinica contraddistingue un mode dall’altro momento per momento è il tono affettivo del paziente, la sua storia di vita, come il paziente si comporta in quel momento nella relazione terapeutica, gli esercizi immaginitivi. Diventa importante per il terapeuta avere un modello dei mode del proprio paziente avere chiaro dove ogni mode è nato, a cosa è servito, cosa porta di disfunzionale nella vita del paziente, a quale bisogno frustrato è legato e e a quale sintomo di oggi corrisponde.

Durante il workshop abbiamo visto in dettaglio quali sono le caratteristiche principali dei mode prevalenti nei pazienti con distrubo Borderline e quali strumenti e tecniche specifiche utilizzare in terapia. Sicuramente è stato molto utile avere la possibilità mode per mode di sperimentarsi sia come terapeuta che come paziente provando la potenza degli esercizi immaginativi, e la vicinanza che si crea nella relazione. In sintesi riporto per ogni mode la sua funzione e le tecniche da utilizzare in terapia lasciando alla lettura del libro di Arntz, Schema Therapy in Azione (2013, ISC editore) spazio per maggiori approfondimenti. Protettore distaccato: la sua funzione è quella di tagliare via i bisogni e le emozioni della persona, da un lato quindi protegge da emozioni troppo dolorose e forti dall’altro rende sordi verso i propri bisogni. Molto spesso i pazienti Borderline si trovano in questo mode quando vengono in terapia, ed è quindi necessario trovare il modo per aggirare il protettore distaccato per dare alla terapia stessa la possibilità di essere efficace. I sintomi che più frequentemente si correlano con questo mode sono: senso di vuoto, abbuffate, automutilazione, sintomi psicosomatici, dissociazione. In terapia il modo per aggirare il protettore distaccato va dal comprenderne e spiegarne lo sviluppo in età infantile, validando quindi il ruolo adattivo che ha avuto, a valutare il pro e il contro di distaccarsi dal presente, ai dialoghi con le sedie, agli esercizi immaginativi. Bambino abbandonato: quando questo mode è attivo il soggetto si sente impotente e disperato di ottenere il soddisfacimento dei bisogni o di trovare protezione. I sintomi più frequentemente collegati sono depressione, l’essere senza speranza, l’essere spaventato, sentirsi senza valore. Spesso le persone in questo mode fanno immensi sforzi per evitare di essere abbandonati e hanno una visione idealizzata delle loro figure di cura. In terapia si lavora con le tecniche immaginative, il role playing, il confronto empatico, imagery rescripting. Genitore punitivo: la funzione di questo mode è di punire il bambino per avere espresso bisogni e sentimenti o commesso errori. Ad oggi questo mode si manifesta con un senso di rabbia rivolta a se stesso, automutilazione, atteggiamento autocritico, abnegazione. In terapia compito del terapeuta è lavorare con il paziente sui bisogni e sentimenti universali. Dare un nuovo significato al rifiuto sperimentato durante l’infanzia, evidenziare i successi e le qualità del paziente, combattere il genitore punitivo attravero esercizi immaginativi e grazie alla tecnica delle due sedie. Bambino arrabbiato: molto spesso sotto questo mode si nasconde il mode del bambino abbandonato, quindi è necessario in terapia poter far ventilare tutta la rabbia per poter arrivare al bambino abbandonato e rispondere ai suoi bisogni di accudimento e vicinanza. I pazienti con Disturbo di Personalità Borderline si trovano spesso in questo mode, agiscono impulsivamente per ottenere il soddisfacimento dei loro bisogni, e esprimono in maniera non adeguata i propri bisogni e le proprie emozioni. In terapia è necessario affrontare questo mode dando al paziente la possibilità di sfogare tutta la sua rabbia, dandogli dei limiti realistici. Occorre mostrare empatia per gli schemi sottostanti, far vedere al paziente quanta tristezza c’è dietro quella rabbia, aiutare il paziente a esprimere in modo più assertivo le proprie emozioni. Adulto sano: nei pazienti con disturbo Borderline questo mode ad inizio terapia è poco sviluppato, obiettivo della terapia è andarlo a rafforzare attravverso tecniche comportamentali, dialogo con le sedie, imagery rescription, insegnamento di atteggiamenti sani. La funzione del mode adulto sano è quella di accudire e proteggere il bambino vulnerabile, stabilire limiti al bambino arrabbiato e combattere il genitore punitvo. In sintesi il razionale del trattamento con i pazienti con disturbo Borderline di personalità è:

  1. Rassicurare e pian piano sostituire il Protettore distaccato;
  2. Mostrare empatia pr il bambino abbandonato, elaborare i traumi e aiutare il bambino abbandonato a ricevere amore;
  3. Combattere il genitore punitivo;
  4. Dare dei limiti realistici al bambino arrabbiato affinchè possa esprimere emozioni e bisogni in maniera appropriata. Rendere il paziente consapevole dei diritti fondamentali dei bambini;
  5. Aiutare i pazienti a incorporare il mode adulto sano, ispirandosi al terapeuta raggiungendo passo dopo passo l’autonomia.

 

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ARTICOLI SU SCHEMA THERAPY

Essere figli unici: limite o risorsa?

 

Essere figli unici. - Immagine: © Roman Gorielov - Fotolia.comNella società italiana attuale, con la progressiva diminuzione delle nascite, i figli unici non sono più un’eccezione e costituiscono un elemento che accomuna molti sistemi familiari.

Il figlio unico beneficia di molteplici cure ed attenzioni da parte dei genitori ed è oggetto di un massiccio investimento emotivo; se da un lato ciò può costituire un grande vantaggio, dall’altro può ostacolare il raggiungimento dell’autonomia, condizionando negativamente il processo di emancipazione dalla famiglia di origine.

Nell’ambito di una analisi condotta su 34 figli unici, appartenenti ad una fascia d’età compresa tra i 28 e i 35 anni, Giusti e Manucci (2000) rilevano che solo 15 di essi vivono al di fuori del nucleo familiare d’origine; si può supporre che il figlio unico possa avvertire maggiori difficoltà nel processo di emancipazione dalla famiglia.

Nel caso in cui i genitori vivano l’acquisizione di autonomia da parte del figlio come una minaccia quest’ultimo può incontrare molta difficoltà nel ricercare l’indipendenza necessaria all’elaborazione di un’identità adulta. Tali dinamiche, osservabili in tutte le famiglie, rischiano di amplificarsi nelle famiglie con un unico figlio.

Come è possibile ovviare a questa difficoltà? Unendo le loro forze, i genitori dovrebbero essere in grado di accompagnare serenamente il figlio verso la conquista della propria autonomia, rispettandone il naturale bisogno di prendere le distanze dal nucleo familiare d’origine e di sperimentarsi come persona distinta, ritagliandosi progressivamente i propri spazi di autonomia.

In questo processo è importante evitare di “colludere con le spinte regressive” messe in atto dal figlio unico nel momento in cui, com’è normale in qualsiasi processo di crescita e di cambiamento, vi siano fasi di scoraggiamento che inducono ad attuare un passo indietro verso la sicurezza invece che “in avanti, verso l’incertezza dell’estraneità e della crescita” (Giusti, Manucci, 2000, 35).

Secondo alcune ricerche i figli unici sarebbero più cooperativi e meno competitivi, in quanto cresciuti al di fuori delle gelosie e dei litigi inerenti alla rivalità fraterna; la mancanza di fratelli può, tuttavia, generare paura nel confronto con gli altri.

I figli unici tendono a idealizzare il rapporto fraterno del quale non hanno esperienza e ad averne un’idea astratta e utopistica, ignorando la rivalità e i contrasti dovuti alle differenze di temperamento e di carattere tra fratelli (Giusti, Manucci, 2000).

Per evitare che il figlio unico senta la mancanza di fratelli i genitori dovrebbero fare in modo che egli approfondisca, sin dall’infanzia, i rapporti con altri bambini della sua età: gli amici rappresentano i “sostituti di fratelli”, grazie ai quali si può sperimentare il sentimento di fratellanza che manca all’interno della famiglia d’origine strutturando relazioni paritarie, differenti da quelle asimmetriche con i propri genitori (Giusti, Manucci, 2000).

I figli unici beneficiano di un rapporto esclusivo con i genitori, cosa che consente di godere di molteplici attenzioni e di un clima stimolante sul piano affettivo ed intellettuale; tali fattori sembrerebbero correlati allo sviluppo di una elevata motivazione al successo e di una buona intelligenza (Giusti, Manucci, 2000).

La presenza genitoriale, può, però, diventare “eccessiva” se il genitore orienta tutte le aspettative sull’unico figlio che ha e non tollera i suoi insuccessi, creando un terreno fertile per l’emergere di sentimenti di insicurezza: il figlio rischia di diventare estremamente esigente con se stesso e di cercare di compiacere i genitori senza riuscire a riconoscere ed esprimere i propri desideri e inclinazioni.

I figli unici possono, inoltre, correre il rischio di andare incontro ad un precoce processo di “adultizzazione”, che li fa apparire più maturi, sul piano cognitivo, rispetto alla propria età anagrafica; i genitori possono caricarli di eccessive responsabilità, impedendo loro di vivere le esperienze inerenti alla loro fascia d’età (Giusti, Manucci, 2000).

È necessario, quindi, che i genitori evitino, sin dall’infanzia, di favorire sia che il soggetto diventi precocemente adulto, aderendo passivamente alle aspettative genitoriali, ma anche che resti sempre piccolo, timoroso di confrontarsi col mondo esterno al nucleo familiare (Galimberti, 1999)

Bisogna sottolineare, infatti, come l’eccesso di premure ed attenzioni possa nuocere al figlio; a questo proposito Montuschi afferma che “la misura è dunque il vero problema dell’educazione […] ogni virtù in eccesso assume le connotazioni del vizio: basti pensare agli effetti del troppo amore, della troppa razionalità” (Montuschi, 2004, 142).

D’altra parte, bisogna considerare che i figli unici di genitori non troppo protettivi nei loro confronti possono, al contrario, godere di un rapporto esclusivo che permette loro di sviluppare un senso di sicurezza e di stabilità, una “base sicura” da cui partire all’esplorazione del mondo.

In sintesi, lo status di “figlio unico” non rappresenta un dato negativo o positivo di per sé, ma una condizione contraddistinta da specifiche caratteristiche, che vanno conosciute e valorizzate per favorire, nel figlio unico allo stesso modo di un figlio che cresce attorniato da fratelli, un naturale processo di crescita e di raggiungimento dell’autonomia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Recensione del libro: 101 lasciamenti

 

Recensione del libro

101 Lasciamenti

di E. Alberti Schatz

(2013)

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101 lasciamenti - Recensione101 lasciamenti: m’ama o non m’ama, m’ama o non m’ama… lo lascio o non lo lascio, lo lascio o non lo lascio? Lascio!?! Se due persone si lasciano, spesso tendono a dare la colpa alla poca comprensione, alla poca reciprocità, progettualità, come mai a nessuno viene mai in mente che possono non amarsi più?

Ti lascio perché non ti amo più! Epilogo di una storia ormai deflagrata.

Capita nella vita di dover decidere di liberarsi di una zavorra, che si porta dietro per inerzia. In fondo, lasciare qualcuno è una cosa naturale, tutto prima o poi finisce, si sgretola. Non è detto che lasciare significhi soffrire, spesse volte si tratta di un atto liberatorio, “l’atto finale e risolutivo di un doloroso percorso di sofferenza e di sopportazione che non può avere nessun’altra soluzione“. Cominciare a respirare aria pura! Perché continuare a farsi del male o a contraccambiare piccoli biechi dispettucci quotidiani quando esiste una soluzione più diretta e immediata? Lo sapevate che potevate liberarvi dell’altro come se si schiacciasse il tasto eject di un vecchio e obsoleto videoregitratore, ormai demodé? Esattamente come il rapporto col vostro partner.

Relazioni logore e stantie col tempo possono creare infiniti disagi a chi si trova incastrato in una scatola ormai troppo stretta e, dunque, la soluzione ovvia, per quanto dolorosa e sofferta possa essere si trova nel “lasciamento“.

Sì, si tratta di un neologismo, parola non presente nel vocabolario della lingua italiana, ma creato per “indicare una piccola sceneggiatura per lasciare il vostro lui o la vostra lei senza spargimento di sangue, ma con tutta la foga covata per anni negli alambicchi della mente, e di colpo lasciata libera di spruzzare velenosamente verso il cielo“.

Nel libro “101 lasciamenti” scritto da Eugenio Alberti Schatz, edito da Blonk editore in versione ebook è possibile trovare 101 modi per potersi liberare definitivamente dell’altro. 101 lasciamenti alla carica, come piccole schegge di saggezza maligna scritte per consigliare e stuzzicare l’arguzia nella messa in atto della volontà di lasciare il vostro partner.

Piccoli momenti di vita comune, mia (caspita ho letto ben tre situazioni a me familiari!),vostri, che trovano libero sfogo, conclusivo e finale.

Immagini, momenti, frammenti di pensieri che tutti anelano, ma che non sempre hanno un seguito. Invece, se si avesse il coraggio di ascoltare il nostro mood si potrebbe concludere in una piccola vendetta che metterebbe fine a tutte le nostre sofferenze.

La vita di coppia è costellata da continui “lasciamenti e riprendimenti, di piccoli tradimenti e di grandi sanatorie“, si tratta di un equilibrio sottile in cui nessuno dovrebbe prendere il sopravvento, perché se questo accadesse? Allora, la fine è progettata accuratamente da parte di uno dei due membri della coppia.

Ma perchè mi lasci? Pensavo fossimo felici“.

Sì, ma poi ho letto il libro dei lasciamenti e ho capito che una via d’uscita c’è sempre. Per tutti. E quindi anche per me“.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Comunicazione – Prima la brutta o la bella notizia?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studiosi hanno scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due. 

Il processo di dare e ricevere brutte notizie è una faccenda complicata per la maggior parte di noi. Un nuovo articolo pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin ha analizzato scientificamente il fenomeno comunicativo e psicologico nel tentativo di superare le ricette e aneddoti popolari su quel che è meglio.

Gli studiosi hanno infatti scientificamente dimostrato che generalmente si preferisce ricevere prima la brutta notizia – in linea con le emozioni legate all’intolleranza dell’incertezza per di più connotata negativamente- mentre se siamo nella posizione di chi deve dare brutte nuove allora preferiamo invece comunicare prima la bella notizia tra le due. 

E, secondo l’ottica del ricevente sarebbe preferibile e meno ansiogeno ricevere la brutta notizia chiaramente ed esplicitamente, evitando di alternare nella comunicazione frammenti di buone e cattive notizie che lascerebbero l’interlocutore confuso. Attenzione però, il pattern dare prima la brutta e poi la bella notizia è meno efficace se l’obiettivo dell’interazione è quello di modificare un comportamento: in tal caso dallo studio emerge che sarebbe più efficace comunicare prima la bella e subito dopo la brutta notizia.

Nell’ambito di queste interazioni si respira dunque una tensione tra due poli, da una parte chi deve dare la brutta notizia – tendenzialmente portato a posticipare l’esperienza spiacevole di comunicare una notizia negativa, dall’altra chi si trova a ricevere una brutta notizia, teso a un decremento dell’ansia in funzione della diminuzione di un’incertezza. A meno che non siate dei grandi “mentalizzatori” della mente dell’altro, a quel punto forse sarete più portati a dire prima la brutta notizia.

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LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEEURISTICHE-BIAS  STILI DI COMUNICAZIONE

Attento a come parli! L’Effetto Nocebo

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Personalità: che tipo sei? Cane o Gatto?

 

CHE TIPO SEI? CANE O GATTO?. Immagine: © Valentina R. - Fotolia.com

L’universale desiderio umano di comprendere meglio se stessi viene appagato dai più svariati test di personalità in circolazione. Non importa quanto essi siano autorevoli, non sappiamo resistere alla tentazione di barrare le crocette per scoprire se siamo mamme degne dell’ammirazione di Tata Lucia, amanti che non si lascerebbero intimorire da Rocco Siffredi o mogli più devote di Wilma Flintstone.

Anche State of Mind ti invita a partecipare ad un breve anzi brevissimo test di personalità. Sarà sufficiente rispondere alla seguente domanda e proseguire nella lettura per sapere quali caratteristiche di personalità ti definiscono: “ti identifichi di più in un cane o in un gatto?

Se hai scelto “cane” probabilmente sei una persona estroversa, simpatica e coscienziosa.

Se invece sei un “gatto” sei dotato in misura minore di queste qualità ma hai dalla tua una maggiore apertura alle nuove esperienze anche se tendi ad essere un po’ più nevrotico. 

L’autorevolezza di tali conclusioni deriva in questo caso da un curioso studio del 2010 condotto in Texas che ha portato alla luce un differente profilo di personalità tra coloro i quali si identificano in un gatto e coloro i quali si sentono maggiormente a loro agio all’idea di fare “bau”.

I ricercatori hanno inviato un questionario online a cui circa 4.500 internauti hanno risposto. Gli studiosi, dopo aver analizzato attentamente le scelte dei partecipanti, hanno suddiviso le caratteristiche personali nelle 5 grandi dimensioni di personalità: estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale.

Tale scelta teorica, nota come Modello Big Five, ha le sue radici nel lontano 1930 quando è stata formulata una teoria per la descrizione della personalità che prende il nome di Lexical Hypothesis. Gli studiosi pensarono di poter trovare i tratti che definiscono la personalità tracciando e analizzando la lista di aggettivi presenti nel dizionario nella convinzione che il vocabolario naturale contenesse le parole necessarie e sufficienti a descrivere la personalità. Trovarono però un numero vertiginoso di aggettivi (ben 18000) ma riscontrando che alcuni di essi si presentavano spesso in combinazione, suddivisero la lista in 5 categorie principali.

Ognuno di questi Big Five è rappresentato da un continuum tra due estremi, ad esempio introversione-estroversione. Molte persone si collocano da qualche parte nel mezzo di questo continuum e possono avere caratteristiche comuni a entrambi i lati, anche se un polo di solito prevale significativamente sull’altro.

Se vi siete identificati nel gatto siete al di là di tutto una persona fuori dal coro, come testimoniato dalla distribuzione del campione della ricerca.

Il 45% degli intervistati texani si è infatti identificato nel cane, il 27% in entrambi gli animali, il 15% in nessuna categoria e solo l’11% nel gatto. Il profilo di personalità dell’uomo-cane si è rivelato simile se non addiritura sovrapponibile a quello di coloro che si sono identificati in entrambi o in nessun animale per quanto riguarda gradevolezza, coscienziosità, nevroticismo e apertura mentale. Unico tratto veramente distintivo l’elevata estroversione.

Coloro i quali si sono identificati nel gatto si differenziano invece da tutti e tre gli altri gruppi rispetto a tutti i tratti di personalità, fatta eccezione per il grado di apertura mentale, simile a quello del gruppo che si è attribuito l’identità di entrambi gli animali. L’uomo-gatto si differenzia insomma in maniera più marcata dal resto della popolazione.

Ma cosa giustifica le differenze riscontrate tra uomini-cane e uomini-gatto? perchè una persona con determinate caratteristiche dovrebbe identificarsi con un animale piuttosto che con un altro?

Non esistono spiegazioni esaustive ma solo ipotesi. Si può per esempio supporre che anche in questo caso “chi si somiglia si piglia” quindi persone disponibili e solari riconoscano affinità con il cane, tipicamente affettuoso e socievole mentre persone più riservate tendano ad identificarsi con i gatti, noti invece per la loro predilizione a farsi i fatti propri.

Ma il quesito a mio parere più interessante è perchè anche questa volta abbiate ceduto alla tentazione di comprendere meglio voi stessi immaginandovi addiritura a quattro zampe.

LEGGI:

PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – BIG FIVE PERSONALITY TRAITS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Internet addiction: quando cinque minuti diventano alcune ore

 

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Internet addiction- quando cinque minuti diventano alcune ore. - Immagine: © mariesacha - Fotolia.comInternet addiction – Ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Tra le nuove psicopatologie emerse negli ultimi dieci anni, va considerata oggi sicuramente l’Internet Addiction o dipendenza da internet. Si tratta di una categoria che include fenomeni e problemi diversi, tra i più comuni troviamo il cybersex e l’online gambling.

Il motivo del successo di queste due forme di dipendenza è facilmente spiegabile: nel primo caso, il cybersex è un tipo di dipendenza sessuale con i “vantaggi del web”: anonimità e facilità di accesso. È facile rimanere nella privacy della propria casa, ingaggiati in fantasie impossibili nella vita reale. Per quanto riguarda il gambling, il discorso è simile: possibilità di accesso in ogni momento del giorno e della notte da un qualsiasi dispositivo che abbia una connessione Internet.

Anche se Internet è attualmente disponibile con facilità in quasi tutti i posti di lavoro, sugli smartphone e sempre più nei luoghi pubblici, il tempo che ognuno di noi spende connesso alla rete varia notevolmente e se da una parte questo tempo può essere produttivo e talvolta di svago, l’uso compulsivo di Internet può invece interferire notevolmente con la vita lavorativa e sociale di chi ne abusa, determinando un vero e proprio disturbo.

Proprio per l’ampiezza negli usi e per le esigenze personali che variano notevolmente da soggetto a soggetto, non vi è un limite di tempo né un numero di messaggi invitati che definisca la patologia, quanto ciò che rende l’uso di Internet una dipendenza è l’eccessivo uso della rete a discapito del lavoro e delle relazioni sociali e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline.

Secondo i dati riportati su Helpguide.org, un’organizzazione internazionale no-profit con sede in California, i segni generali di una possibile dipendenza da Internet sono:

Perdere il senso del tempo online: ti trovi spesso a rimanere connesso più a lungo di quanto avessi previsto? Qualche minuto si trasforma in qualche ora? Ti irriti se vieni interrotto?

Avere problemi nel portare a termine i compiti, a casa o al lavoro: ti ritrovi a fare tardi al lavoro per avere utilizzato internet per motivi diversi? A casa trascuri la spesa da fare, la lavatrice o altre commissioni per passare più tempo connesso?

Isolamento dalla famiglia e dagli amici: pensi che nessuno ti capisca nella tua vita reale come invece fanno i tuoi amici online? Ti ritrovi a passare meno tempo con amici o famiglia e più tempo connesso alla rete?

Sentimenti di colpa legati all’uso di internet: ti irriti quando gli altri continuano a dire di spegnere il computer o di mettere giù lo smartphone? Non dici sempre la verità sul tempo effettivo speso online?

Sentire un senso di euforia quando connessi: ti ritrovi a usare internet come valvola di sfogo quando sei triste, stressato o cerchi eccitamento sessuale? Hai provato a ridurre l’uso di internet e non ce l’hai fatta?

Se ti riconosci in più di uno di questi segnali, è possibile che tu abbia o stia sviluppando una dipendenza da internet. In questo caso, puoi intanto iniziare a intraprendere alcuni passi da solo per modificare le tue abitudini online, ricordando però che esistono servizi e persone qualificate per un supporto esterno. Un primo passo potrebbe essere quello di realizzare che l’uso eccessivo di internet sia legato a dei problemi emotivi sottostanti, come stati di ansia o depressione, stress o emozioni di rabbia. In questi casi, il web viene spesso utilizzato come modalità per “sentire meno” i sintomi dei disagi o per cercare di uscirne.

In questo senso, alcune ricerche stanno andando sempre più a indagare quanto la dipendenza da internet sia collegata ad altri fattori psicopatologici o semplicemente personologici. Nella seconda parte dell’articolo andremo a vedere i risultati di uno dei primi e più recenti studi in questo campo che sta aprendo la strada a un nuovo filone di ricerche sull’effetto dell’esposizione al web in persone dipendenti da internet.

LEGGI PARTE 2

LEGGI:

DIPENDENZEINTERNET ADDICTION

Nuove dipendenze comportamentali: la Cyberdipendenza

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Come funziona l’EMDR? Il contributo delle neuroscienze

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

Come funziona l’EMDR?

Il contributo delle neuroscienze

LEGGI TUTTI I REPORT DEL CONGRESSO NAZIONALE EMDR

 

labirinti traumatici emdr

Si conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

L’ultima mattinata del congresso non delude le aspettative create in questi giorni densi e faticosi ma proficui e forieri di interessanti riflessioni.

Gli interventi presentati, infatti, esplorano un’area di ricerca importantissima: l’apporto delle neuroscienze alla comprensione dei substrati neurofisiologici del trattamento psicoterapico, con un’attenzione particolare, ovviamente, all’EMDR.

Nel suo intervento Benedikt Amann, ricercatore presso la FIDMAG Research Foundation di Barcellona, parte dall’ipotesi che nel disturbo bipolare via sia una disfunzione a carico del Default Mode Network (DMN), una rete di aree cerebrali che risultano essere maggiormente attive durante le fasi di risposo e che si disattivano durante l’esecuzione della maggior parte dei compiti cognitivi che richiedono un attenzione focalizzata.

Questa rete, che comprende la corteccia prefrontale mediale, la corteccia anteriore e posteriore cingolata, il precuneo, il lobulo parietale inferiore, la corteccia temporale laterale e l’ippocampo, è attiva anche durante attività mentali introspettive, come il recupero di ricordi autobiografici, l’utilizzo della teoria della mente e immaginare il futuro. Il DMN regola le dinamiche di attivazione-disattivazione nel cervello sano.

Studi di neuroimmagine evidenziano che sia il disturbo bipolare sia il disturbo da stress post-traumatico presentano una disfunzionalità del DMN.

Dato che l’EMDR attiva il processo omeostatico naturale di elaborazione dell’informazione, l’ipotesi  è che la modulazione del DMN possa rappresentare il substrato neurobiologico nel trattamento EMDR.

Il gruppo di ricerca di Amann presenta uno studio pilota effettuato su un singolo caso di paziente bipolare con una storia di eventi traumatici, che mostra una significativa disattivazione del DMN dopo un trattamento EMDR di 14 sedute, portandolo ai livelli del gruppo di controllo.

Gli attuali modelli di trattamento per il disturbo bipolare sono prevalentemente farmacologici, talvolta affiancati da interventi psicoterapeutici, di psicoeducazione e interventi con la famiglia. Tutti questi tipi di trattamento non sembrano però molto efficaci nel prevenire ricadute e dai diversi studi emergono ancora troppe recidive.

Il lavoro presentato da Amann parte da un presupposto molto importante purtroppo spesso sottovalutato: le esperienze traumatiche infantili, come molti studi autorevoli hanno ormai dimostrato, sono molto frequenti e hanno un forte impatto nell’esordio di diversi disturbi psichiatrici.

Nel caso del disturbo bipolare la comorbilità con il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è molto alta, circa il 20% e la presenza del PTSD peggiora significativamente la sintomatologia del disturbo bipolare, in termini di maggiori tentativi di suicidio, aumento dei cicli rapidi, sintomi maniacali più elevati, DMN disfunzionale ed in generale un peggiore decorso della malattia.

Tutto ciò ha importanti implicazioni nel trattamento dei pazienti bipolari e dei pazienti psichiatrici in generale, anche se fino ad oggi esistono pochissime evidenze scientifiche al riguardo.

Una di queste deriva da un interessante studio di Van den Berg e colleghi sul trattamento EMDR in pazienti psicotici che mostra, dopo 6 sedute EMDR, un significativo miglioramento sia dei sintomi del PTSD sia di quelli psicotici.

Lo studio BET (Bipolar EMDR Trauma Study), presentato da Amann, è il primo studio relativo all’applicazione dell’EMDR su pazienti bipolari: l’ipotesi di partenza è che l’elaborazione dei traumi attraverso l’EMDR non solo migliori i sintomi post-traumatici, ma che contribuisca a stabilizzare l’umore, a migliorare il funzionamento cognitivo e sia un metodo sicuro con questo tipo di pazienti.

I dati sembrano confortanti: rispetto al trattamento classico, 13-18 sedute EMDR hanno condotto ad un miglioramento significativo rispetto all’impatto degli eventi traumatici sia al termine del trattamento sia al follow-up a 3 e a 6 mesi. Si evidenzia, inoltre, un miglioramento globale del funzionamento e del tono dell’umore, soprattutto rispetto ai sintomi ipomaniacali.  L’EMDR viene infatti consigliato nel casi di sintomi ipomaniacali e subsindromici, mentre non è raccomandato nei casi di mania, fase mista e depressione grave. 

Il gruppo di ricerca ha sviluppato anche un protocollo EMDR specifico da utilizzare con pazienti bipolari. Il piano di trattamento prevede di iniziare con i sintomi legati al presente, che serviranno come via d’ingresso ai ricordi traumatici del passato. Molta importanza viene riconosciuta alla fase di stabilizzazione e installazione delle risorse, anche facendo ricorso a 5 specifici sotto-protocolli creati per questo tipo di pazienti: il protocollo per la stabilizzazione del tono dell’umore, per la consapevolezza di malattia, per l’aumento dell’aderenza, per i sintomi prodromici e per la de-idealizzazione dei sintomi maniacali.

Sarà necessario testare questi risultati su un campione più numeroso, ma sembra una buona direzione per il futuro dell’EMDR e di tanti pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche che troppo spesso vengono trattati solo con farmaci, non sufficientemente efficaci nel prevenire le recidive. 

Il secondo ed ultimo intervento della giornata, presentato da Marco Pagani, del CNR di Roma, esplora la neurofisiologia della violenza e le potenzialità del trattamento EMDR nell’intervenire sulle alterazioni patofisiologiche presenti in questi stati.

La relazione apre con una revisione critica della letteratura scientifica relativa alla neurofisiopatologia dei comportamenti violenti. La neurobiologia degli abusi sessuali è stata al centro dei primi studi di neuroimmagine sul PTSD e diverse ricerche hanno ormai dimostrato che nelle persone con una storia di abuso o trauma psichico sono presenti alterazioni patologiche tipiche a carico di alcune strutture cerebrali: la corteccia frontale, che non esercita più la sua fisiologica inibizione sull’amigdala, la quale per questa ragione è iperattiva e contiene informazioni non processate; l’ippocampo; il cingolo anteriore e posteriore e l’insula.

Vari studi hanno evidenziato come l’ipotalamo sia un area centrale in qualunque reazione aggressiva: l’ipotalamo mediale, insieme al mesencefalo, media la rabbia difensiva, mentre quello laterale è coinvolto nell’attacco predatorio. Entrambe queste forme di aggressività sono controllate dal sistema limbico, a sua volta influenzato da input sensoriali e sottocorticali e da da input provenienti dalla corteccia cerebrale.

Con il miglioramento delle tecniche di rilevazione neuro-fisiologica è stato anche possibile indagare il funzionamento e l’efficacia degli interventi terapeutici. Da una meta-analisi di numerosi studi sull’argomento ne sono uscite “vincenti”, per quanto riguarda il trattamento per il PTSD, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e l’EMDR.

Proprio sull’EMDR numerosi sono stati gli studi di efficacia che hanno preso in considerazione i substrati neurobiologici e tutti hanno messo in evidenza una normalizzazione dell’attività cerebrale associata con una remissione dei sintomi tipi del PTSD. La corteccia prefrontale riacquista il suo ruolo inibitorio riducendo l’attivazione dell’amigdala, e in generale le anomalie cerebrali tipiche del PTSD mostrano una sorprendente inversione di tendenza in seguito al trattamento EMDR.

Il dott. Pagani presenta anche un interessantissimo studio condotto dal CNR in cui l’efficacia del trattamento EMDR è stata testata mediante la misurazione elettroencefalografica in un contesto “ecologico”, ovvero nello studio del terapeuta durante la seduta, riducendo al minimo l’invasività dello strumento di misurazione. Il dato interessante che emerge da questa indagine è l’andamento dell’attivazione cerebrale durante la terapia: nel corso della prima seduta si attivano le regioni del trauma accompagnate da sensazioni molto disturbanti; nella fase intermedia del trattamento si attivano regioni diverse, con valenza cognitiva, e la sensazione disturbante diminuisce; durante l’ultima seduta si attivano regioni cerebrali in cui tutte le informazioni sono elaborate e integrate e non si attivano più le regioni del trauma. In questa fase non sono più presenti le sensazioni disturbanti.

Questo dato conferma l’efficacia dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e tutti i sintomi che ne derivano, dimostrando l’utilità di questo trattamento non solo con le vittime di abuso e con il PTSD, ma anche con sindromi che comportano violenza e aggressività in cui l’attività del sistema limbico è alterata.

Questa ultima considerazione, in linea con quanto emerso dai lavori delle giornate precedenti, sembra essere un’altra importante tessera del puzzle che nel comporsi mostra l’enorme potenziale di questo strumento nell’affrontare non solo la sofferenza dei traumatizzati, ma nel contribuire ad un maggiore benessere sociale, facendosi carico efficacemente dei comportamenti aggressivi e violenti.

L’EMDR in pochi anni ha conquistato molti e si è diffuso con relativa rapidità in tutto il mondo e fra terapeuti provenienti da tutti gli orientamenti, mantenendo tuttavia un certo alone di mistero sui  suoi meccanismi di funzionamento.

La ricerca sta lentamente svelando questi misteri, con l’esito di accrescerne ulteriormente il fascino e nel contempo la solidità, con prove di efficacia convincenti e scientificamente fondate.

LEGGI:

CONGRESSO NAZIONALE EMDR – ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA – TRAUMA – ESPERIENZA TRAUMATICA – DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD – EYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING – EMDR – DISTURBO BIPOLARE – NEUROSCIENZE

EMDR e Dissociazione – Intervista ad Annabel Gonzalez

 

Psicoanalisi: Intervista a Roberto Goisis

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Roberto Goisis

Psichiatra e Psicoanalista, Membro Ordinario della SPI.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Roberto Goisis, Psichiatra e Psicoanalista, socio ordinario SPI, Docente presso l’Università Cattolica di Milano. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

 

 CONTENUTI CORRELATI:

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOANALISI

I monologhi e la fiducia nell’altro – Psicologia del Lavoro

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Secondo un nuovo studio olandese dall’analisi della conversazione all’interno di meeting e riunioni tra diverse parti sarebbe possibile avere degli indicatori relativi all’accrescimento della fiducia.

La frequenza e la lunghezza degli interventi conversazionali dei diversi interlocutori all’interno di riunioni o incontri possono dare indicazioni rispetto alle relazioni in gioco. 

I ricercatori hanno analizzato le audioregistrazioni degli scambi conversazionali all’interno di riunioni di due board per la durata di un anno, monitorando anche per lo stesso periodo di tempo il livello di coooperazione e di fiducia reciproca. Dai risultati della ricerca è emerso che l’aumento della fiducia tra i collaboratori sarebbe correlata a una maggior frequenza degli scambi conversazionali di una breve durata: cioè a dire al crescere della fiducia reciproca, vi sarebbero meno “monologhi”- o lunghi interventi di un singolo, e un maggior numero di scambi ripetuti, reciproci e di minore durata. 

Il numero medio di scambio di turni per minuto è aumentato del 27% in corrispondenza di una maggior quota di fiducia reciproca. Similmente anche il numero di diversi parlanti attivi per misuto aumenta proporzionalmente, mentre cala drasticamente la frequenza dei monologhi della durata superiore al minuto. Quindi, il monologo sarebbe nemico dell’accrescimento della reciproca fiducia tra le parti.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – STILI COMUNICATIVI – PSICOLOGIA DEL LAVORO

Misura l’ arroganza del tuo capo con il Workplace Arrogance Scale

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Smascherare il bugiardo si può: tecniche facial action coding system e body coding system

Agustina Zaka e Rita Cautela.

 

 

Smascherare i bugiardiSmascherare il bugiardo: identificare le tracce comportamentali connesse all’atto di mentire permette di valutare le dichiarazioni rese. Quindi attraverso l’analisi del comportamento non verbale e verbale, si possono individuare i segni indicativi per riconoscere le menzogne o la veridicità delle affermazioni che la persona ha fornito.

Esistono varie tecniche, metodi e strumenti per rilevare gli indicatori di emozioni, interessi, motivazioni e bugie di cui la validità è riportata in letteratura scientifica e in descrizioni applicative (ad esempio Vrij et al 2000, Jensen et al. 2010).
L’accuratezza dell’analisi si ottiene svolgendo un’analisi trasversale che riguarda: le espressioni facciali, il comportamento motorio gestuale, gli aspetti non verbali del parlato e la linguistica utilizzata. I movimenti del volto e del corpo ci forniscono molte sfumature e sono perciò canali fondamentali con cui confrontare il verbale e riconoscere così le eventuali menzogne. (contraddizioni)

La tecnica più completa per esaminare il comportamento mimico del volto è il Facial Action Coding System (FACS) elaborata da Ekman e Friesen nel 1978. Si basa su 41 unità fondamentali denominateUnità d’Azione“, le quali si combinano tra di loro nel determinare specifiche configurazioni di espressioni facciali. A loro volta tali espressioni facciali vengono associate a determinati vissuti emozionali.

Il FACS è, quindi, un sistema di osservazione di carattere descrittivo e non interpretativo. L’interpretazione del significato psicologico si svolge tramite l’utilizzo di tecniche diverse, come per ad esempio EMFACS e FACSAID, che permettono di identificare le emozioni primarie (sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità, tristezza). Nel Laboratorio NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park di Gorizia, è stata elaborata recentemente una tecnica di decodifica del comportamento del volto più completa rispetto alle precedenti in quanto prende in considerazione oltre alle emozioni primarie, quelle secondarie, i segnali manipolatori, di conversazione e regolatori.

Un altro canale non verbale fondamentale nell’analisi riguarda i gesti e i movimenti del corpo. La tecnica che prende in considerazione tutte le parti del corpo, è il Body Coding System (BCS). Tale sistema analizza le espressioni non verbali del corpo, scomponendole nelle unità d’azione al fine di creare una classificazione che faciliti la lettura delle emozioni di una persona. La tecnica è nata per rispondere ai quesiti riguardanti i legami esistenti tra le espressioni del corpo, le caratteristiche di personalità, l’esperienza emotiva e i processi emotivi.

Nel body coding system ogni movimento del corpo è identificato da un nome e un numero ben preciso.
Le singole unità d’azione vengono poi arricchite da altri parametri, se presenti, e in che misura essi vengono osservati:

-unilateralità
-asimmetria
-intensità
-tipologia di appartenenza del movimento: rotatorio, oscillatorio
-orientamento del movimento: avanti, indietro, in basso, in alto, incrociato e così via.

Il movimento può essere inoltre:

ripetitivo: quando ha lo stesso significato dell’espressione verbale (tipicamente i movimenti propiziatori delle mani, le “bacchette” che scandiscono il ritmo del parlato)
aggiuntivo: quando arricchisce di significato quanto detto
-sostitutivo: se apporta significati apparentemente nascosti
-contraddittorio: se contraddice ciò che viene espresso
-indifferente: rispetto ai contenuti può essere ad esempio un segnale di scarico del peso corporeo

I sistemi di analisi FACS E BCS risultano estremamente utili, ad esempio, se applicati nell’ambito del recruitment e nella gestione delle risorse umane.

Durante i colloqui di lavoro o nelle fasi di riorganizzazione del personale i candidati sono sottoposti ad alti livelli di stress emotivo. Utilizzare più canali non verbali rende più facile l’acquisizione di informazioni che il soggetto non vuole, o non può esternare a causa di un’emotività più o meno accentuata, delle aspettative che nutre e delle abilità che inevitabilmente il recruiter sembra richiedere.

Affinché il processo si svolga nella maniera più naturale possibile, bisogna utilizzare una corretta impostazione dell’analisi. Non si tratta di innescare processi di diffidenza reciproca, ma di corretta comunicazione. Solo in tal modo si può raggiungere l’integrazione dei punti di vista tra i due interlocutori.

Conoscere e applicare un protocollo permette di essere preparati ad affrontare opportunamente lo stato emotivo di chi si ha di fronte, a metterlo a proprio agio, a scoprire e valorizzare le sue risorse, idee e aspirazioni.

Seguire delle linee guida chiare, significa allo stesso tempo essere flessibili e obiettivi, per raggiungere un’alta affidabilità ed efficienza.

 

LEGGI ANCHE:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSIONS

INTERVISTA A MARK FRANK – RICONOSCERE LE MENZOGNE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORI DELL’ARTICOLO:

Agustina Zaka e Rita Cautelaneurocomscience.org

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal Workshop di Reggio Calabria – Parte 2

LEGGI PARTE 1

Workshop - Disturbo borderline di personalità e DBT

Dialectical Behaviour Therapy: la seconda parte del workshop si apre con un’altra esercitazione di mindfulness. Concentrate le menti, ci prepariamo per l’intensa giornata sul trattamento, condotta a due voci che con filosofia “dialettica” si muovono armonicamente tra teoria scientifica e pratica clinica.

La DBT prevede un format standard costituito da 1) terapia individuale 2) skills training 3) telefonate 4) team meeting 5) interventi sui familiari. Secondo il modello, il lavoro in team è indispensabile e rappresenta il punto centrale della terapia. Le altre componenti della DBT possono essere invece erogate con maggiore flessibilità e secondo le necessità del caso. Recenti dati dalla letteratura infatti puntualizzano l’efficacia della DBT anche solo erogando lo skills training.

La DBT è in fase di adattamento e perfezionamento per superare alcuni limiti e renderla sempre più raffinata ed efficace”. Ci informano i docenti. “Le stesse skills dell’intervento gruppale sono state aggiornate dalla Linehan nel suo nuovo manuale che uscirà nei prossimi mesi negli Stati Uniti”.

La giornata prosegue con l’insegnamento delle tecniche DBT, individuali e di gruppo, e l’applicazione di queste mediante role-playing e simulate. Rimane spazio nella terza giornata per qualche approfondimento, fatto dalla dr.ssa Fiore, sull’applicazione della DBT anche su altre popolazioni cliniche con DCA, con Dipendenze Patologiche e negli Adolescenti.

La classe partecipa attenta e incuriosita, ma le perplessità e le curiosità ovviamente non mancano. I docenti dedicano un lungo spazio finale ai commenti e alle domande degli allievi.

Il transfert e il contro-transfert che fine fanno nella DBT?” Dal pubblico.

La domanda trova risposta decisa: “Bisogna fare ciò che funziona!”. Spiega il Prof. Maffei. Solo qualche attimo per permettere alla mente saggia di entrare in azione e prosegue “La DBT ci consente di osservare e descrivere ciò che avviene in seduta, la relazione che abbiamo con i nostri pazienti. Ci permette di intervenire sulla relazione se notiamo dei comportamenti che interferiscono con la terapia, che è uno degli obiettivi centrali del trattamento. Importante è che la modalità sia sempre esplicita, chiara e coerente” .

E ancora dall’aula “Come distinguere le richieste e i bisogni reali da quelli invece strumentali che i pazienti mettono in atto per manipolarci e testarci?

Questa è purtroppo la visione diffusa in alcuni ambienti psichiatrici. I pazienti Borderline non manipolano!” sottolinea Cesare Maffei Manipolare significa attribuire intenzionalità che spesso non c’ è nei loro comportamenti e che invece troviamo in altri disturbi, come quello Antisociale. Loro fanno il meglio che possono utilizzando comportamenti problematici perché mancano di abilità più funzionali per affrontare alcune situazioni. Non c’è intenzione di ricevere un vantaggio, ma sofferenza per l’incapacità di fronteggiare l’evento diversamente”.

I pazienti Borderline non ci testano sulla fiducia se siamo chiari e coerenti” Aggiunge Donatella Fiore “La DBT è un intervento chiaro, la nostra è una posizione ben definita. Siamo punti fermi nel caos della loro sofferenza. E se non lo siamo e ci testano, dobbiamo chiederci perché”.

Il workshop si conclude con un’esperienza di partecipazione. Tutti in cerchio, le distanze si riducono, le differenze si abbattono, docenti e discenti, terapeuti e studenti, cognitivisti e analisti, tutti insieme ne “la pioggia nella foresta”.

 

LEGGI PARTE 1

LEGGI ANCHE:

DIALECTICAL BEHAVIOURAL THERAPY – DBT

CONGRESSI

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – MINDFULNESS

REFRAMED: DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY PER IL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE REFRATTARIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 18 – Exit strategy – Rubrica di Psicologia

Etica & Morale – Onesti la mattina, disonesti il pomeriggio

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il nostro self-control riguardo all’osservanza dei nostri valori morali sembra ridursi significativamente con il passare delle ore durante la giornata, fenomeno che renderebbe più probabili menzogne e comportamenti disonesti nel pomeriggio rispetto alla mattina. 

La bizzarra ipotesi è nata nella testa di alcuni ricercatori di Harvard  che si occupano di moralità. Riflettendo sui risultati di molti loro studi hanno inziato ad osservare strane regolarità: gli esperimenti condotti la mattina presentavano tendenzialmente minori occorrenze ci comportamenti non etici e immorali.

Dunque la curiosa domanda di ricerca ha portato a un nuovo esperimento: è più semplice resistere ai comportamenti immorali e non etici la mattina rispetto al pomeriggio? 

Partendo dal presupposto che il nostro autocontrollo è messo a dura prova dalla stanchezza, dalla fatica e da continue decisioni che siamo chiamati a prendere  ogni giorno, gli autori hanno voluto verificare se le normali attività quotidiane nel loro trascorrere lungo le ore della giornata hanno un effetto nell’aumentare i comportamenti immorali.

Gli sperimentatori hanno messo a punto un task sperimentale per metterli nelle condizioni di mentire mentre erano coinvolti in un gioco al computer. In accordo con l’ipotesi iniziale i risultati hanno confermato che i soggetti testati tra le 8.00 e le 12.00 attuavano un minor numero di comportamenti menzogneri rispetto a coloro che venivano sottoposti all’esperimento nel pomeriggio.

Al di là di questo indice comportamentale, è stata valutata implicitamente l’accessibilità al concetto di moralità: in un compito di completamento di parole quali ad esempio “_ _RAL” e “E_ _ _ C_ _” i partecipanti della mattina componenvano con piu probabilità le prole MORAL and ETHICAL rispetto ai partecipanti del pomeriggio che invece componevano con più frequenza termini quali CORAL e “EFFECTS”.

Altro risultato interessante è che il cosiddetto moral disangagement, ovvero la tendenza a comportarsi in modo immorale senza sentirsi in colpa sarebbe un moderatore dell’intensità del fenomeno sopra descritto: nei soggetti con una minore propensione al moral disengagement sarebbe più evidente l’effetto della “moralità mattutina”. 

LEGGI:

ETICE & MORALE

Storie di Terapie #10 – Le bugie di Filippo

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoterapia: solitudine, questa sconosciuta

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Segnaliamo questo interessante articolo della Dott.ssa Patrizia Mattioli pubblicato su il Fatto Quotidiano.

Ognuno ha la sua solitudine. Non parlo dello stare da soli, ma del sentirsi soli, quel vissuto emotivo che emerge anche in mezzo alla gente. Ogni solitudine ha il suo significato e per ognuno il sentimento di solitudine prende forme diverse: per alcuni è la percezione di un mondo ostile, negativo e indifferente per altri è il non avere punti di riferimento, per alcuni è il non riuscire a esprimere le proprie idee, per altri è la percezione di un abbandono vissuto o reale, per alcuni è percepire il punto di vista degli altri come non in linea con il proprio, per altri è una percezione di vulnerabilità e fragilità…

 

Psicoterapia: solitudine, questa sconosciuta – Il Fatto QuotidianoConsigliato dalla Redazione

Ognuno ha la sua solitudine. Non parlo dello stare da soli, ma del sentirsi soli, quel vissuto emotivo che emerge anche in mezzo alla gente. Ogni solitudine… (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LEGGI GLI ARTICOLI DI PATRIZIA MATTIOLI PUBBLICATI SU STATE OF MIND


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Fumare durante la gravidanza aumenta il rischio di disturbo bipolare nella prole

Gravidanza e disturbo bipolareChe fumare non faccia bene è ormai noto ed assodato; che fumare in gravidanza possa aumentare il rischio per il feto e il futuro bambino di sviluppare molteplici problematiche tra cui ad esempio una riduzione del peso alla nascita e difficoltà attentive nel corso dello sviluppo è stato ampiamente dimostrato. Ciò che c’è di nuovo è che il fumo in gravidanza aumenta il rischio per il futuro bambino, una volta adulto, di sviluppare un Disturbo Bipolare.

Questo il risultato di uno studio pubblicato una decina di giorni fa dalla famosa rivista American Journal of Psychiatry da parte di un gruppo di ricercatori americani, che ha preso in esame i figli di un gruppo numeroso di donne che avevano preso parte al Child Health and Development Study (CHDS) dal 1959 al 1966. Il risultato è chiaro: il fumo in gravidanza raddoppia il rischio di sviluppare un quadro psicopatologico bipolare nel figlio una volta adulto.

In Disturbo Bipolare, classificato secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali all’interno della sezione delle patologie dell’Umore, si configura con un quadro clinico caratterizzato dall’ alternanza di fasi di umore depresso a fasi di umore euforico, anche dette fasi maniacali. Le diverse tipologie di disturbo bipolare concettualizzate differiscono sulla base della gravità, durata ed alternanza delle due opposte fasi umorali.

L’incidenza di questa patologia psichiatrica è dell’1,2% nel sesso maschile e del 1,8% nel sesso femminile. Tale incidenza può arrivare al 2% nel corso della vita. Qualche variazione nei due sessi si osserva rispetto all’incidenza delle diverse forme di bipolarismo e la tarda adolescenza e la giovinezza sono gli anni di maggior rischio per l’insorgenza del disturbo bipolare. La patologia bipolare rappresenta un quadro clinico estremamente complesso e grave, che determina una significativa compromissione della qualità di vita dell’individuo affetto e delle persone che si prendono cura di lui.

Le cause ipotizzate per il disturbo bipolare sono eterogenee e comprendono fattori biologici, genetici e ambientali, ben descritti all’interno del Modello Vulnerabilità-Stress: l’insorgere della patologia non è ascrivibile ad un solo fattore (che non può essere considerato di per sé necessario e sufficiente), ma deriva dalle interazioni continue tra vulnerabilità genetica, fattori di rischio ambientali e processi intrapsichici. Ciò significa che l’interazione da un lato può potenziare reciprocamente l’effetto dei vari fattori, ma dall’altro può anche neutralizzare l’effetto di alcuni di essi, incrementando la capacità di recupero dei pazienti di fronte alle esperienze negative.

Che significato possiamo quindi dare al risultato della ricerca qui descritta in termini di comprensione della patologia bipolare?

Gli autori hanno sottolineato come da un punto di vista psicopatologico l’esposizione al fumo di tabacco in fase prenatale si associa solitamente allo sviluppo in età adulta da parte del bambino di quadri clinici “esternalizzanti”, quali ad esempio il Disturbo da Attenzione e Iperattività (ADHD), il Disturbo Oppositivo Provocatorio (ODD), il Disturbo della Condotta (CD) e l’abuso di sostanze. Anche se non classificato all’interno dei quadri esternalizzanti il disturbo bipolare condivide con essi molteplici caratteristiche cliniche, tra cui la scarsa attenzione, l’irritabilità, lo scarso autocontrollo e l’uso inadeguato di alcol e droghe, fatto questo che spiegherebbe il rischio aumentato di contrarre tale patologia.

In un’ottica più Bio-Psico-Sociale potremmo considerare il fumo in gravidanza come un fattore di rischio che, a determinate condizioni favorevoli di vulnerabilità genetica e di rischio ambientali può, in alcuni soggetti facilitare lo sviluppo di un quadro clinico bipolare in età adulta.

Ciò significa che la possibilità per una madre che ha fumato in gravidanza di avere un figlio che in età adulta svilupperà questa patologia non è un destino inevitabile ma una realistica possibilità a determinate condizioni di vulnerabilità biologica e ambientale.

La domanda quindi sorge spontanea: perché andar a molestar il can che dorme?

 

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IL DISTURBO BIPOLARE: INFANZIA E ADOLESCENZA. REPORT DAL CONGRESSO DI PAVIA

 

Gravidanza e disturbo bipolare 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Fenomenologia del badantismo – Psicologia & Musica

Gaspare Palmieri  - Fenomenologia del badantismo - Il badantismo è cresciuto in concomitanza al cambiamento della famiglia tradizionale italiana, sicuramente meno coesa di un tempo e in continua evoluzione (Fruggeri, 1997).

Alcuni studi hanno dimostrato in modo preciso come l’inserimento in famiglia di quelle che in termini anglosassoni vengono chiamate Migrant Care Workers (MCW) riduce il carico assistenziale dei familiari, soprattutto in caso di patologie croniche degenerative come il morbo di Alzheimer.

Accetto molto volentieri l’invito di Flavio Ponzio di presentare il video della mia canzone “Le badanti”, che sarà contenuta nel mio prossimo CD da solista “Un lupo” in uscita tra poco sui canali digitali (ormai stampare i CD, aimè, non ha più senso).

Il brano si riferisce al fenomeno italiano del “badantismo”, che negli ultimi anni ha assunto dimensioni veramente notevoli. L’assistenza agli anziani ormai è quasi completamente nelle mani e nelle capacità di accudimento di un vero esercito di donne straniere, provenienti soprattutto dai paesi dell’est. Si contano in Italia più di un milione e seicentomila badanti, con un incremento del 53% nell’ultimo decennio.

Alla base del fenomeno ci sono sicuramente i mutamenti sociali che hanno interessato l’Italia negli ultimi anni. In primo luogo l’invecchiamento della popolazione, con il conseguente aumento della richiesta assistenziale. Fino a qualche tempo fa questo tipo di assistenza era prevalentemente a carico delle donne di famiglia, oggi meno disponibili perché più impegnate dal punto di vista lavorativo. La crisi del sistema ideologico comunista dell’Europa dell’est ha fatto il resto, favorendo un flusso migratorio sempre più massiccio verso il nostro paese. Il badantismo è cresciuto in concomitanza al cambiamento della famiglia tradizionale italiana, sicuramente meno coesa di un tempo e in continua evoluzione (Fruggeri, 1997).

Alcuni studi hanno dimostrato in modo preciso come l’inserimento in famiglia di quelle che in termini anglosassoni vengono chiamate Migrant Care Workers (MCW) riduce il carico assistenziale dei famigliari, soprattutto in caso di patologie croniche degenerative come il morbo di Alzheimer.

Nel mio lavoro di psichiatra ho avuto occasione di conoscere diverse badanti, alcune bravissime e con capacità di accudimento davvero materne, altre un po’ più rigide e autoritarie, forse per l’educazione ferrea ricevuta sotto i regimi socialisti (o semplicemente per via dell’accento dei paesi dell’est, che non è certo morbido e suadente come l’accento sudamericano ad esempio o simpaticamente buffo come l’accento filippino). Spesso le badanti sono molto istruite, certune persino laureate in discipline che di solito non hanno nulla a che fare con l’assistenza geriatrica. Alcune arrivano in Italia con tutta la famiglia, altre arrivano sole lasciando nel paese d’origine il marito e i figli, a cui mandano periodicamente parte dello stipendio. Non di rado hanno alle spalle storie difficili di povertà, maltrattamenti da parte di uomini alcolizzati (nei paesi da cui provengono l’alcolismo è più diffuso tra i maschi rispetto ai paesi mediterranei) e in generale di vite abbastanza dure. Anche il lavoro della badante in Italia non è certo semplice. Assistere 24 ore al giorno persone non autosufficienti, con un solo giorno di riposo alla settimana non è una passeggiata, ma le ragazze sembrano reggere bene.

Mi ricordo una volta in cui un collega geriatra, per la gestione di un anziana psicotica molto impegnativa, richiese specificamente la ricerca di una “badantona”. Per fortuna il fenotipo slavo comprende una buona rappresentanza di donne robuste, oltre che solitamente molto avvenenti. E qui nascono i problemi, almeno in alcuni casi. L’inserimento nel un nucleo famigliare di una figura estranea risulta spesso problematico, se poi si tratta di una bella donna, le cose possono complicarsi ulteriormente.

Una volta ho visto in ambulatorio una donna che aveva superato abbondantemente la mezza età, letteralmente distrutta dalla fuga d’amore del marito con la giovane badante della suocera. Un’altra volta in reparto mi è arrivata una donna anziana che aveva sviluppato un delirio di gelosia nei confronti della badante del marito centenario, che ha necessitato l’introduzione di una terapia neurolettica. Per non parlare dei famigerati matrimoni tra l’anziano e la badante, con le preoccupazioni dei figli rispetto alle possibili conseguenze dell’amore sulla salute del babbo, che dietro hanno spesso sentimenti ben più avidi che riguardano questioni ereditarie. Insomma la relazione d’aiuto nel badantismo può destare un certo interesse anche nel clinico, per le svariate declinazioni che può assumere. Merita sicuramente la nostra attenzione anche perché, con la crisi economica e la disoccupazione dilagante i prossimi badanti potrebbero essere i nostri giovani laureati, magari in psicologia…

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BIBLIOGRAFIA:

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