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La cura della Fobia Sociale e il primato tra CBT e terapia Psicodinamica

 

 

 

Dimaggio ansia sociale - Immagine: © intheskies - Fotolia.com - SQUAREMeccanismi differenti per trattare la fobia sociale: terapia cognitivo-comportamentale e terapie psicodinamiche a confronto

Da sempre in psicologia clinica ci si chiede quali siano i trattamenti psicoterapeutici, o almeno gli interventi, più efficaci per determinati sintomi. La risposta definitiva non è ancora arrivata, e le risposte –solide ma non conclusive- che la scienza ci mette a disposizione non sempre ci soddisfano. Per questo desidero tentare una riflessione e condividerla con i lettori di State of Mind.

I sintomi psicologici sono sorretti da meccanismi molteplici. L’ansia sociale può essere mantenuta da rappresentazioni schematiche maladattive di sé con l’altro che portano ad anticipare una risposta negativa quando si attiva il desiderio di essere accettati e apprezzati. Può essere sostenuta da meccanismi di evitamento comportamentale che rinforzano il ritiro sociale e impediscono di contrastare le rappresentazioni maladattive schematiche. Variabili temperamentali possono essere in gioco, ad esempio una timidezza su base genetica. Altri meccanismi di mantenimento possono essere prevalenti, bias attenzionali a segnali di rifiuto o meccanismi di rimuginio metacognitivo che mantengono nella mente il focus su rappresentazioni di umiliazione, derisione e rifiuto.

Se i meccanismi di mantenimento sono molteplici, ne consegue che i punti di attacco sono vari, e che si possa generare miglioramento sintomatico attraverso vie diverse.

In questa ottica, il problema è meno: quale trattamento manualizzato può offrire la migliore soluzione all’ansia sociale (o ad altri disturbi sintomatici)?
Una domanda più interessante mi sembra: quale meccanismo o meccanismi sottendono l’ansia sociale in questo specifico paziente e tra le tecniche disponibili, qual è la più adatta a risolvere il problema?

La logica della ricerca di efficacia sui trattamenti psicoterapeutici non aiuta a dirimere la questione. Il trend prevalente è quello di gettare due trattamenti nell’arena e vedere quale funziona di più. Dimenticandosi che, anche se un trattamento funziona meglio dell’altro, non è detto che sia utile a tutti i pazienti. E non è detto che molti dei pazienti per cui il trattamento che appare superiore non beneficerebbero dell’altro trattamento, più adatto al problema che effettivamente presentano.

Questo dibattito si è recentemente ravvivato a seguito di un trial che comparava la terapia cognitivo-comportamentale (da questo momento CBT: cognitive behavioural therapy) per l’ansia sociale con la terapia psicodinamica, trial che offre spunti di riflessione in questa direzione.

Leichsenring e colleghi (2013) hanno trattato un totale di più di 400 pazienti assegnati random ai due trattamenti (Link). Gli autori concludevano che: entrambi i trattamenti erano efficaci ed entrambi superiori a pazienti in lista d’attesa; che la CBT era superiore per la remissione dall’ansia sociale ma non per la risposta globale; rispetto alle misure secondarie di outcome, ovvero depressione e fobia sociale la CBT era anche lievemente superiore. La differenza tra i due gruppi era però considerata dagli autori piccola. Detto in termini semplici, la CBT emergeva non come nettamente superiore alla terapia psicodinamica.

Alla pubblicazione del trial è seguito un dibattito. David Clark, uno dei principali autori del modello di terapia CBT per l’ansia sociale, e sempre in prima linea nel difendere le ragioni della CBT nei dibattiti scientifici, ha sollevato una serie di obiezioni, tutte mirate a sostenere che la CBT non era stata effettuata al meglio e quindi gli esiti ottenuti erano inferiori a quelli che avrebbe prodotto una CBT applicata secondo canone.

La risposta di Clark si trova qui. La riassumo:

la forma di CBT applicata era stata diluita in 8-9 mesi contro i 3-4 mesi consigliati. Le sedute erano di 55 minuti invece dei 90 minuti consigliati per potere applicare gli esercizi di esposizione comportamentale; la competenza dei terapeuti CBT era inadeguata; i terapeuti CBT non erano abbastanza esperti ed avevano in media meno anni di esperienza dei terapeuti psicodinamici. Clark quindi concorda con gli autori che entrambi i trattamenti erano risultati efficaci e la CBT era superiore. Tuttavia obiettava che la magnitudine della superiorità è stata sottostimata a causa dei problemi sopra elencati. Invoca quindi nuovi studi di confronto in cui la CBT venga applicata in modo pienamente corretto.

 

Gli autori dello studio hanno replicato: Link  Le loro argomentazioni erano le seguenti:

la CBT non era stata modificata e seguiva il manuale di Stangier, Clark e Ehlers. L’esperienza dei terapeuti non aveva avuto un impatto sui risultati. Controbiettano poi che in studi precedenti condotti dallo stesso Clark la competenza dei terapeuti CBT non era stata analizzata, quindi la sua obiezione non aveva fondamento su prove empiriche precedenti e mettevano in dubbio la generalizzabilità del precedente studio di Clark che includeva pochi (21) pazienti trattati da 6 terapeuti super-esperti. Aggiungono poi che se la CBT è stata manualizzata da tempo, la terapia psicodinamica per l’ansia sociale lo è stata da poco e il livello di competenza con cui era stata applicata in questo trial era sub-ottimale, quindi essa per prima suscettibile di miglioramento. Infine precisano di non avere sostenuto che la CBT era superiore alla terapia psicodinamica, ma solo di avere mostrato alcune significatività statistiche in alcune misure di esito specifiche. Il tasso di differenza nei successi tra i due trattamenti era infatti basso (tra 8 e 10%) e insufficiente per affermare la superiorità di un trattamento rispetto all’altro. Concludono quindi che sulla base del loro studio non è possibile affermare che la CBT sia superiore ed è necessario che lo studio venga ripetutamente replicato.

Il dibattito è interessante ed entrambe le parti portano argomenti sensati. Quello che appare evidente è che la differenza nell’efficacia, se esisteva, era minima, e che entrambi gli approcci hanno buone ragioni per dire che il loro trattamento poteva essere implementato meglio. Il che, ed è un merito, invita a raffinare i trattamenti e migliorarne l’applicazione.

Tornando al mio punto di partenza, è probabile che il punto interessante non sia quanto le terapie siano efficaci, una volta stabilito che nessuna della due si imponga come chiaramente migliore e quindi da suggerire ai pazienti come prima scelta.

I due trattamenti erano completamente diversi rispetto a tecniche usate. La terapia psicodinamica cercava di aiutare i pazienti a riconoscere i propri schemi interpersonali che sottendevano l’ansia sociale e a prenderne distanza. La CBT usava un repertorio di tecniche, quali esperimenti comportamentali e rescripting immaginativo.

Il clinico che è interessato per motivi politici ed economici a mostrare che un approccio è superiore all’altro tenderà a leggere i risultati di studi come questo in termini: questo trattamento è superiore e va proposto o imposto sugli altri.

Il clinico interessato a comprendere la psicopatologia e a smantellare la psicoterapia scoprendone gli ingredienti efficaci può imparare da studi del genere e da questo dibattito che esiste un repertorio di tecniche adatto a trattare aspetti diversi alla sorgente dello stesso problema. Diventa un clinico con più frecce al proprio arco, capace di intervenire con più strumenti tecnici dopo un’adeguata case-formulation.

LEGGI LA RISPOSTA DI LUCIO SIBILIA A QUESTO ARTICOLO

LEGGI ANCHE:

ANSIA SOCIALE 

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

BIBLIOGRAFIA:

AUTORE DELL’ARTICOLO:

Giancarlo Dimaggio – Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma.

Alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche – Assisi 2013

Assisi 2013

La relazione tra alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche

Andrea Poli 1, 2, Cristina Meoni 1, Claudio Bartolozzi 3, Giancarlo Muscas 4† & Ferdinando Galassi 5

1Scuola Cognitiva di Firenze, via delle Porte Nuove, 10, Firenze; 2Istituto di Neuroscienze, CNR, via Moruzzi, 1, Pisa; 3AOU Careggi, Dipartimento di Fisiopatologia Clinica, Reparto di Genetica Medica, Firenze; 4AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Neurologia, Firenze; 5AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Psichiatria, Firenze.

INTRODUZIONE:

E’ ormai noto che i pazienti con PNES (Psychogenic Non-Epileptic Seizures) mostrino un’esperienza emotiva più intensa (Roberts et al., 2012) e che un estremo arousal emozionale possa risultare in un fallimento integrativo della memoria (van der Kolk, 2006), ma non vi sono ancora evidenze definitive sulla relazione tra dissociazione ed alessitimia in questi pazienti. (Myers et al., 2013; Schacter & LaFrance, 2010).

La ricerca si propone di verificare le seguenti ipotesi: 1) la predisposizione alla dissociazione è un fattore predittivo per lo sviluppo di PNES; 2) l’alessitimia è mediatore degli effetti della dissociazione sulle probabilità di sviluppare PNES.    

14 pazienti con PNES, 13 pazienti con PNES in comorbidità con epilessia (PNES+EP), 9 pazienti con EP (tutti selezionati con monitoraggio video-EEG) e 16 controlli sani (HC, Healthy controls) hanno compilato i seguenti strumenti: DES-II, TAS-20, BDI-II, STAI-S e STAI-T.

Dai modelli di regressione logistica risulta che solo le sottoscale EOT (della TAS-20) ed Abs (della DES-II) sono in grado di predire in maniera significativa l’appartenenza al gruppo PNES. Dall’analisi di mediazione/moderazione risulta che la sottoscala Abs è in grado di predire l’appartenenza al gruppo PNES, ma non al gruppo PNES + EP, ed sil suo effetto è pienamente mediato (full mediation) da EOT.

La predisposizione ad uno stile dissociativo di gestione emotiva è un fattore predisponente allo sviluppo di PNES e il suo effetto si concretizza in uno stile di pensiero prevalentemente orientato all’esterno.

 

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DISSOCIAZIONE PRESENTAZIONI

Il trauma e il corpo. (2012) – Recensione dell’edizione italiana

Tutti gli articoli sul V Forum sulla Formazione in Psicoterapia di Assisi 2013

 

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) – Recensione

 

Recensione del Film:

La vita di Adele – Palma d’oro a Cannes 2013

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND 

 

I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I, I follow you, dark boom honey 

I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I follow you dark boom honey 

I follow you ..

(da “I follow rivers”, di Likke Li)

 

La vita di adele di abdellatif kechiche. -Immagine: Locandina

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La semplicità e leggerezza della musica che accompagna Adele verso la pienezza dei suoi sentimenti descrive in modo perfetto quell’attimo, quella luce che vediamo all’improvviso accendersi nel suo volto durante la festa del suo 18esimo compleanno.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) è un affresco coloratissimo di umanità, di sguardi, di volti ed emozioni che difficilmente si trovano così ben rappresentate e con la delicatezza mostrata dal regista. Adele è un’adolescente, tormentata lettrice di romanzi, affamata di vita, curiosa e solida nelle sue certezze e nei valori che la accompagnano: le piacciono gli spaghetti al ragù che cucina il papà e da grande vuole fare la maestra, per restituire al mondo quello che le è stato insegnato.

La storia d’amore con Emma arriverà come arriva ogni storia d’amore a 17 anni: improvvisa, dirompente e accesa da un forte desiderio di perdersi nell’altro, di sentire l’altro vicino con il corpo e con la mente, in modo totale e assoluto. 

Emma è una studentessa di belle arti, dai capelli blu, trasgressiva e pienamente consapevole della sua sessualità. Entra in scena come una guida adulta per Adele, ma a poco a poco trova in lei una musa, trae forza e passione dalla spontaneità con cui Adele si tuffa nella vita.

Attraverso lo sguardo di Emma, Adele inizia allora a conoscersi, a scoprire il suo corpo e la sua sessualità e a costruire una lenta ma necessaria frattura tra il suo mondo prima e dopo l’incontro con lei. Si alternano sul volto di Adele, sempre in primo piano e sempre generoso nell’esprimere emozioni, paura ed eccitamento, tormento e spensieratezza in una danza che descrive la lenta esplorazione dei suoi sentimenti e bisogni più profondi.

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. 

Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La normalità della scelta di un amore omosessuale è un dato assodato, non più neanche in discussione. L’omofobia compare solo un attimo negli insulti degli adolescenti compagni di classe di Adele, e neppure tutti. Viene presto liquidata come una reazione dovuta all’immaturità, al facile giudizio. Null’altro.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La storia di Adele è la storia di chiunque si sia innamorato a 17 anni e abbia lottato per affermare il suo sentimento, forte e impossibile da lasciare inascoltato.

Il bisogno di capire cosa vuol dire “che manca qualcosa al cuore” – domanda con cui si avvia il film in un’appassionata lezione dell’insegnante del liceo di Adele – è un bisogno che diventa quasi fisiologico, che guiderà tutte le scelte di Adele da lì in poi. Proprio come la fame, il sonno. Semplicemente una necessità.

Il film assume dunque le caratteristiche di un romanzo di formazione, piuttosto che di una storia d’amore.

Permette di spiare la sua protagonista da una prospettiva vicinissima, di coglierne dubbi e incertezze, di seguirla per tutti i 179 minuti della pellicola, mentre esplora il mondo altro da casa sua. 

Quell’ “impressione di fare finta su tutto” è la scintilla che avvia la sua ricerca: la sensazione di non avere un’identità stabile, di non essere completa passeranno da lacrime amare ed esplosioni di gioia, ma nel vestito blu in cui si muove nel secondo ed ultimo capitolo del film possiamo vederla finalmente autentica e completa.

Pronta a continuare la sua corsa, a soffrire e a crescere ancora.

 

LEGGI:

ADOLESCENTILGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDERCINEMA – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

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La madre-drago delle pazienti anoressiche – Disturbi alimentari

Di Paola Alessandra Consoli

“’E’ difficile mettere in discussione la relazione con una madre di vetro,

 fragile e infantile, incapace a sua volta di avere una propria autonomia, 

una madre che pensa potrebbe spezzarsi qualora venisse disattesa, 

delusa e abbandonata”

Fabiola De Clercq, Donne invisibili. 1995. 

 

La madre-drago delle pazienti anoressiche - Disturbi alimentari. -Immagine: © olly - Fotolia.comLa madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico.

La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Il disturbo alimentare è un evento che colpisce l’individuo e il suo nucleo familiare, come un trauma, una violenza inaspettata, che coglie impreparati e provoca dolore, impotenza, ansia, rabbia.

I problemi che interessano la figlia o la sorella anoressica (in 9 casi su 10 la paziente è una donna) sono così evidenti e drammatici da rendere impossibile la negazione. Il dimagrimento, i disturbi psico-fisici, il rischio di morte devono essere affrontati ad ogni costo e, possibilmente, accettati.

L’accettazione implica però una presa di responsabilità, soprattutto da parte dei genitori, che costituiscono, involontariamente, la principale causa eziologica della malattia anoressica.

Quando è evidente che i tentativi di far mangiare la figlia non sono sufficienti, quando si scopre che non esistono farmaci per “far tornare l’appetito” (la prima facile spiegazione che si dà una famiglia), allora diviene necessario capire cosa porta una ragazza al desiderio di scomparire, cosa nasconde la magrezza. Ed è in questo momento che la famiglia si scopre falsamente perfetta e la madre fa i conti con il suo essere un Drago per la figlia.

Si scopre ancora, paradossalmente, che la “non fame” alimentare dell’anoressica nasconde un’immensa fame d’amore: verso il padre, poco o nulla presente o, al contrario, portatore di un abuso materiale, mentale o fantasticato, o verso la madre che nutre meccanicamente e senza amore con un cibo materiale, freddo, elargito per dovere che sostituisce con gli alimenti la presenza fisica e psichica che non è capace di dare (Recalcati, 1997).

La madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico. La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Tutti i desideri di nutrimento tipici dell’individuo (alimentari, sessuali, affettivi) sono, per l’anoressica, esperienze di perdita, rinuncia, confusione e orrore.

Il suo bisogno di essere riempita, amata, fecondata, dall’amore materno e dal piacere del padre, dall’esperienza della propria efficacia e coesione, è andato distrutto o è stato sostituito dalla difesa compiacente, dalla rinuncia di sé per fare spazio alla madre e alla vita di quest’ultima.

L’anoressica arriva a negare i suoi bisogni per non sentire la dipendenza, vivendo la tragica esperienza di una lotta continua tra bisogno della madre e necessità di separazione dalla madre, per una fisiologica separazione/individuazione, resa più difficile da una madre che non accoglie ma respinge, non abbraccia ma divora. La dipendenza dal materno diviene un incollamento alla madre, l’identificazione non è simbolica, non c’è separazione (quindi non ci sarà identificazione), ma è un voler diventare come la madre (Marinelli, 2004).

L’anoressia è quindi una manovra di separazione dalla madre, che invade ed impedisce la costruzione di se stessa. La malattia della figlia apre un vuoto, anzi è un vuoto che delimita la distanza tra i desideri e le aspettative materne e le rinnovate aspettative della figlia.

Scomparire, ridursi, paradossalmente, è necessario per comparire, per farsi vedere come Altro dalla madre. Il sintomo anoressico è il primo annuncio di un sistema familiare patologico, finalmente alla luce, che si mantiene in equilibrio su una falsa normalità che l’erompere del sintomo manda in frantumi (Dillon Weston, 2005).

Il rapporto del soggetto con il cibo non riguarda solo il bisogno fisiologico della fame, ma è lo strumento con cui intessiamo relazioni familiari, sociali e relazionali (cuciniamo come ci hanno insegnato, in contesti definiti dalla nostra cultura, per condividere momenti intimi con gli altri).

Il rapporto con il cibo è il rapporto con l’altro, è un messaggio, uno scambio, un dono ricevuto o rivolto all’altro, è il primo dono di una madre alla propria figlia appena nata.

Fino allo svezzamento, madre e figlia sono uno stesso corpo, dipendono l’una dall’altra perché anche una madre smette di essere solo figlia al momento del parto.

Lo svezzamento è una separazione necessaria all’individuazione come altro dalla madre. Lacan parla di “complesso di svezzamento”, cioè la forma arcaica di imago materna che fonda i sentimenti più antichi che legano l’individuo alla famiglia; è un processo costituito da due elementi diversi:

– la fissazione di una tappa dello sviluppo psichico,

– la ripetizione del complesso, cioè un’attività che si realizza in modo inadeguato quando si presenta un certo tipo di esperienza.

Mentre l’allattamento è una relazione biologica e istintuale, lo svezzamento non è frutto dell’istinto, ma dei fattori culturali. Ogni madre, pur con le indicazioni della cultura, può agire in autonomia, e darà allo svezzamento un significato personalissimo, lasciando la sua impronta eterna nello psichismo materno e filiale. Per questo motivo, lo svezzamento può rappresentare un trauma ed essere causa di diversi effetti patologici: anoressia, tossicomania per via orale, nevrosi gastriche.

Quando lo svezzamento non avviene in maniera corretta, madre e figlia divengono due parti dello stesso corpo; la dipendenza che si instaura soffoca in un abbraccio mortale la figlia che vorrebbe avere un ruolo e una funzione diversa da quella impostale dalla madre (Onnis, 2005).

Quest’ultima ha il compito di passare il testimone alla figlia che deve affrontare autonomamente le proprie esperienze. Una donna che cerca o confonde la sua identità nel solo statuto di madre ha il terrore di perdere la propria bambina che sta diventando donna, perché con lei perderebbe lo scopo della propria esistenza: essere donna ed essere madre sono due aspetti del sé che possono convivere senza sacrificare il primo al momento del parto.

La figlia, a sua volta, per non deludere la madre, sceglie per sé un corpo anoressico, sempre più piccolo per somigliare alla bambina che è stata. La scomparsa delle mestruazioni è vissuta come una conquista perché riesce a riportare indietro il tempo, lì dove l’ansia e la rabbia materna sono iniziate. Questa difficoltà di confronto con il materno è vissuta in maniera tragica, il passaggio dal corpo di bambina al corpo di donna, in qualche caso, non è vissuto come una transizione ad una nuova fase della vita, ma come una perdita della vita stessa (Selvaggi, 2005).

L’anoressica è allora la protettrice di una falsa e precaria unità familiare: fermando ad ogni costo la sua crescita e la separazione dalla famiglia (da cui anzi diventa anche più dipendente per i problemi di salute che accompagnano l’anoressia), l’angoscia di separazione dalla madre (e talvolta anche dal padre) trova consolazione e congela la famiglia in un “tempo sospeso” (Ferro et al., 1992).

L’illusione di riuscire a sospendere la transizione adolescenziale è una credibile risposta alle difficoltà della famiglia a compiere il passaggio da una fase all’altra del ciclo vitale della figlia, in stretta adesione ad un mito di rigida unità familiare che non si può trasgredire e che blocca la famiglia in un eterno presente senza futuro. La ragazza anoressica vive il duplice ruolo di difendere questo mito rimanendo con le fattezze di una bambina, che segue “vincoli invisibili di lealtà” per regredire e proteggere la famiglia e, al tempo stesso, trasgredire questo mito, perché il suo digiuno ostinato spezza traumaticamente la tranquillità familiare (Onnis, 2005).

Molto spesso queste angosce di separazione percorrono almeno tre generazioni perché anche la madre della paziente anoressica è stata, a sua volta, paladina di unità familiare per contrastare costruzioni difensive del nucleo di appartenenza, dove il lutto, la malattia, la separazione richiamano il tema della perdita che incombe su queste famiglie.

Il paziente anoressico è quindi il messaggero di un gruppo primario che funziona in assunto di base di dipendenza: “da un lato c’è una persona i cui bisogni non hanno potuto trovare riconoscimento da parte delle figure primarie, con particolare riferimento all’investimento precoce del corpo sessuato come elemento capace di generare conflitti generazionali; dall’altra, un gruppo famiglia che teme il confronto con le emozioni connesse alla novità, all’eccitazione e all’aggressività e si rifiuta di elaborarle, le nega e le isola; un gruppo incastrato […] nel tentativo di mantenere una posizione al di qua del lutto e della separazione” (Selvaggi, 2005).

La paziente anoressica arriva ad odiare il suo corpo, dannoso per la famiglia che ama, perché è un corpo sessuato che suscita repulsioni e conflitti con le figure di accudimento.

Recalcati parla di una “repulsione per il vuoto” che caratterizza i pazienti anoressici che cercano di “sfuggire all’ossessione della pienezza che affolla le loro menti” (Dillon Weston, 2005).

Ricercare avidamente il vuoto assoluto è una sorta di denuncia per una ragazza anoressica che non vuole riempire la sua solitudine illimitata con il cibo offerto dalla madre: bisogno di amore, esperienze, libertà e fiducia al posto del cibo (Recalcati, 1997).

Winnicott parla di “vuoto controllato” con il quale si cerca di affrontare il “terrore del vuoto”. Questo vuoto controllato può essere anche una difesa da una madre divoratrice, vuota a sua volta, che vuole alimentarsi con le risorse della figlia, con la sua giovinezza, con la sua fame di esperienze e di vita. Una madre che chiede alla figlia di colmare il suo stesso vuoto, proietta in lei i suoi bisogni, la sua impossibilità a reagire, diviene a sua volta una bambina che cerca nella figlia la madre contenitore che non ha avuto (Winnicott, 1985).

L’anoressica, figlia di una madre Drago che vuole divorarla, non può far altro che ridurre il proprio corpo, renderlo solo ossa dure, impenetrabili e inaccessibili. Solo così potrà salvarsi dalla madre divoratrice (Recalcati, 1997).

Invece, la figlia di una madre sufficientemente buona, utilizzando l’holding materno e la rêverie percepirà la situazione di calma necessaria per lo sviluppo del proprio Sé, per il riempimento del proprio vuoto, diverso da quello materno, entrambi vivi, due contenitori con contenuti diversi, come diverse sono le due individualità. Questa madre porta dentro di sé e vive nella realtà, un rapporto sufficientemente strutturato e positivo con il maschile, senza inibizioni e conflitti corporei e lo trasmetterà alla figlia, concedendole, come un dono, oltre che un diritto, “il passaggio da una corporeità infantile e relazionale ad una corporeità sensuale e progressivamente adulta” (Manzoni, 2010).

Una ragazza che in famiglia non ha la possibilità di vivere esperienze di oggetto-Sé rispecchianti e validanti, che non si sente accettata, confermata, che sente invece di dover compiere riparazioni di sé per essere presentabile e accolta dagli altri, bloccherà il progetto nucleare del Sé,  sostituendolo con uno compiacente alle aspettative materne (Di Luzio, 2010).

L’anoressica utilizza il corpo per narrare le carenze empatiche della madre, per manifestare la propria sofferenza, ma al tempo stesso per dimostrare la padronanza del proprio corpo, che la Madre Drago vorrebbe plasmare a suo piacere: un corpo che contiene le sane pulsioni adolescenziali, che però devono essere messe a tacere in una continua dolorosa danza che va dal soddisfare la madre al soddisfare se stessa. Il corpo diviene la raffigurazione di oggetti interni inconsci, e gli attacchi e i rifiuti sono diretti sempre ai propri oggetti interni, soprattutto la madre (Gabrielli, Nanni, 2010).

Attraverso l’identificazione primaria, il corpo anoressico è il corpo della madre cattiva e minacciosa, quindi i suoi stimoli e i suoi bisogni alimentari, seppure avvertiti, devono essere ignorati, un sentimento che la Selvini Palazzoli definisce come “diffidenza cenestetica”, una difesa dell’Io dominata dal rinnegamento del corpo e del cibo-corpo (Selvini Palazzoli, 1965).

Secondo Jung, l’archetipo della Madre Drago è il “simbolo della madre bisognosa che non può permettere ai figli di andarsene, perché ha bisogno di loro per la sua stessa sopravvivenza psichica”; è una Madre Terribile che divora i figli prima che riescano a reclamare un diritto alla separatezza (Dillon Weston, 2005).

L’anoressia è quindi un meccanismo di difesa dalla Madre Drago che non potrà più divorare la figlia (che ri-diventata bambina potrà nuovamente essere accudita come tale, reiterando la non-indipendenza tra i due corpi), ma anche un mezzo per difendere la madre reale dalla Madre Drago interiorizzata: una figlia divorata dalla madre e verso cui prova una divorante rabbia orale e che esprime, attraverso l’anoressia, una forma simbolica della stessa rabbia.

Il vuoto anoressico appartiene alla paziente ma anche al suo gruppo familiare, che manca dell’ossigeno psichico che mantiene vivo il sé. Questo impoverimento emotivo risale alle generazioni precedenti, è intessuto da regole segrete che legano i familiari con legami asfissianti e patologici (Dillon Weston, 2005).

La conquista dell’Io è un percorso lungo e difficile che segna la nascita dell’Eroe, capace di fare esperienza dell’archetipo della Grande Madre, di coglierne gli aspetti fecondi e benefici e di sfuggire ai suoi aspetti castranti. L’Eroe viene alla luce da una coscienza arricchita dei propri desideri, che ha saputo accogliere ed elaborare i propri contenuti inconsci, senza il timore di essere divorato o di divorare a sua volta. E’ finalmente possibile vivere un’esistenza meno pesante, meno opprimente, il vuoto anoressico può essere riempito di vita, di amore, di cibo.

 LEGGI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – EDANORESSIA NERVOSA – ANPSICOANALISIPSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE FAMIGLIAGRAVIDANZA & GENITORIALITA’

Maternità conflittuale: un percorso nella cura dei disturbi alimentari – Di Sabba Orefice

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 17 – Perseguire o desiderare – Rubrica di Psicologia

Il progetto CARE per ridurre lo stress degli insegnanti

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Se è vero che l’apprendimento non è trasmissivo ma si gioca nella relazione esperto-novizio, lo stress e burn-out degli insegnanti è un tema caldo (al di là del benessere dei singoli)  in relazione all’impatto che questo può avere rispetto alla loro efficacia educativa con gli allievi.

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Il progetto combina interventi di skills training emotivo e di  mindfulness per fornire agli insegnanti strumenti utili per regolare efficacemente le emozioni nel contesto della relazione di apprendimento con gli allievi – anche pensando a situazioni relazionali difficili in classe con gli studenti.

Il programma ha previsto 30 ore di training nell’arco di 4-6 settimane nonché sedute di coaching telefonico. 53 insegnanti sono stati arruolati nel progetto e randomicamente assegnati al gruppo CARE oppure a una condizione di controllo.

Rispetto al gruppo di controllo, gli insegnanti che hanno partecipato al training CARE avrebbero riportato miglioramenti in termini di benessere e riduzione del burn-out, nonchè una percezione di maggiore efficacia nella gestione degli studenti e della classe.

Secondo i ricercatori il punto di forza del progetto risiederebbe proprio nella specificità e tailorizzazione del training rispetto alle specifiche esigenze degli insegnanti in termini di situazioni che con un grado di regolarità si presentano come cronicamente stressanti e difficili da gestire anche dal punto di vista emotivo.

LEGGI:

MINDFULNESS – STRESS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.9 – Professionisti e Giovanili

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #9:

I leader nei professionisti e i leader nelle squadre giovanili

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra #9- professionisti e giovanili. -Immagine: © lilufoto - Fotolia.comL’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Fino ad ora l’attenzione è stata posta sulle funzioni e sulle caratteristiche dei leader nello sport professionistico. Esistono importanti differenze, sia per il leader istituzionale che per quello intimo, se l’ambito sportivo considerato è quello giovanile.

Per l’allenatore le condizioni in cui lavora e i compiti che deve svolgere, come evidenzia Mazzali[1995], risultano ben diversi. Questo avviene perché, di per sé, le due tipologie di società (professionista e giovanile) hanno obiettivi diversi in partenza.

In particolare le società professionistiche devono far crescere talenti e ottenere risultati per motivi principalmente economici, mentre lo sport giovanile si deve porre finalità sociali ed educative.

Per questo motivo anche il ruolo dell’allenatore-leader cambia (fermo restando che, secondo l’autore, un buon allenatore sa ottenere risultati a entrambi i livelli), perché diverse sono le richieste.

L’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.Egli ricerca risultati nell’immediata prestazione dei suoi atleti e accetta, perché anche queste sono “regole del gioco”, di dover essere (ovviamente entro certi limiti) “egoista e spietato” [Mazzali, 1995].

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Può valere quindi la metafora di Mazzali per cui l’allenatore professionista raccoglie, l’allenatore del settore giovanile semina e il buon allenatore sa fare entrambe le cose. Ciononostante esistono tecnici puri, che non hanno le capacità per far crescere il talento di un giocatore e ottengono risultati solo se si trovano in una realtà sportiva dove questo è già stato fatto emergere, e allenatori insegnanti, a cui manca la spregiudicatezza per raccogliere i frutti del loro lavoro positivo.

Per quanto riguarda il capitano, nel momento in cui si prende in considerazione l’ambito giovanile il discorso cambia notevolmente. Anche nelle squadre di giovani può esistere e costituirsi la figura di un leader intimo il quale però deve mantenersi, sia per esperienza e sia per conoscenza della materia, completamente subordinato all’allenatore. Questa condizione, che lo rende un leader limitato all’ambito socio-relazionale, risulta essere un beneficio sia per lui che per gli altri membri della squadra.

Se non viene contrastato, anche rigidamente, un eventuale suo dominio sulla squadra può provocare in lui un senso di sopravvalutazione che rischierebbe di fare perdere al giovane condottiero l’umiltà necessaria per conoscere i propri limiti, per riconoscere l’autorità dell’allenatore e, quindi, per poter migliorare sé stesso, crescendo [Mazzali, 1995].

Allo stesso modo gli altri giocatori crescerebbero come atleti senza abituarsi a prendere i propri rischi e le proprie responsabilità, abituati ad appoggiarsi in ogni momento di difficoltà della prestazione a qualcuno ritenuto più esperto o più abile.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Interview with Sananda Maitreya – Music and Psychology

Il Dr. Gaspare Palmieri intervista:

Sananda Maitreya

 

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Sananda . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_17

  1. Hello Sananda Maitreya! The music that you are playing recently, the Post Millennium Rock (PMR) has in my opinion the taste of freedom and joyful creativity. Can you tell us a little more about the process of composing your recent songs?

Thank you for your interest. Mind you, my initial reaction upon hearing of your request was, “Oh my God, they know I’m insane!” Then again, now that the cat is out of the bag, we may begin. Mind you as well, I do not feel lonely as an insane person these days. Thankfully, the waiting room is full of us, more than ever before! As it pertains to my ‘process’, since childhood I have heard music and words in my head. Most of the time, it simply comes out of nowhere EXACTLY as it happens to you, that you are sitting on the bog, and all of a sudden comes the idea you were looking for. They come as ideas, but as musical and lyrical ideas. Usually, it happens that I get what is called the ‘Hook’ and ‘Chorus’, the main lyrical thrust, and whatever the main riff that the guitar or bass will employ. I can also tell by listening to it unfold, whether it will be a guitar or keyboard driven piece of music. And the rhythm is a given, it comes with the idea. For me, it has always seemed as were I simply no more than one of music’s messengers. I am a Mailman, I deliver her mail. For this reason, many writers are often seen as ‘mystical’, because in fact they ARE aware of a process occurring between what we perceive as the veil between the worlds. And whether or not it be reduced to a mere biochemical process, it is still no less a wonder to behold from one’s emotional perspective. To state, I have never really felt that I ‘write’ the songs, as much as I listen to what is presented to my moments, and capitalize by finishing it with what simple arranging skills the many years have allowed me to learn. At best, I Co- Write with my limited perception of spirit and the muses sent to look after wandering creative fools like me. The music is a container for all emotional content. PMR was coming out of a period of great brooding, and using music to express sorrow and pain is one of the reasons we need the music. Though now is a time for less brooding and more celebrating. WE MADE IT! YES TO MORE JOY, PLEASE! We will take more joy if we can get it. We are not prejudiced against joy.

  1. Your musical style has changed in the years, but your incredible voice is a sort of bridge between your old identity and Sananda. An individual’s emotional response to life experience can affect the qualities of their voice. Do you think that your voice has changed through the years?

You are threatening to actually seduce me with credible questions, dear Sir! Listen, it is simple. The human body is an electro-magnetic antenna, both sending and receiving information in the form of electrical data. The Voice is the amplifier AND the filter in such a way as to quite accurately measure the human’s state of mind and physical alignment. And as a filter, it also stores information (experience) that then filters again through the amplification responsibilities of the voice. To wit, the voice is a barometer of the state of consciousness it is in contact with and through. It is capable of both clearing and retaining vast reserves of information. And the THROAT and LUNGS are vehicles of the Voice. I sing like an antenna with a will towards a mood and a tone. Otherwise, I am ONLY there as a singer to LISTEN to what is being sung, NOT to sing it. At this point, I do not sing songs. I let the SONGS SING ME, because I am there anyway and what else do I have to do, but show up and be ready to be sung. It is par for the green, that as singers get older, they realize that they can get away with singing much less, and getting more out of it. Yet, this is something that I learned conclusively, studying two of my great masters: Miles Davis and Frank Sinatra. And if my musical style has changed, it is as much as anything, because we were given the space for it to GROW, for what is change but growth?

  1. I have read that your music has been used as therapy in a brain Trauma Center in Tokyo. Can you tell us something more about that? How did the doctors use your music?

I found out through a friend in Japan that I met as a physical therapist. I once needed help with a hamstring and found this wonderful doctor who told me about the use of my music in trauma therapy at the time. I found it very interesting that particularly, he said that the ‘NEITHER FISH NOR FLESH’ project was seen as quite conducive in stabilizing severe trauma. Considering how much brain damage I myself had to go through because of Sony records response to the project, it was weirdly gratifying as well as ironic. I were also told that the song, ‘SHE KISSED ME’, woke people up out of mind coma type situations. Look, music was made to soothe the savage breast. It is what it is SUPPOSED to do. And we are always most grateful and humbled to be a part of ANYONE’S healing experience ANYWHERE. And neither are we prejudiced against getting your mind back together, which is what healing is. And I could go on writing for days on end, of the music, that over the long years have wrested, rested, and saved my soul!

  1. The beneficial effects of music on the brain are well known and studied. Can you tell us an episode (ore more than one) in your life where music has helped you really much?

Indeed, my good man! Exhibit Number 1, upon hearing for the first time the Beatles’ ‘SHE LOVES YOU’, my soul was confirmed. I can remember hearing ‘A HARD DAY’S NIGHT’ and seeing my future. The same happened when I first heard the COASTERS’ ‘POISON IVY’, and then it faded to dark for a while, while I was going through the religious indoctrination of my early youth. Later, STEVIE WONDER, opened my mind to more miracles, The JACKSON 5 were a major part. And the lessons of James Brown were relentless. Gospel and Country music gave me a lot, as did the blues but my heart, quite against all social conventions of conformity, has always been more about Rock, Pop and their wider possibilities. My mixed race aspect gives me a sense of entitlement that I have legitimate access to all that my bloodlines contain and not just that which, in its limits, makes others feel more comfortable about things remaining in their place. I have always adored and idolized the ‘FUCK YOU’ element of Rock. And I Love playing with the fires given to me. I love mixing the music’s of the Africans and the Vikings and kicking some ass into gear. Who feels it does, and who doesn’t can just bring the beer! And finally, I can remember once going through a severe depression and kept looking each day for reasons to continue my journey through this labyrinth of hell. I found myself going into my TV room and putting on a disc of (yes again!), the Beatles, in the film ‘HELP’, performing ‘YOU’RE GOING TO LOSE THAT GIRL’. And over a period of perhaps a very long weekend, I might have rewound and listened to it for over a hundred times, as if I knew that it were the medicine my heart needed to take. And I knew that as Master Poet Robert Frost wrote, I had MILES TO GO BEFORE I SLEEP. Something about the Beatles music touches into the deepest crevices of my life, along with a few others, their music is meat to my bones.

  1. If you were a music therapist with the possibility to work with people with emotional or psychological disorders (anxiety and depression), how would you use the music as a treatment? What kind of music? Would you just make them listen or also try to play instrument or compose songs together?

 

 ALL MUSIC FITS. For exercise, which is the cheapest and most valuable long term form of therapy, ANYTHING THAT MOVES THAT ASS! Go for it and have it! For relaxation, naturally, sounds close to nature are the best. The electronic music is better for the cerebral cortex as it relates to neurological function and the easing of muscle tension. For matters of stress related to the stomach, the lower strings like cello and violas are wonderful. BASS heavy music is good for releasing the tensions held in the lower body, REGGAE in particular is good for this. The Violins help relax mental anxiety and is helpful in bringing the mental and the emotional bodies together. The Flutes encourage mild out of body experiences, such as ‘Letting the mind go’, while the Woodwinds in general are very good for the toning and maintenance of the physical body as it relates to the emotional body. Saxophones encourage active introspection, and TRUMPETS, WAKE YOU UP, and get the body moving in alignment with the WILL. Though my favorite, is the KAZOO, which was made to keep your penis ready! (laugh) And yet, nothing beats the natural sounds of NATURE, her blowing winds, her rushing waters, her rustling leaves. And I swear, that the sound of a Chorus of CRICKETS, may be the most healing of them all.

  1. Which do you think is the role of art and music in mental health and in keeping a psychological balance?

I think the role of art, IN ANY FORM, music or otherwise, is essential to the overall top maintenance of the human machine. Listen, let’s be clear, what I suffered clearly in the past, and still have to deal with the ramifications of, is P.T.S.D. I had to come to terms with this fact and deal with it accordingly, though without the Psychotropics. NOT because I am a moralist, but because I haven’t found any real cool ones yet! I am not against drugs. I am against drugs that don’t work for me, which seems fair enough. I have been advised over the years by many, to begin painting. I never understood why, I cannot draw worth a penny. Yet, this meant that my mind was still limited to the concept of what art was, is and can be. I took up painting after all. I am not great, but I do have something, and the following of it down the rabbit hole, will only take me through the journey needed to rescue whatever it is that the painting lends itself to. The bottom line is, I really LIKE creating and am grateful to be in a position to indulge it. I have come to conclude that, if I speak the truth before God and mammon, MOST OF OUR EDUCATION IS SHIT. We can remember a bunch of facts at any time, but youth should largely consist of PLAY, CREATIVE EXERCISE, and the MUTUAL SOLVING OF PROBLEMS. If we really want the brighter future our hopes promise, we would do well to RELEASE our children from the BURDEN of our education, let them reinvent it, and get on with it. You can learn Arithmetic online. SCHOOL is about navigating and negotiating SOCIAL INTERACTION. And should be overall about FUN. They will, like us, be miserable older bastards soon enough.

  1. Do you believe in musical education for children? How would it be in your opinion the ideal good musical education?

 I believe in teaching music to children yes! But according to their interest. For one, that may mean learning the tuba (poor thing), for another, it may mean listening to the tuba and being content. It gives to all, according to their need. Children naturally gravitate towards the making of music, WE CALL IT NOISE! To them, it is something divine happening.

  1. I am interested in the change of your identity and your name. Why did you choose Sananda Maitreya as a new name? Has it some religious meaning?

I am certain that it DOES have religious meaning as much as it may imply other things. But I do not look for religious meaning, I look for what makes sense. SANANDA came first, After requesting help, through a series of about 3 dreams that I can still recall, as a walking in a forest clearing with friends I knew in the dream to be Angels. And from the woods, I would keep hearing a name called out, which was ‘Sananda’. After the last dream, it dawned on me that THIS WAS MY NAME, WOW, THANK YOU, COOL! Turns out anyway, that Sananda is primarily a GIRL’S NAME IN INDIA, so maybe the dream was also a practical joke played on my desire to change. Like having a sex change without having to touch your nuts! For me, it kills two ducks, I love the ladies and I like the name Sananda. It is just close enough to BANANA, but you don’t have to peel it or watch it turn brown and spotty. As for MAITREYA, after about 3 years of being Sananda, I realized that this was a real new life and spirit and not just a ‘patched up’ one, and that a last name might be useful. During that time, I was reading a friend of mine, J. KRISHNAMURTI, and heard him speak often of his guardian Angel, or spiritual teacher, Maitreya. Krishnamurti’s life experience I could very much relate to, as he had denounced the path set out for him and went his own way so on his recommendation, so to speak, I felt comfortable taking it. In truth, it was all quite familiar to me anyway. Much prior to that, there had ensued a very uncomfortable tug of war over my previous identity. As if, once branded, twice shy. My last identity and its name, no longer belonged to me, and that was made rapaciously clear by the industry and the state. Tug of war lasting too long? LET GO OF THE ROPE. I did, and the rest is a bunch of footnotes. So what’s in a name? Someone else’s money.

  1. I can imagine that changing identity has not been easy from a psychological point of view. Can you tell us if you had to face any difficulties? Did you feel confused at some point or instead relieved?

 It may be assumed that we had a choice, but we didn’t. Me and my band of merry mental men had to abandon ship before the whole thing burned. Has it been difficult? At times enormously so, but at least I am blessed to know what my meditation is. It is mainly when going through small manic episodes that it may effect me. It is no secret that most of us creative types are Manic-Depressive. Though apparently science has verified that the chemical process of Manic-Depression is vital in producing the brainwaves necessary for sparks of inspiration.

I would also imagine that I have worked through some mild Bi-Polar issues, though the greater surprise would be growing up in our culture WITHOUT sustaining Bi-Polar tendencies. And yet again, all of this is but another fancy way of describing what are basically just ANGER and old survival issues. There are of course, as you know, many diseases connected to our anger. My family, my experience, music, art, writing, good food and drink and marijuana have helped me tremendously deal with the wounds I sustained during my time in the culture wars. And at this point, as it concerns ALL OF US, there is no greater battle going on, than for the control of our minds, individually and collectively. I have also learned that ANGER, harnessed is a wonderful servant and motivator. Our processes have value, and our patience with them is vital. And the idea of schizophrenia is interesting because I think we are all attended by a few personalities, mainly what the ancients would regard as our ancestors. The classical Greeks were certain that who can manage his ‘DAEMONS’ could rule the world. Their belief was that our Daemons are there to motivate and inspire. I put mine to work, they are quite valuable and are willing to work for less than the minimum wage. This is why I had to leave America, because with my symptoms and past, they would have me on “OBAMACARE” and underneath an asylum, as the great BO DIDDLEY said, SO DEEP, THEY WOULD HAVE TO PUMP AIR INTO IT. Only the Holy Spirit and what remained of my small wits protected me. And so as not to contradict, bear in mind that my belief in the Holy Spirit is NOT religious, but PRACTICAL.

  1. The choice of changing your name was to give a clear message to your fans and to the music system or it was something you felt inside more deeply?

I am not a martyr to sacrifice myself totally without at least seeing what gain there might be therein for me. I AM WILLING TO DIE IN THE FIRES OF THE PHOENIX, but only if I know that when I rise from the ashes, something is there that I can claim. And if it were about sending a message, then the message was meant for me. But what can be gleaned from my experience is this, THERE IS LIFE AFTER CORPORATE DEATH! Naturally I could not have pulled this off had I not felt it body and soul. I regard my living with a bit more respect than to gamble it on superficial means. And whether we change our names or not, METAMORPHOSIS is real. As the grand master Sam Cooke sang, A CHANGE IS GONNA COME. And notice that I was simply a part of the zeitgeist, because since, many others, as well as companies and nations have changed their names also. I was merely rolling with the flow of the parade!

I thank you for your regard for my work. My mind is a bit mashed up at times, due to the scars of the past, but the good Lord has taught me how to get around that, and use it to my advantage. “We could never manage to get Humpty-Dumpty back into an egg shape, but boy does he make for one hell of a lamp shade!” Bless you and ROCK ON!

Thank you for your time and for your insight!

Thank you again Dr. Palmieri for the opportunity to express these things.

My highest regards to your family and worthy colleagues.

 

 

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IL MIO PSICOTERAPEUTA SUONA IL ROCK

 

BIBLIOGRAFIA:

A BREVE VERRA’ PUBBLICATA L’INTERVISTA A SANANDA MAITREYA IN ITALIANO

Sananda Maitreya . Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_3

Sananda Maitreya . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_7

Validazione della scala di valutazione del benessere (SVB)- ASSISI 2013

 

 

Assisi 2013

VALIDAZIONE DELLA SCALA DI VALUTAZIONE DEL BENESSERE (SVB)

M. Paparusso, M.  Amabili, G. Ceci, L. Cognigni, F. Felicetti, L. Silvetrini, M. Torrieri, L. Troiani

(Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto)

INTRODUZIONE:

Il benessere è un processo che si sviluppa temporalmente attraverso determinazioni del possibile all’interno del contesto in cui si agisce. Queste determinazioni sono scelte orientate sulla base di scopi-valori che guidano i piani di vita.

La Scala di Valutazione del benessere (SVB) è stata messa a punto da Lorenzini e Scarinci nel 2013 sulla base dei recenti sviluppi della ricerca psicologica e delle neuroscienze. 

Obiettivo di questo studio è stato quello di fornire una descrizione dei dati statistici, ottenuti attraverso la somministrazione della versione definitiva dello strumento, in merito ad affidabilità e validità. 

A questo scopo il questionario, per verificare la validità convergente e discriminante, è stato messo a confronto con il Psychological Well- being Scales (PWB, Riff e Keyes, 1995) e con la Symptom Checklist-90 (SCL-90 Derogatis et al.1994).

 

 

LEGGI:

SCOPI ESISTENZIALI – PRESENTAZIONI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 Articolo di presentazione di una nuova ricerca: La Scala di Valutazione del Benessere (SVB)

Curare la depressione post-partum tramite trattamento online

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un gruppo di ricercatori inglesi (University of Exeter) ha indagato l’attuabilità del trattamento online (Internet-based Behavioural Action – BA) nella cura della depressione post-partum.

L’idea si sviluppa all’interno di un panorama internazionale caratterizzato da numerosi casi di depressione materna, che risultano spesso non trattati, sia per reali difficoltà personali sia per pregiudizi nei confronti di questi trattamenti.

Gli interventi psicologici della depressione post-partum sono determinanti per la qualità della vita delle mamme e delle loro famiglie. Il trattamento online si presenta come intervento alternativo da affiancare a quelli utilizzati abitualmente, anche per ovviare ai limiti dei trattamenti face-to-face, come la rigidità nei tempi e negli appuntamenti, i costi, l’assenza di anonimato.

Il trattamento psicologico online (BA) rappresenta un approccio comportamentale funzionale a problemi depressivi delle neomamme. I ricercatori reclutarono 249 mamme attraverso il forum online Netmums.com. Ad ognuna di loro venne chiesto, prima, di compilare un modulo online e poi di rispondere telefonicamente a delle domande tese ad indagare il loro umore. Tra queste, 83 mamme soddisfarono i criteri per la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore e vennero casualmente affidate a due gruppi. Uno ricevette un trattamento usuale, l’altro fu sottoposto al trattamento online, costituito da 5 moduli standard e due a scelta tra i 6 proposti. Per esempio, c’erano moduli su “essere una buona madre”, “cambiare i ruoli e la relazione”, “il sonno” e “la comunicazione”.

Ogni modulo includeva esercizi interattivi ed esempi dettagliati, tra cui una chat di gruppo. Il gruppo era, inoltre, supportato da una serie di telefonate da parte di operatori psicologici. I risultati mostrano l’efficacia del trattamento psicologico online nella cura della depressione, dell’ansia e nel migliorare le difficoltà lavorative e sociali.

Dopo sei mesi dal trattamento, si rilevarono effetti positivi sulla depressione. Il trattamento online sembra, quindi, possedere una buona efficacia nel risolvere problematiche depressive nelle neomamme, grazie anche alla sua facilità d’accesso. Il suo uso parallelo a trattamenti psicoterapeutici abituali potrebbe essere utile per la cura di questi disturbi. La praticità dello strumento può servire, inoltre, per tutte quelle mamme che necessitano di una maggiore flessibilità nel trattamento.

 

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I DISTURBI DEL SONNO E LE RELAZIONI CON LA DEPRESSIONE

 

BIBLIOGRAFIA

Il Cognitivismo Postrazionalista in Italia: Intervista con Maurizio Dodet

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI 

State of Mind intervista:

Maurizio Dodet

Psichiatra Psicoterapeuta, co-fondatore del Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista di Roma.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Maurizio Dodet, Psichiatra e Psicoterapeuta, fondatore del Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista di Roma. L’intervista si è svolta presso lo studio del Dott. Dodet, a Roma. 
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia. 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

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Sport di squadra e sport individuali: quali differenze? – Psicologia

Sara Di Michele

 

 

Sport di squadra e sport individuali- quali differenze?. -Immagine: © pushnovaliudmyla - Fotolia.comGli sport di squadra sono in sintonia con la forma mentis dei soggetti con basso bisogno di chiusura cognitiva più di quanto avvenga con gli sport individuali.

Tutte le discipline sportive si possono suddividere in individuali o di squadra.

Nel caso di sport individuali, l’atleta agisce da solo, come per esempio nell’atletica leggera, nel tennis; nel secondo caso, l’atleta è membro di un gruppo.

Ovviamente si tratta di una distinzione che viene fatta solo a livello agonistico, perché anche negli sport individuali, gli allenamenti sono sempre svolti in gruppo o con altri. Non bisogna inoltre dimenticare che le discipline individuali prevedono comunque delle competizioni a squadre, basti pensare alla staffetta a squadre nell’atletica leggera, o nel nuoto, o al doppio tennis. Le azioni degli atleti della stessa squadra sono indipendenti, e ognuno gareggia singolarmente, ma i risultati individuali convergono in una valutazione collettiva della squadra.

In pratica, aderire ad uno sport individuale significa assumersi la piena responsabilità del proprio risultato, anche se questo farà parte di una valutazione collettiva.

Come definisce Mantovan (1994) una distinzione netta fra sport individuali e di gruppo va operata soprattutto nella dimensione agonistica;  negli sport  individuali, il soggetto compete da solo, in quelli di squadra il soggetto fa parte di un team e la responsabilità della prestazione è condivisa.

Esistono anche altri aspetti che definiscono la differenza tra gli sport.

Tassi (1993) distingue:

Quindi, come si vede dal grafico gli sport fianco a fianco possono essere a loro volta suddivisi in differiti e paralleli, mentre quelli faccia a faccia possono essere suddivisi in mediati o di contatto.

Sempre Tassi (1993) divide gli sport in gioco e disciplina. La disciplina include attività motorie da eseguire in modo molto preciso, in base a schemi rigidamente predefiniti, come nel lavoro del ginnasta. Altri sport valorizzano l’acquisizione di schemi motori giocosi e richiedono di svolgere compiti che prevedono delle variazioni, come per esempio nel calcio, dove l’obiettivo resta comunque fare goal, anche se gli schemi per raggiungere tale obiettivo possono variare, e cambiare di volta in volta in base alle caratteristiche degli avversari, e delle stretegie di gioco adottate.

Sempre secondo lo stesso autore gli sport di squadra tendono a valorizzare la dimensione di gioco e quelli individuali la dimensione di disciplina. Infatti, negli sport di squadra gli atleti sono predisposti a ridefinire continuamente lo schema di gioco, l’azione dei compagni, e le loro prestazioni. 

Il bisogno di chiusura cognitiva è stato postulato da Kruglanski (1989) all’interno della sua Teoria dell’Epistemologia Ingenua, e si riferisce al desiderio dell’individuo di ottenere una risposta certa ad un quesito/problema e all’avversione per l’ambiguità. Si tratta di un bisogno di chiusura non specifico,  la tendenza di cercare e difendere una qualsiasi risposta certa.

Il bisogno di chiusura aumenta perché sono percepiti benefici derivanti da esso (Webster, Krunglanski, 1994).

In altri termini, il bisogno di chiusura va individuato in un continuum che va da un estremo caratterizzato da impazienza cognitiva, impulsività, tendenza a prendere decisioni non giustificate, rigidità di pensiero e riluttanza a considerare soluzioni alternative ad un altro caratterizzato da esperienza soggettiva di incertezza, indisponibilità ad impegnarsi esplicitando un’opinione definitiva, sospensione di giudizio, frequente proposta di soluzioni alternative (Pierro et al.,1995).

Per misurare la dimensione  del bisogno di chiusura cognitiva Webster e Kruglanski (1994) costruiscono una scala  Need for Closure Scale composta da 42 item.

Nel 1998, la stessa scala verrà utilizzata in Italia, per la prima ricerca in ambito sportivo.

Merlo (1998) parte dall’ipotesi dell’esistenza di una relazione tra alto bisogno di chiusura cognitiva e pratica di sport individuali, e basso bisogno di chiusura cognitiva e sport di squadra. Somministra la Need for Closure Scale a 100 adolescenti tra i 14 e i 18 anni.

Gli sport individuali scelti sono stati l’atletica leggera, il nuoto e lo sci, gli sport di squadra pallacanestro e pallavolo.

I risultati, in effetti, rispondevano alla linea di ipotesi di partenza, per cui gli atleti che praticano sport individuali presentano un bisogno di chiusura cognitiva più alto rispetto a chi pratica discipline di squadra.

Lo sport che ha riportato il maggior punteggio di chiusura cognitiva è stato il nuoto, e quello che ha riportato il punteggio più basso è stata la pallacanestro.

I risultati suggeriscono che gli sport di squadra sono in sintonia con la forma mentis dei soggetti con basso bisogno di chiusura cognitiva più di quanto avvenga con gli sport individuali.

Una variabile da valutare, sarà certamente anche l’età degli atleti ai quali è stato somministrato il test. Infatti, in quanto adolescenti, attraversano un periodo di incertezza e transizione, che può ripercuotersi sul bisogno di chiusura cognitiva.

In conclusione, gli sport di squadra e individuali si diversificano in base alle modalità di apprendimento e di approccio mentale necessari per praticarli.

A lungo termine gli effetti delle pratiche sportive saranno diversi: collaborazione, senso di appartenenza, senso del gruppo e spirito di competizione saranno accresciuti in uno sport di squadra.

Al contrario, il senso di responsabilità, la disciplina, la competizione con se stessi e i propri limiti, saranno accresciuti negli sport individuali.

Sarebbe bene che si riuscisse a scegliere uno sport liberi di seguire la propria attitudine, per poter sviluppare un approccio mentale corrispondente alla propria indole, e non un approccio mentale che cerca di forzare e modificare la propria natura.

LEGGI:

ATTIVITA’ FISICA PSICOLOGIA DELLO SPORT

La Leadership negli Sport di Squadra – Psicologia dello Sport – Monografia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Giovannini, D., Savoia, L. (2012). Psicologia dello sport, Roma.Carocci Editore.
  • Mantovani, B.(1994). Azione gesto sport, Milano. Edi-Ermes Scuola.
  • Merlo, C. (1998) Sport agonistico e bisogno di chiusura cognitiva. Uno studio su adolescenti e allenatori nella pratica sportiva individuale e di squadra (tesi di laurea), Facoltà di Sociologia, Università degli Studi di Trento, Trento.
  • Tassi, F. (1993) Scegli il tuo sport. Strumenti psicologici per capire gli sport, per rispondere ai problemi di chi si avvicina allo sport, Firenze. Universale Sansoni.
  • Webster, D., Kruglanski,A.W. (1994) Individual Difference in Need for Cognitive Closure, in a Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 261-271

Il trauma e il corpo. (2012) – Recensione dell’edizione italiana

Il trauma e il corpo.

Manuale di psicoterapia sensomotoria

Di Pat Ogden, Kekuni Minton, Claire Pain

(2012)

Recensione dell’edizione italiana

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Il trauma e il corpo.  Manuale di psicoterapia sensomotoria. -Immagine: copertina

Il corpo ha un ruolo centrale nella creazione di emozioni e significati. Conoscere e sperimentare azioni fisiche aiuta a trasformare il modo in cui i pazienti organizzano le esperienze traumatiche passate nei loro corpi e nelle loro vite. Integrare questo tipo di interventi bottom-up con i più classici approcci top-down rappresenta secondo la proposta degli autori un valido aiuto nel trattamento di pazienti la cui drammatica esperienza corporea impedisce di riflettere su temi tipicamente mentali. 

Tutti mi dicono che è passato e io lo so che è passato, ma il mio corpo mi dice una cosa diversa”: così una paziente qualche tempo fa mi ha brillantemente descritto il suo rivissuto traumatico.

Che è un rivissuto, appunto, non semplicemente un ricordo. Questa è l’essenza del disturbo da stress post-traumatico: il passato è presente. Si ripresenta sotto forma di attivazione corporea disregolata, di reazioni corporee ed emotive fisse ed automatiche a stimoli che di per sé non sarebbero minacciosi, di memorie intrusive non integrate oltre che di convinzioni negative su se stessi e sul mondo che compromettono a più livelli le vite di questi pazienti.

Focalizzare l’attenzione sugli aspetti cognitivi ed emotivi legati al trauma è certamente importante, ma l’esperienza di molti terapeuti che si occupano di questo tipo di pazienti rivela che non è sufficiente. L’evidenza clinica e la sempre più solida ricerca in psicotraumatologia pongono l’accento sulla necessità di occuparsi più direttamente del corpo e di trattare le conseguenze somatiche di traumi.

Purtroppo in occidente gli approcci terapeutici che prendono in considerazione il lavoro con sensazioni e movimenti sono pochi, frammentati e al di fuori dai classici circuiti formativi sia in medicina sia in psicologia.

La terapia sensomotoria proposta da Pat Odgen e dal suo gruppo rappresenta un’interessante eccezione a questo stato di cose e negli ultimi anni si sta diffondendo anche nel nostro Paese, come testimonia l’uscita, finalmente, dell’edizione italiana del manuale “Il trauma e il corpo” di P. Ogden, K. Minton e C. Pain.

Il volume rappresenta un utilissimo e scientificamente fondato vademecum per il clinico sia per comprendere la natura dei sintomi e le difficoltà relazionali insite nel lavoro con i pazienti che provengono da storie traumatiche sia, di conseguenza, per impostarne il trattamento.

Nella prima parte dedicata alla teoria gli autori esplorano, a partire dalle intuizioni di Janet (1925) fino ai più recenti contributi delle neuroscienze, i meccanismi alla base del disturbo da stress post-traumatico delineando così i fondamenti del trattamento terapeutico, poi approfondito negli ultimi capitoli.

Chiunque abbia esperienza nel lavoro con questi pazienti conosce bene la frustrazione dello scontrarsi con la loro impetuosa esperienza corporea che interferisce pesantemente con il lavoro sulle emozioni e sui significati, impedendo al paziente di riflettere su ricordi, dinamiche interpersonali e sugli altri contenuti critici. 

L’arousal cronicamente disregolato alla radice dei sintomi post-traumatici rende impossibile assimilare l’esperienza all’interno di una narrazione di vita coerente e integrata. Il trauma, infatti, distrugge la regolazione fisiologica ed emotiva causando profondi effetti negativi sull’elaborazione di informazione: in condizioni normali i 3 livelli di elaborazione delle informazioni (cognitivo, emotivo e sensomotorio) sono mutualmente dipendenti e intrecciati funzionando come un tutto integrato. Pensieri, emozioni e corpo si modellano a vicenda.

Il trauma compromette questa integrazione e l’intensità delle emozioni e delle reazioni fisiologiche ostacola l’elaborazione dall’alto verso il basso, dai centri “alti” della corteccia (elaborazione cognitiva) verso le emozioni e le sensazioni, così che questi pazienti sentono troppo (iperarousal) o troppo poco (ipoarousal).  

La teoria polivagale di Porges (2001) viene descritta e chiamata in causa per spiegare come questa drammatica disregolazione neurovegetativa sia una conseguenza diretta della cronica attivazione del sistema di difesa come effetto di traumi cumulativi. 

Il sistema neurovegetativo è formato da sottosistemi che si attivano in maniera gerarchica di fronte alle sfide ambientali. Il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago, quello evolutivamente più recente e sofisticato, regola l’impegno sociale e favorisce un arousal ottimale, entro la “finestra di tolleranza”. Il sistema simpatico, evolutivamente più primitivo e meno flessibile, regola le riposte difensive di mobilizzazione, permettendo l’attivarsi delle reazioni di attacco e fuga, innalzando il livello di arousal globale per massimizzare le possibilità di sopravvivenza di fronte ad un pericolo. Il ramo parasimpatico dorsale del nervo vago si attiva come ultima linea difensiva “di riserva” se le due precedenti falliscono: riduce drasticamente l’arousal sino allo svenimento o “finta morte” e consente l’immobilizzazione ai fini della sopravvivenza.

Questa condizione è molto diversa dal freezing, l’immobilità vigile e pronta all’azione che appare nell’istante in cui si percepisce la minaccia e si valuta quale difesa potrebbe essere più efficace, che è invece determinato dall’attivazione simultanea del sistema simpatico e di quello parasimpatico.

La finta morte rappresenta l’estrema via di salvezza che viene attivata in maniera assolutamente involontaria, al di fuori di ogni controllo corticale, in presenza di una minaccia contro la quale le due precedenti risposte difensive falliscono. I predatori solitamente preferiscono prede vive e tendono a ignorare quelle che sembrano morte (potrebbero essere morte di malattia e molti predatori non hanno un buon sistema immunitario), per cui l’evoluzione ci ha dotati di questa estrema risorsa.

Si pensi ad esempio alle molte testimonianze di vittime di stupri che riferiscono l’impossibilità assoluta di muoversi e di chiamare aiuto durante la violenza: in questo caso l’aggressore viene percepito come un predatore e, falliti i tentativi di negoziazione (sistema di impegno sociale mediato dal parasimpatico ventrale vagale) ed essendo impossibile la fuga o il contrattacco si innesca l’ultima ed estrema difesa possibile, il distacco dall’esperienza. Spesso le vittime riferiscono, infatti, di non aver percepito dolore, ma la perdita di ogni controllo sul corpo e sui movimenti, come se non appartenesse più a loro, come se si vedessero dal di fuori. E’ l’esperienza dissociativa peritraumatica.

Il quadro si aggrava in presenza di un trauma infantile ripetuto, quando si va incontro al cronico fallimento del sistema di impegno sociale e del sistema di attaccamento nell’ottenere sicurezza e protezione, per cui il sistema simpatico e quello dorsale vagale restano sempre altamente attivati, innalzando ed abbassando l’arousal oltre i limiti superiori ed inferiori della finestra di tolleranza.

Il sistema di impegno sociale smette di funzionare, riducendo le capacità di stabilire relazioni adeguate e si abbassano le soglie di reazioni ad agenti stressanti. Quando gli stati di iper o ipoarousal diventano così estremi e duraturi i processi di elaborazione dell’informazione che normalmente sono integrati possono diventare cronicamente dissociati. Le memorie traumatiche restano come congelate al di fuori della possibilità di integrazione e riemergono sotto forma di sensazioni corporee, postura, movimenti e immagini intrusive quando l’arousal si alza o si abbassa al di fuori delle soglie di tolleranza.

La persona resta come divisa in due aspetti: quello che le permette di andare avanti nella quotidianità evitando i ricordi traumatici e quello che comprende tali ricordi e innesca azioni difensive automatiche contro la minaccia. 

Naturalmente in tutto questo panorama un ruolo di fondamentale importanza è rivestito anche dal sistema di attaccamento. L’iniziale sintonizzazione fra madre e bambino è corporea ed avviene attraverso reciproche interazioni sensomotorie. La madre regola l’arousal del bambino e lo aiuta a rimanere in uno stato ottimale, ponendo così le basi per le successive capacità di autoregolazione del bambino. Un attaccamento insicuro, ed in particolare l’attaccamento disorganizzato, si evidenzia anche  nel corpo, nei movimenti non integrati e non armonici, nella difficoltà di utilizzare le capacità di autoregolazione e/o le capacità di regolazione interattiva dell’arousal.

Esperienze di abuso all’interno della relazione di attaccamento conducono ad un arousal cronicamente accresciuto o all’alternanza di stati di iper e ipoarousal, mentre esperienze di abbandono portando ad un appiattimento affettivo dovuto al cronico abbassamento dell’arousal.

L’iperattivazione cronica del sistema di difesa che si verifica nel caso di esperienze infantili traumatiche fa sì che esso domini sugli altri sistemi d’azione (come la socialità, l’esplorazione, il gioco, ecc) innescando tendenze automatiche all’azione che perdurano per tutta la vita e possono dunque risultare maladattive in situazioni diverse da quelle (minacciose) che le hanno inizialmente elicitate.

La persona si ritrova così a vivere una profonda dissociazione strutturale: sulla scia del trauma una parte di sé resta bloccata sulla difesa dal pericolo, mentre un’altra parte di sé con vari gradi di difficoltà cerca di vivere la quotidianità e di attendere ai compiti degli altri sistemi d’azione (accudimento, sessualità, gioco, esplorazione, socialità..). 

Quando uno stimolo interno (una sensazione o un’emozione) o esterno (qualche elemento del contesto o il comportamento di un’altra persona) ricorda la situazione traumatica il sistema di difesa si attiva prepotentemente e interrompe ogni altra attività in corso. La persona in quel momento non è più in grado di continuare le attività quotidiane e si ritrova in balia di un’attivazione neurovegetativa estrema e non regolata. Il corpo si blocca, si tende per fuggire, attaccare o si accascia su se stesso. In queste condizioni non c’è alcuna possibilità di avere accesso a una qualche riflessione.

Includere il corpo nel lavoro di elaborazione con i traumi permette un accesso privilegiato a dimensioni che, per effetto del trauma stesso, non sono collegate e integrate con il resto dell’esperienza. Lavorare direttamente con le sensazioni e i movimenti permette di agire direttamente sui sintomi e promuovere in seconda battuta un cambiamento anche nelle emozioni, nei pensieri, nelle credenze e nelle capacità relazionali.

Il terapeuta sensomotorio osserva con un atteggiamento “mindful”, curioso e non giudicante tutto quello che accade nel qui ed ora delle seduta al corpo del paziente. I punti centrali dell’esplorazione in terapia sono le sensazioni corporee e i movimenti che emergono in seduta, le reazioni emotive attuali, i pensieri e le immagini legate al trauma, per affrontare in maniera diretta gli effetti dell’esperienza traumatica sul corpo e sull’apprendimento procedurale. Tutto ciò richiede l’utilizzo integrato di interventi top-down e bottom-up, avendo come punto di accesso privilegiato il corpo. 

L’attenzione non è focalizzata sulla storia narrata, ma sull’esperienza interna del paziente mentre ne parla e per il modo in cui ne parla.

Obiettivo iniziale è che il paziente diventi curioso rispetto alle sue tendenze all’azione attuali, imparando lentamente la differenza fra vivere un’esperienza ed esplorare il modo in cui viene gestita. L’uso della consapevolezza aumenta l’attivazione di aree cerebrali associate ad affettività positiva e della corteccia prefrontale, favorendo un primo processo di integrazione.

E’ importante, nella relazione terapeutica, fare molta attenzione sia ai bisogni di sicurezza sia a quelli di esplorazione dei pazienti, aiutandoli a sperimentare entrambi sempre restando all’interno della finestra di tolleranza.

La relazione terapeutica è una grande occasione per sperimentare un attaccamento sicuro, ma l’attivazione dell’attaccamento porta con sé i mostri dei traumi relazionali passati ed è di fondamentale importanza gestire le reazioni transferali e controtransferali, osservando le tendenze somatiche e le dinamiche relazionali e aiutando il paziente a discriminare la relazione terapeutica da quelle passate.

Dato che, come già sosteneva Janet, la traumatizzazione è il fallimento delle capacità integrative, obiettivo del trattamento secondo gli autori del manuale è espandere la capacità integrativa del paziente, operazione che richiede sia la differenziazione sia il collegamento delle diverse componenti dell’esperienza interna e degli eventi esterni. La realtà interna ed esterna attuale deve essere differenziata dalle esperienze passate. La consapevolezza del paziente viene orientata alle posture ed ai movimenti appropriati per il contesto attuale, evidenziando quali invece riflettono tendenze somatiche maladattive che affondano le loro radici nel passato.

Coerentemente con le linee guida generali del trattamento del trauma gli autori individuano 3 fasi del percorso terapeutico: la stabilizzazione dei sintomi, il trattamento delle memorie traumatiche e l’integrazione.

Mantenendo il corpo come interlocutore privilegiato la terapia nella prima fase si occupa di promuovere la capacità di autoregolazione del paziente, imparando a riconoscere i segnali iniziali di iper e ipoarousal ed a mantenere l’attivazione entro la finestra di tolleranza usando le risorse somatiche. In questo lavoro il paziente impara anche ad ampliare i confini della propria finestra di tolleranza, in modo da poter poi sostenere il successivo lavoro con le memorie traumatiche. 

In questa seconda fase vengono affrontati i frammenti mnestici non integrati attingendo alle risorse e alle capacità di regolazione promosse nella fase precedente. Vengono individuate e attuate le difese mobilitanti tronche (di attacco o fuga), che non hanno potuto essere portate a compimento durante l’esperienza traumatica a causa della sua natura soverchiante e che sono rimaste nel corpo come gesti accennati e bloccati. Questi “atti di trionfo” danno un nuovo senso di controllo nel ricordo dell’evento traumatico e consentono di ridurre le emozioni di vergogna e impotenza. Le tendenze all’azione difensive maladattive possono così essere trasformate in azioni più adeguate al nuovo contesto.

Nella terza fase le risorse mobilitate nel lavoro precedente vengono utilizzate per affrontare aree di vita fino a quel momento trascurate e per partecipare pienamente al gioco, al lavoro ed alle relazioni interpersonali. Le reazioni difensive vengono integrate con gli altri sistemi di azione, creando la possibilità di mettere in atto reazioni consone alle diverse sfide della vita quotidiana, tollerando emozioni positive e negative sempre più intense e sviluppando un nuovo senso di sé più flessibile.

Non tutti i pazienti saranno in grado di percorrere tutte e tre le fasi del trattamento: per quelli con maggiori problemi di instabilità è possibile che il lavoro fermi alla prima fase.

In questo percorso l’esperienza corporea diventa la via principale per l’intervento terapeutico. Affrontando direttamente il corpo è possibile trattare le tendenze all’azione automatiche e involontarie che caratterizzano le abituali reazioni collegate al trauma e i sintomi somatoformi così  frequenti nei soggetti traumatizzati. L’elaborazione emotiva e quella cognitiva non sono escluse da questo processo, anzi, per la guarigione dal trauma è fondamentale l’integrazione di tutti e 3 i livelli di elaborazione dell’informazione (cognitiva, emotiva e sensomotoria), dato che ogni esperienza che noi facciamo li influenza tutti.

La particolarità della terapia sensomotoria, ben illustrata in questo manuale, è il canale di accesso a questa elaborazione: gli interventi fisici forniscono ai pazienti risorse somatiche e abilità per affrontare le reazioni neurovegetative disturbanti così tipiche del trauma. Da questa riorganizzazione somatica emergono poi l’espressione emotiva e l’attribuzione di significato.

Il corpo ha un ruolo centrale nella creazione di emozioni e significati. Conoscere e sperimentare azioni fisiche aiuta a trasformare il modo in cui i pazienti organizzano le esperienze traumatiche passate nei loro corpi e nelle loro vite. Integrare questo tipo di interventi bottom-up con i più classici approcci top-down rappresenta secondo la proposta degli autori un valido aiuto nel trattamento di pazienti la cui drammatica esperienza corporea impedisce di riflettere su temi tipicamente mentali. 

Questo volume, la cui edizione italiana tanto stavamo aspettando, rappresenta un’ottima guida per questo approccio, incorporando contributi della terapia psicodinamica, della terapia cognitivo-comportamentale, delle neuroscienze, della teoria dell’attaccamento e degli studi sulla dissociazione.

LEGGI:

DISSOCIAZIONE TRAUMA-ESPERIENZE TRAUMATICHE PSICOTERAPIA SENSOMOTORIAATTACCAMENTODISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS – PTSD – 

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ARTICOLO CONSIGLIATO:

Seminario di Pat Ogden #2: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le abilità matematiche dei neonati

Santina Leonardi

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La conoscenza numerica e le abilità matematiche si basano sia su processi preverbali (sistemi di base della conoscenza numerica presenti fin dalle prime fasi dello sviluppo del neonato) sia su processi verbali (che il bambino sviluppa con il linguaggio e l’apprendimento scolastico).

Il neonato fin dai primi mesi dimostra di possedere un sistema di individuazione degli oggetti basato su principi spazio-temporali (es. coesione, continuità, contatto) che gli consente di quantificare piccole numerosità in modo implicito. Gli studi su neonati dimostrano infatti che già a 5 mesi i bambini sono in grado di eseguire implicitamente addizioni e sottrazioni di 2 o 3 oggetti.

Un altro processo presente fin dalla nascita è il cosiddetto Sistema di Ampiezza Analogica. E’ un sistema numerico approssimato (SNA) grazie al quale il bambino si dimostra in grado di stimare la grandezza di un insieme numeroso di elementi e di mettere a confronto insiemi numericamente diversi (quale fra due insiemi di punti è più grande o più piccolo?). Tale sistema infatti consente una rappresentazione approssimata (astratta – perché non è confinata alla sola modalità visiva – ma imprecisa – perché fallisce quando la numerosità è bassa) dei valori cardinali di grandi insiemi e permette al neonato di discriminare grandi numerosità purché abbiano un rapporto numerico di almeno 1 a 2. Tale capacità migliora con lo sviluppo del bebè: a 6 mesi può discriminare numerosità con un rapporto 1 a 2 ma solo a 10 mesi discrimina anche quelle con rapporto 2 a 3

Adulti e bambini, ma anche molte specie animali, condividono questo SNA. E’ nella sola specie umana, però, che a questa rappresentazione grossolana della numerosità si sovrappone un sistema numerico simbolico e un processo di conteggio verbale che consente di abbracciare i concetti di frazione, radice quadrata, numeri negativi e numeri complessi, e spingersi così ben oltre il senso intuitivo di numero fornito dai due sistemi innati di conoscenza numerica.

Diverse evidenze sperimentali indicano che questo SNA costituisce una base cognitiva su cui poggiano le successive capacità matematiche di alto livello. Sulla scorta di tali evidenze i ricercatori Joonkoo Park ed Elizabeth M. Brannon hanno voluto indagare se un training finalizzato al miglioramento delle competenze specifiche del SNA (migliorare le capacità di sommare o sottrarre visivamente grandi quantità di pallini senza poterli contare) si potesse tradurre in un miglioramento delle capacità di calcolo matematico. Verificare questa ipotesi è importante non solo perché fornisce ulteriore sostegno all’ipotesi di SNA come avente un ruolo fondamentale nello sviluppo delle competenze matematiche complesse, ma anche perché può avere implicazioni pratiche a livello dei possibili interventi finalizzati al miglioramento delle abilità matematiche dei nostri figli.

I risultati ottenuti da questi ricercatori non solo dimostrano la correlazione fra SNA e abilità matematiche adulte ma forniscono la prima diretta evidenza che il SNA può incidere in modo determinante sulle abilità simbolico-matematiche.

Una possibile spiegazione alla base di questi risultati può essere quella che un ripetuto addestramento delle abilità aritmetiche non simboliche (come quello testato dai due ricercatori) può portare un miglioramento dell’attenzione visiva o della memoria di lavoro spaziale, entrambi substrati cognitivi critici per le abilità simbolico-matematiche.

Questo dimostrato legame fra le abilità numeriche approssimate e le capacità matematiche di alto livello suggeriscono che è possibile sviluppare le competenze numeriche dei bambini ancor prima che inizino un apprendimento formale dei numeri e della matematica, semplicemente promuovendo le loro capacità di discriminare visivamente insiemi di piccoli oggetti (caramelle, pezzi del Lego, palline di Didò) aventi diversa numerosità.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 5

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 5

 

DANZAMOVIMENTO TERAPIA:

 La rabbia e il cambiamento

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Dal gemello sacrificato alla rinascita della individualità - parte 5. - Immagine: © fasphotographic - Fotolia.comIl gemello “sacrificato”: un giorno, L. incontra in corridoio un bambino disabile; esprime rabbia e rifiuto per il timore di essere assimilato a quel bambino, in cui si vede rispecchiate alcune delle sue fragilità e probabilmente la sua parte “difettosa” e di conseguenza rifiutata.

L. si rispecchia in quel bambino che ha evidenti difficoltà e mi chiede molte informazioni su di lui, che cosa faccia insieme a me, se siano le stesse cose che fa lui: mi esprime a parole il suo timore di “non essere normale” come quel bambino e contemporaneamente se ne distacca prendendolo in giro.

Esprime rabbia e rifiuto per il timore di essere assimilato a quel bambino, in cui si vede rispecchiate alcune delle sue fragilità e probabilmente la sua parte “difettosa” e di conseguenza rifiutata. In questo incontro L., disperato, attacca direttamente l’ambiente, calcia gli oggetti nella stanza, ma in particolare esprime la sua rabbia saltando a pie’ pari sulla faccia di un bambolotto.

Questa rabbia distruttiva, da me attesa, è funzionale all’affermazione di sé (Winnicott), alla separazione da un vissuto materno che lo identificava nelle sue fragilità. Infatti la qualità di movimento è cambiata, L. decisamente sta mettendo in scena azioni che finalmente sono francamente e totalmente lottanti. Quando salta sul bambolotto il peso è attivo e i salti sono intensi ed efficaci nella loro intenzionalità, il corpo si raccoglie per prendere lo slancio e si spinge verso l’alto, chiudendosi nel salto, e poi si riallunga verso il basso, tornando a terra, atterrando sul bambolotto, per poi ricominciare, in una attivazione piena della connessione corporea parte superiore-parte inferiore1. E’ tutto preso a tenere la verticalità, mentre sta affermando qualcosa di sé che non riesce ad esprimere a parole: la dimensione verticale, in cui la forma del corpo si allunga verso l’alto e si accorcia verso il basso, è propria del bambino nella Fase Anale (Kestenberg), in cui è l’effort del peso a dare una forma di base per la presentazione e la rappresentazione di Sé e degli oggetti, ed è attinente all’intenzione e all’affermazione di sé. Accolgo questa grande distruttività di L., e, quando vedo che è molto in affanno e che il movimento inizia a perdere efficacia, lo fermo con un abbraccio.

Possiamo vedere questa aggressività come una espressione della volontà di autoaffermazione di L.. Secondo Winnicott il comportamento aggressivo spinge ad un movimento esplorativo, che conduce al rapporto con gli oggetti; essa è legata all’acquisizione del senso di permanenza dell’oggetto, e al servizio positivo della costituzione dell’oggetto reale come altro-da-Sé. Grazie a queste esperienze, il bambino evolve il suo rapportarsi al mondo, dal relazionarsi all’Oggetto (esperienza soggettiva, in cui l’oggetto è sotto il controllo onnipotente del bambino), all’usare l’Oggetto (l’oggetto fa parte di una realtà esterna). Così gli oggetti possono essere aggrediti e distrutti senza pericolo per la loro sopravvivenza (realmente o in fantasia: odiati, ripudiati, attaccati) perchè reali, e diventare reali perchè distrutti/distruggibili (Winnicott 1969). Come accade al bambino che impara a tenersi in piedi, presentandosi al mondo nella dimensione verticale, L. ha avuto un comportamento oppositivo e imperioso, è uscito dalla dimensione soggettiva, ed ha espresso rabbia e aggressività, attraverso le quali ha tentato di definirsi e affermare il suo essere attraverso gesti e pensieri autonomi.

Negli incontri successivi, L. mi chiede di eseguire insieme a lui alcuni origami che aveva trovato in un libro, mentre lui mi leggeva le istruzioni, poichè teme di non capire le indicazioni. E’ in realtà una composizione abbastanza semplice, ma lui fatica a capire come la carta vada ripiegata. E’ la prima volta che L. mi descrive e mi mostra in maniera aperta e diretta una sua fragilità, servendosi finalmente e consapevolmente di me per le mie caratteristiche reali di adulta che può guidarlo, indirizzarlo, rassicurarlo. Per qualche incontro, L. è intento a sperimentare attraverso la realizzazione degli origami, il senso di esitazione che è il pre-effort integrativo della repentinità precedentemente espressa, legato al processo cognitivo della gradualità di apprendimento. Non è chiaramente abituato a questo genere di movimento, e per la prima volta mi chiede aiuto, gli mostro come si fa ad attivare il peso delle dita e delle mani per piegare la carta, come dare un focus, come usare il tempo continuo, nello spazio sagittale, attivando il pre-effort del channeling, e il corrispondente processo cognitivo della concentrazione2. L. sta dunque sperimentando nuove modalità di apprendimento e di approccio alla realtà. Probabilmente questo lavoro gli è servito anche per unire nella sua esperienza ciò che accadeva nella stanza della terapia con ciò che avveniva a casa e a scuola. Mi racconta, infatti, che in quel periodo le maestre hanno deciso di fargli usare la calcolatrice nei compiti di matematica, per permettergli di concentrarsi sul ragionamento e sul processo logico, e non sull’esecuzione del calcolo, che lo mandava in ansia e in blocco. Il mostrarmi e il nominarmi la sua fragilità, l’ho letto come segno dello sforzo che L. stava compiendo per integrare i vissuti della sua difficile e problematica quotidianità, e la ricerca di autoaffermazione, pienezza e individuazione espressa nella stanza della terapia.

Cambia anche il gioco dei calci al pallone: L. ha ancora voglia di approfondire l’attivazione del peso e della sagittalità, e mi chiede di aiutarlo a costruire un’alta torre di elementi della psicomotricità e la butta giù calciandole la palla contro. Ora L. è preciso e forte nei tiri, capace di movimenti tridimensionali, ed esprime una aperta e rivelata intenzionalità degli effort, che rende il suo movimento efficace. La grande novità è che insieme studiamo modi, angolazioni, punti deboli nella torre che ci permettano di buttarla giù.

Compare parallelamente anche il tema del “salto all’ostacolo”: mi chiede come può allenarsi nei salti e gli propongo di scavalcare saltando il grande cilindro nero della psicomotricità. Accetta di buon grado, e noto che, nella soddisfazione di saltare a piè pari il cilindro, L. esprime il bisogno di sperimentarsi ancora un po’ nella dimensione verticale, che si attiva pienamente nella connessione sopra-sotto, e nella connessione controlaterale, che gli fa raggiungere una tridimensionalità di movimento che gli dà un senso di efficacia atletica. E’ finalmente pronto per un ritmo di flusso di tensione muscolare che da uretrale (rincorsa a piccoli passi), diventa genitale esterno (grande balzo per superare il cilindrone).

Questa fase si riferisce alla avvenuta separazione-individuazione da un femminile non nutritivo e fonte di disperazione e frustrazione. L’alternare l’esperienza del calcio e del salto gli permette di sperimentare e consolidare la verticalità autoaffermativa, la sagittalità esplorativa dell’ambiente, la tridimensionalità del gesto atletico completo ed efficace. Il sostegno ricevuto inizialmente, l’esperienza di distruttività-sopravvivenza dell’Oggetto Sé, fatta nella “seduta decisiva”, l’accompagnamento e lo sviluppo simbolico e cinetico delle sue possibilità di agire sulla realtà, lo aveva proiettato in una nuova fase. In questi salti intravedo l’espressione di una seconda nascita di un “venire alla luce” di L., in cui la scissione fra corpo e mente, fra Sé grandioso e Sé deprivato è ricomposta e L. si riconosce in quello che fa, e si propone per quel che è. L. ha stabilito un contatto col mondo reale, della relazione con oggetti oggettuali (Winnicott) e con le concrete caratteristiche che essi presentano. L. ora può usare il suo corpo nella pienezza e metterlo in gioco interamente: grazie a una migliore gestione del peso e delle connessioni corporee, la parte inferiore del corpo è più stabile e consente che le braccia e le mani vengano via via sempre più utilizzate, nell’esplorazione della verticalità, fino ad arrivare alla verticale e alla camminata sulle mani.

Quando vuole riposarsi dai grandi salti, dopo alcuni minuti di respiro profondo, propone una variante di gioco col cilindro: prova a camminarvi e a gattonarvi sopra standovi in equilibrio mentre lo fa rotolare per tutta la stanza. Qui prevale la ricerca di un movimento piccolo, di equilibrio, mi sembra che s’approfondisca così il ritmo uretrale, con una attivazione delle connessioni omolaterali e una forte impronta nel cercare di tenersi in equilibrio nei piccoli spostamenti sagittali in avanti e aggiustamenti indietro, ma anche una ricerca di tempo sempre più prolungato, sia nello stare in equilibrio che nello spostarsi in avanti col cilindro.

In questo gioco io lo seguo e lo assisto, gli porgo la mia mano, dove poggia la sua, sto attenta che non cada, e gli dò consigli su come giocare in sicurezza a questa “prova da circo”. Ammiro poi sinceramente -e glielo faccio presente- la sua abilità di “saltimbanco”, poiché rivela doti atletiche e acrobatiche non comuni, in cui sembra mi sembra in grado di coordinarsi e anche di sapere come cadere. Noto che sa anche raccogliere le mie raccomandazioni e limitarsi, quando intravede rischi nella gestione del cilindro. L. accetta di buon grado consigli e suggerimenti, in un’ottica dialettica, per cui se non è d’accordo con qualcosa che gli dico mi argomenta il perchè.

Giunto all’età puberale, L. cerca un aggancio anche fuori dalla stanza della terapia col suo lato lottante, vitale e maschile: ha in suo nonno e in suo zio un riferimento con le figure maschili delle sue stirpi familiari e desidera calcarne le orme. Infatti ora si prende sul serio come karateka, e ha l’obiettivo di diventare cintura nera con dan come lo zio, forse di diventare insegnante, e ha richiesto di iniziare a studiare batteria, come aveva fatto il nonno. Con la psicologa abbiamo fortemente sostenuto questo aggancio al maschile, sollecitando il papà a coinvolgere L. in attività di tempo libero che entrambi apprezzano.

Parallelamente L. ha iniziato le scuole medie: con la psicologa abbiamo lavorato col gruppo operativo degli insegnanti di L., per fortuna molto sensibili e attenti, invitandoli a sostenere il ragazzo. L. ha iniziato sotto i migliori auspici, impegnandosi, non scoraggiandosi più se non capiva. Gli insegnanti raccontano che in più momenti è anche stato anche in grado di controllare l’ansia che lo coglieva duranti i compiti in classe, grazie al loro atteggiamento rassicurante che lo sosteneva a portare a termine il compito in questione. L. accetta la sfida di impegnarsi fino in fondo e riesce a ottenere discreti risultati scolastici, ma soprattutto una maggiore serenità. La madre è commossa e rinfrancata da questi cambiamenti di L., e non manca di esprimere la sua gratitudine, i suoi sensi di colpa sono un po’ rientrati, e la sua ferita narcisistica non è più così profonda.

Nel lavoro con me, svoltosi per altri sei mesi, L. cercherà forme sempre più tridimensionali e complete di movimento. E’ felice di mostrarmi i suoi enormi progressi nelle forme del karate, eseguendo per me kata, salti, calci e pugni molto efficaci, invitandomi a assistere alle gare. Ormai può modulare consapevolmente e genuinamente l’espressività del movimento, agire affettivamente e cognitivamente in relazioni di attaccamento più maturo e consono alla sua età.

L’ampliamento e l’integrazione delle capacità motorie ha coinciso con la trasformazione della propria immagine e ha modificato la relazione con la realtà: L. aveva preso contatto con le sue parti maschili e contemporaneamente aveva riconosciuto e integrato nella sua storia le proprie parti più deboli e passive: aveva dismesso la maschera di grandiose fantasie, e ammesso le sue difficoltà, chiedendo aiuto e affidandosi alla terapeuta e alle altre figure di riferimento.

1Questa connessione corporea costruisce messa a terra, forza, intenzione attraverso la spinta verso il suolo. Sviluppa la capacità di risalire dalla spinta a terra per dirigersi verso lo spazio e di tirarsi su senza perdere la connessione col nucL. del corpo. E’ in relazione con la costruzione di un senso personale di potere.

2Il channeling è il precursore dello spazio diretto. Su questo pre-effort si basa la difesa dell’isolamento, di ritirarsi e chiudersi agli stimoli esterni, ma anche la capacità di isolarsi per potersi concentrare. Si serve della continuità come attributo del flusso di tensione.

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BAMBINIATTACCAMENTO – ATTACHMENTGRAVIDANZA E GENITORIALITA’

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BIBLIOGRAFIA:

  • Agnew ,C.L., Klein, A., Ganon, J.A. (2006), Twins! Pregnancy, birth and the first year of life, Harper Collins Publishers, New York
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I Love Shopping (2009) – Cinema & Psicoterapia #12

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #12

I Love Shopping (Confessions of a Shopaholic). (2009)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

I Love Shopping (2009). -Immagine: LocandinaNell’atto di acquistare, Rebecca cerca un senso di sicurezza per com­battere la sua bassa autostima, ma una volta effettuato l’acquisto il senso di colpa e la tristezza incrementano la necessità di curare il malessere con la ripetizione dell’attività, alimentando il circolo vizioso.

Info:

Un film di P.J. Hogan, con Isla Fisher, Hugh Dancy, Joan Cusack, John Goodman, John Lithgow. Commedia. USA 2009. Tratto dal romanzo di Sophie Kinsella.

Trama:

Rebecca Bloomwood ha vissuto un’infanzia con una madre trascu­rante che le dedicava poco tempo e la vestiva in saldo. È diventata una giornalista di una rivista finanziaria, ma aspira a un magazine di moda. Vive e lavora a Londra dove si trova coinvolta in una serie di disavven­ture economiche e sentimentali, in gran parte create o alimentate dalla sua ossessione per gli acquisti.

Motivi di interesse:

I temi dello shopping compulsivo vengono rappresentati e spiegati superficialmente associandoli ad un’infanzia caratterizzata da una figu­ra d’attaccamento poco accudente e per lo più assente. La noia e l’in­soddisfazione fanno parte della vita di questa compratrice compulsiva e bugiarda recidiva, che si trascina un irrefrenabile desiderio d’acquisto, soprattutto di capi costosi.

Sullo sfondo, la storia d’amore della giornalista con il capo redattore ma la vera relazione è quella di Rebecca con i suoi shops. Nel film l’ana­lisi dei temi problematici è approssimativa e l’evoluzione della storia in senso positivo non trova una spiegazione plausibile.

La protagonista comunque presenta tutti i criteri diagnostici del dis­turbo:

  • comportamenti, preoccupazioni o impulsi a comprare non adattivi;
  • la preoccupazione, l’impulso o l’atto di comprare causano stress marcato, fanno consumare tempo, interferiscono significativamente con il funzionamento sociale e lavorativo o determinano problemi economici;
  • gli acquisti eccessivi non si verificano esclusivamente durante i perio­di di ipomania o di mania.

Nell’atto di acquistare, Rebecca cerca un senso di sicurezza per com­battere la sua bassa autostima, ma una volta effettuato l’acquisto il senso di colpa e la tristezza incrementano la necessità di curare il malessere con la ripetizione dell’attività, alimentando il circolo vizioso.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può fornire delle tracce per intervenire sui fattori di manteni­mento del comportamento e per lavorare con il paziente sull’immagine di sé, l’autovalutazione, le modalità di coping dello stress e delle emo­zioni negative.

Trailer:

 

 

LEGGI ANCHE:

SHOPPING COMPULSIVO – IMPULSIVITA’ – DIPENDENZE

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Siamo ciò che mangiamo: il triptofano e la fiducia.

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Si potrebbe citare una nota affermazione: siamo ciò che mangiamo. E una nuova ricerca può aiutare a comprendere meglio cosa significa.

Lorenza Colzato e colleghi (Universities of Leiden and Münster) hanno indagato il legame tra il costrutto di “fiducia reciproca” e il neurotrasmettitore della serotonina, sulla scia di precedenti studi che evidenziarono come la serotonina giochi un ruolo cruciale nel promuovere comportamenti cooperativi (mutual cooperation). Il concetto di “fiducia reciproca” risulta un elemento essenziale all’interno delle relazioni sociali ed è un importante determinante della capacità di cooperazione.

Nello studio in esame, i ricercatori valutarono se il triptofano (TRP), precursore della serotonina, abbia un ruolo nel promuovere comportamenti di fiducia, attraverso la somministrazione di quantità aggiuntive di questa sostanza ad una bevanda.

L’aggiunta di TRP incrementa i livelli di triptofano nel plasma, che rappresenta un metodo per influenzare la sintesi di serotonina. Il campione sperimentale era composto da 40 soggetti estratti dalla popolazione normale (4 maschi/36 femmine; età media=19,4) ai quali venne chiesto di valutare il proprio umore attraverso una scala di valutazione con punteggio da -4 a 4 (Pleasure X Arousal Grid). Furono poi registrati il battito cardiaco e la pressione sanguigna sistolica e diastolica. 20 soggetti furono sottoposti ad una dose orale di TRP e 20 ad una soluzione placebo disciolta in un succo d’arancia, a cui seguì un ulteriore misurazione dell’umore, battito cardiaco e pressione sanguigna.

Successivamente, tutti i partecipanti furono sottoposti ad un gioco di fiducia (trust game), che valuta quanto una persona (trustor) si fidi di un’altra (trustee), attraverso l’ammontare di denaro trasferito dalla prima alla seconda. Al trustor venne consegnata una banconota da 5 € e fu lasciato libero di scegliere quanti soldi dare al trustee; il trustor poteva ricevere poi altri soldi solo se il trustee gli avesse restituito indietro abbastanza denaro. L’ammontare di denaro trasferito dal primo al secondo era un indicatore della fiducia reciproca.

 Alla fine del gioco vennero nuovamente misurati l’umore e gli indicatori della pressione sanguigna e del battito cardiaco. Come da precedenti studi, solo il battito cardiaco diminuì dopo la somministrazione di triptofano, a differenza dell’umore e della pressione sanguigna che non subirono cambiamenti.

I risultati mostrarono che le persone sottoposte ad una somministrazione di triptofano diedero più denaro al trustee rispetto a quelli trattati con sostanza placebo.

In linea con pregresse scoperte, la ricerca mostra come il triptofano, agendo sulla sintesi della serotonina, sia in grado di promuovere uno stato mentale positivo che influisce sul modo di pensare e di vedere noi stessi e il mondo ed agisca positivamente sulla capacità di fidarsi e cooperare con gli altri.

 

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI ALIMENTAZIONE – PSICOLOGIA SOCIALE

ORARI DEI PASTI E SALUTE MENTALE DEGLI ADOLESCENTI

 

BIBLIOGRAFIA

 

L’influenza sociale al ristorante: le nostre scelte dal menu dipendono dai nostri commensali

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio dell’Università dell’Illinois, condotto dalla Dott.ssa Brenna Ellison mette in luce il peso della peer pressure (influenza sociale) nelle scelte fatte al ristorante.

Contrariamente a quanto si possa credere in termini di bisogno di differenziarsi e di scelte personali, i dati raccolti sperimentalmente dimostrano una forte tendenza alla gregarietà nella scelta del cibo dal menu, al ristorante. Per esempio nello studio sperimentale condotto nell’arco di 3 mesi, i gruppi di persone sedute al tavolo insieme hanno mostrato una chiara tendenza ad uniformarsi nelle scelte degli altri riguardo al livello di calorie del proprio pasto (nel disegno sperimentale le calorie venivano esplicitamente messe in risalto nel menu a fianco di ogni singolo piatto).
Un altro dato interessante è che quando nei gruppi di controllo la scelta individuale dal menu era svolta in maniera segreta (meglio dire non pubblica), non si riscontrava l’allineamento della scelta dal menu, almeno non in maniera statisticamente rilevante.
Se così stanno le cose, al ristorante ricordatevi di ordinare sempre per primi, è l’unico modo per essere sicuri di mangiare veramente quello che desiderate!

“The big takeaway from this research is that people were happier if they were making similar choices to those sitting around them,” Ellison said. “If my peers are ordering higher-calorie items or spending more money, then I am also happier, or at least less unhappy, if I order higher-calorie foods and spend more money.

“The most interesting thing we found was that no matter how someone felt about the category originally, even if it was initially a source of unhappiness, such as the items in the salad category, this unhappiness was offset when others had ordered within the same category,” Ellison said. “Given this finding, we thought it would almost be better to nudge people toward healthier friends than healthier foods.”

One piece of information that wasn’t included in the data is who ordered first at each table. Ellison said she wants to have this piece of information the next time she runs a similar experiment.  “Previous studies have shown that if you don’t have to order audibly, everyone just gets what they want without any peer pressure involved,” she said. “Research suggests that you should always order first because the first person is the only one who truly gets what they want.”

 

Peer pressure can influence food choices at restaurants | ACES News :: College of ACES, University of IllinoisConsigliato dalla Redazione

L’influenza sociale al ristorante: le nostre scelte dal menu dipendono dai nostri commensali
URBANA, Ill. – If you want to eat healthier when dining out, research recommends surrounding yourself with friends who make healthy food choices.  A University of Illinois study showed that when groups of people eat together at a restaurant at which they must state their food choice aloud, they tend… (…)

Tratto da: College of ACES

 

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