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Primo, non curare chi è normale. Di Allen Frances – Recensione

RECENSIONE

Primo, non curare chi è normale

contro l’invenzione delle malattie

Di Allen J. Frances

 

“Icaro volò troppo vicino al sole e le ali di cera si sciolsero, facendolo cadere in mare.”

Primo-non-curare-chi-e-normale.-Di-Allen-Frances-Copertina-2013 - Immagine: © Bollati e Boringhieri 2013Un mea culpa rispetto agli errori fatti dai curatori del DSM-IV e alle relative conseguenze; un j’accuse forte e deciso rispetto alla psichiatria attuale, al suo inflazionismo diagnostico, alla pericolosità delle diagnosi di moda, all’ingenuità dell’entusiasmo di psichiatri, psicologi e operatori della salute mentale che hanno plaudito i nuovi criteri con l’idea di avvicinarsi di più alla “verità” senza porsi il problema dei rischi.

Il DSM-V è appena uscito e già comporta una mole di critiche e una serie d’allarmi che accenderanno il dibattito scientifico e quello filosofico dei prossimi anni. I DSM erano libri anonimi e tentativi poco considerati di unificare il linguaggio psichiatrico e la nosografia fino al DSM-III, che diventò di fatto un’icona culturale, un best-seller, in pratica una “bibbia” della Psichiatria. La motivazione sostanziale è che con i criteri selezionati tracciava il confine tra normalità e malattia mentale in modo netto, chiaro, e da lì a cascata tutte le conseguenze riguardo alle terapie, alla ricerca, alle norme assicurative, sociali, circa l’invalidità, fino a contribuire alla speculazione filosofica tra normale e malato in modo decisivo.

Il DSM-V è stato a lungo atteso, e nasceva con una grande ambizione, quella di introdurre un cambiamento di paradigma nella diagnosi psichiatrica. C’era l’obiettivo irrealistico di trasformare la diagnosi psichiatrica basata su criteri clinici, in una diagnosi “certa”, supportata da elementi esterni di validazione diagnostica, suggeriti dalle entusiasmanti scoperte delle neuroscienze. Un’idea fantastica che ha incontrato scogli insormontabili, e che si è arresa alla constatazione che la meta è ancora troppo lontana. Il secondo obiettivo ambizioso era allargare i confini della diagnosi dando una prospettiva evolutiva alla malattia, cercando di identificare i disturbi ai loro esordi, per applicare una terapia preventiva. La terza ambizione del DSM-5 era di rendere la diagnosi psichiatrica più agevole, quantificando numericamente i disturbi, invece di dar loro semplicemente un nome, introducendo valutazioni dimensionali già ampiamente usate nella pratica clinica.

Il curatore del DSM-IV, Allen Frances, si racconta al lettore in questo libro in modo chiaro e diretto, con lo scopo di alimentare la critica all’attuale sistema diagnostico, a tutto l’impianto del DSM-V, di gettare un allarme ad ampio spettro, che stimoli chi lavora nell’ambito della salute mentale ad uscire da un’eventuale posizione di passività intellettuale. È un mea culpa rispetto agli errori fatti dai curatori del DSM-IV e alle relative conseguenze; è un j’accuse forte e deciso rispetto alla psichiatria attuale, al suo inflazionismo diagnostico, alla pericolosità delle diagnosi di moda, all’ingenuità dell’entusiasmo di psichiatri, psicologi e operatori della salute mentale che hanno plaudito i nuovi criteri con l’idea di avvicinarsi di più alla “verità” senza porsi il problema dei rischi, agli enormi e cinici interessi che muoverebbero la macchina da dietro le quinte (come le aziende farmaceutiche e i loro interessi sui farmaci, le assicurazioni, i professionisti compiacenti). Tutto l’impianto accusatorio trae credibilità dal fatto che a raccontarlo è un uomo che per tanti anni è stato al vertice della Psichiatria che conta, dell’American Psychiatric Association, che conosce cosa accade nella stanza dei bottoni, responsabile addirittura della task force del DSM-IV.

Il libro si snoda in tre passaggi fondamentali: una prima parte in cui l’autore si propone di riportare al centro del dibattito il tema della normalità, evidenziando quanto siano arbitrari i confini di tale definizione, di come risenta della cultura, delle mode, degli interessi. Né i dizionari, né la filosofia, né la statistica, né la medicina, né la psicologia sono in grado di delimitare il campo del significato del termine, che viene pericolosamente eroso dall’avanzare dei confini della malattia mentale. Un dilemma tra il concetto di “sano” e “malato”, tra resilienza e fragilità, che sconfina nel filosofico, che poggia sulla stessa antitetica idea di malattia come continuum rispetto alla normalità, o come frattura netta rispetto al “normale”. La logica conseguenza è l’inflazione diagnostica, come ingenua vittoria della scienza sulla natura, come conclusione del fatto che se poniamo la diagnosi a tutti i costi come assunto, troveremo facilmente i criteri che legittimino tale postulato. Sullo sfondo troneggiano gli interessi delle aziende farmaceutiche che avrebbero tutto l’interesse per incrementare esponenzialmente il mercato per i loro farmaci, con l’appoggio di professionisti compiacenti, ma ancor di più d’ingenui operatori che con entusiasmo sostengono inutili e poco scientifiche rivoluzioni diagnostiche.

La seconda parte è una ricostruzione storica dei più spettacolari errori diagnostici dell’umanità, un’analisi degli errori attuali e una previsione circa quelli futuri, attraverso un’attenta revisione sul metodo delle diagnosi.

La terza parte è un piano d’intervento per contenere l’inflazione diagnostica, contrastare il potere delle aziende, della pubblicità forviante, per domare gli psichiatri e il DSM. Frances propone dei suggerimenti e delle strategie per favorire una consapevolezza diffusa circa il concetto di normalità e una collaborazione tra paziente e curante allo scopo di evitare le principali nefaste conseguenze, che sono, sia quella di curare impropriamente e dannosamente una persona che malata non è, sia di sottrarre risorse fondamentali per quella quota minoritaria di pazienti che sono davvero malati, ma male assistiti nella maggior parte dei casi. Nel dubbio, tuttavia, il monito dell’autore d’ippocratica memoria è Primum non nocere”.

A parer mio il libro ha il grande merito di portare nuovamente il dibattito scientifico, ma anche filosofico, sul concetto di “normalità”, mettendo in guardia e puntando una luce sui molti angoli bui di chi ha tutto l’interesse, talvolta solo per eccesso di entusiasmo, nello psichiatrizzare molti comportamenti umani, prospettando la necessità di una cura opportuna che dia lavoro e guadagni per tutti. L’autore usa indubbiamente toni catastrofici e sembra voler svegliare tutti i professionisti della salute da un grande sonno intellettuale, probabilmente in opposizione ad un supposto rischio di omologazione e ad una crescente e poco rigorosa inflazione diagnostica vista nel DSM-V.

Indubbiamente il nuovo DSM sembra il solito enorme compromesso tra i poteri economici in campo, tra le spinte di politica sanitaria (assicurazioni, corporazioni di psicologi, psichiatri biologisti, psicoterapeuti, operatori dei servizi sanitari) e le dispute culturali che alimentano risvolti sociali, e che per stessa ammissione dell’American Psychiatric Association non ha potuto soddisfare le aspettative con cui era atteso. Lo sguardo del libro è comunque verso un bene comune che è quello della salute dei nostri pazienti, perché la riflessione stimolata serva a costruire una comunità scientifica più affidabile nelle diagnosi e nelle terapie, e li protegga dai nostri errori.

MERCOLEDÌ 13 NOVEMBRE STATE OF MIND INTERVISTERÀ IL PROF. FRANCES. CHI VOLESSE PORRE DELLE DOMANDE PUÒ SCRIVERE ALLA REDAZIONE.

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BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE DELLA RECENSIONE:

Filippo Turchi: Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore a contratto presso l’Università di Firenze. Socio SITCC e SIP. Docente presso la Scuola Cognitiva di Firenze.

Perchè non possiamo essere vegetariani – Quel che una pianta sa – Recensione

Recensione del libro

Quel che una pianta sa – Guida ai sensi nel mondo vegetale

di Daniel Chamovitz

Raffaello Cortina Editore (2013)

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Quel che una pianta sa - RecensioneAll’uscita dal cinema, impressionata dalla visione di Babe – Maialino Coraggioso, giurai a me stessa che non avrei mai più mangiato carne in vita mia. Avevo 10 anni.

I miei buoni propositi si arenarono di fronte ad un gustosissimo panino alla mortadella, la sera stessa. La questione morale ha sfiorato la mia anima di carnivora impenitente in qualche successiva occasione, ma la piacevole scarica di dopamina provocata dall’assunzione di una buona bistecca è sempre riuscita a sedare eventuali sensi di colpa.

Diventare vegetariani è una scelta che considera oltre che aspetti salutisti ed ecoambientalisti, anche aspetti etici; significa non voler prendere parte ad un processo che comporta lo sfruttamento, la sofferenza e la morte degli animali, ritenuti degni dello stesso rispetto dovuto agli esseri umani. Chi sbeffeggia questa scelta sostenendo che anche l’insalata soffre si sente rispondere che, a differenza degli animali, i vegetali, pur essendo esseri viventi, non provano dolore né possiedono un’auto-coscienza poiché sono sprovvisti di sistema nervoso e soprattutto di un cervello. Vero. Eppure le piante rappresentano quella che potremmo definire una forma d’intelligenza rudimentale; non avranno un cervello, ma sono straordinariamente simili a noi in più di un aspetto, più di quanto possiamo immaginare.

Quel che una pianta sa – Guida ai sensi nel mondo vegetale è un curioso libro di divulgazione scientifica in cui il biologo Daniel Chamovitz svela le similitudini tra il sistema nervoso umano e gli apparati attraverso cui le piante percepiscono ed interagiscono con il mondo, illustrandone le significative somiglianze riscontrabili a livello genetico.

Leggendo il testo si scopre un mondo sconosciuto che ci fa sentire più vicini alla natura. Che le piante siano in grado di percepire la luce è una nozione da scuola elementare che tutti quanti abbiamo imparato; ma scoprire che le piante “vedono” proprio come noi lascia stupefatti: le piante sono infatti capaci di distinguere tra luce rossa, blu, rosso lontana e raggi UV e reagiscono ad essa traducendo i segnali luminosi ovviamente non in immagini, ma in indicazioni utili per la loro crescita; allo stesso modo rilevano sostanze chimiche volatili nell’aria (es. i feromoni) e convertono questo segnale in una reazione fisiologica; in altre parole, anche le piante sono dotate di olfatto. Sono però prive di udito: nonostante la credenza popolare, non è vero che la musica classica ne favorisce la crescita, con buona pace della Dott.ssa Dorothy Retallack (1973) che dedicò la sua vita a dimostrare quanto i Led Zeppelin fossero nocivi ai gerani (e alle persone). I vegetali non hanno, infatti, bisogno di “orecchie” per orientarsi nel mondo, poiché sanno sempre dove si trovano grazie ad un sistema propriocettivo straordinariamente simile a quello umano che permette loro di reagire alla forza di gravità (distinguendo l’alto dal basso) e di riconoscere la posizione in cui si trovano le varie parti quando si muovono.

Leggendo Quel che una pianta sa non si può non rimanere affascinati da quanto condividiamo con il mondo vegetale. Chamovitz ci accompagna in uno straordinario viaggio tra esperimenti e curiosità che ci lasciano a bocca aperta e ci fanno sentire in sintonia con le piante, che come noi soffrono il jet leg (“ma non diventano irritabili”) e quando “si fanno male” producono metil salicilato (sì, avete capito bene, l’aspirina!).

L’insalata non avrà un cervello, ma è estremamente consapevole del mondo che la circonda: dell’ambiente visivo e dei profumi nell’aria, della forza di gravità e dei tocchi che riceve, ha memoria del proprio passato e modifica la propria fisiologia in base a tali ricordi e alle informazioni che riceve dall’esterno. Alla luce di tutto ciò, forse anche l’insalata merita il nostro rispetto? E se sì, allora l’unica soluzione è diventare fruttariani? Lascio a voi risolvere il dilemma etico.

Io d’ora in avanti guarderò la parmigiana della mia mamma con occhio diverso. Certo è che poi saper resistere non è mica da tutti: parmigiana, m’hai provocato e io te distruggo…con un po’ di senso di colpa…ma te distruggo comunque.

 

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La gravidanza e la relazione oggettuale – Recensione

 

Recensione del libro:

La Gravidanza e  La Relazione Oggettuale. Un nuovo approccio alla maternità

di Roberta Mancinelli

Armando Editore (2013)

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La Gravidanza e  La Relazione Oggettuale. Un nuovo approccio alla maternità  di Roberta Mancinelli  Armando Editore (2013). -Immagine: CopertinaLa relazione oggettuale ha inizio fin dalla vita intrauterina e un nuovo approccio clinico sulla gravidanza ci può permettere di aiutare la donna e di prevenire la patologia mentale. L’obiettivo è quello di creare un metodo scientifico che tenga conto della psicoanalisi, del significato del sogno e del suo rapporto con il sonno e con la dinamica mentale.

La gravidanza e soprattutto la nascita hanno sempre rappresentato un motivo di grande interesse sia collettivo sia individuale e le recenti ricerche scientifiche hanno talvolta eccessivamente enfatizzato un evento che non è solo biologico poiché assolve un compito fondamentale per l’umanità.

Come l’autrice afferma all’inizio del libro, la relazione oggettuale ha inizio fin dalla vita intrauterina e un nuovo approccio clinico sulla gravidanza ci può permettere di aiutare la donna e di prevenire la patologia mentale. L’obiettivo è quello di creare un metodo scientifico che tenga conto della psicoanalisi, del significato del sogno e del suo rapporto con il sonno e con la dinamica mentale.

Il primo capitolo del libro riguarda la genesi della teoria psicoanalitica postfreudiana, ponendo l’accento sull’importante funzione dell’ambiente e sui diversi modelli operativi che caratterizzano le differenti specie animali, compreso l’uomo. Si parte citando gli studi di Darwin e la complessità degli schemi di comportamento specie specifici, per poi passare alla visione tassonomica di Lorenz, sulle anatre e le oche, e a quella di Timbergen sui gabbiani. Ogni specie mostra comportamenti specifici nei confronti della locomozione, del nutrimento, nel  corteggiamento, nell’accoppiamento e nell’allevamento.

L’autrice procede poi descrivendo nel dettaglio gli aspetti che influenzano sensibilmente lo sviluppo nel ciclo vitale, citando Lorenz e il suo celebre studio sull’imprinting, arrivando poi a Bowlby, alla teoria dell’attaccamento e alla psicoanalisi.  Vengono descritti diversi studi nei quali è stato studiato il comportamento di attaccamento dei primati e di altre specie animali fino ad arrivare all’archeantropologia e alla legge della ricapitolazione, in base alla quale la mente umana ricapitola l’ontogenesi e la filogenesi non solo per lo sviluppo del pensiero ma anche nello sviluppo sensomotorio.

La parte conclusiva del capitolo si focalizza sul tema della rivoluzione androcentrica e dello stupro primordiale, dove l’evoluzione dell’uomo dalla scimmia si riproporrebbe in quella dei rapporti tra l’uomo e la donna e nell’origine prima della civiltà. In particolare l’autrice si sofferma nel descrivere l’ipotesi  di un’organizzazione primitiva di tipo matriarcale dove la donna sarebbe stata la fondatrice e la prima portatrice di cultura. Inoltre man mano che le femmine acquistavano la postura eretta (prima dei maschi), i loro genitali rimanevano sempre più nascosti, rendendo il coito a tergo piuttosto complesso. Il maschio si sarebbe sentito sempre più escluso, non solo dalla vita sociale, ma anche dal rapporto sessuale con le femmine.

In tale contesto appare presumibile che l’uomo abbia cominciato ad accoppiarsi ventralmente usando la violenza (infatti tale postura non poteva essere accettata dalle femmine, poiché era segnale radicato di aggressione). Probabilmente questo evento, indicato appunto con il termine di stupro primordiale, ha segnato un periodo di conflitto, la cui soluzione sarebbe poi stata fondamentale per il futuro sviluppo dell’organizzazione sociale e della civiltà.

Il libro procede con un capitolo che fornisce alcuni accenni dello sviluppo psicomotorio, dello sviluppo del linguaggio, della puericultura e delle malattie genetiche dell’infanzia. Il capitolo termina con un approfondimento specifico della patogenesi e delle crisi focali epilettiche.

Segue poi l’ultimo capitolo che affronta la psicopatologia delle emozioni ed il comportamento di attaccamento con un’analisi dettagliata dell’angoscia di separazione e delle varie prospettive e modelli di riferimento secondo la teoria della psicoanalisi.

L’autrice affronta in maniera dettagliata la paura e l’ansia di separazione confrontando la teoria freudiana con le altre teorie scientifiche. Viene sottolineata l’importanza dell’ansia di separazione durante la vita adulta e le connessioni che essa può avere con i membri parentali. Il grande contributo di Melanie Klein è stato quello di aver postulato la capacità individuale di attribuire le caratteristiche proprie agli altri e questo si verifica nelle primissime fasi dello sviluppo normale, con effetti sullo sviluppo della personalità successiva.

La parte più significativa su chi siamo è svolta dalle nostre figure di attaccamento, che ci consentono di comprendere le figure successive di attaccamento nel corso della vita. Nella pratica clinica il compito dell’analista è proprio quello di trovare la strategie da perseguire per far sì che le percezioni che il paziente ha nei confronti del terapeuta gli permettano di comprendere il suo modello operativo, che prende il nome di “traslazione” ed è proprio grazie a questa che vengono alla luce i modelli operativi dei primissimi anni di vita.

Segue un’analisi delle collera e dell’angoscia con una descrizione di collera funzionale e collera non funzionale. Gli psicoanalisti e altri studiosi che hanno adottato il criterio teorico basato sulle relazioni oggettuali , hanno considerato per molti anni l’equilibrio tra la disposizione ad amare, ad arrabbiarsi e ad odiare le figura di attaccamento come uno dei criteri fondamentali per fare una valutazione clinica della persona. In un suo studio la Klein ha dimostrato che più i bambini erano attaccati alla figura materna e più forte era la loro ostilità inconscia nei confronti della madre stessa. La collera e l’ostilità verso una persona amata talvolta vengono rivolte altrove, in tal caso si parla di spostamento o della tendenza di attribuire l’ira altrove.

Il libro si sofferma poi sulla depressione materna, post-partum e sulle conseguenze che essa può avere sui figli, sembra infatti che tali ragazzi crescendo presentino maggiore ansietà e disturbi del comportamento in genere. I figli tendono inconsapevolmente a identificarsi con le figure genitoriali e quando a loro volta diventano genitori tendono a mettere in atto quanto appreso nei modelli di interazione.

Proprio per aiutare le donne in gravidanza, l’autrice conclude il libro descrivendo una ricerca condotta con il Prof.re Carlo Bonromeo, Ordinario di Psichiatria Psicodinamica presso la facoltà di psichiatria di Perugia. La ricerca ha coinvolto complessivamente centro donne in gravidanza, per un totale di dodici/tredici incontri prima del parto ed altri successivi a questo. Le scopo dei primi incontri è stato quello di lavorare sul corpo in movimento, a seconda delle problematiche che ogni gestante presentava. Il movimento, afferma la dott.ssa, distoglie l’ansia.

Durante gli incontri, si è proceduto con il racconto del materiale onirico e con lezioni pratiche legate ad aspetti legislativi sul tema della tutela materno-infantile, cure al neonato, cura del corpo in gravidanza, attività lavorativa, sport in gravidanza ecc. Questo approccio predilige come metodo quello osservativo; l’osservazione è considerata una parte integrante della conoscenza, della ricerca e come afferma l’autrice, osservare significa avvalersi di tre aspetti fondamentali “Quello che si vede, quello che si è, quello che si è visto e che è dentro di noi”.

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GRAVIDANZA & GENITORIALITA‘ – ATTACCAMENTOPSICOANALISI

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L’attesa. Il percorso emotivo della gravidanza. di A. Pellai (2013) – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA: 

Cognitive Reappraisal, l’efficacia dipende dal contesto!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Saper regolare le proprie emozioni è importante ma in alcune circostanze può essere poco utile. Il cognitive reappraisal, letteralmente rivalutazione cognitiva, prevede il riconoscimento del fatto che ciò che proviamo dipende non tanto dalle situazioni in cui ci troviamo bensì dal significato che gli attribuiamo, cioè dai pensieri che formuliamo rispetto al contesto in cui ci troviamo, e che è possibile modulare e gestire gli stati emotivi grazie alla riformulazione dei pensieri che hanno elicitato le emozioni stesse.

REAPPRAISAL SU PSICOPEDIA

Secondo un recente studio, l’utilità di questa tecnica sembra dipendere dalla controllabilità, o meno, delle situazioni che generano stress. La rivalutazione cognitiva, utile nei contesti incontrollabili (cioè quelli in cui possiamo solo regolare noi stessi ma non abbiamo modo di influenzare il contesto), sarebbe invece poco utile quando i fattori di stress responsabili dell’attivazione emotiva sono sotto il nostro controllo (ad esempio problemi sul lavoro a causa di scarso rendimento).

I ricercatori hanno reclutato un campione di persone che avevano recentemente subito un evento di vita stressante, ai quali hanno somministrato un questionario online per misurare i loro livelli di depressione e di stress; circa una settimana dopo, in laboratorio è stata testata la loro abilità di cognitive reappraisal.

I risultati dimostrano che la capacità di regolare la tristezza è associata a un minor numero di sintomi depressivi, ma solo per i partecipanti il cui obiettivo era un fattore di stress incontrollabile, un coniuge malato per esempio. Quando il fattore di stress era più controllabile la rivalutazione cognitiva non è stata efficace nel limitare la reazione depressiva.

Questi risultati suggeriscono che nessuna strategia di regolazione delle emozioni è sempre adattiva, ma che è necessario utilizzare interventi terapeutici mirati a seconda del contesto che genera stress; se il cognitive reappraisal risulta efficace nel caso di contesti più incontrollabili, in quelli in cui si ha maggiore controllo potrebbe essere più utile utilizzare il problem solving o la ricerca di supporto relazionale.

I ricercatori hanno in programma di approfondire l’uso di altre strategie di regolazione delle emozioni (l’accettazione, la distrazione, la soppressione) in base hai contesti in cui l’individuo si trova.

LEGGI:

REAPPRAISAL

SCIENZE COGNITIVE – RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’estate di Giacomo di Alessadro Comodin (2011) – Psicologia Film Festival

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL

estate di giacomo pff

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Videocommunity e l’Hub Multiculturale Cecchi Point vi invitano al

3° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Mercoledì 13 Novembre ore 21,00

presso il Cecchi Point, via Antonio Cecchi 17

con la proiezione del film

L’ESTATE DI GIACOMO

di Alessandro Comodin (2011, 75′)

Ingresso libero

Il Psicologia Film Festival è un’iniziativa nata nel 2009 dalla collaborazione fra la Biblioteca Kiesow di Psicologia e alcuni ragazzi del collettivo.

Nato come semplice “appendice” alle lezioni di alcuni docenti, oggi l’obiettivo di questa rassegna, giunta alla quinta edizione, è di creare momenti di confronto e di dibattito non solo per gli studenti di psicologia o per gli esperti del settore ma per tutta la cittadinanza, a partire dalla proiezione di pellicole di giovani autori emergenti, poco distribuiti o poco visti dal grande pubblico. Il festival, grazie alle numerose collaborazioni con altre realtà del territorio torinese, è in continua espansione: per l’edizione 2013-14 sono previste dodici proiezioni fra film e documentari in 5 location differenti!

Il Film

Siamo nella campagna friulana. È estate. Giacomo, diciotto anni, rimasto sordo da piccolo, e Stefania, sua amica d’infanzia, sedici anni, vanno al fiume per un picnic. Come in una fiaba incantata, si smarriscono nel bosco per ritrovarsi in un posto paradisiaco, soli e liberi, durante un pomeriggio che sembra durare il tempo di un’estate. Un apprendistato dei sensi: non ci si tocca, eppure si è tutti pelle, respiro e soffio. La sensualità accompagna i giochi da bambini, finché Stefania e Giacomo non sentono che l’avventura, che hanno appena vissuto, non è altro che un ricordo dolceamaro di un tempo perduto.

Una storia d‘amore e d’iniziazione alla vita adulta, dove il presente si mescola al ricordo e il passato risorge con la chiarezza e lo stupore della prima volta. I ricordi non sono solo ciò che ciascuno di noi porta in sé e che improvvisamente ritrova. “Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo” (Cesare Pavese,”Stato di Grazia” in Feria d’agosto, 1946).

In collegamento skype, parteciperà alla serata e interverrà prima e dopo la proiezione il regista Alessandro Comodin.

Il regista

Alessandro Comodin, originario di Teor, ha studiato lettere a Bologna e Parigi, dove, come lui stesso ammette, passava il tempo alla cineteca. Dopo la laurea riesce ad entrare all’INSAS e proseguire gli studi di cinema. Comodin, che tuttora si divide tra Francia e Italia, ha visto il suo documentario La febbre della caccia entrare nella sezione cortometraggi della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, unico regista italiano della sezione. Si tratta di un documentario sulla caccia, i suoi rituali, i gesti e i suoi silenzi.

Vi aspettiamo numerosi

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

Intervista a Sananda Maitreya – Musica e identità

 

Il Dr. Gaspare Palmieri intervista:

Sananda Maitreya

LEGGI L’INTERVISTA ORIGINALE IN INGLESE

 

Sananda . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_17

L’intervista per State of Mind, che Sananda ha simpaticamente definito “Esame di psicologia!”, è stata l’occasione per farci raccontare la sua interessantissima storia e per parlare degli effetti della musica sulla mente umana. 

I radicali cambiamenti di rotta hanno sempre un certo fascino. Circa cinque anni fa mi è capitato di assistere, al Vox di Nonantola, al concerto di Sananda Maitreya, un artista americano dotato di una sublime voce soul, che fino al 2001 era conosciuto nel mondo discografico come Terence Trent d’Arby. Per capirci, il suo primo disco Introducing the Hardline According to Terence Trent D’Arby (1987) ha venduto più di tredici milioni di copie e contiene canzoni straordinarie come Dance little sister, If you let me stay, Sign your name…

Quella sera al Vox, non suonò neanche una delle hit che l’avevano reso famoso, ma fece un grande concerto pieno di energia e di nuove canzoni che costituiscono quello che Sananda definisce il Post Millennium Rock. Oltre al nome, l’artista ha cambiato anche continente e ora vive a Milano con la moglie italiana ed i loro 2 figli.

L’intervista per State of Mind, che Sananda ha simpaticamente definito “Esame di psicologia!”, è stata l’occasione per farci raccontare la sua interessantissima storia e per parlare degli effetti della musica sulla mente umana. 

Ciao Sananda. La musica che stai suonando negli ultimi anni, il Post Millennium Rock (PMR) ha a mio avviso un sapore molto liberatorio e di creazione gioiosa. Ci racconti come nascono queste nuove canzoni?

Grazie per il vostro interessamento. Intendiamoci, la mia reazione iniziale di fronte alla vostra richiesta di intervista è stata “Oddio, allora si sono accorti che sono pazzo!” (risata ndr). Bene, ora che ho vuotato il sacco, possiamo iniziare. Fortunatamente di questi tempi come pazzo non mi sento solo, infatti la sala d’attesa è piena, molto più che  in passato.

Per quanto riguarda il mio processo creativo, fin da bambino ho sempre sentito nella mia testa musica e parole. Il più delle volte la musica esce ESATTAMENTE dal nulla, per esempio ti ritrovi in bagno e all’improvviso compare l’idea che stavi cercando. Si materializzano delle idee che hanno in sé musica e testo. Di solito riesco a buttare giù un ritornello, uno spunto per il testo e il riff principale per la chitarra e la parte del basso. Posso capire dalla prima versione se sarà un brano dove lo strumento principale sarà la chitarra oppure invece la tastiera. Il ritmo del pezzo è un dato di fatto, che arriva insieme alla melodia.

Io mi considero uno dei messaggeri della musica, come un postino che consegna la posta. Per questo motivo molti compositori sono spesso visti come dei “mistici”, perché consapevoli di quel processo che si verifica tra quello che è percepito come il velo tra i mondi. Questo può essere meramente ridotto a un processo biochimico, nonostante ciò è sempre una grande meraviglia da vedere sia a livello emotivo che personale.

Finora non ho mai considerato di “scrivere” delle canzoni, dal momento che io ascolto quello che mi arriva in quei momenti e lo capitalizzo e lo rifinisco con le semplici abilità che ho accumulato in tutti questi anni di musica. Al massimo posso dire di essere “co-autore” delle canzoni, grazie alla mia percezione, insieme allo spirito della Musica e alle Muse mandate per proteggere e per assistere i creativi e gli spiriti erranti come me.

La musica è un deposito di contenuti emotivi. Il PMR (Post Millennium Rock) è nato in un periodo di grande difficoltà psicologica e il fatto di usare la musica per esprimere il dolore e le angosce è uno dei motivi per i quali noi uomini abbiamo bisogno della musica stessa. Anche se d’altro canto oggi è venuto il tempo di rimuginare meno, di non essere più depressi, ma di celebrare e gioire di più. Ce l’abbiamo fatta! Brindiamo, a più gioia nelle nostre vite! Certamente avremo la sensazione di vivere con più gioia se riusciremo davvero ad accoglierla. Noi uomini in fondo non abbiamo pregiudizi nei confronti della gioia.

Il tuo stile musicale è cambiato negli anni, ma la tua incredibile voce resta come una sorta di ponte tra la tua vecchia identità e il nuovo Sananda. Le reazioni emotive alle esperienze di vita possono influenzare la qualità vocali.  Pensi che la tua voce sia cambiata negli anni? 

State cercando di sedurmi con domande credibili! Ascoltami, è semplice. Il corpo umano è un’antenna elettromagnetica, che invia e riceve informazioni sotto forma di dati elettrici. La voce è l’amplificatore e il filtro in grado di misurare molto accuratamente lo stato mentale e fisico. Come filtro è anche in grado di registrare e di accumulare informazioni (l’esperienza) che poi viene a sua volta filtrata ulteriormente attraverso l’amplificazione vocale.

In poche parole la voce è un barometro dello stato di coscienza, con cui è in stretto contatto. E’ in grado di immagazzinare e cancellare grandi quantità di informazioni. La gola e i polmoni sono veicoli della voce. Io canto come un’antenna con un’intenzione verso un mood e una tonalità. In altri termini io sono lì come un cantante che ascolta cosa viene cantato, non solo che canta.

A un certo punto non canto più le canzoni, ma è come se le canzoni stesse mi cantino, perché io ci sono comunque e cos’altro posso fare se non essere presente e pronto “ad essere cantato”. Più i cantanti invecchiano, più si rendono conto di potersela cavare cantando molto meno, ma ottenendo di più. Questo l’ho imparato studiando due dei miei più grandi maestri: Miles Davis e Frank Sinatra. E se il mio stile musicale è cambiato, non ha tanta importanza, perché vuol dire che gli è stato dato lo spazio per crescere. A cosa serve il cambiamento se non alla crescita?

Ho letto che la tua musica è stata usata come terapia in un Trauma Center di Tokio, specializzato in lesioni cerebrali. Ci racconti qualcosa in più? In che modo i medici usano la tua musica?

L’ho scoperto da un amico giapponese che ho incontrato come fisioterapista. Una volta ho avuto bisogno per un problema a un ginocchio e ho scoperto questo fantastico dottore che mi ha raccontato dell’uso della mia musica in quel periodo nel Trauma Center. Ho trovato davvero interessante che in particolare il mio disco Neither fish nor Flesh fosse d’aiuto nella stabilizzazione di gravi traumi. Considerato i “danni cerebrali” che io stesso ho subito per via della reazione a quel progetto da parte della Sony, mi sembrava stranamente gratificante oltre che ironico.

Mi hanno raccontato che la canzone She Kissed Me (ndr la seconda traccia dell’album “Symphony Or Damn”) ha avuto effetti sul risveglio dal coma per alcune persone . La musica è stata inventata per confortare i cuori selvaggi ed è quello che dovrebbe fare. E sono sempre grato e onorato di essere parte di un’esperienza di cura o guarigione, ovunque venga realizzata e da parte di chiunque. Non ho pregiudizi rispetto a rimettere insieme i pezzi della mente, che è ciò in cui consiste la guarigione. Potrei andare avanti da qui alla fine dei miei giorni a scrivere di come la musica ha rapito, rilassato e davvero salvato la mia anima.

Sono sempre più noti ed evidenti gli effetti benefici della musica sul cervello. Ci puoi raccontare qualche episodio della tua vita in cui la musica ti ha aiutato veramente?

Volentieri! Esempio numero uno, quando per la prima volta ho ascoltato She loves you dei Beatles, la mia anima si è stabilizzata. Mi ricordo di aver ascoltato A hard day’s night e di avere visto il mio futuro. E’ successa la stessa cosa quando ho ascoltato per la prima volta Poison Ivy dei Coasters e poi per un periodo dalla grande luce, tutto attorno a me si è fatto scuro per un momento, nel periodo in cui stavo ricevendo l’indottrinamento religioso nella mia adolescenza (ndr a casa gli era impedito ascoltare certa musica).

Successivamente Stevie Wonder ha aperto la mia mente a nuovi miracoli, i Jackson Five hanno avuto una parte importante e le lezioni di James Brown sono state interminabili. La musica Gospel e Country mi ha dato tanto, come anche il Blues, ma il mio cuore, sempre piuttosto ribelle a conformarsi alle convenzioni sociali, mi ha sempre portato verso il Rock, il Pop e le loro più ampie possibilità. Il mio aspetto meticcio mi dà una sorta di diritto ad avere legittimo accesso a tutti i generi musicali che sono compresi nelle mie linee di sangue, e non solo a quella musica che, con i suoi limiti, fa sentire gli altri più a proprio agio, mantenendo tutte le cose al loro posto. Ho sempre adorato e idolatrato l’elemento “Fuck you!” aggressivo del Rock e amo giocare con tutti i “fuochi” che mi sono stati donati. Amo mischiare la musica degli africani e dei vichinghi, e cercare di svegliare la gente. Chi se la sente lo fa e chi non se la sente può solo portare la birra! Ricordo di aver attraversato un brutto periodo di depressione in passato e di essere andato avanti a cercare ogni giorno dei motivi per continuare il viaggio in questo labirinto infernale.

Mi sono ritrovato nel mio soggiorno a mettere in loop (sì ancora loro) i Beatles, nel film “Help”, che suonavano “You’re going to loose that girl”. E durante quel lungo week-end credo di aver riavvolto e riascoltato quella canzone per circa cento volte, come se quella fosse la medicina di cui il mio cuore aveva bisogno. E sapevo che, come ha scritto il maestro poeta Robert Frost, “I had miles to go before I sleep”, “avevo miglia da percorrere prima di addormentarmi”. C’è un qualcosa nella musica dei Beatles che tocca i crepacci più profondi della mia vita, insieme a quella di pochi altri artisti, la loro musica è carne per le  mie ossa.

Se fossi un musicoterapeuta con la possibilitaà di lavorare con persone affette da disturbi psicologici ed emotivi (come ansia e depressione), in che modo utilizzeresti la musica? Che tipo di musica? Faresti solo ascoltare musica o anche suonare o comporre canzoni insieme?

Tutta la musica è adatta. Ad esempio per l’esercizio fisico, che è la forma più economica e valida di terapia, va bene tutta la musica che ti fa muovere il culo! Vai, accendi la musica e soprattutto fai esercizio!

Per il rilassamento invece, i suoni che assomigliano di più alla natura sono i migliori. La musica elettronica è perfetta per la corteccia cerebrale in quanto si relaziona alla funzione neurologica e aiuta a diminuire la tensione muscolare.

Per questioni di stress legato allo stomaco, gli strumenti a corda più bassi come il violoncello e la viola sono fantastici. La musica con molti bassi, come il Reggae, va bene per alleviare le tensioni nella parte bassa del corpo. I violini aiutano a rilassare l’inquietudine mentale e sono utili a mettere in comunicazione corpo e mente. I flauti favoriscono lievi esperienze extracorporee, come il “lasciare andare la mente”, mentre gli altri strumenti a fiato sono ottimi per la tonificazione e il mantenimento del corpo in relazione allo stato emotivo. I sassofoni incoraggiano l’introspezione attiva e le trombe ti svegliano e favoriscono il movimento del corpo in sintonia con la volontà. In ogni caso il mio preferito è il kazoo, inventato invece per stimolare l’attività sessuale (ride). E ancora, niente batte il naturale suono della natura: il soffio del vento, lo scorrere delle acque, il fruscio delle foglie. E giuro che il suono del canto delle cicale, può essere il più terapeutico di tutti.

Quale pensi sia il ruolo dell’arte e della musica nella salute mentale e nel mantenere un equilibrio psicologico?

Credo che il ruolo dell’arte, in ogni sua forma, musica o altro, sia essenziale nel mantenere il funzionamento ottimale della “macchina uomo”.

Te lo dico chiaramente, ciò di cui ho sofferto in passato, e ancora ho a che fare con alcune conseguenze, è stato il Disturbo Post Traumatico da Stress. Sono dovuto venire a patti con questa realtà e affrontarla di conseguenza, senza usare psicofarmaci. Non perché sia un moralista, ma perché non ne ho ancora trovato uno veramente buono! Non sono contro i farmaci. Sono contro i farmaci che non funzionano per me, il che mi sembra abbastanza giusto.

Mi è stato consigliato nel corso degli anni da più persone di iniziare a dipingere. Non ho mai capito perché, visto che non sono capace di disegnare qualcosa che valga un centesimo. Eppure questo mi ha fatto capire che la mia mente fosse ancora limitata al concetto di che cosa fosse in sé l’Arte, di cosa sia stata e di cosa potrebbe essere in futuro. Alla fine mi sono messo a dipingere, sono uscito dalla tana del lupo, non sono bravissimo, ma ho qualcosa da esprimere, e il seguire questa nuova attività mi ha fatto intraprendere un viaggio che ha come obiettivo il salvare qualunque cosa a cui può condurre il dipinto stesso. La linea di fondo è che mi piace davvero creare e sono grato di essere nella posizione di potermi permettere di fare ciò che amo e di assecondare questo bisogno. Sono giunto alla conclusione che, se devo dire la verità di fronte a Dio e mammona, la maggior parte della nostra istruzione fa schifo.

Siamo in grado di ricordare una serie di fatti, in qualsiasi momento, ma la giovinezza dovrebbe essere soprattutto gioco, esercizio creativo e la soluzione condivisa dei problemi. Se vogliamo davvero un futuro più luminoso, quello che le nostre speranze promettono, faremmo bene a liberare i nostri bambini dal peso della nostra educazione, fargliela reinventare in prima persona e farli studiare e andare avanti con quella. 

Si può imparare l’aritmetica online. La scuola riguarda l’imparare a muoversi nella società e a negoziare l’interazione sociale e per questo dovrebbe riguardare soprattutto il modo di divertirsi. I bambini,  molto presto aimè diventeranno come noi, vecchi e miserabili bastardi.

Credi nell’educazione musicale per i bambini? Come dovrebbe essere secondo te l’educazione musicale ideale?

Sì credo nell’insegnare musica ai bambini, ma rispettando i loro interessi. Per uno può significare imparare a suonare il bassotuba (poveretto), per un altro accontentarsi di ascoltare il bassotuba. La musica dà qualcosa a tutti, a seconda delle loro necessità. I bambini gravitano in modo naturale verso la creazione di musica, noi lo chiamiamo rumore! Per loro invece è qualcosa di divino che accade.

Mi ha colpito il fatto che tu abbia cambiato nome e identità. Ci racconti perchè hai scelto il nome Sananda Maitreya? Ha qualche significato religioso?

Sono certo che possa avere un significato religioso, per quanto possa implicare molte altre cose. Io non ho mai cercato il significato religioso, cerco solo ciò che ha senso per me. Il nome Sananda è arrivato prima, dopo una richiesta di aiuto, attraverso una serie sogni (circa 3) che mi ricordo ancora. In uno di questi camminavo in una radura della foresta con alcuni amici che ho riconosciuto nel sogno essere angeli e dai boschi ho sentito chiamare un nome, che era “Sananda”. Dopo l’ultimo sogno, mi sono reso conto che questo era il mio nome, wow, grazie, fico!

Da alcune ricerche iniziali è risultato che Sananda è in primo luogo, un nome femminile molto diffuso in India, quindi forse il sogno è stato anche uno scherzo giocato sulla mia voglia di cambiare. Un po’ come cambiare sesso, senza doverti necessariamente tagliare le palle! Per me, è stato come prendere due piccioni con una fava, io amo le donne e mi piace il nome Sananda. E’ per assonanza è un nome abbastanza vicino a “banana”, ma fortunatamente non c’è bisogno né di sbucciarlo e né di guardarlo diventare molle e marroncino. Quanto a Maitreya, dopo circa tre anni che ho adottato il nome Sananda, mi sono reso conto che si trattava davvero di una vera e propria nuova vita e di un nuovo spirito e non di un “rattoppo”, e che quindi un cognome poteva essere utile.

Durante quel periodo, stavo leggendo il libro di un mio amico, J. Krishnamurti, e l’ho sentito parlare spesso del suo angelo custode, o maestro spirituale, che si chiama Maitreya. Mi sono molto ispirato all’esperienza di vita di Krishnamurti, che in prima persona aveva seguito il percorso stabilito per lui, procedendo a suo modo, quindi con la sua “raccomandazione” mi sono sentito a mio agio a scegliere tale nome.

In realtà è stato tutto molto familiare per me. Molto prima di questo, era venuto fuori un fastidioso tira e molla sulla mia precedente identità. Come se, una volta che sei stato bollato, diventi due volte timido. La mia precedente identità e il mio nome non mi appartenevano più e ciò mi era stato reso palesemente chiaro dall’industria discografica e dallo Stato.

Il Tira e molla dura troppo a lungo? Lasciate andare la corda.

Così ho fatto io, e il resto non è che un mucchio di note a piè pagina. Che cosa c’è in un nome? I soldi di qualcun altro.

Posso immaginare che cambiare la propria identità non sia stato facile da un punto di vista psicologico. Ci racconti che tipo di difficoltà hai incontrato? Ti sei sentito confuso in certi momenti, o più sollevato?

Si può presumere che avevo una scelta, ma non l’avevo. Io e la mia banda di allegri ragazzi pazzi abbiamo dovuto abbandonare la nave prima che bruciasse tutto. È stato difficile? A volte enormemente difficile, ma almeno io sono fortunato a sapere quella che è la mia meditazione. Mi può colpire soprattutto quando vivo dei piccoli episodi maniacali. Non è un segreto che la maggior parte di noi creativi soffra di disturbi maniaco-depressivi, anche se a quanto pare la scienza ha verificato che il processo chimico della malattia maniaco-depressiva è di vitale importanza nel produrre le onde cerebrali necessarie per le scintille dell’ispirazione.

Immagino di aver attraversato alcune lievi fasi bipolari, benché la sorpresa nella nostra cultura è quella di farci crescere senza portarsi dietro tendenze bipolari.

E ancora una volta, tutto questo non è che un altro modo elegante per descrivere quello che sono fondamentalmente la rabbia e i vecchi problemi di sopravvivenza. Ci sono, naturalmente, come si sa, molte malattie legate alla nostra rabbia. La mia famiglia, le mie esperienze, la musica, l’arte, la scrittura, il buon cibo, il bere alcolici e la marijuana mi hanno aiutato moltissimo ad affrontare tutte le ferite subite durante il periodo delle mie guerre culturali. E a questo punto, per quanto riguarda TUTTI NOI, non ci sono più grandi battaglie in corso, se non quelle che hanno come obiettivo il controllo delle nostre menti, sia individualmente che collettivamente.

Nel tempo ho imparato che la rabbia, se ben gestita è un meraviglioso servitore e motivatore del proprio sè. I nostri processi hanno un valore  e la nostra pazienza è di vitale importanza. L’idea di schizofrenia è interessante perché penso che siamo tutti abitati da diverse personalità, soprattutto quelle che gli antichi avrebbero considerato come quelle dei nostri antenati. I greci classici erano certi che chi può gestire i propri Demoni sarebbe riuscito a dominare il mondo. La loro convinzione era che i nostri Demoni sono lì per motivare e ispirare. Io ho messo i miei demoni a lavorare per me, sono molto preziosi e sono anche disposti a lavorare per meno del salario minimo! Questo è il motivo per cui ho dovuto lasciare l’America, perché con i miei sintomi e il mio passato, mi avrebbero probabilmente affidato all’“Obamacare” e forse chiuso in un manicomio, e come diceva il grande Bo Diddley, “così in basso, che avrebbero dovuto pomparci l’aria”. Solo lo Spirito Santo e ciò che restava del mio piccolo ingegno mi hanno protetto. E per non contraddirmi, tenete a mente che la mia fede nello Spirito Santo non è religiosa, ma pratica.

La scelta di cambiare il tuo nome è stata per fornire un chiaro messaggio ai tuoi fan e al mondo musicale o era qualcosa che sentivi più profondamente?

Io non sono un martire che sceglie di sacrificarsi totalmente, senza almeno vedere che guadagno ci potrebbe essere per me. Io sono disposto a morire tra le fiamme della Fenice, ma solo se so che quando mi alzo dalle ceneri, c’è qualcosa che posso pretendere. E se c’era un messaggio da mandare, quel messaggio era per me. Ma quello che può essere raccolto dalla mia esperienza è questo, c’è vita dopo la morte corporale! Naturalmente non avrei potuto tirar fuori questo se non l’avessi sentito con il corpo e con l’anima. Rispetto troppo la mia vita per giocarmela con mezzi superficiali. E al di là che si cambino o meno i nostri nomi, la metamorfosi è reale. Come cantava il grande maestro Sam Cooke, A change is gonna come (il cambiamento sta per avvenire). E notare che io sono stato semplicemente una parte dello zeitgeist (dello spirito del tempo), infatti dal quel momento ad oggi anche molte altre persone, per non parlare di società e nazioni, hanno cambiato nome.

Humpty DumptyStavo semplicemente sfilando con gli altri alla parata!

Vi ringrazio per l’attenzione al mio lavoro. A volte la mia mente è un po’ sottosopra, a causa delle cicatrici del passato, ma il buon Dio mi ha insegnato come raggirare questo impiccio, e come usarlo a mio vantaggio.

We could never manage to get Humpty-Dumpty back into an egg shape, but boy does he make for one hell of a lamp shade!

Non saremmo mai riusciti a far rientrare Humpty-Dumpty / Unto Dunto dentro la forma di un uovo, ma caspita in qualità di paralume è davvero fantastico!”

Dio ti benedica e ROCK ON!

 

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MUSICA – MUSICOTERAPIA – ARTE – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

LEGGI L’INTERVISTA ORIGINALE IN INGLESE

Giorgio Gaber e Sandro Luporini: la lezione psicologica

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Sananda Maitreya . Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_3

Sananda Maitreya . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_7

 

Altra Europa di Rossella Schillaci (2011) – Psicologia Film Festival – PFF

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL PRESENTA:

altra europa - pff

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Videocommunity, SUR, Azul Produzioni e Cinemaitaliano.info vi invitano al

2° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Domenica 10 Novembre ore 21,00

Area EX- MOI, via Giordano Bruno 201

con la proiezione del film documentario

ALTRA EUROPA

di Rossella Schillaci (2011, 75′)

Ingresso libero ad offerta libera

 

Nel novembre del 2008 circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in uno storico quartiere operaio di Torino. La clinica è per loro l’unico rifugio, nonostante l’allacciamento all’energia elettrica sia precario e pericoloso e l’acqua corrente ci sia solo in quelle che erano le vecchie cucine della clinica, una per piano, una per circa 80 persone. Ma i rifugiati sono ben intenzionati a costruirsi qui un’alternativa, impegnandosi in corsi di avviamento al lavoro e nello studio della lingua italiana. Ed è proprio la loro determinazione ad animare gli squallidi e gelidi interni della clinica.

Un’altra storia, forse: nell’aprile di quest’anno 2013 circa trecento migranti rimasti senza tetto e speranza dopo la fine del Programma ENA (Emergenza Nord Africa) occupano tre palazzine dell’ex Villaggio Olimpico. Gli stabili, costruiti in occasione delle Olimpiadi del 2006 e abbandonati da più di 6 anni dall’amministrazione pubblica, hanno ripreso vita e sono ora la casa dei rifugiati dimenticati dalle istituzioni del nostro paese. Terminati i fondi del solito business emergenziale si sono ritrovati per strada; vincolati da una convenzione comunitaria non possono migrare verso altri paesi europei, mentre l’Italia, che avrebbe dovuto accoglierli e favorirne l’integrazione, chiude gli occhi sull’ennesimo disastro sociale.

Da aprile a oggi sono arrivati all’ex-Moi altri rifugiati nella stessa situazione raggiungendo il numero di 600 persone alle quali le istituzioni locali negano la concessione della residenza, requisito indispensabile per il rinnovo dei permessi e l’accesso ai servizi sociali.

Gli occupanti dell’ex Moi, hanno intrapreso un percorso collettivo per reclamare i loro diritti ma oggi si trovano alle porte dell’inverno con la necessità di affrontare gli stessi problemi raccontati nelle vicende di “Altra Europa”: la mancanza di acqua calda e riscaldamento.

Dopo la proiezione proveremo a confrontare la situazione attuale con l’esperienza di ieri, saranno presenti anche la regista Rossella Schillaci, il prof. Roberto Beneduce, docente di Antropologia Culturale e naturalmente gli occupanti dell’ex-Moi.

La proiezione è ad offerta libera per sostenere il Comitato di Solidarietà Rifugiati e Migranti.

Altra Europa (2011, 75’) di Rossella Schillaci, prodotto da Azul Film.

Il documentario segue le vicende di Khaled, Shukry e Alì nell’arco di un anno in cui, insieme ad altri compagni, i tre viaggiano tra mille difficoltà per arrivare in Europa e conquistarsi una vita migliore. La meta che vogliono raggiungere è un’”Altra Europa”, ma si trovano bloccati in Italia perché la legislazione europea li obbliga a risiedere nel primo paese in cui arrivano, dove vengono prese loro le impronte digitali.

La vicenda narrata nel film prende spunto da quanto accaduto nel novembre 2008, quando circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in un quartiere operaio di Torino, che rappresenta per loro l’unico rifugio, per quanto precario e pericoloso. La determinazione dei rifugiati nel costruirsi un’alternativa li porterà a studiare la lingua italiana e a frequentare corsi di avviamento al lavoro, animando allo stesso tempo gli squallidi interni della clinica. La vicenda dei tre personaggi rivela da vicino il loro punto di vista sull’Italia e sull’Europa attraverso uno sguardo intimo e partecipe. La storia collettiva mostra, tra sogni e delusioni, il costante desiderio di fuga e la ricerca di un’altra Europa in grado di offrire loro la possibilità di una vita dignitosa.

Il documentario, prodotto da Azul Film, è stato diretto da Rossella Schillaci, autrice e regista per Raisat, che in passato è stata assistente alla regia in produzioni Rai e Mediaset ed ha collaborato con la casa di produzione Laranja Azul di Lisbona. Tra le sue realizzazioni figura Living beyond borders, un documentario televisivo trasmesso dalle reti nazionali indiane nel’ambito del progetto Eu-india documentary.

ARTICOLI SU CINEMA

L’errore del terapeuta in psicoterapia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

L’errore del terapeuta in psicoterapia

 Ruocco F., Montali A., Fiore F.

(Psicoterapia Cognitiva e Ricerca – Bolzano)

 

INTRODUZIONE:

Nel linguaggio clinico l’errore viene spesso attribuito al paziente. Per quanto riguarda, invece, l’approccio CBT, è importante stabilire che l’obiettivo terapeutico si gioca nella relazione terapeutica. Tre grossi elementi sono coinvolti nell’errore terapeutico: emozioni, cognizioni e comportamenti, sia del terapeuta che del paziente. Nel nostro lavoro abbiamo, quindi, estrapolato quattro tipologie di errore: 1. competenza tecnico-terapeutica; 2. conduzione del colloquio; 3. formulazione del contratto terapeutico; 4. competenza interpersonale. Abbiamo inoltre preso in considerazione la presa di consapevolezza dell’errore e la determinazione della causa.

L’obiettivo posto è stato quello di sondare la percezione dell’errore in un ambiente di professionisti, per ricercare eventuali spiegazioni che i terapeuti si danno sul drop-out dei pazienti, confrontandoli con un precedente lavoro su terapeuti formati (S. Errico, 2011). Abbiamo inoltre comparato i dati con una recedente ricerca: ‘Analisi delle Aspettative di Errore in Gruppi di Allievi in Corso di Formazione in Terapia’ (S. Lissandron, 2010). Ciò che ci si chiede è se fosse possibile rintracciare delle categorie formali nelle aspettative di errore da parte dei professionisti.

Il questionario utilizzato è un riadattamento del questionario utilizzato per le precedenti ricerche (S. Lissandron 2010). Abbiamo raccolto 30 questionari compilati in forma anonima. Sono state prese in considerazione le seguenti categorie di errore: il tipo di errori ricorrenti, l’attribuzione causale e la consapevolezza. Si sono, così, confrontati i differenti approcci terapeutici rispetto alla tipologia di errore, all’attribuzione e alla modalità di acquisizione della consapevolezza rispetto all’errore, sui gruppi maggiormente rappresentati: sistemico, cognitivo-comportamentale e costruttivista. La risposta più rappresentata per le ‘categorie di errore’ è relativa alla competenza tecnico-terapeutica, con un 38%. L’attribuzione di errore maggiormente rappresentata è relativa alle abilità professionali, mentre la consapevolezza dell’errore deriva per il 26% dalle reazioni del paziente e segnali di questi al terapeuta e dalla riflessione esplicita del terapeuta stesso.

I dati si sono potuti suddividere in due filoni che corrono paralleli. Ciò che li separa sembra essere l’approccio psicoterapeutico. È, difatti, emerso che per terapeuti di stampo cognitivo-comportamentale e costruttivista il focus dell’errore è decisamente più interno rispetto ai colleghi di stampo sistemico. Questo è suggerito dal tipo di risposte raccolte. Se da un lato per terapeuti cognitivo-comportamentali e costruttivisti l’errore è di competenza tecnica, l’attribuzione è alle proprie abilità professionali e la consapevolezza è dovuta a riflessione esplicita o interna. Per il colleghi sistemici invece l’errore è maggiormente causato dalla conduzione del colloquio, l’attribuzione è data dalle caratteristiche del paziente e la consapevolezza deriva dalla supervisione clinica.

I risultati più evidenti di questa ricerca sono diversi. Possiamo, infatti, alla fine confermare che sia i terapeuti esperti che terapeuti non esperti hanno la percezione dei propri errori. Per diversi indirizzi di specializzazione in psicoterapia si hanno diverse tendenze alla percezione ed all’attribuzione dell’errore. Infatti, sia ad una attribuzione dell’errore, sia all’attribuzione della causa che per la presa di coscienza emerge la tendenza interna per terapeuti cognitivi-comportamentali e costruttivisti ed invece uno stile esterno per terapeuti sistemici.

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

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Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 1

 

Il conflitto pt. 1

da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 2

Il conflitto parte 1. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Il conflitto: un tentativo di definizione psicosociale.

Il conflitto costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo.

La guerra è padre di tutte le cose, re di tutte le cose, rivela la divinità degli dei e l’umanità degli uomini.”

Così scrisse Eraclito nel suo frammento 53, che rappresenta forse il primo modello di filosofia del conflitto; secondo la sua prospettiva infatti, la conflittualità costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo. Nell’opposizione si costituiscono l’individualità e la natura degli uomini, i rapporti umani e sociali e i valori che ne regolano l’esistenza. Eraclito utilizza il termine πόλεμος (pólemos) che in lingua greca non indicava solamente il conflitto bellico o il combattimento vero e proprio, ma anche il principio vitale naturalmente opposto all’armonia e alla pace. Nel pensiero di Eraclito, che sarà poi ripreso, riadattato e riconcettualizzato in tempi moderni da altri autori, πόλεμος diviene un principio regolatore universale e una condizione naturale intrinseca sia a livello del microcosmo umano, sia a livello del macrocosmo sociale.

Quale sia la definizione di conflitto e quali siano le sue funzioni, sono state domande al centro del pensiero dei più grandi filosofi e intellettuali dell’età moderna e contemporanea; le risposte mostrano un movimento oscillatorio tra coloro che vedono nella conflittualità un valore positivo e un motore di conoscenza e potenzialità, e coloro che invece leggono il conflitto come elemento negativo e come forza distruttiva che si oppone alla naturale tendenza degli esseri umani ad aggregarsi e a costruire relazioni.

La diatriba riguardante la portata positiva o negativa del conflitto risale all’antichità e si è prolungata fino ai tempi della scienza moderna; i teorici del conflitto sono attualmente concordi nel ritenere che esso è inevitabile all’interno delle relazioni umane, ma rimangono divisi tra coloro che lo interpretano come una risorsa e una possibilità di cambiamento e adattamento, e coloro che invece lo ritengono una forza distruttiva portatrice di caos e distruzione (Winstok e Eisikovits, 2008).

Definire in maniera univoca e uniforme un processo complesso come quello del conflitto non è compito semplice.

Martello (2006a), riconosce nel conflitto, in quanto dinamica essenziale delle relazioni umane, una multidimensionalità che lo rende un processo sfaccettato e complesso. Il conflitto può infatti manifestarsi a livello intrapersonale, ma anche interpersonale o intergruppi, può essere causato da carenze oggettive, ma anche dalla divergenza di opinioni, valori e interessi in merito a una questione, coinvolge direttamente non solo gli aspetti visibili del comportamento umano ma anche le strutture conoscitive, motivazionali e identitarie profonde. Secondo l’autrice dunque, il conflitto è parte integrante della natura e delle relazioni e non rappresenta necessariamente con un effetto distruttivo o negativo sugli agenti. Il conflitto infatti può costituire un’occasione di crescita personale e relazionale nel momento in cui accresce la tendenza al rinnovamento, permette di chiarire le proprie convinzioni e opinioni, aiuta a comprendere meglio la propria posizione all’interno delle relazioni accrescendone il valore e l’autenticità (ibid.; Martello, 2006b). Tuttavia, il conflitto può anche essere un fattore di rischio per il felice mantenimento e rinnovamento delle relazioni, soprattutto quando una o tutte le parti in causa tendono a irrigidire il proprio ruolo, a distorcere la realtà dei fatti a proprio favore e, soprattutto, quando virano le proprie invettive dalla questione oggettiva alle caratteristiche individuali dell’altro agente (Martello, 2006a; Geiger e Fischer, 2006).

Arielli e Scotto (2003) descrivono il conflitto come “un’azione o una situazione prodotto di azioni in cui vi è un contrasto, una incompatibilità, tra le intenzioni, le aspettative o i bisogni degli agenti” (p. 18); gli autori sostengono dunque che il fulcro della conflittualità risiede nella mancata soddisfazione dei propri bisogni o scopi di un agente a causa dell’interferenza di un altro agente. Gray e collaboratori (2007) aggiungono che alla base del conflitto non risiede semplicemente l’incompatibilità delle azioni, ma la percezione di tale incompatibilità; per gli autori il conflitto esiste quando effettivamente gli attori lo percepiscono come tale. Quando un conflitto è percepito, quindi, gli attori ne interpretano il significato e la portata attraverso strutture cognitive preesistenti, tra cui credenze, schemi, stereotipi; ad ogni punto di questo processo di percezione e interpretazione, i conflitti possono essere letti e vissuti come più o meno importanti, più o meno minacciosi, più o meno intrattabili, definendone il destino futuro e il loro cambiamento qualitativo e quantitativo nel tempo.

La caratteristica centrale dei processi conflittuali risulta dunque essere la loro dinamicità e la loro tendenza a modificarsi nel tempo, in riferimento non solo alle nuove questioni apportate all’interno della discussione da parte degli agenti (Arielli e Scotto, 2003), ma anche ai cambiamenti della percezione che gli agenti hanno della discussione stessa (Kennedy e Pronin, 2008) nonché della partecipazione emotiva e dell’intensità degli affetti messi in gioco (Geiger e Fischer, 2006).

Quando il conflitto si colora di una sempre maggiore intensità emotiva, di risorse cognitive e comunicative sempre più forti, di questioni sempre meno riguardanti la causa scatenante e sempre più mirate alle persona singola, si parla di escalation. L’escalation può essere definita come un “aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto” (Arielli e Scotto, 2003, p. 69) che nasce dalla percezione e interpretazione dell’incompatibilità tra agenti come negativa, intenzionale e ingiustificata (Gray et al., 2007).

Alcuni autori (Gray et al., 2007; Coleman, Vallacher, Nowak e Bui-Wrzosinska, 2007) definiscono i conflitti caratterizzati dall’escalation come conflitti intrattabili; la persistenza, la distruttività e la resistenza sono le caratteristiche centrali che fanno apparire i conflitti intrattabili impossibili da risolvere. I conflitti intrattabili emergono da tematiche e questioni profonde, vissute come non negoziabili, spesso di natura morale o identitaria e sono percepiti dagli agenti come impossibili, vincolanti e invischianti (Gray et al., 2007). Facendo riferimento ad una cornice teorica di matrice sistemica, Coleman et al. (2007) descrivono il conflitto intrattabile come un’unità dinamica e olistica, le cui componenti tendono all’influenza, all’adattamento e al bilanciamento reciproci; il conflitto come sistema si evolve nel tempo, adattandosi ai mutamenti contestuali e strutturali, e ogni cambiamento a livello di un elemento genera una riorganizzazione e una ristabilizzazione globale del sistema stesso. Per questo motivo, i conflitti divenuti irreparabili e intrattabili sono caratterizzati sempre da un processo escalativo, tendono a rimanere stabili nel tempo e mantengono al proprio interno equilibrio omeostatico ed auto-organizzazione. Secondo gli autori, il conflitto diventa intrattabile quando nega e appiattisce la fisiologica complessità e multidimensionalità delle relazioni umane; il collasso della multidimensionalità, per usare la terminologia degli stessi autori, appiattisce la struttura e i processi alla base delle relazioni interpersonali e gruppali, promuovendo l’acutizzazione e l’escalation del conflitto.

L’escalation si caratterizza a livello osservabile per un aumento di intensità emotiva e di aggressività verbale e/o comportamentale; tuttavia, gli aspetti direttamente visibili non sono gli unici a costituirne il nucleo. Winstok e Eisikovits (2008) descrivono l’escalation come il culmine di un conflitto che, se anche poteva essere stato originato da intenzioni costruttive e positive, in questa fase diventa distruttivo e resistente a una sua eventuale conclusione pacifica; secondo gli autori l’escalation si presenta nel momento in cui una dinamica conflittuale devia totalmente dalla questione o situazione da cui ha tratto origine e continua a persistere anche oltre il punto in cui gli obiettivi originari sono diventati secondari o irrilevanti.

Inoltre, sempre gli stessi autori, sostengono che l’escalation conflittuale sia un processo dinamico, complesso e determinato da tre diverse componenti: comportamentale, cognitiva ed emotiva. Solo tenendo conto di questi tre livelli diversi ma strettamente interagenti e interdipendenti tra loro, è possibile studiare le caratteristiche e gli effetti di questo fenomeno (ibid.; Winstok, 2008).

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RAPPORTI INTERPERSONALI LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VIOLENZA – CREDENZE – BELIEFS

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Teoria e clinica del perdono di Barcaccia e Mancini – Recensione

 

 Recensione del libro:

Teoria e clinica del perdono

di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini

Raffaello Cortina Editori (2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

Teoria e clinica del perdono di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini Raffaello Cortina Editori (2013)

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Nonostante il tema del perdono sia stato da sempre dibattuto nei domini appartenenti alla filosofia e alla religione, solo di recente è stato affrontato in una prospettiva psicoterapeutica, evidenziandone le potenzialità curative. La ricerca scientifica internazionale sta indagando sulle potenzialità terapeutiche del perdono da oltre 10 anni ma è solo con l’opera di Mancini e Barcaccia che assistiamo alla prima sistematizzazione sull’argomento nel panorama italiano.

Uno dei motivi che ne ha reso difficile la riflessione scientifica in ambito psicologico è senz’altro l’impronta religiosa che il costrutto del perdono porta con sé. Sebbene le religioni, e in particolar modo il cristianesimo, forniscano spesso delle linee guida rispetto a una pratica morale come il perdono, alcuni studi sottolineano che chi è praticante di fatto non riesce a perdonare le offese subìte più di quanto faccia chi praticante non è.

Con lo svilupparsi della recente prospettiva psicologica positiva assistiamo allo spostamento del focus di ricerca dalle carenze ai punti di forza dell’uomo, tra i quali viene annoverata la propensione al perdono. Si tratta infatti di una abilità utile a migliorare la qualità della vita e a potenziare le capacità personali di resistenza e adattamento, competenza che tradizionalmente veniva concepita solo come eticamente desiderabile.

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Per contro, la ruminazione mentale sugli eventi che ci hanno visto come vittime di un torto perpetua nella persona quelle emozioni e quei pensieri intrusivi negativi legati all’offesa, in primo luogo la rabbia, non facendo altro che amplificarne la sofferenza. Allo stesso modo il desiderio di vendetta sembra prolungare lo stato di sofferenza della vittima, al contrario di quanto si possa credere. Ciò che è particolarmente nocivo è il risentimento cronico associato ad una condizione di passività, vale a dire non accompagnato dai tentativi di sanare la situazione.

Il libro viene così diviso in due parti. La prima parte si occupa dell’analisi cognitiva del costrutto di perdono. Per avere ben chiaro il costrutto di perdono infatti, vengono distinte le differenze con concetti affini ma solo apparentemente sovrapponibili. Si è reso così necessario svincolare la tematica del perdono dalla dimensione esclusivamente religiosa e di analizzarne le componenti, i modulatori, il processo, prima ancora di proporne delle applicazioni cliniche.

Magistrale in questo senso è il capitolo redatto da Castelfranchi e Miceli che con la precisione di un bisturi operano una vera e propria “anatomia cognitiva” del perdono distinguendone il processo da altri affini, quali lo scusare, il giustificare, il dimenticare o il riconciliarsi e spiegano con accuratezza quali siano le condizioni necessarie e non perché si possa parlare di vero e proprio perdono.

La seconda parte del libro affronta invece le applicazioni cliniche del perdono interpersonale e del perdono di sé, fornendo indicazioni per l’utilizzo terapeutico del perdono nel disturbo ossessivo compulsivo, nei disturbi di personalità borderline ed evitante, e nella depressione.

Come spiegano gli autori, il disturbo ossessivo compulsivo sarebbe caratterizzato da un eccessivo senso di colpa nel paziente legato alla morale generale. In questa ottica, le ossessioni altro non sarebbero che contenuti mentali che, agli occhi del paziente, minacciano, ammoniscono, segnalano il rischio di violazione della norma, mentre le compulsioni rappresenterebbero le azioni, tentativi volti a prevenire, contrastare o neutralizzare tale rischio. Il paziente andrebbe quindi accompagnato in un processo di perdono del sé, dibattendo in seduta circa la liceità della fallibilità umana.

Allo stesso modo la rabbia del borderline potrebbe essere modulata attraverso una implementazione delle capacità di decentramento, portando il paziente a valutare ad esempio le attenuanti al comportamento degli altri, imparando al tempo stesso a perdonare i propri agiti sganciandosi dalla spirale dell’odio di se stessi.

Facile dedurre come le condotte di evitamento possano nuocere con il medesimo processo all’individuo stesso che fugge dalle persone che ritiene abbiano commesso un torto nei loro confronti. In questo modo infatti, il paziente arriva a costruirsi una vera e propria gabbia intorno, evitando in tutti i modi di affrontare quello che ritiene il proprio carnefice.

Utile nella depressione sarebbe invece il discorso del perdono nei riguardi dei propri disturbi. Molto spesso infatti assistiamo a quello che in letteratura è chiamato problema secondario. Il paziente in questo caso si rimprovera per i propri disturbi, arrivando inconsapevolmente ad alimentarli. È così che il perdono di sé sembra arrivare a rappresentare l’unica strada terapeutica primariamente percorribile.

È per questo che con la precisa analisi del costrutto del perdono e l’elenco dei principali disturbi che beneficerebbero di un intervento su questo tipo di tematica, il libro di Mancini e Barcaccia viene a costituirsi quindi come un ottimo manuale che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni terapeuta di orientamento cognitivista e non solo.

LEGGI:

ETICA & MORALEDISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’DISTURBO OSSESSIVO -COMPULSIVO -OCD – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA‘ – DEPRESSIONE

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GUARDA L’INTERVISTA DI STATE OF MIND A FRANCESCO MANCINI

Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Obesità e vita di coppia: le conseguenze relazionali del dimagrimento

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

In alcune coppie la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

In caso di forte sovrappeso, perdere peso è sicuramente un bene per la salute ma può non essere altrettanto benefico dal punto di vista delle ripercussioni che questo dimagrimento ha sulla vita di relazione.

Secondo una recente ricerca, infatti, se l’obiettivo di una vita più sana non è pienamente condiviso da entrambi i partners, l’ impegnarsi in questo senso da parte di uno dei due può rompere un delicato equilibrio di coppia e portare a non pochi problemi.

I ricercatori della North Carolina State University e l’ Università del Texas a Austin hanno esaminato 21 coppie (42 adulti) su tutto il paese. Uno dei due coniugi aveva perso più di 30 chili in meno di due anni, con una perdita media di peso di circa 60 chili. Il dimagrimento era stato raggiunto in diversi modi: dieta, esercizio fisico e procedure mediche. Ciascun membro della coppia rispondeva a dei questionari che indagavano l’impatto della perdita di peso sulla vita di relazione.

I ricercatori hanno scoperto che la perdita di peso, nella maggior parte dei casi, ha influenzato positivamente la comunicazione di coppia. Dai risultati emerge infatti che il membro della coppia che è dimagrito parlava con maggiore frequenza di comportamenti salutari e incoraggiava il/la partner a condurre una vita più sana, e che tutte le coppie in cui entrambi i partners si sono impegnati in comportamenti salutari hanno riferito interazioni più positive e una maggiore intimità fisica ed emotiva.

In alcune coppie, tuttavia, la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

Questi partners “poco collaborativi” risultavano essere fortemente resistenti al cambiamento degli equilibri di coppia, che contrastavano con commenti critici, comportamenti di sabotaggio (proporre cibo malsano) e azioni passivo aggressive (come l’astinenza sessuale). I risultati di questo studio ci fanno riflettere sulla complessità delle dinamiche di coppia e su come non dobbiamo mai dare niente per scontato o casuale nella vita di coppia, ma chiederci sempre su quali comportamenti si regge il patto implicito sul quale ogni coppia, nessuna esclusa, costruisce la sua unione e il suo equilibrio.

Anche i comportamenti apparentemente più negativi, infatti, possono essere la base su cui si costruisce l’intesa di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIALIMENTAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’esame di stato per Psicologi di Piccinini e Zoppi – Recensione

Recensione  del libro:

L’esame di stato per Psicologi

di Laura Piccinini e Alessia Zoppi

edito da Alpes Italia 2013

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L'esame di stato - Piccinini e Zoppi. -Immagine: copertinaQuesto testo è uno strumento importante per gli studenti che si stanno preparando per le prove che dovranno sostenere durante l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di psicologo.

Il testo è suddiviso in tre parti per facilitare lo studente ad orientarsi e a organizzare il lavoro in maniera semplice ed efficace. Lo scopo è padroneggiare un’organizzazione concettuale che guidi lo studente ad affrontare con metodo e precisione le varie prove.

Infatti  la prima parte è focalizzata  sulla prima prova dell’esame di stato ovvero il tema, la seconda parte verte sul  progetto, ed infine il caso clinico inoltre è presente una bibliografia per argomenti per approfondire le varie tematiche di interesse.

Il testo si propone di delineare in maniera chiara la modalità  di svolgimento per ogni prova con degli esempi e delle esercitazioni pratiche, dove lo studente può cimentarsi a completarle.

Per la prima prova  è necessario  comprendere bene la richiesta della traccia quindi tracciare dei nessi logici tra vari argomenti  con coerenza concettuale sviscerando i punti chiave.  E’ importante essere flessibili per adempiere alle richieste della commissione in maniera coerente.

Inoltre mette in luce i trabocchetti delle tracce che possono mandare in crisi lo studente. Inoltre il libro propone come organizzare il tema seguendo i vari punti dall’introduzione alla definizione generale del costrutto, i punti deboli e i punti di forza che possono essere segnalati, i metodi di ricerca e le variabili che il costrutto intende argomentare. Il confronto con le varie teorie, i fenomeni che si propongono di indagare.

Nella prima parte ci sono anche delle mappe concettuali  per una visione globale e per porre l’attenzione sulle aeree maggiormente trattate  e gli argomenti più rilevanti.

Lo scopo è facilitare lo studente nel percorso di organizzazione del materiale teorico, per identificare gli elementi più rilevanti per svolgere la prova. Inoltre sono presenti delle tracce svolte di temi uscite nelle sessioni precedenti.

La seconda parte del libro orienta lo studente a sviluppare un progetto  in ambito psicologico e nelle sue  varie branche (Clinica e Comunità, Evolutiva Lavoro).

L’importanza di questa prova è mettere in evidenza  le competenze dello psicologo in riferimento alle capacità di sapersi muovere nell’ambito della progettazione con utenze diverse tra loro ed attuare  interventi mirati e specifici. In maniera esplicativa delinea i passaggi della progettazione e propone degli esempi su come va impostato il progetto e viene spiegato come svolgerlo. Bisogna tener presente che nel rispondere alle richieste è necessario rispettare una coerenza interna al progetto e alla realtà entro cui si interviene.

Bisogna considerare in primo luogo a chi è indirizzato il progetto, la tipologia dello stesso, che può essere  ad esempio di prevenzione o di riabilitazione e promozione della salute psicologica.  Ma anche il  modello teorico di riferimento che si intende usare. Gli obiettivi  che si intende raggiungere devono essere chiari accurati, come anche la descrizione sui metodi per ottenerli,  le risorse a disposizione e i risultati attesi.  Nel libro sono spiegati in maniera esaustiva tutti  i punti. Troviamo una lista delle tematiche più spesso trattate nelle tracce con cui confrontarsi e delle esercitazioni.

Infine viene spiegata  la modalità di svolgimento della terza prova che verte  su un caso clinico su cui formulare delle ipotesi diagnostiche e segnalare la tipologia  d’intervento più indicata rispetto al trattamento dei disturbi ipotizzati.

E’ mostrato il corretto inquadramento del caso clinico che implica la capacità di individuare all’interno della traccia  gli elementi significativi rispetto ai quesiti posti, il ragionamento sulle informazioni a disposizione. Ci sono le tabelle di sintesi dei criteri diagnostici del DSM-IVper facilitare la memorizzazione.

Concludendo ci sono anche in appendice i principali trattamenti evidence-based che si possono usare a seconda del disturbo psicopatologico considerato. Sono anche suddivisi i principali disturbi di Asse I del DSM-IV e l’età media di insorgenza.

Questo testo non si propone di sostituirsi ai manuali di preparazione per l’esame di stato, ma dopo un ripasso accurato, lo si può usare per svolgere degli esercizi e mettere in gioco il proprio apprendimento e le proprie conoscenze.

LEGGI:

PSICOLOGIA & FORMAZIONE

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Esame di Stato – Professione Psicologo: Timori, Speranze e Riflessioni –

24 Temi Svolti di Psicologia. Download Booktrailer

 

BIBLIOGRAFIA:

Rigidità e dicotomia: la personalità ossessiva – Psicologia

Rigidità e dicotomia . - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.comLa personalità ossessiva vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Ricordate la signorina Rottenmeier , la governante di Heidi? Ops, “devo essere molto precisa“, governante di Clara, amica di Heidi. Sì, proprio lei, la terribile, perfettina, petulante, severissima, rigorosissima e professionalmente implacabile Rottenmier. Non ne lasciava passare una ed era sempre pronta a castigare le mal capitate. La sua vita era fatta di estremi, tutto scandito da una serie di rigide regole ed eccessi.

Ma, secondo voi, che disturbo della personalità presentava? Anancastico, ergo Ossessivo-Compulsivo!

L’ossessivo vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Salta da un estremo all’altro di un continuum, non esistono vie di mezzo, anzi non sono neppure considerate le mezze misure. Si tratta, dunque, di una personalità dicotomica, che si muove tra il tutto o il nulla, fra contraddizioni morali, di pensiero e di comportamento.

L’ossessivo vive di logica, nella razionalità e nell’ordine, concetti che mal si miscelano alle emozioni. E’ molto formale nelle relazioni, educato e corretto al punto da risultare giudicante, critico, controllante e punitivo nei confronti di coloro che non rientrino negli schemi. Nel rapporto con gli altri tende al comando, a dare disposizioni per potere controllare meglio, e quando dice qualcosa in realtà impartisce ordini da far eseguire meticolosamente, solo cosi appaga il bisogno di tranquillità. Non ha fiducia in nessuno, il delegare sarebbe un rischio, se lo facesse verrebbero meno il controllo e le regole.
Svolge una vita dedita alla produttività, raggiunta attraverso attività programmate, elaborazione di schemi, liste. E il denaro? E’ da accumulare in vista di catastrofi future.

Ma, il vero nemico della personalità ossessiva è il controllo minuzioso di ogni minima cosa fino al punto da riuscire a procrastinare gli impegni più importanti per raggiungere la minima perfezione.

Anche le emozioni sono soggette a severissimo controllo, perché se mostrate sono sinonimo di debolezza e vulnerabilità. L’ossessivo può essere felice se e solo se ha la sorte di imbattersi in qualcuno di estremamente elastico che attraverso l’emotività, esperita tramite rispecchiamento cui deve assolutamente esporsi poco alla volta, potrebbe fargli incontrare l’altro nella sua interezza. Vive la rabbia ogni qualvolta non è in grado di mantenere il controllo del proprio ambiente fisico e interpersonale, tuttavia, difficilmente la esprime direttamente, perché concentrato su cosa vuole l’altro, modalità di controllo della dipendenza.

Rischia la noia e per questo è disposto a qualsiasi esagerazione: è una personalità inquieta. E alla fine approda nella depressione, perché fondamentalmente l’ossessivo si auto-svaluta, si auto-critica, e, così facendo, i pilastri della rigidità crollano.

L’affettività è anch’essa controllata e ampollosa, vissuta con disagio, al punto che la relazione affettiva è percepita come una potenziale minaccia alla propria autostima, fragile e traballante visto l’alto grado di dubbio mosso da se stesso nei confronti delle proprie capacità.

L’infanzia di questa persona, pare sia stata costellata da una scarsa valorizzazione, poco riconoscimento e un insufficiente amore da parte dell’ambiente familiare sterile, di conseguenza il bimbo ha dovuto sviluppare una serie di regole rigide che gli permettessero di sopravvivere.

La soluzione? Empatizzare con le difficoltà per riuscire ad abbandonare o smussare la rigidità e il rigore. Abbandonare le intellettualizzazioni, i pragmatismi, le procrastinazioni, i vissuti di frustrazione e rabbia per portare l’ossessivo ad accettare la sua umanità e fragilità.

Cosa fare?

1) facilitare l’identificazione dei sentimenti e la tendenza a minimizzarli;

2) facilitare lo sfogo dei sentimenti sia positivi che negativi;

3) esplorare insieme i problemi legati al controllo e alla frustrazione associati con il perfezionismo;

4) sviluppare delle aspettative più realistiche su di sé, riportandoli alla realtà dei fatti;

5) ridurre la frequenza dei comportamenti dispotici/prepotenti;

6) aiutare a sviluppare fiducia verso gli altri, delegando loro dei compiti;

7) ridurre la frequenza del criticismo verso gli altri e se stesso;

8) aumentare la bassa autostima dopo averla riconosciuta.

Concludo con una celeberrima frase di un celebre film in cui il protagonista ossessivo è finito alla pazzia: “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy“, dedicata agli ossessivi, meticolosi,estimatori del cinema Horror.

 

 LEGGI ANCHE:

DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD – DISTURBO OSSESSIVO DI PERSONALITA’ – DEPRESSIONE

L’OSSESSIVO FURIO ON BIANCO, ROSSO E VERDONE. CINEMA E PSICOTERAPIA NR. 9

 

BIBLIOGRAFIA:

La relazione di coppia compromessa dall’uso degli sms?- Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno; questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione” che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Secondo la CTIA – The Wireless Association, nel 2012 circa 2.190 miliardi di sms sono stati inviati negli Stati Uniti, l’equivalente di 171.300 milioni ogni mese; tra questi un numero significativo è stato inviato al/alla partner.

Un gruppo di ricercatori della Brigham Young University si è interessato alla frequenza e ai contenuti di questi messaggi scoprendo che questa modalità di comunicazione gioca un ruolo importante nel determinare la qualità della relazione di coppia.

Lo studio ha coinvolto 276 soggetti tra i 18 e i 25 anni e impegnati in una relazione; di questi il 38% ha dichiarato di essere in una relazione seria, il 46% di essere fidanzato e il 16% sposato. Tutti i partecipanti rispondevano a un sondaggio dettagliato sull’uso della tecnologia come mezzo di comunicazione con il/la partner.

I risultati, pubblicati sul Journal of Couple and Relationship Therapy, hanno rivelato che circa l’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno e che questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione”, che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Via sms infatti ci si confronta in merito alle reciproche differenze, si chiede scusa, si prendono decisioni e si fanno programmi di coppia, evitando in questo modo un confronto diretto con il partner. Ma è solo grazie al “faccia a faccia” che riusciamo a cogliere l’altro nella sua interezza, a vederlo cioè per come è realmente e a fare i conti con eventuali delusioni.

La comunicazione via sms quindi, quando è la forma di comunicazione prevalente e si sostituisce all’abitudine di un confronto diretto con il partner, rischia di favorire una sorta di “disconnessione” con l’altro e di peggiorare inevitabilmente la qualità della relazione di coppia.

In particolare i ricercatori hanno scoperto che, per quanto riguarda i maschi, più hanno l’abitudine di usare sms per comunicare con la partner minore è la qualità della relazione di coppia.

Non tutti gli sms però peggiorano la comunicazione di coppia, la frequenza di messaggi romantici, infatti, correla positivamente, sia negli uomini che nelle donne, con una maggiore soddisfazione di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALITECNOLOGIA & PSICOLOGIATELEFONI CELLULARI-SMARTPHONES-MOBILE – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Studi Sperimentali: risposta di Lucio Sibilia a Giancarlo Dimaggio

Con questo articolo Lucio Sibilia risponde a Giancarlo Dimaggio che aveva descritto un lavoro che paragonava l’efficacia di una terapia psicodinamica (PP, psychodinamic psychotherapy) e una terapia cognitivo comportamentale (CBT, cognitive behavioural therapy). 

 

LEGGI L’ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

Lucio Sibilia - foto
Prof. Lucio Sibilia

Studi che dimostrano l’efficacia della psicoterapia detta “psicodinamica” ne sono stati pubblicati ormai parecchi. Ma affinché si possa parlare di “scienza” in psicoterapia, molti pensano, e io concordo, che non basti la semplice dimostrazione di efficacia. È necessario anche mostrare che i presupposti hanno fondamenti empiricamente validati.

In altri termini, non basta che io ti dimostri di saper fare un buon caffè, ma se voglio parlare di una “scienza del caffè”, è necessario che ti dimostri di farlo seguendo dei principi fondati, mostrando che sono fondati.

In questo senso la CBT, nella misura in cui mantiene un saldo ancoraggio ai suoi principi fondanti, potrebbe ambire al riconoscimento di disciplina scientificamente fondata. Ovviamente, ciò non sottrae mai le sue procedure all’indagine e verifica sperimentale. Perciò, quando la verifica ci conferma un’efficacia della CBT, presente ma limitata, si possono subito porre alcune domande. Per esempio: sono stati applicati bene quei principi? Sono stati applicati correttamente?  Sui giusti bersagli? Con un’analisi cognitivo-comportamentale adeguata? Da terapeuti esperti, come ha appunto contestato Clark? Domande che non devono necessariamente mettere in dubbio i fondamenti, ma la correttezza della loro attuazione.

Passando alla PP, invece, c’è da chiedersi su quali principi si fondi. I suoi sostenitori affermano che sia ispirata alla psicoanalisi. Se così fosse, sarebbe molto problematico il suo status di disciplina scientificamente fondata. Invece, un’ispezione anche superficiale delle sue procedure ci mostra che la PP è tutt’altro dalla psicoanalisi. Come ho avuto modo di scrivere altrove, se partisse dalla psicoanalisi, si direbbe che abbia fatto un viaggio agli antipodi.

Le sue caratteristiche procedure, infatti, almeno come definite da Gabbard (2004), sono le seguenti:

• Focus sull’affettività e l’espressione dell’emozione (stimolare le risposte emotive è già presente in tipiche procedure di behavior therapy)
• Esplorazione dei tentativi di evitare aspetti dell’esperienza (impedire gli evitamenti, come nelle tipiche procedure di esposizione, o di blocco della risposta)
• Identificazione di schemi e temi ricorrenti (come nell’analisi cognitiva, alla Beck o alla Ellis, e così via)
• Discussione sulle esperienze passate (procedure di rielaborazione narrativa, ristrutturazione, e così via)
• Focus sulla relazione terapeutica (autoosservazione del comportamento relazionale)
• Esplorazione di desideri, sogni e fantasie (contenuti cognitivi, oggetto anch’essi di alcune procedure CBT)

Oppure le caratteristiche generali (non procedurali) della “psicoterapia psicodinamica breve” sono così descritte (Leichsenring, Rabung, Leibing, 2004):
time limited (di solito 16-30 sedute in un ventaglio da 7 a 40)
setting faccia a faccia

  • terapista relativamente attivo
  • sviluppo dell’alleanza terapeutica
  • sviluppo di un transfert positivo
  • focalizzazione su conflitti specifici o temi formulati precocemente in terapia
  • focalizzazione sul qui e ora
  • attenzione all’aderenza al focus
  • attenzione all’accordo su obiettivi realistici
  • attenzione alla relazione presente tra paziente e terapista, non necessariamente ricondotta al passato

Come si vede, non dovrebbe sorprendere affatto che anche la cosiddetta PP sia efficace. Infatti, essa contiene alcune procedure terapeutiche molto simili se non identiche a quelle della CBT, per quanto definite in maniera meno precisa. Eventuali altre componenti procedurali non riferibili all’area dell’apprendimento socio-cognitivo, se presenti nella PP, dovrebbero comunque dimostrarsi necessarie per il cambiamento, per essere prese in considerazione.

Trovo comunque che c’è un aspetto nella PP, il lavoro sul comportamento relazionale, che manca nella “terapia cognitiva”, almeno quella tradizionale alla Beck per intenderci, anche se non manca ovviamente in approcci di tipo più comportamentale. D’altra parte Beck aveva un approccio intrapsichico in sintonia con la sua formazione psicoanalitica. Forse questo aspetto potrebbe da solo spiegare la mancata differenza di efficacia: un possibile vantaggio della PP su di una psicoterapia soltanto “cognitiva”, per la presenza di una componente che vi manca, appunto il comportamento relazionale del paziente.

Confesso di essere un po’ stanco di leggere articoli sulla PP, come se questa fosse una versione attualizzata della psicoanalisi. Non lo è. Ma se non lo è, e aspira comunque ad uno status “scientifico”, i suoi sostenitori dovrebbero chiarire quali ne siano i fondamenti e perché sono validi. Che l’efficacia clinica fosse usata per dimostrare la validità dei principii usati accadeva sì negli anni ’50, ma allora si trattava di principii sperimentalmente stabiliti, non teorici!

In conclusione: ben vengano gli studi sperimentali, ma attenzione alle trappole che vi possono essere!

LEGGI ANCHE:

ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

 

BIBLIOGRAFIA:

I paradigmi sperimentali nelle ricerche sullo schema corporeo

Paola Alessandra Consoli.

 

“Io sento il mio io.

Mi pare di conoscerlo meglio degli altri.

Ne sono sicuro”.

Peccarisi Luciano, Riflessioni sulla mente, 2010

Schema corporeo . - Immagine: ©-dimdimich-Fotolia.comSchema corporeo: la rappresentazione mentale del nostro corpo ci consente, continuamente, di compiere piccoli o grandi gesti, come pettinarci, utilizzare correttamente le posate, o utilizzare gli strumenti del nostro lavoro.

Solo quando questi comportamenti, che diamo per scontati, sono disturbati da una patologia, ci rendiamo conto di quanto siano importanti nella nostra vita.

I disturbi della rappresentazione corporea si possono manifestare in patologie psicologiche e psichiatriche, ma molto più spesso come conseguenza di patologie neurologiche (lesione cerebrale o lesione periferica, epilessia, ictus, emicrania). Nel primo caso si parla di “interruzione dell’immagine del corpo”, nel secondo di “disturbi dello schema corporeo” (Vignemont, 2010).

Il protagonista del funzionamento di una corretta rappresentazione corporea è il lobo parietale, ritenuto responsabile dell’organizzazione di tutte le aree sensomotorie e connesso con l’orientamento nello spazio. Gli studi sulla somatotopia hanno permesso di predisporre mappe della corteccia cerebrale per cui ad “ogni punto della superficie cutanea corrisponde un punto di massima eccitabilità corticale” (Benedetti, 1969, p.467).

Non si tratta di una rappresentazione punto per punto, perché ogni punto eccitabile della cute corrisponde a una superficie di diversi millimetri del giro post-centrale e alcune regioni del corpo (labbra, dita) sono rappresentate da superfici più vaste della corteccia rispetto ad altre. Questi recettori periferici, oltre alla percezione tattile, hanno un ruolo importante nell’orientamento spaziale. Il lobo parietale ha diverse funzioni, distinte ma correlate fra loro: la percezione tattile, la percezione del proprio corpo (somatognosia), la percezione dello spazio (gnosia spaziale), l’organizzazione superiore dei movimenti (prassia) (Benedetti, 1969).

La ricerca neuropsicologica moderna impiega paradigmi sperimentali differenti e forse stravaganti per comprendere le modalità di funzionamento della nostra corteccia cerebrale quando viene eccitata da uno stimolo tattile.

I risultati ottenuti suggeriscono che l’illusione di essere toccati in un punto del corpo impegna la stessa area del cervello che avrebbe risposto se quella parte del corpo fosse stata effettivamente toccata e illuminano la strada a chi si occupa di riabilitazione neuropsicologica per pazienti amputati o con diagnosi di disturbo della rappresentazione corporea.

Le informazioni sensoriali e propriocettive che riceviamo dall’esterno e dall’interno del corpo sono molteplici, convergenti e ridondanti. Spesso non è facile discriminare quale sia il contributo di un senso o di un altro perché il nostro cervello compie continuamente un lavoro di integrazione sensoriale. La multisensorialità e le sue conseguenze sulla rappresentazione del corpo possono essere analizzate creando situazioni sperimentali in cui un’informazione sensoriale è in contrasto con un’altra.

Un soggetto sottoposto all’esperimento della mano di gomma (Rubber Hand Illusion, RHI) viene ingannato quando ha la percezione di un tocco applicato su una mano di gomma posta di fronte a lui.

Nel paradigma RHI, i partecipanti siedono con il braccio sinistro a riposo su un tavolo, nascosto alla vista da un paravento. Viene chiesto loro di fissare visivamente una mano di gomma posta di fronte al soggetto, nella stessa posizione del braccio reale, e lo sperimentatore, con l’aiuto di due pennelli, toccherà ripetutamente e contemporaneamente la mano del partecipante e la mano finta.

Dopo poco tempo, la maggior parte dei partecipanti sentirà il tocco nello stesso posto in cui è stata toccata la mano di gomma e alcuni percepiranno questa mano finta come propria (Kammers et al., 2010).

L’effetto dell’illusione è ridotto quando la postura o la lateralità della mano di gomma è incongruente con la mano reale nascosta dietro il paravento e scompare se la mano di gomma è ruotata di 90° rispetto alla mano del partecipante (Pavani et al., 2000).

La somiglianza tra la mano reale e quella fittizia non influenza la RHI, ma lo stesso non si può dire di una precedente esperienza. Questo dimostra che l’integrazione sensoriale che conduce alla rappresentazione del nostro corpo non è sufficiente a generare la RHI, ma quest’ultima avviene a dispetto di un preesistente senso di auto-attribuzione del corpo (Gallese, Sinigaglia, 2010).

L’integrazione fra le informazioni propriocettive, motorie e visive è disturbata dalla vista della mano di gomma e dall’apparente assenza della propria mano reale. La corteccia premotoria, che ha la funzione di definire l’appartenenza dei propri arti, si fa ingannare perché è portata ad integrare le informazioni che riesce a vedere. In questo caso l’informazione visiva è più potente di quella tattile.

Questo paradigma si basa sull’opportunità quotidiana di poter raccogliere informazioni visive e tattili concorrenti durante la manipolazione di oggetti. Se queste informazioni vengono elaborate in strutture cerebrali diverse, la visualizzazione di una parte del corpo accelera l’elaborazione tattile.

Diverse ricerche hanno dimostrato che l’acuità tattile migliora quando i pazienti vedono stimolare il loro braccio, realizzando un rinforzo visivo del tatto (visual enhancement of touch) (Serino, 2010).

La visualizzazione dell’arto (reale, protesico o mano di gomma) influisce sull’attività della corteccia somatosensoriale, inducendo una rinnovata attività neurale mediante un circuito di interneuroni responsabili del giudizio dell’acuità tattile. La visione contribuisce a definire meglio lo spazio del corpo a cui fa riferimento l’informazione tattile (Serino, 2010).

Lo svantaggio di questo paradigma è che si basa su una rappresentazione illusoria di una mano di gomma statica che non può essere incorporata nello schema corporeo del soggetto proprio per la sua immobilità. I partecipanti a cui si richiede una risposta motoria, perdono immediatamente l’illusione della mano di gomma tornando alla rappresentazione della mano reale (Newport et al., 2010).

Una ricerca interessante è stata condotta da Kammers e coll. (2010) e ha coinvolto 11 studenti universitari che non conoscevano l’esperimento. Per la prima volta si è studiato l’effetto della RHI sui parametri cinematici del movimento di afferrare. I partecipanti erano posti di fronte ad un tavolo alto e indossavano un grande grembiule nero per nascondere le braccia alla loro stessa vista. Il braccio destro era posto nello scomparto inferiore di un dispositivo di legno che conteneva, nello scomparto superiore, la mano di gomma, nella stessa posizione della mano reale.

La RHI veniva indotta da carezze simultanee su pollice e indice della mano reale e contemporaneamente su quella di gomma. Si chiedeva poi ai partecipanti di prendere, in un unico movimento, un piccolo cilindro posto di fronte al dispositivo e nel frattempo si registravano i movimenti della mano destra reale.

Si è verificato che gli studenti avviavano il movimento con la stessa apertura della mano di gomma e se questa non era sufficiente per afferrare il cilindro o la posizione non era corretta, il programma motorio avviato dalla mano reale conduceva al fallimento del compito, a causa di un errore di puntamento. L’errore accadeva più frequentemente se la consegna prevedeva di svolgere il compito ad occhi aperti. Questo succede perché il cervello “si fida” maggiormente di ciò che vede, quindi dell’informazione visiva, rispetto a quella propriocettiva (posizione di partenza, configurazione della mano), ma in questo esperimento la vista si fa ingannare dalla mano di gomma.

Un paradigma davvero curioso è quello del coniglio cutaneo. Applicando colpetti sequenziali prima in una posizione, poi in un’altra del braccio, con vibrazioni puntuali alla giusta frequenza e distanza, si crea l’illusione somatosensoriale di un piccolo coniglio che salta sulla pelle.

Applicando 5 brevi impulsi della durata di 2 msec ciascuno ad intervalli di 40-80 msec sul polso e poi, senza interruzione, gli stessi a 10 cm di distanza dalla prima applicazione e ancora 5 a 10 cm dalla seconda applicazione, i colpetti successivi non si sentiranno solo nei tre posti in cui sono stati somministrati, ma anche in posizioni intermedie, in maniera uniforme, dando la sensazione di un piccolo coniglio che saltella dal polso al gomito. Applicando solo 4 impulsi sulle 3 posizioni si ha una minore distinzione del coniglio illusorio, che scompare del tutto se si applicano solo 3 impulsi (Sherrick, Geldard, 1972).

Il coniglio cutaneo illusorio (cutaneous rabbit) non attraversa la linea mediana del corpo e sembra attribuibile all’attività somatotopica in S1 (corteccia primaria somatosensoriale), che corrisponde al sito di pelle in cui la sensazione illusoria si è verificata. Il “coniglio cutaneo” può anche saltare su un bastone tenuto tra le dita del soggetto esaminato, a dimostrazione che l’oggetto può essere incorporato nello schema corporeo e che quest’ultimo è dinamico e adattabile agli strumenti abitualmente utilizzati dall’individuo, anche se, ovviamente, lo strumento manca di una specifica zona reattiva in S1, che risulterebbe quindi dotata di una plasticità transitoria (Miyazaki et al., 2010).

La ricerca di Miyazaki e coll. (2010) ha coinvolto 8 soggetti con nessuna conoscenza pregressa dell’esperimento. Gli studi con fMRI hanno dimostrato un coinvolgimento delle aree premotoria e prefrontale nella rappresentazione dell’oggetto inclusa nella rappresentazione corporea.

La percezione della forma del corpo può essere modificata sperimentalmente utilizzando l’illusione di Pinocchio. I fusi neuromuscolari sono recettori propriocettivi, posti nei muscoli striati volontari; forniscono informazioni sulla variazione di lunghezza dei muscoli. E’ possibile attivarli sperimentalmente stimolando il tendine con uno stimolo vibratorio. Applicando questa stimolazione al bicipite, la percezione sarà quella di una estensione del braccio, anche se il braccio rimane fermo. Se questo viene stimolato mentre contemporaneamente le dita dello stesso braccio tengono la punta del naso, si produce una condizione paradossale: percepiamo il braccio che si prolunga, la mano si allontana dalla faccia e il naso si allunga fino a 30 cm (Medina, 2010).

In questo caso, contrariamente al paradigma della mano di gomma, l’informazione tattile si integra con l’informazione vestibolare per sovrastare l’informazione visiva e creare l’illusione di allungamento (Lackner, 1988).

L’illusione di Pinocchio costituisce la soluzione di un conflitto sensomotorio: la vibrazione crea l’illusione di allungamento del braccio, ma essendo la mano in contatto con il naso, anche quest’ultimo sembrerà in movimento. Visto che la testa e il corpo sono stazionari, sembrerà che sia il naso a muoversi, crescendo in lunghezza. Le parti del corpo vengono rappresentate nel loro rapporto reciproco e questa rappresentazione è il risultato delle numerose informazioni sensoriali che provengono dal corpo e sono integrate in un tutto funzionale (Vignemont, 2005).

Una variante di questo esperimento è stata proposta da Ehrsson (2005): si è chiesto ad una giovane donna di porre le mani sui fianchi mentre le venivano somministrati rapidi impulsi sul tendine del polso, creando la sensazione che le mani si curvavano verso l’interno. Allo stesso tempo, la donna sentiva la vita e i fianchi restringersi di diversi centimetri per circa 30 sec.

Lo stesso Ehrsson ha sottoposto 24 persone a questo esperimento durante una fMRI e ha verificato un’attivazione parietale tanto maggiore quanto minore è la circonferenza illusoria della vita. L’esperimento può essere ripetuto quante volte sono necessarie per la rilevazione della fMRI, poiché l’illusione di restringimento della vita si manifesta ogni volta che sono applicati gli impulsi.

La plasticità cerebrale, con le sue infinite possibilità di recupero, parziale o totale, da una lesione, consente di mettere in dubbio l’assoluta somatotopia descritta negli ultimi decenni. Il corpo rappresentato nel cervello potrebbe non essere perfettamente isomorfo al corpo reale.

Fino a quando queste infinite opportunità di rappresentazione corporea non saranno scoperte e fino a quando le tecniche riabilitative non avranno raggiunto l’eccellenza nella possibilità di guarigione di un paziente, potremo avere il ragionevole dubbio di possedere non uno ma diversi “corpi nel cervello”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Chi trova un amico, trova un tesoro! Proverbio o evidenza scientifica?

 

 

 

Chi trova un amico trova un tesoro. - Immagine: © Igor Yaruta - Fotolia.comVi siete mai chiesti da dove derivi il vecchio adagio “chi trova un amico, trova un tesoro”? Se ne trova traccia anche nella Sacra Bibbia, dove l’amicizia viene descritta come un tesoro dal valore inestimabile: “l’amico fedele è un balsamo nella vita” (Libro dell’Ecclesiastico, 6,5-17).

Una ricerca condotta nel 2011 a Montrèal, in Canada, fornisce prove scientifiche che sembrano confermare quanto i nostri nonni ci hanno sempre insegnato: la presenza di amici, in particolare del migliore amico, è uno strumento utile in grado di mitigare gli effetti che esperienze negative (un litigio, un brutto voto, etc.) possono avere sulla propria autostima.

Adams, Santo e Bukowski hanno monitorato per quattro giorni un gruppo di 103 tra ragazzi e ragazze (55 maschi e 48 femmine) con età compresa tra i 10 e i 12 anni.

Ciascuno di loro ha dovuto compilare un quaderno annotando ciò che capitava loro durante la giornata e nel contempo veniva misurato il livello di cortisolo presente nella saliva, un ormone il cui aumento sembra direttamente collegato ad esperienze stressanti.

Secondo i ricercatori in un bambino, di fronte ad un’esperienza negativa, si verifica un aumento di cortisolo e una diminuzione di autostima, ma se accanto a lui è presente il migliore amico tale effetto negativo è meno forte e si ristabiliscono più velocemente le condizioni precedenti all’evento, ossia riduzione del livello di stress (diminuzione di cortisolo) e miglioramento del tono dell’umore e del livello di autostima.

I risultati raggiunti sembrano quindi confermare l’ipotesi di effetti protettivi dovuti alle amicizie: la presenza del migliore amico durante un’esperienza negativa riduce in modo significativo il suo effetto su cortisolo e autostima globale.

In assenza del migliore amico invece si verifica un significativo aumento di cortisolo e una significativa riduzione dell’autostima globale.

Non sarà un tesoro in denaro, ma l’amicizia sembra essere effettivamente un “balsamo nella vita”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Tra Alzheimer e ApoE4 c’è SirT1, la proteina target del vino rosso

Viviana Spandri

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare l’Alzheimer. Le anomalie associate ad ApoE4 e Alzheimer, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1.

La Malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease-AD) è la forma più comune di malattia degenerativa invalidante a esordio prevalentemente senile, tipicamente esordisce con un deficit di memoria per i fatti recenti ed è caratterizzata da morte neuronale in seguito alla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, attribuibili alla proteina beta-amiloide.

I malati di AD in Italia sono circa 492000, mentre nel mondo nel 2006 ammontavano a 26.6 milioni, principalmente di sesso femminile. Al momento non esistono trattamenti curativi, o anche solo efficaci al 100% nel fermare la progressione della malattia e la ricerca si sta muovendo in più direzioni per cercare le cause di questa forma di demenza e riuscire a sviluppare trattamenti preventivi.

Una di queste strade di ricerca mira a trovare un trattamento preventivo per il 2.5% della popolazione portatrice di due alleli ApoE4, condizione che nella popolazione di razza caucasica o giapponese porta a un rischio stimato di 10 o 30 volte superiore di sviluppare la malattia rispetto a coloro che non hanno neanche un allele; inoltre l’allele singolo ApoE4 è presente nel 25% della popolazione.

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi quindi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare AD. L’ApoE4 è una delle 3 principali isoforme, insieme ad ApoE2e ApoE3, dell’ApoE (apolipoproteina E), è normalmente coinvolta nelle reazione metaboliche del colesterolo, e nello specifico del Sistema Nervoso Centrale (SNC) viene prodotta dagli astrociti e trasporta il colesterolo ai neuroni attraverso i recettori ApoE.

Resta un mistero quale sia il meccanismo attraverso cui l’ApoE4 aumenti il rischio di sviluppare una malattia degenerativa. In una ricerca pubblicata recentemente dal gruppo di ricerca del Buck Institute è stata dimostrata una correlazione negativa tra ApoE4 e SirT1, una proteina “anti-aging” bersaglio del resvaratrol, presente nel vino rosso.

Nello specifico questo gruppo di ricerca ha scoperto che ApoE4 provocherebbe una grave riduzione nella concentrazione di SirT1, una delle 7 sirtuine che possiede l’uomo, sia in cellule neuronali coltivate in laboratorio che in campioni di tessuto cerebrale di pazienti con ApoE4 e AD.

Le anomalie associate ad ApoE4 e AD, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1, che è stata dimostrata avere un ruolo di protettore per la neurotossicità in quanto associata a un cambiamento nell’elaborazione della proteina precursore dell’amiloide (APP), mentre ApoE4, al contrario, favorisce la formazione del peptide beta-amiloide associato con le placche amiloidi, uno dei segni distintivi di AD.

Inoltre la presenza dell’allele ApoE3 (che non porta ad aumentare il rischio di sviluppare AD) sembrerebbe essere correlata ad una concentrazione più elevata di peptide anti-AD (alfa sAPP) invece che di peptide beta-amiloide pro-AD. Il meccanismo d’azione di SirT1 sarebbe quindi spiegato, dal momento che la sovra-espressione di SirT1 è stata precedentemente connessa all’aumento di ADAM10, la proteasi che scinde APP per produrre sAPP alfa e prevenire la beta-amiloide. L’ApoE4 porterebbe a una diminuzione della SirT1 in rapporto alla SirT2, nota per essere tossica per le cellule neuronali, e quindi mediante questo meccanismo porterebbe alla morte neuronale.

LEGGI:

MORBO DI ALZHEIMERTERZA ETA’GENETICA & PSICHE – DEMENZA

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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