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Leadership negli Sport di Squadra Pt.10 – La caduta della leadership

 

Leadership negli Sport di Squadra #10:

 La caduta della leadership intima e istituzionale

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6 – PARTE 7 – PARTE 8 – PARTE 9

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.10 - La caduta della leadership. -Immagine: © hin255 - Fotolia.com

La tendenza generale sia dei giocatori che del direttivo è quella di individuare un capro espiatorio, una rappresentazione materiale dei problemi della squadra eliminando la quale si da il via a un processo di purificazione. Ovviamente questo capro espiatorio da sacrificare è la guida della squadra e cioè l’allenatore.

Come il leader può essere eletto, può anche essere abbattuto. Sia il leader istituzionale che il leader intimo possono giungere a subire questa amara sorte, anche se le dinamiche che portano alla loro fine spesso seguono percorsi diversi.

La fine dell’allenatore, essendo un ruolo assegnato dalla dirigenza affinché ottenga determinati obiettivi, è strettamente legata ad uno scarso rendimento professionale della squadra. Cosa accade alla leadership istituzionale in questo caso? Se gli obiettivi posti dalla dirigenza non vengono raggiunti e le prestazioni della squadra sono scadenti allora si può parlare di una posizione altamente precaria per l’allenatore.

La tendenza generale sia dei giocatori che del direttivo è quella di individuare un capro espiatorio, una rappresentazione materiale dei problemi della squadra eliminando la quale si da il via a un processo di purificazione.

Questa purificazione in qualche modo deresponsabilizza tutti gli altri membri del gruppo e permette loro, senza più rimorsi o sensi di colpa, di ricominciare a lavorare da zero. Ovviamente questo capro espiatorio da sacrificare è la guida della squadra e cioè l’allenatore. Risulta un eccessiva semplificazione pretendere di addossare tutte le colpe ad una persona; più probabilmente, infatti, andrebbero divise tra tutti i giocatori.

Ma, essendo l’allenatore colui che ha il potere decisionale, il suo esonero risulta anche essere un’opportunità di cambiare il modo di giocare della squadra (risultato finora fallimentare) senza cambiare tutti i giocatori. Questa possibilità non potrebbe ovviamente verificarsi sostituendo un unico giocatore. Ecco perché l’allenatore è il perfetto capro espiatorio. E’ innegabile che in alcuni casi la svolta determinata dal cambiamento dell’allenatore risulta essere positiva se si osservano le successive prestazioni della squadra, spesso dovuto più al cambiamento in quanto tale che all’effettiva innovazione vincente apportata dal nuovo tecnico. Se tuttavia questo cambiamento positivo non avviene, si smaschera l’illusione dell’eliminazione dei problemi con l’eliminazione del vecchio leader, facendo precipitare la squadra in un baratro depressivo da cui difficilmente potrà essere risollevata.

I casi in cui l’allenatore viene sostituito non sono comunque tutti implicabili ad una condizione di capro espiatorio. Carron [1988] ha prodotto svariate indagini su diversi sport analizzando il rapporto tra l’applicazione del turn-over degli allenatori e il successo delle squadre. I risultati ottenuti nella maggior parte dei casi studiati hanno dimostrato che il turn-over non solo è legata principalmente a squadre caratterizzate da prestazioni scadenti ma anche che queste prestazioni in linea di massima non miglioravano attraverso questa pratica. Secondo l’autore gli insuccessi della squadra possono essere attribuiti ad un’incompetenza dell’allenatore, ad un’ incapacità dei giocatori o ad entrambi. Solo in questo ultimo caso si innesca il processo di costruzione di un capro espiatorio, poiché, in alcuni casi, le scelte dell’allenatore possono realmente avere la principale responsabilità.

La partenza e l’arrivo di un nuovo allenatore implica sempre una serie di complesse conseguenze psicologiche, sia per chi è stato cacciato sia per chi subentra in una squadra in pessime condizioni di rendimento. Prunelli [1992] suggerisce l’importanza che queste conseguenze hanno per entrambi, sia come bagaglio di esperienza sia come oggetto di riflessione sul proprio operato.

Come accade anche per la figura del leader istituzionale, il ruolo del leader intimo può deteriorarsi nel corso del tempo fino a crollare definitivamente. Tendenzialmente l’apice di questa condizione è preceduta dall’acuirsi dei contrasti con gli altri componenti del gruppo, sintomo che sta iniziando a mancare la condizione necessaria per la sua esistenza, e cioè il consenso degli altri atleti. Questo è da considerarsi sia un antecedente che una conseguenza della perdita di potere da parte del leader (che per il leader intimo riguarda principalmente un potere d’esempio o di competenza) che gli impedisce di svolgere i propri compiti sia a livello socio-relazionale che a livello della produttività.

Questi contrasti sono destinati a crescere fino all’effettivo rovesciamento del leader che, nella maggior parte dei casi, viene sostituito da un compagno. Inutile dire che questa tendenza si sviluppa principalmente quando la squadra ottiene delle prestazioni negative che attivano un processo di costruzione di capro espiatorio simile a quello che può portare l’allenatore all’esonero ma totalmente interno alle dinamiche inconsce della squadra. Ma ciò può anche avere come causa scatenante l’entrata di un nuovo membro in grado di svolgere le mansioni di leader, sempre agli occhi dei suoi compagni di squadra, meglio di quanto non faccia quello attuale. Una volta persa la posizione di leader e il potere ad essa connesso, difficilmente il giocatore potrà accettare una posizione da subalterno o da gregario [Mazzali, 1995] ma più facilmente tenderà a mettere in atto comportamenti addirittura dannosi per la squadra, guidati principalmente dal rancore per un torto che ritiene di aver subito. Questi comportamenti arriveranno spesso a costringere l’allenatore e la dirigenza ad allontanare l’ex-leader.

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PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il tatto che è in grado di alleviare le paure legate alla morte

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca le persone con bassa autostima potrebbero avere un beneficio anche da brevi ed estemporanee esperienze tattili nella modalità di confrontarsi con il tema della propria morte. 

Il tema della mortatlità attraversa costantemente le nostre vite e ciascuno di noi si relaziona ad esso secondo le proprie modalità – dall’evitamento, al controllo all’accettazione. Secondo una nuova ricerca le persone con bassa autostima potrebbero avere un beneficio anche da brevi ed estemporanee esperienze tattili nella modalità di confrontarsi con il tema della propria morte. 

Da un primo esperimento è emerso che i soggetti -studenti universitari- con bassa autostima che venivano lievemente toccati sulla spalla per la durata di circa un secondo dallo sperimentatore, durante la compilazione di questionari specifici (mirati a valutare le angosce esistenziali) riportavano una minore ansia relativamente alla morte rispetto a coloro che non venivano fisicamente toccati.

In un altro esperimento, i partecipanti sono stati stimolati a riflettere sulla propria morte, e in un secondo momento è stato loro chiesto di valutare il prezzo di un orsetto di peluche. La possibilità di toccare anche solo un animale di peluche (durante un’operazione cognitiva di valutazione del prezzo utilizzata come stratagemma sperimentale)  ha favorito nei soggetti con bassa autostima un lieve decremento delle loro paure esistenziali.

Secondo i ricercatori anche brevi es estemporanee esperienze tattili interpersonali avrebbero dunque la potenzialità di ridurre l’angoscia per la morte – effetto però specifico e rilevato soltanto in soggetti con bassa autostima, e chiaramente a brevissimo termine. 

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ARTICOLI SU ARGOMENTO: MORTE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Risposta alla lettera di Chiara Atzori “Ma esistono ex gay contenti di esserlo”

 

Riceviamo e pubblichiamo un comunicato del Gruppo Psicologia Arcobaleno di Arcigay di Torino in risposta a una lettera della dott.ssa Atzori pubblicata sulla Stampa «Ma esistono ex gay contenti di esserlo» Chiara Atzori (La Stampa, 5-11-2013).

Noi di “State of Mind” concordiamo e appoggiamo il contenuto del comunicato del Gruppo Psicologia Arcobaleno, soprattutto nel non considerare malattia le preferenze sessuali di tipo omosessuale. E quindi nel non considerarle condizioni da curare. In questo senso alcune opinioni della dottoressa Atzori, in particolare la sua fiducia verso il concetto di terapia riparativa del dottor Joseph Nicolosi, ci lasciano perplessi.

Tuttavia, aggiungiamo una nota di lieve dissenso verso il tono un po’ troppo deciso con cui sono state espresse alcune delle convinzioni del Gruppo Psicologia Arcobaleno di Arcigay di Torino. Comprendiamo il timore che può generare il termine “terapia riparativa” e i riflessi automatici che queste parole possono comportare. Tuttavia anche noi terapeuti abbiamo i nostri timori e i nostri riflessi condizionati. In particolare, desideriamo sempre poter lavorare in totale autonomia e senza influenze esterne, di ogni tipo. A ogni terapeuta va assicurata la possibilità di valutare sempre in piena libertà e laicità la richiesta di ogni suo paziente, e di proporre e discutere con i pazienti gli obiettivi terapeutici ritenuti più funzionali per il benessere psicologico. Tra questi obiettivi ci sono sicuramente molto spesso l’aiuto e l’incoraggiamento che va dato a molti gay nella direzione di accettare e vivere la loro omosessualità senza vergognarsene. Può però capitare anche che alcune persone chiedano legittimamente di essere aiutate a costruire una scelta a partire da preferenze e desideri complessi e non facili da decifrare con immediatezza, in cui non c’è una chiarissima prevalenza verso una determinata direzione. Tra questi scenari esiste naturalmente anche quello di colui e/o colei che, partendo da spontanei desideri sia etero- che omo-sessuali e avendo davanti a sé realistiche possibilità di costruire sia una scelta etero-sessuale che omo-sessuale, espressamente chieda consiglio e aiuto verso la scelta etero-sessuale, per ragioni che -dopo accurato accertamento clinico- non sembrano essere dettate da timori e/o ansie. E’ ragionevole proteggere anche la libertà del clinico di optare per questo eventuale obiettivo, di counseling o anche di terapia. Ribadendo che questo ragionevole obiettivo è qualcosa di molto diverso da una irricevibile richiesta di essere aiutati a fingersi etero-sessuali per vergogna e timore dello stigma sociale. Naturalmente siamo consapevoli che, al momento, le influenze sociali di tipo omofobico sono quelle di gran lunga prevalenti e che fanno più male. A State of Mind cerchiamo di essere aperti e di non dimenticarci mai che, al di là delle giuste posizioni antidiscriminatorie, esiste la sofferenza della persona. E a tutti i tipi di dolore di una società non perfetta e non perfettamente giusta dobbiamo dare ascolto.

La redazione

 

Risposta degli PSICOLOGI ARCOBALENO – ARCIGAY TORINO alla lettera di Chiara Atzori “Ma esistono ex gay contenti di esserlo” pubblicata su LA STAMPA il 5 novembre 2013

15 novembre 2013 ore 10.55

Come Gruppo Psicologi Arcobaleno di Arcigay Torino ci teniamo prima di tutto a precisare che in nessun caso la formazione e le competenze di uno psicoterapeuta possono essere sostituite dall’aver scritto la prefazione a qualunque testo. Già perché la Dott.ssa Chiara Atzori, infettivologa e non psicoterapeuta, parla di una qualche forma di psicoterapia riparativa senza averne titolo. Come se non bastasse, le prefazioni dei libri cui fa riferimento si riferiscono alle pubblicazioni di Joseph Nicolosi, fondatore del NARTH (ricordiamo che questa sigla sta per “Associazione Nazionale per la Ricerca e Terapia dell’Omosessualità” quindi non si capisce lo stupore della dottoressa quando afferma che è stata erroneamente identificata come sostenitrice delle terapie riparative). Ci vuole un bel coraggio ad utilizzare la propria autorevolezza di medico per trasmettere pubblicamente dei messaggi che non hanno alcun fondamento scientifico, perché le posizioni “avanzate” da Nicolosi, personaggio col quale la Dott.ssa Atzori sembra vantarsi di aver collaborato, non sono mai state accettate dalla comunità scientifica, la quale non ha mai trovato prove che attestino l’efficacia del suo trattamento. Nel 2009 organismi come l’American Psychological Association (APA) e l’American Psychiatric Association insieme al Royal College of Psychiatrists hanno dichiarato che non vi è alcuna prova scientifica secondo cui l’orientamento sessuale possa essere modificato. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, le terapie riparative promosse da Nicolosi sono state oggetto di una presa di posizione dell’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani che, rifacendosi ai principi del proprio Codice Deontologico, ha espresso una valutazione per cui lo psicologo non può prestarsi ad alcuna “terapia riparativa” dell’orientamento sessuale di una persona, in quanto andrebbe contro i principi espressi dal Codice stesso, non essendo l’omosessualità una psicopatologia (il link alla dichiarazione dell’Ordine contro le terapie riparative è http://www.psy.it/archivio/allegati/2008_01_08.pdf).

Forse qualcuno è rimasto bloccato nel tempo, mentre il dovere di un professionista della salute (mentale e non) è quello di tenersi sempre aggiornato rispetto agli argomenti che intende trattare. Risale ormai a più di dieci anni fa la ricerca condotta da Shidlo e Shoeder (2001)i dove i dati più significativi emersi dalle interviste hanno rivelato il ricorso di molti clinici a descrizioni dell’omosessualità come disturbo mentale, condizione innaturale o addirittura inesistente, nonostante questo orientamento sessuale sia stato derubricato dal DSM nel 1973. Solo il 17% dei clinici sembrava esplicitare la possibilità di prendere in considerazione altri tipi di trattamento (affermativi). Questa condotta da parte dei professionisti costituisce violazione delle linee guida istituzionali mediante forme di coercizione psicologica, soprattutto fra i partecipanti a percorsi di conversione proposti da università religiose o organismi a essa affiliatiii. In poche parole, queste persone stanno peggio, per questa ragione invitiamo la Dott.ssa Atzori a portarci testimonianza di tutti gli “ex-gay contenti di esserlo” magari impegnandosi in una ricerca che riporti numeri scientificamente significativi. Siamo convinti che quando Antonio Gramsci sottolineava l’esercizio della egemonia culturale in una società civile si auspicasse di poter far crescere questa cultura sopra solide fondamenta scientifiche, non sulle ideologie o sulla religione. Ed ecco che leggiamo la lettera della Dott.ssa Atzori, mentre la percentuale di suicidi per omofobia fra gli adolescenti italiani cresce qualcuno ha ancora il coraggio di rivendicare la libertà di opinione. Ma quando un ragazzino si lancia nel vuoto dal tetto di un palazzo lasciando un biglietto dove testimonia il suo disagio nei confronti del proprio orientamento sessuale, quante opinioni si possono avere in merito? È possibile che i giovani di oggi crescano ancora con il timore di essere maltrattati, discriminati, picchiati, derubati, insultati ed isolati perché omosessuali? E chi contribuisce a questo stigma anche in modo indiretto? Queste sono le domande cui è urgente dare risposta. Ammesso e non concesso che il tema effettivo per il quale la professionista fosse stata invitata dall’Istituto Faà di Bruno fosse veramente “Domande e risposte sull’omosessualità” l’unica vera domanda alla quale dovrebbe rispondere la Dott.ssa Atzori è se veramente nel 2013 sia ancora convinta che l’omosessualità possa considerarsi una malattia. Già perché da quanto scritto nella sua lettera profondamente e radicalmente contraddittoria in ogni suo punto (senza contare i riferimenti errati alla disciplina psicoanalitica) si denotano gravissime lacune conoscitive e una tremenda confusione, il tutto condito da uno straordinario abuso di stereotipi sociali. Occorre quindi dire in modo chiaro e inequivocabile che l’orientamento sessuale non è connesso in alcun modo a sintomi o sindromi psicopatologici, né determina disturbi o conseguenze negative (Cabaj, Stein, 1996). La sofferenza, anche psicopatologica è procurata alle persone omosessuali dall’oppressione sociale e dallo stigma, dalle colpevolizzazioni indotte da visioni religiose intolleranti e da leggi discriminanti. È questa svalorizzazione, agìta nel contesto familiare, scolastico, lavorativo, ad attaccare i nuclei più intimi dell’autostima e della sicurezza che ogni persona deve vedere rispettati nell’interazione sociale (Pietrantoni 1999)iii. A tal proposito l‘APA ha pubblicato un report nel quale, a seguito di una completa rassegna della letteratura scientifica, viene evidenziato come l’idea che l’orientamento sessuale possa essere cambiato attraverso una terapia non ha alcun fondamento scientifico. Sarebbe inoltre interessante guardare il documentario “Abomination: Homosexuality and Ex-Gay Movement” a cura dell’Association of Gay and Lesbian Psychiatric, un documentaio che raccoglie le testimonianze di “ex-pazienti” delle cosiddette “terapie riparative” e alcune interviste rilasciate da clinici e ricercatori appartenenti all’American Psychiatrics Association e all’American Psychological Association. Lo scopo principale di questo documentario è quello di mettere in luce le false speranze che il movimento ex-gay offre a quanti si trovino in conflitto (egodistonia) con il proprio orientamento sessuale.

Ribadendo la premessa secondo cui è assurdo parlare di legittimità psicoterapica con chi psicoterapeuta non è affatto, andiamo direttamente al nocciolo della questione. Si può scaricare tutta la responsabilità di una scelta terapeutica sul malcontento manifestato da un paziente rispetto al proprio orientamento sessuale? Quanti eterosessuali esistono non contenti della propria eterosessualità nella società in cui viviamo? Nessuno. La Dott.ssa Atzori si riferisce alla vecchia distinzione fra omosessualità egosintonica e omosessualità egodistonica, rivendicando il diritto di poter “lavorare” in modo correttivo sulle persone che non si dichiarino contente di essere quello che sono, non facendo quindi un’attenta analisi della domanda, dando informazioni errate e non esplicitando che l’egodistonia possa invece derivare dalle forme di omofobia sociale e interiorizzata vissuta dal paziente. È quindi molto importante che ogni terapeuta affermi fortemente il dovere di dichiarare immediatamente al proprio paziente l’impossibilità per chiunque di modificare l’orientamento sessuale (omosessuale o bisessuale) nel momento in cui dovesse riceverne richiesta. Piuttosto sarebbe necessario lavorare su vari fronti come quello dell’omofobia interiorizzata o su quello dell’autostima per aiutarli ad accettarsi in una società (quella italiana) che non ha ancora imparato ad essere accogliente, facendo loro capire che la fonte del disagio non è insita in loro ma è frutto di una cultura arretrata e poco inclusiva, spaventata da ciò che non conosce o che non è in linea con le aspettative ideologiche o religiose. Ma ormai abbiamo seri motivi per dubitare che dietro questo tipo di scelte terapeutiche siano più forti gli ostacoli mentali e i credo religiosi di molti terapeuti, piuttosto che l’effettiva disponibilità dei pazienti che non vivono bene la propria omosessualità ad accettarsi.

A questo punto ci domandiamo a quale codice deontologico faccia riferimento la Dott.ssa Atzori. Non certo a quello degli Psicologi Italiani, per il quale, all’articolo 4: “Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socioeconomico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.” La spiritualità, che ciascun terapeuta è libero di vivere nel modo a sé più congeniale, non può, in nessun modo, scontrarsi con il proprio agire professionale. Il sopra citato art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, punto di partenza per l’individuazione di corrette prassi che lo psicoterapeuta contemporaneo è chiamato ad osservare, fa riferimento al rispetto di quei diritti fondamentali sanciti dalla stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. L’ispirazione democratica irrinunciabile – di cui il codice deontologico nel suo insieme e l’art. 4 in particolare sono portatori – ci porta a sostenere la necessità di non incorrere in un relativismo ipocrita che sotto le mentite spoglie del confronto culturale “aperto” tra colleghi ponga sullo stesso piano posizioni ideologiche esplicite e prassi terapeutiche implicite (non sempre dichiarate, forse perché non sempre dichiarabili) che presentino evidenti ricadute negative sul piano etico e deontologico. 

Il confronto culturale non può prescindere dal rispetto di norme fondanti, democratiche e laiche, autonome rispetto a condizionamenti ideologici, morali o religiosi, di qualunque provenienza essi siano. 

Riteniamo dunque che la comunità LGBT italiana meriti delle scuse sincere non solo per quello che ha detto la Dott.ssa Atzori, ma per la mancata consapevolezza rispetto al peso che assumono le parole di un professionista della salute (in questo caso non “mentale”) che all’inizio della sua carriera ha fatto un giuramento, il giuramento di Ippocrate, che nella sua versione moderna al secondo punto riporta la seguente voce: “[Giuro] di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale”.

PSICOLOGI ARCOBALENO – Arcigay Torino “Ottavio Mai”

Pagina Facebook: Psicologi Arcobaleno – Progetto Evelyn Hooker

Indirizzo Email: [email protected]

NOTE:

iRicerca condotta tra il 1995 e il 2000. Sono state effettuate 150 interviste strutturate a persone che si erano sottoposte a terapie riparative con professionisti della salute mentale per almeno sei sedute, per valutare le percezioni di questi durante il percorso affrontato. 

iiRigliano P., Ciliberto J., Ferrari F. (2012), “Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità” Raffaello Cortina, Milano 

iiiPietrantoni L. (1999), “L’offesa peggiore. L’atteggiamento verso l’omosessualità: nuovi approcci picologici ed educativi.” Edizioni, del Cerro, Tirrenia.

 

Indagine su credenze perfezionistiche in età evolutiva – Assisi 2013

Assisi 2013

Indagine su credenze perfezionistiche in età evolutiva

Francesco E. Pizzoleo, Laura Catullo, Annalisa d’Angelo, Francesca Tesei

(Studi Cognitivi – sede di San Benedetto del Tronto)

 

INTRODUZIONE:

Lo scopo della presente ricerca è di svolgere un’indagine di tipo quantitativo-qualitativa sulle credenze perfezionistiche in età evolutiva, intendendo con perfezionista “una persona che tende a fissare per se stesso o per gli altri standard di comportamento e aspettative molto difficili da soddisfare (Marsigli e Melli, 2008).  Il perseguire standard di comportamento eccessivamente elevati può influire negativamente con lo sviluppo di ansia  e tristezza. Lo scopo è quello di vedere se nei soggetti che sperimentano ansia e tristezza, esiste una correlazione tra autostima e credenze perfezionistiche, da noi indagate con uno strumento costruito ad hoc.

Dall’analisi dei risultati si evince che le credenze positive sul perfezionismo, considerate come strategie utili per evitare il fallimento, correlano positivamente con l’autostima emozionale.

Inoltre si evince che le credenze positive sul perfezionismo, considerate invece come strategie utili per evitare la disapprovazione, correlano positivamente con ansia, depressione ed  Autostima scolastica. Si ritiene che tale indagine possa avere interessanti ricadute cliniche nella valutazione e nell’intervento su credenze perfezionistiche legate ad emozioni negative presenti in pre-adolescenti.

 

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

LEGGI:

PERFEZIONISMO – BAMBINI CREDENZE ANSIA

Disturbo Borderline di Personalità: la Dialectical Behaviour Therapy – Report dal Workshop di Reggio Calabria

 

 LEGGI PARTE 2

Workshop - Disturbo borderline di personalità e DBT

Il 15 novembre si è tenuto a Reggio Calabria il Workshop sulla Dialectical Behaviour Therapy (DBT) per il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), tenuto dal Prof. Cesare Maffei e dalla dr.ssa Donatella Fiore.

La prima giornata si apre con un’esperienza di mindfulness: occhi chiusi e si comincia con l’osservazione consapevole e la descrizione non giudicante della nostra esperienza. 10 minuti di esercitazione per prepararci ai contenuti della giornata.

Nella prima parte del corso vengono introdotte le tecniche nucleari della DBT e le basi teoriche e scientifiche da cui questa deriva.

La DBT non è propriamente una terapia cognitiva” spiega il Prof. Maffei “Marsha Linehan riconosce che le tecniche utilizzate sono maggiormente di derivazione comportamentista e che di cognitivo c’è solo il 20%”.

Il comportamentismo classico però necessitava di un ri-adattamento per questa popolazione, in quanto eccessivamente focalizzato sul cambiamento del comportamento che invece per i pazienti con DBP è più graduale e avviene solo dopo una fase di accettazione. La DBT quindi ha attinto da tecniche di derivazione diversa, tra cui Psicodinamica, Gestalt, Costruttivismo e da tecniche di terza generazione, come la Mindfulness. Questa è una delle peculiarità e originalità della DBT”.

Le tecniche di cui si compone, mirate al cambiamento da una parte (comportamentismo) e all’accettazione dall’altra (mindfulness) vengono messe in atto secondo una filosofia dialettica, che è alla base di tutta la terapia e che consiste in un atteggiamento flessibile e armonico del terapeuta nei confronti del paziente che oscilla tra due visioni opposte e antitetiche (tesi e antitesi).

L’atteggiamento dialettico, che deriva dal Buddismo Zen, è una forma mentis più che una tecnica e si traduce in quello che la Linehan chiama “sintesi”, ovvero l’intervento del terapeuta che ascolta attento la sofferenza dell’altro e fa luce sul problema che genera dolore, costruendo in maniera attiva insieme al paziente una esperienza diversa, non giudicante, flessibile e orientata al cambiamento.

E come si fa un intervento di sintesi?” Dal pubblico.

Si valida innanzitutto l’esperienza emotiva e la sofferenza del paziente che ha un sentimento di impotenza così intenso e doloroso, poi ci si orienta insieme verso il problema che ha generato la sofferenza. Errore sarebbe pensare di dover ridurre il comportamento problematico come se fosse lo scopo della terapia e non il mezzo che ci porta a comprendere meglio il motivo della loro sofferenza”.

Il Prof. Maffei aggiunge infine una sua opinione, che non è parte della DBT, e che riguarda l’assetto valoriale dei pazienti. “Dall’esperienza clinica, e non c’è ricerca su questo, si osserva che spesso la sofferenza dei pazienti risiede nella distanza che c’è tra il loro sistema di valori che da senso alla loro vita e quello che in realtà credono di poter raggiungere e/o hanno raggiunto . Tale distanza rinforza e mantiene nel tempo la loro idea di “indegnità”.

Interessante punto a cui la DBT non ci risponde. Innanzitutto, sarebbe utile definire se per “sistema valoriale” intendiamo l’insieme di pensieri e credenze che la persona struttura nel tempo sulla base delle esperienze e che vanno a costruire l’immagine di sé e il “valore” che ci attribuiamo. Successivamente, occorrerebbe capire come muoversi per ridurre la sofferenza del paziente, se la dialettica può essere sufficiente o necessita dell’integrazione di altre tecniche più mirate ad intervenire sul piano cognitivo.

Insomma, ormai a distanza di 20 anni dalla nascita della DBT possiamo osservarne l’efficacia, da una parte, dimostrata in studi randomizzati e controllati e condotti in diversi setting clinici americani e europei. D’altra parte, si iniziano a notare alcuni limiti della tecnica e le integrazioni di cui potrebbe necessitare.

A questo punto non ci resta che aspettare il 3° congresso internazionale sui Disturbi di Personalità che si terrà il prossimo anno a Roma e in cui sarà prevista una sessione di confronto tra Marsha Linehan e Peter Fonagy, autore del Trattamento basato sulla Mentalizzazione su “cosa funziona e cosa invece abbiamo sbagliato con questi pazienti”, ci anticipano i docenti.

La giornata si conclude in un clima generale di interesse e curiosità, in attesa dello skills training di domani!

 LEGGI PARTE 2

LEGGI ANCHE:

MINDFULNESSMARSHA LINHEAN – DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’  CONGRESSI – DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY

LE TERAPIE PSICOLOGICHE DEL DISTURBO DI PERSONALITA’ BORDERLINE

 

Workshop Reggio Calabria Novembre 2013

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BIBLIOGRAFIA:

Abusati e abusanti – Report dal Congresso Nazionale EMDR

Report dal Congresso Nazionale EMDR

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre 2013, Milano

labirinti traumatici congresso nazionale emdr Il lavoro con gli abusanti è di fondamentale importanza per la prevenzione di recidive e rappresenta un passo indispensabile per la piena tutela delle vittime.

All’interno del congresso nazionale EMDR, svoltosi negli scorsi giorni a Milano, organizzato dall’Associazione per l’EMDR in Italia, molto spazio è stato dedicato all’abuso e alla violenza, ma affrontando questi delicati temi da una prospettiva nuova e interessante, ovvero prendendo in considerazione tutti gli attori dell’esperienza traumatica: sopravvissuti e abusanti.

Apre i lavori Julie Stowasser, coordinatrice del settore Violenza Domestica dell’American Psychological Association, con un workshop su questo fenomeno di allarmante attualità che ha visto un forte incremento nel nostro Paese negli ultimi anni, in controtendenza rispetto a quanto si sta verificando negli USA.

I dati parlano chiaro: In Italia il 50% delle donne uccise lo sono per mano del convivente, il 30% da fidanzati o ex-partner e nella maggior parte dei casi c’è stato un precedente  stalking per cui non sono state prese le misure necessarie a causa di un sistema penale lento e ancora inadeguato su questo fronte. 

Julie Stowasser sottolinea con molta forza l’idea che gli effetti della violenza domestica non sono solo una questione privata, ma riguardano tutti noi e hanno profonde ricadute sulle generazioni successive.

Le definizioni giuridiche, sociologiche e culturali variano da una paese all’altro, e ad oggi non esiste un profilo coerente di aggressore e vittima. Soprattutto rispetto agli abusanti abbiamo pochi dati: la maggior parte di loro sono uomini, ma non ne conosciamo la percentuale.

Nell’ambito degli interventi terapeutici la violenza domestica può essere definita come un pattern di comportamenti verbali e non verbali messi in atto intenzionalmente e volti ad ottenere dominio e controllo all’interno di una relazione, attraverso umiliazione, minacce, intimidazione, coercizione fino alla violenza vera e propria.

E’ un comportamento intenzionale perché non c’è una totale perdita di controllo: questi abusanti sono in grado di mantenere un comportamento perfettamente calmo e controllato di fronte ai vicini di casa o alle forze dell’ordine che intervengono per poi rientrare in casa e dare sfogo alla violenza verso la partner.

Tipicamente questo pattern di comportamenti ha un andamento ciclico: da una fase di escalation la tensione si trasforma in scatto esplosivo per poi decrescere fino alla fase delle scuse e dei tentativi di riappacificazione. Questo “ciclo della violenza” col tempo aumenta di frequenza e di intensità, a volte con molta lentezza, altre volte, invece, si assiste ad una rapida escalation, con conseguenze anche letali.

L’intervento di Julie Stowasser non mira a fornire al terapeuta specifici strumenti per il trattamento, ma una chiave di lettura utile alla comprensione e alla presa di consapevolezza di una situazione con cui ci si può trovare a fare i conti in terapia.

E’ importante imparare a riconoscere e ad agire innanzi tutto per garantire la sicurezza della vittima e in secondo luogo per farsi carico dell’abusante.

Molto spesso, infatti, gli aggressori mostrano nella loro storia di vita la presenza di un Disturbo da Stress Post-Traumatico o traumi irrisolti, esposizione alla violenza durante la loro infanzia o un ambiente di crescita in cui hanno imparato che la violenza è la risposta ad ogni problema. Il ciclo della violenza si ripete e coinvolge le generazioni successive.

Proprio in virtù di queste considerazioni l’EMDR, integrato con altri strumenti di intervento, sembra essere un trattamento molto promettente per i perpetratori di violenza domestica.

L’attenzione è focalizzata su alcuni target specifici, come la vergogna e i sensi di colpa, prepotenze subite, perdite, abusi e altri eventuali traumi. Solitamente è possibile rintracciare una storia critica con qualche figura maschile di riferimento, più frequentemente il padre. Orgoglio ferito, machismo e odio generale verso le donne sono altri target molto importanti del lavoro con l’EMDR. 

Anche l’intervento di Ronald Ricci responsabile del Sexuality Responsability Program presso il Devereux Kanner Center di West Chester, si focalizza sul trattamento degli abusanti, in questo caso gli autori di reati sessuali. 

Il lavoro con questa tipologia di abusanti è di fondamentale importanza per la prevenzione di recidive e rappresenta un passo indispensabile per la piena tutela delle vittime. Questo tipo di abusanti, infatti, presenta un alto tasso di recidive e un trattamento mirato può contribuire in maniera significativa a diminuirle. Purtroppo in Italia non esiste un piano di trattamento condiviso a livello nazionale per questo tipo di offender e l’iniziativa viene lasciata alle singole amministrazioni.

Nel suo lavoro Ronald Ricci propone, in linea con quanto evidenziato dalle teorie emergenti in questo campo, un modello di trattamento dei sex offenders focalizzato sul trauma.

Il modello di trattamento classico era basato prevalentemente sull’evitamento delle situazioni che potessero innescare il comportamento deviante e sull’assunzione di responsabilità. Gli eventuali abusi subìti da parte del perpetratore venivano concepiti come scuse per giustificare il comportamento deviante e per questa ragione non gli era permesso parlarne. Questo tipo di trattamento non motivava sufficientemente gli offenders a cambiare e non permetteva di ridurre significativamente le recidive. Non teneva inoltre in considerazione il fatto che una precedente storia di abuso fosse un fattore eziologico contribuente allo sviluppo del comportamento deviante.

Molti offenders, infatti, come effetto del trauma, ricordano in maniera distorta i fatti collegati alla loro vittimizzazione, negando il danno subìto o credendo di essere stati loro i responsabili dell’abuso. Generalizzando queste credenze, non percepiscono il danno che causano alle loro vittime e le ritengono in qualche modo responsabili o corresponsabili dell’abuso. 

La letteratura ha messo in evidenza alcuni fattori di vulnerabilità presenti in questo tipo di offenders: deficit d’intimità e di abilità sociali, script sessuali distorti, disregolazione emotiva, credenze a sostegno del reato, oltre alla presenza di script devianti sessuali spesso derivanti dalla vittimizzazione sessuale nell’infanzia.

Gli attuali modelli di trattamento per sex offenders si focalizzano proprio su questi aspetti e includono al loro interno uno spazio dedicato all’elaborazione di esperienze traumatiche, anche attraverso l’uso dell’EMDR.

Il modello proposto da Ronald Ricci integra il trattamento EMDR con il modello “Good Lives”: il reato sessuale viene concepito come un modo maladattivo per ottenere un bene primario e il lavoro consiste nell’offrire al paziente la possibilità di soddisfare i suoi bisogni in modi più adattivi e nel rispetto dei bisogni altrui. 

Il trattamento inizia durante la detenzione e continua in libertà vigilata e comprende gruppi di sostegno, trattamento terapeutico generale e trattamento EMDR focalizzato sui traumi.

Alcune testimonianze video di un gruppo di pazienti sottoposti a questo tipo di trattamento mostrano chiaramente l’efficacia di questo strumento nel permettere a queste persone di elaborare le esperienze di abuso subìto e di entrare in contatto con i propri sentimenti, ponte indispensabile per una vera comprensione dei vissuti delle loro vittime e delle conseguenze dei loro comportamenti devianti. Il trattamento EMDR sembra avere una grande efficacia nel ridurre uno dei fattori maggiormente predittivi delle recidive: l’eccitazione sessuale deviante verso la tipologia di vittime del reato commesso.

Un altro interessante intervento sul tema dell’abuso, questa volta incentrato sulle vittime, è stato quello di Derek Farrell, professore ordinario dell’Università di Worcester, relativo al trattamento EMDR con sopravvissuti ad abusi subìti da parte di membri del clero. 

Fenomeno purtroppo diffuso che coinvolge tutte le fedi e tutte le chiese, affonda le sue radici molto indietro nel tempo e se ne trovano testimonianze in documenti molto antichi.

Fulcro del lavoro presentato da Farrell è l’idea che questo tipo di abuso non sia peggiore di altri, ma che presenti delle differenze di cui è necessario tener conto per offrire un trattamento adeguato ai sopravvissuti.

Queste differenze riguardano innanzi tutto la figura degli abusanti: per quanto il loro ruolo sia profondamente cambiato nel corso degli ultimi decenni, tipicamente essi ricoprono una posizione di grande importanza all’interno della comunità. Questo fa sì che spesso le vittime vengano obbligate alla segretezza ed al silenzio e, nel caso riferiscano l’abuso subìto, non vengano credute né sostenute dalla comunità, andando incontro ad una ri-traumatizzazione.

Altra caratteristica frequente in questo tipo trauma è la credenza che Dio  abbia contribuito all’abuso, attraverso le strategie di obbligo al silenzio utilizzate dai preti abusanti o per aver permesso che accadesse.

Spesso questa esperienza conduce ad un allontanamento dalla fede, che si configura come un ulteriore trauma, un profondo senso di perdita.

Un ulteriore dato importante è che nel trattamento EMDR di questi pazienti il futuro è un target di grande rilevanza. Futuro che va oltre la sola dimensione terrena, come raccontano le parole di una vittima: “Se il mio abusante si dovesse pentire Dio lo perdonerebbe e lo accoglierebbe in paradiso, e ciò renderebbe il paradiso un posto non sicuro”.

Il messaggio che emerge dai diversi interventi è chiaro: farsi carico dei “carnefici” non è solamente utile, ma necessario per interrompere il ciclo della violenza e offrire un reale aiuto alle vittime passate, presenti e potenziali. 

Gli ostacoli che una simile prospettiva deve affrontare sono diversi: innanzi tutto far accettare alle istituzioni e all’opinione pubblica interventi volti ad aiutare chi si rende responsabile di crimini che spesso suscitano reazioni profonde e feroci; in secondo luogo coinvolgere il personale curante in percorsi emotivamente molto faticosi che comportano lo stare a contatto con sentimenti e comportamenti che mettono a dura prova le capacità empatiche; un ulteriore difficoltà è quella di coinvolgere e motivare gli abusanti stessi in un percorso di messa in discussione di sé e dei propri pattern comportamentali. 

Nonostante queste difficoltà quello che i relatori sottolineano è l’imprescindibilità di questo tipo di lavoro, con l’obiettivo primario di proteggere innanzi tutto le vittime e le generazioni future dagli effetti traumatici dell’abuso.

LEGGI:

CONGRESSO NAZIONALE EMDRABUSI E MALTRATTAMENTIVIOLENZA TRAUMA – ESPERIENZA TRAUMATICA DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSDEYE MOVEMENT DESENSITIZATION AND REPROCESSING – EMDR

 

Van den Hout: Ecco come funziona l’ EMDR – SITCC 2012

 

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 2

Il conflitto pt. 2

Da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 1

Il conflitto 2. - Immagine: ©-christophe-BOISSON-Fotolia.comIl conflitto: componenti e processi comportamentali.

Analizzando le modalità con cui si manifesta in superficie a livello comportamentale e comunicativo, è possibile affermare che l’escalation è caratterizzata da un aumento dell’arousal a livello psicofisiologico (Geiger e Fischer, 2006), dalla comparsa di atteggiamenti e comportamenti aggressivi (Anderson e Bushman, 2002) e da un progressivo cambiamento della comunicazione verbale, che si caratterizza per nuove strategie coercitive o lesive come l’offesa, l’insulto o la minaccia (Arielli e Scotto, 2003).

Nei casi più estremi, l’escalation può sfociare in veri e propri comportamenti violenti miranti a recare direttamente danno agli altri partecipanti al conflitto (Anderson e Bushman, 2002; Geiger e Fischer, 2006).

Dal punto di vista comunicativo, seguendo i principi della pragmatica della comunicazione umana, è possibile affermare che l’escalation è un’azione congiunta tra due o più attori coinvolti attraverso cui essi affermano qualcosa non solo a livello del messaggio ma anche della relazione a cui partecipano; ad esempio, la minaccia e la squalifica, due modalità comunicative tipiche dell’escalation, trasmettono a livello del messaggio la propria posizione all’interno del conflitto, ma, al contempo, veicolano informazioni importanti a livello della relazione e cioè, nel caso specifico, un ultimatum nel caso della minaccia e la disconferma diretta della persona o della relazione stessa, nel caso della squalifica (Arielli e Scotto, 2003).

Nel processo escalativo gli agenti tendono infatti alla sempre maggiore polarizzazione della propria posizione e all’irrigidimento estremo della propria ragione; in questo caso la comunicazione a sua volta tende ad irrigidirsi e a spostarsi su due fronti opposti ma compresenti. Il primo fronte è rappresentato dalla generalizzazione e apertura delle questioni del conflitto, attraverso cui si abbandonano le questioni oggettive originarie per passare a questioni sovraordinate di ordine ideologico, valoriale e identitario (Arielli e Scotto, 2003); si tende così a fare appello a valori morali superiori, alla propria presunta superiorità ideologica o intellettuale, all’ipse dixit o agli slogan (ibid.). Il secondo fronte è rappresentato diametralmente dal restringimento delle invettive che si trasformano da generali e esterne a specifiche e interne; l’oggetto del conflitto non riguarda più questioni esterne agli agenti, su cui entrambi possono confrontarsi e apportare la propria opinione, ma comportamenti e attributi specifici degli individui coinvolti, compresi i loro comportamenti, la loro personalità, la loro provenienza geografica, la loro appartenenza sociale e/o culturale (Geiger e Fischer, 2006; Pronin, 2007).

A livello comportamentale, l’escalation è caratterizzata da un sensibile aumento di aggressività, in termini di severità, intensità e impulsività (Winstok, 2008). Anderson e Bushman (2002) definiscono l’aggressività come qualsiasi comportamento diretto verso un altro individuo e messo in atto con l’immediato intento di causare danno; inoltre, colui che attua questo tipo di comportamento deve avere piena coscienza che il suo comportamento arrecherà danno al bersaglio e che quest’ultimo è motivato a eludere l’attacco. Gli autori propongono un modello generale dell’aggressività basato sulla costante interazione a più livelli di due macro-categorie di variabili: le variabili situazionali, che includono tutte quelle qualità specifiche di un dato contesto o situazione sociale che possono innescare una dinamica conflittuale e/o aggressiva (tra cui la presenza di cues aggressivi, frustrazione, possibilità di ottenere rinforzi), e le variabili individuali, che comprendono tutte la caratteristiche idiosincratiche che gli individui apportano all’interno delle dinamiche relazionali (tra cui tratti di personalità, credenze, atteggiamenti, valori, scripts cognitivi).

Esiste un rapporto di influenza reciproca e bidirezionale tra queste due variabili; i fattori situazionali possono influenzare alcune disposizioni e atteggiamenti personali verso la conflittualità e l’aggressività, come ad esempio la ripetuta esposizione a scene violente proposte dai media (Anderson, Buckley e Carnagey, 2008), e, allo stesso modo, può verificarsi il processo inverso, come quando ad esempio alcuni specifici tratti di personalità, tra cui l’ostilità o la rabbia di tratto, favoriscono la ricerca attiva di alcuni ambienti in cui la possibilità di confliggere è resa più disponibile (ibid.).

Queste due tipologie di variabili fungono da input a una serie di processi interni e covert; primi fra tutti alcuni importanti processi cognitivi, come lo sviluppo di pensieri ostili e l’attribuzione arbitraria di intenzioni maligne agli altri agenti, ma anche alcuni processi affettivi e psicofisiologici, come l’aumento dell’attivazione neurologica basale e l’aumento di emozioni negative, dolore e tensione psicologica. Quando gli input situazionali sono percepiti come salienti e quando i processi cognitivo-affettivi si attivano potenziandosi a vicenda, la probabilità di mettere in atto un comportamento aggressivo aumenta notevolmente (Anderson e Bushman, 2002).

A riprova di ciò, un recente studio di Winstok e Eisikovits (2008) analizza le fasi caratterizzanti l’escalation dei conflitti nelle relazioni intime tra partners. Utilizzando una metodologia qualitativa che mirava a sviscerare i diversi livelli di aumento del conflitto, gli autori hanno intervistato 50 coppie che avevano vissuto in passato uno o più episodi di aggressività verbale e fisica.

Dalle interviste emergono due fattori cruciali e centrali dell’escalation nei conflitti di coppia. Il primo riguarda le motivazioni alla base del conflitto, mentre il secondo il senso di controllo; la dimensione delle motivazione e quella del controllo rappresentano due traiettorie che decidono in maniera determinante l’esito della dinamica conflittuale verso diversi livelli di aggressività. Gli autori hanno infatti notato dalle interviste dei partecipanti che, mentre nelle prime fasi del conflitto le motivazioni rivestono maggiore importanza cognitiva ed affettiva rispetto al bisogno di controllo del partner e/o della situazione, questa tendenza tende a invertirsi completamente nella fase terminale del conflitto, quando le motivazioni originarie e il senso di autocontrollo si affievoliscono mentre parallelamente aumenta il bisogno di porre termine al conflitto, indipendentemente dalla modalità. Nel momento in cui le due traiettorie si incrociano tra la prima e l’ultima fase del conflitto, esse segnano un punto di non ritorno in cui l’escalation assume forma e sostanza, il conflitto diventa distruttivo e si verifica con maggiore probabilità il passaggio dall’aggressività verbale a quella fisica.

Queste osservazioni confermano i dati ottenuti da uno studio di Smits e De Boeck (2007) in cui gli autori hanno dimostrato che il controllo cognitivo incide sulla messa in atto di comportamenti aggressivi a due diversi livelli: a livello della tendenza all’azione e a livello del comportamento vero e proprio. L’inibizione e la pianificazione comportamentale, caratteristiche basilari della vita sociale degli esseri umani, agiscono a questi due livelli per scongiurare effetti potenzialmente distruttivi per i singoli agenti e per la relazione; l’escalation si presenta invece quando entrambe questi dispositivi di controllo falliscono o si affievoliscono.

Secondo Winstok (2008) i freni inibitori e di controllo si fanno più deboli sulla base di una razionale valutazione dei pro e dei contro della situazione; se i vantaggi della condotta aggressiva come culmine di una dinamica escalativa sono percepiti come maggiori o più rilevanti dei suoi eventuali costi, la persona sarà maggiormente motivata e intenzionata a frenare a tutti i livelli i propri sistemi inibitori e di autocontrollo.

Tuttavia, come lo stesso Winstok nota, si tratta di un modello basato su processi di decision-making razionale che lasciano poco spazio ai processi emotivi, percettivi e cognitivi sottostanti. Ciò che osserviamo direttamente nel conflitto e nell’escalation è in realtà soltanto la punta dell’iceberg di complessi processi cognitivi, affettivi, motivazionali e identitari più profondi.

 

LEGGI: PARTE 1

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALIPSICOLOGIA SOCIALEAROUSAL 

PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

PSICOLOGIA SOCIALE: GLI ESSERI UMANI SONO PRO-SOCIALI

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Sesso occasionale: conviene? – Il circolo vizioso della solitudine – Psicologia

 

Sesso occasionale: conviene? - Il circolo vizioso della solitudine. - Immagine: © George Mayer - Fotolia.comFare sesso occasionale fa star bene! Falsa credenza o dura realtà?

Pare che avere rapporti occasionali porti a un vissuto di frustrazione, colpa e ansia verso il sesso che funzionerebbe da tappa buchi emotivo. 

Film, giornali, media grondano di notizie relative alle relazioni occasionali, creano gossip, fanno notizia, sia se riguarda il migliore amico sia se si tratta di persone note.

In molti, giovani e adulti, intraprendono spesso sesso occasionale o esperienze sessuali al di fuori di una relazione di coppia. Si tratta di un comportamento molto diffuso: si esce, si va a ballare si conosce gente e si passa la serata insieme, un fugace prendere qualcosa di limitato dell’altro. Recentemente, le chat facilitiamo questo tipo di relazione e lo sconosciuto diventa subito un qualcosa a portata di mano.

Il sesso occasionale può avvenire tra perfetti sconosciuti o tra amici, amici con benefit, ma secondo voi porta effetti positivi oppure solo sofferenza?

Nell’immaginario collettivo è noto che dire di avere molti partner potrebbe essere sinonimo di gran divertimento e di essere dei gran viveur, chiaro che deve essere fatta una distinzione tra uomini e donne. Infatti, gli uomini e le donne riferiscono comportamenti divergenti verso il sesso occasionale.  In generale, le donne mostrano un atteggiamento più negativo verso il sesso occasionale rispetto agli uomini, che sono più predisposti ad avere relazioni occasionali.

Spesse volte il sesso occasionale costituisce una valida alternativa rispetto all’impegnarsi seriamente con qualcuno, richiede meno impegno comportamentale ed emotivo e dall’altra parte fa sentire attraenti, impegnati e desiderati, richiesti, ambiti. Quindi dovrebbe provocare benessere, e, invece, non è così!

Pare che avere rapporti occasionali porti a un vissuto di frustrazione, colpa e ansia verso il sesso che funzionerebbe da tappa buchi emotivo. Le persone che ricercano un rapporto sessuale occasionale mostrano scarsa autostima, poca soddisfazione nella vita in generale e di conseguenza si celano dietro queste false relazioni che erroneamente si pensa possano provocare piacere. Invece, non fanno altro che aumentare il buco emotivo, che dopo aver consumato fugacemente la relazione, piombano nel vortice caleidoscopico della tristezza. Ed eccoli subito dopo pronti a ricominciare!

Si tratta di persone sole o che sperimentano un senso di solitudine e che vorrebbero provare un senso di rivalsa nel ricreare una falsa relazione con una falsa vicinanza emotiva.

In altre parole, un disagio relazionale e emotivo può procedere il comportamento che porta all’intraprendere una relazione sessuale occasionale.

Il rapporto “one night” fa sentire vuoti, insoddisfatti e psicologicamente fragili. Questo ha ovviamente ripercussioni negative sull’intera persona e sul sociale. Quindi, aumenta quel vortice che ha portato inizialmente alla ricerca del rapporto occasionale.

Per non patologizzare sempre, è possibile che avere rapporti occasionali potrebbe essere anche un modo di sperimentarsi e di discriminare cosa piace da cosa non piace.

Magari, chissà, potrebbe portare ad uscire dal guscio e scoprire l’amore vero.

LEGGI:

SESSO-SESSUALITA’PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Innamorarsi danneggia l’attenzione. Amore & Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli innamorati sarebbero meno in grado di focalizzare l’attenzione ed eseguire compiti che richiedono un impegno attentivo, questo quanto ha dimostrato empiricamente uno studio pubblicato recentemente su Motivation and Emotion. 

Circa quaranta individui impegnati in una relazione da meno di sei mesi hanno eseguito una serie di compiti attentivi (ad esempio, discriminare informazioni irrilevanti da quelle rilevanti). Tra i risultati vi è una correlazione positiva statisticamente significativa: più i soggetti riportavano di essere innamorati (variabile misurata attraverso il questionario Passionate Love Scale) e meno erano in grado di svolgere in maniera adeguata i compiti attentivi proposti, facendo quindi un maggior numero di errori e impiegando più tempo per portarli a termine. Nessuna differenza significativa è stata rilevata in tale effetto tra uomini e donne.

Gli autori dello studio si spiegano il fenomeno – ben conosciuto dalla psicologia naif – riferendosi alla massiva quota di risorse cognitive che vengono investite sull’amato, al limite dell’ossessività: in altre parole durante i primi mesi di una storia d’amore si pensa costantemente al partner, rendendo cosi difficile la concentrazione e la focalizzazione dell’attenzione. Questo effetto dell’affettività sulla cognizione, studiato in laboratorio è facilmente generalizzabile a contesti della vita quotidiana in cui l’innamorato non ha testa per studiare o lavorare.

Ulteriori studi si proporranno di approfondire se tale fenomeno sia presente in relazioni romantiche più durature, cercando di comprenderne anche il ruolo di variabili individuali e relazionali in grado di modularlo. 

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – ATTENZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Interview with Warren Mansell on Method of Levels Therapy

STATE OF MIND INTERVIEWS:

Warren Mansell Ph.D

Reader in Clinical Psychology at the University of Manchester

 

 

State of Mind interviews Dr. Warren Mansell, Reader in Clinical Psychology at the University of Manchester, about a novel form of Cognitive Behavioural Therapy known as Method of Levels.

Resources: http://www.pctweb.org/

 

FURTHER READINGS:

ENGLISH ARTICLES ON STATE OF MIND

OTHER INTERVIEWS:

Interview with Prof. Marcel van den Hout on EMDR and Psychotherapy

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D at APA 2013 Annual Convention, Honolulu

Peter Fonagy – Interview on Mentalizazion Based Therapy

Interview with John F. Clarkin in New York

Interview with Tom Borkovec – EABCT 2012 Genève

Il cigno nero (The Black Swan, 2010) – Cinema & Psicoterapia #13

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #13

Il cigno nero (Black Swan).(2010)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Il cigno nero (Black Swan).(2010). -Immagine: locandina

Il concetto di controllo si estende alle pulsioni affettive, sessuali, e a una routine strutturata, tutta volta solo alla realizzazione. I bisogni della giovane non compaiono: esplodono.

Info:

Un film di Darren Aronofsky, con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder. Thriller. USA 2010.

Trama: 

Nina è una ballerina di danza classica che vuole spasmodicamente la parte del cigno nell’allestimento del “Lago dei cigni” fatta da Thomas Leroy. Leroy le assegna il ruolo, ma poi ha dei dubbi: forse Nina non ha la sensualità necessaria per le parti in cui il cigno nero seduce il principe.

Nina è competitiva e concentrata sulla propria prestazione. In più, la madre è un’ex ballerina che non ha avuto successo e che, in modo ambivalente, ripone nella figlia le proprie speranze ma,al contempo, spera che la figlia fallisca come lei.

Il controllo di ciò che mangia in Nina è proporzionale alla determinazione rispetto alla riuscita della carriera. Il concetto di controllo si estende alle pulsioni affettive, sessuali, e a una routine strutturata, tutta volta solo alla realizzazione. I bisogni della giovane non compaiono: esplodono. Perché lei reprime se stessa con la forza con cui spera di esprimere la propria arte.

Rispetto alla perfettibilità emula se stessa e non può vincere. Per essere sensuale come il ruolo richiede, deve svincolare il controllo.

Una collega che compete per la stessa parte la invita a cena e le fa assumere un acido. Da questo momento in poi scatta lo scompenso: lentamente, ma in modo inesorabile, la soggettività si allarga, la metacognizione si distorce in interpretazioni maligne e le paure diventano solide immagini, diventano ‘realtà’: le paure si materializzano.

Il nemico di Nina è Nina, la quale combatte se stessa fino alla morte. 

Motivi di interesse: 

Le fasi della psicosi sono ben delineate, passo dopo passo dalla confusione angosciosa fino all’intuizione finale che tutto fa quadrare nel delirio franco e nella realizzazione del cigno nero. 

Nelle prime scene del film lei si mangia le cuticole attorno alle unghie e si gratta le spalle per il nervosismo. Poco dopo c’è una scena in cui lei ha una visione del dito che le si apre come se la pellicina invece di staccarsi fosse tirata fino alla nocca della mano.

In una scena successiva l’irritazione della pelle sulle spalle sembra notevolmente peggiorata, quasi viva, come se i pori ‘friggessero’ sotto il derma.

Poi si convince di aver avuto un rapporto sessuale con la sua competitor, cosa che non è mai avvenuta, dopo aver preso l’acido offerto da lei.

Nella scena finale sul palco scenico la psicosi è consolidata: dai pori escono le piume nere del cigno e lei con lo sguardo iniettato di furia vince se stessa allargando le ali.

La protagonista presenta anche aspetti relativi a disturbi del comportamento alimentare: dal voler dominare l’appetito alla ricerca della perfezione, dalla dipendenza dal parere degli altri al conflitto inconfessato con la madre.

In una prima scena lei e la madre fanno colazione e si beano fintamente di mangiare pompelmo rosa: è chiaro che si tratta di uno sforzo necessario alla linea di Nina.

In una scena successiva la madre le fa trovare una torta di compleanno con panna e frutta e la invita almeno ad assaggiarla: Nina considera questo invito una provocazione, un’aggressione, una specie di violenza e, anche se poi mangia un cucchiaio di panna e frutta, lo fa con faccia disgustata.

In un’altra scena ancora il regista dichiara durante un cocktail che sarà lei a fare la parte e non la prima ballerina dell’anno prima. L’ex prima ballerina scappa disperata e la gente guarda Nina con riprovazione e giudizio (o almeno così percepisce lei) chiedendosi come abbia ottenuto la parte. Lei ne è profondamente turbata.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può essere utilizzato a fini didattici.

Trailer

 

 LEGGI:

PSICOSI DISTURBO DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – CONTROLLO

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Amore, sesso e poesia, detto e non detto dell’amore di coppia – Recensione

Recensione del libro

Amore, sesso e poesia, detto e non detto dell’amore di coppia

di Massimo Biondi

(2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Amore, sesso e poesia Amore, sesso e poesia, tre parole, tre grandi temi, tre importanti questioni affrontate nel libro scritto da Massimo Biondi, professore ordinario di psichiatria, psichiatra e psicoterapeuta.

Non vi aspettate di trovare capitoli o sottocapitoli, ma solo paragrafi o brevi prose che pian piano dipanano, in modo non convenzionale, quanto si può sapere dell’amore e della relazione di coppia. La non convenzionalità, la poca scientificità, cede il posto al racconto di quanto comunemente si respira realmente in una relazione di coppia, che duri 15 minuti o una intera vita, che sia fatta di frugalità o di amore convenzionale.

Sei innamorato? Cosa sai dell’amore? Forse poco o niente al punto da confondere l’innamoramento con l’amore vero e proprio. Invece, l’amore che porta e tramanda la memoria della coppia muove ogni cosa e scandisce le fasi della vita coniugale fino a raggiungere il polo opposto allo stesso: la morte.

“La vita non è dolore, ma il dolore è una componente importante della vita cui nessuno sfugge”. Eppure, esiste sempre il faro di riferimento, o detto alla Bolwby la nostra base sicura , il principio di sicurezza affettiva scrive Biondi, che porta alla consapevolezza di avere delle certezze sentimentali nella vita familiare su cui contare. Ma i legami col tempo cambiano e mutano, si evolvono, non sono statici e a questo cambiamento ci si deve adeguare previa la fine della relazione e la scoperta di altre situazione clandestine che fungono da approdo sicuro.

L’idea dell’amore, il piccolo delirio e l’altra persona sono gli ingredienti che portano alla formazione del legame, e tutti quelli che pensano che avere affinità elettiva possa facilitare il legame, beh, è possibile dire che sono fuori binari. Secondo Biondi la differenza è data dal fare molte cose insieme ovvero costruire il legame di coppia e non vivere dell’idillio, ma creare la storia partendo dalla realtà. A questo punto si forgia la poesia, “che nasce e si alimenta di passioni e di contrasti, di alti e bassi, di contrappunti, di chiaro e scuro“. E’ un venirsi incontro e scontrarsi, un mare spinto dal bisogno di appartenere all’altro e dal perdersi nell’altro, onde di emozioni lunghe e corte che muovono l’amore e dell’amore.

La passione condisce la relazione e stimola il gioco di coppia. Lui o lei si muovono diversamente, provano piaceri diversi, ma l’importante è attivare i feromoni che portano poi a muoversi verso l’altro fino a creare la giusta armonia delle parti, sublime bellezza!

L’altro, diverso da noi, tira fuori una nostra particolare attitudine che nella relazione ci fa sentire in un modo particolare. Questo è ciò che determina l’andamento della relazione.

Quando l’altro non fa sentire più niente di particolare la magia dell’amore finisce e si passa alla normalità, all’apatia. Da qui si possono intraprendere tante strade, si soffre, ci si dispera, si crea dipendenza patologica, ci si arrabbia fino a picchiare o si trova rifugio tra altre braccia: tradimento. Il tradimento, lungo o corto, passionale o fugace porta una sferzata nella vita della coppia determinando una traiettoria parabolica: Vous n’avez pas la prioritè!

Vi starete chiedendo: l’amore in terapia? “Il terapeuta deve capire e aiutare le persone a capirsi; deve fargli trovare soddisfazione nella vita reale e non nel medico. Questo è l’amore che deve provare“. Quindi, si tratta di un confine da definire: non è amore!

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

LEGGI ANCHE:

AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALISCELTA DEL PARTNER – SESSO E SESSUALITA’ – ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

AMORE E FAMILIARITA’: UNA QUESTIONE DI ATTACCAMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

Internship position (research assistant) on Visual Perception and Control of Action available at IIT-CNCS

La Redazione di State of Mind segnala questa posizione aperta presso l’Istituto Italiano di Tecnologia -sede di Trento-

THE DEADLINE FOR THE APPLICATION IS DECEMBER 5TH, 2013

The Istituto Italiano di Tecnologia (http://www.iit.it) is a private law Foundation, created with special Government Law no. 269 of September 30th 2003, with the objective of promoting Italy’s technological development and higher education in science and technology. Research at IIT is carried out in highly innovative scientific fields with state-of-the-art technology.

An internship (research assistant) position will be available and confirmed in 2014 at the Active Vision Lab of the IIT Center for Neuroscience and Cognitive Systems (http://cncs.iit.it/).

This would be an excellent position for graduates who wish to sharpen their research skills before continuing to postgraduate study. Applicants should have an undergraduate degree in cognitive science, psychology, neuroscience, biology, engineering or related fields, familiarity and ease with computers and strong organizational and interpersonal skills. Expertise with programming, prior independent research experience, and/or statistics is strongly desirable. The salary will be commensurate to qualification and in line to that of top European research institutes.

The successful candidate will assist with all aspects of experimentation including designing, preparing and running the experiments, recruiting participants, analyzing behavioral and kinematic data and publication.

Internship position (research assistant) on Visual Perception and Control of Action available at IIT-CNCSConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
An internship (research assistant) position will be available and confirmed in 2014 at the Active Vision Lab of the IIT Center for Neuroscience and Cognitive Systems (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: Intervista a Lucio Sibilia

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Lucio Sibilia

Professore di Psicologia Clinica, Università La Sapienza di Roma.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Lucio Sibilia, Professore di Psicologia Clinica all’ Università La Sapienza, Roma. Il Professor Sibilia è anche stato co-fondatore della SITCC, la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.  Il Prof. Sibilia ha anche gentilmente spedito le risposte al nostro set di domande standard in forma scritta, come utile complemento all’intervista video, le risposte scritte le trovate QUI.

 CONTENUTI CORRELATI:

LE 8 RISPOSTE DEL PROF. SIBILIA

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA 

LE MIE RISPOSTE ALLE OTTO DOMANDE.

Lucio Sibilia

1 Credo di poter dire che ognuno di noi ha dei principi teorici e clinici che ritiene irrinunciabili. O almeno molto importanti per orientarsi ed effettuare il lavoro clinico. Quali sono i tuoi?

Il nostro approccio CBT si può definire traslazionale. Alla pari della “medicina traslazionale”, si applica il portato della ricerca sperimentale in psicoterapia e psicopatologia ai problemi del paziente. Per fare questo, ovviamente, si ha bisogno di un quadro di riferimento generale, per la selezione delle ricerche.

Il determinismo reciproco di A. Bandura e M. Mahoney è questo quadro di riferimento entro il quale principi e teorie del cambiamento possono essere inquadrati ed acquistano senso come regioni teoriche, o ambiti di applicabilità. Questo è per noi (fondatori del CRP) il “planisfero” delle teorie che qualunque “cittadino del mondo” psicologico farebbe bene a conoscere. Sono profondamente convinto infatti che non vi sia alcuna teoria che possa spiegare l’intero comportamento umano, che si presenta sempre come un fenomeno multideterminato. Tuttavia, ogni teoria, se scientifica, dovrebbe essere compatibile con quelle limitrofe, così come ogni regione geografica con quelle vicine.

Il determinismo reciproco comporta inevitabilmente una visione sistemica, in cui si riconosce al soggetto, quale livello di analisi ed intervento, una dotazione biologica ed una collocazione all’interno di contesti ambientali suoi propri, livelli questi intesi anch’essi come ambiti di analisi ed intervento, a loro volta scomponibili nei loro sottosistemi; le variabili soggettive interagiscono con le variabili pertinenti a tali livelli mediante il comportamento osservabile, comprese le reazioni emozionali. Quindi, comportamenti, stati e reazioni somato-emotive, eventi e condizioni esterne, nonché contenuti e processi cognitivi sono in interazione, modificando continuamente il sistema mente-cervello-corpo-ambiente. Il comportamento si presenta come un’interfaccia tra l’ambiente (immediato e remoto, prossimale e distale, sociale e non) e l’individuo; tuttavia, interagendo con l’ambiente, l’individuo la fa “proprio”. Bisogna quindi accettare che il soggetto (o se si vuole il “Sé”) sia un’entità dai confini continuamente variabili e sfumati, particolarmente in una società “liquida” come la nostra, anche se può mostrare alcune caratteristiche emergenti (come ad es. tratti di personalità o disturbi psichici), che inducono a pensare alla sua continuità nel tempo.

Attraverso le interazioni con i suoi contesti ed i suoi sistemi cognitivo ed emotivo l’individuo risponde alle esigenze che sia le variabili alfa (ambientali) che beta (biologiche) gli pongono in ogni momento della vita. Il sistema cognitivo (variabili gamma) elabora soluzioni (coping), o le assimila dagli altri (modeling), e re- gistra la memoria di successi e fallimenti di tali interazioni (rinforzi o punizioni). E’ ciò che viene chiamato apprendimento, se riguarda comportamenti complessi, o condizionamento se riguarda comportamenti più semplici.1 Il sistema cognitivo ha quindi la funzione primaria di elaborare un’attività (comportamento), più o meno competente (abilità) che gli consenta di risolvere problemi ed esigenze poste dagli altri due livelli alfa e beta, realizzando così l’adattamento personale mediante il repertorio sviluppato. Tale apprendimen- to avviene ed è descrivibile attraverso “schemi condizionali” (es.: “SE il problema è X, ALLORA la soluzione è Y”, oppure “SE lo può fare lui, ALLORA lo posso fare anch’io”, etc.) e può anche essere molto creativo.

E’ un obiettivo clinico, quindi, quello di esaminare come il paziente abbia acquisito (appreso) la sua psicopatologia, ovvero le sue disfunzioni, chiedendosi: a quali stress non era preparato? E quali fattori cognitivi, emotivi o contingenze ambientali (che possono essere diversi da quelli originari) la mantengono? Si assume quindi che i meccanismi che l’hanno mediata possano essere molteplici, ma riguardino comunque i rapporti tra i quattro ambiti menzionati (cognitivo-emotivo-comportamentale-ambientale).

2 Secondo te, come si traducono questi principi nel tuo lavoro con il paziente?

Ogni intervento, così come il progetto terapeutico, si dovrebbe basare sulla formulazione del caso clinico (FCC), unico passo che consente di selezionare gli obiettivi in maniera ragionata. Possibilmente, insieme al paziente. La FCC non è che il quadro complessivo delle interazioni stereotipe acquisite dal paziente – così come si riflettono nei suoi schemi condizionali – che hanno condotto al disadattamento e alla psicopatolo- gia, una rappresentazione logica dell’organizzazione dei problemi del paziente (non della sua personalità!).

Tale formulazione è l’obiettivo dell’assessment, eseguito mediante l’analisi cognitivo-comportamentale (ACC), trasversale e longitudinale, eventualmente integrata da scale e questionari clinici, ma anche da osservazioni dirette, sia del terapeuta, che dei familiari, se consentito, ed autosservazioni del paziente.

Tale analisi si deve semplicemente ispirare al determinismo reciproco. Non si accetta quindi una concezione esclusivamente intrapsichica del paziente, come nella psicoanalisi o nel cognitivismo radicale,

1 Tale memoria, tuttavia, è soggetta a vari gradi di esplicitabilità (con cui si può concepire la consapevolezza e la metacognizione).

né si riduce il paziente ad un mero elemento del sistema o ambiente sociale cui sembra appartenere, come nell’approccio relazionale-sistemico.

3 Questi principi si traducono in tecniche specifiche? E se si, quali?

Per realizzare qualunque cambiamento, è necessario che ci sia un contesto stabile, se si vuole che il cam- biamento sia guidato e stabile. Il primo obiettivo del terapeuta sarà quindi quello di stabilire una relazione positiva, che consenta la collaborazione. Quando questa condizione non si può realizzare, come ad es. in alcuni pazienti con disturbo borderline, non a caso si necessita di una forte struttura organizzativa.

Stabilita l’alleanza terapeutica, si aiuta il paziente a sviluppare un atteggiamento verso il cambiamento, mediante i principi chiariti da F. H. Kanfer (guardare al futuro, in termini positivi, di comportamento, etc.), eventualmente aiutandolo ad esplicitare i suoi scopi e motivazioni, se necessario. Ciò porta a concordare gli obiettivi generali del trattamento e il “contratto terapeutico”, che comunque non deve necessariamente essere scritto. In seguito, si definiscono gli obiettivi specifici del cambiamento.

Si aiuta quindi il paziente ad acquisire delle competenze autosservative, che possano contribuire all’ACC. Si completa quindi l’ACC con l’analisi funzionale (trasversale e longitudinale) e l’analisi delle convinzioni (o schemi condizionali) di base, relative a se stesso, al problema presentato e agli altri significativi. Per fare ciò ci si avvale sia di tecniche classiche come l’ABC RET, che di schede di autosservazione ad hoc.

Il nostro approccio è conseguenziale e pragmatico. Conseguenziale perché le tecniche di CBT vengono selezionate in base agli scopi, così come derivano dalla FCC e sono stati concordati con il paziente. E vengono applicate flessibilmente. Pragmatico perché qualunque tecnica abbia mostrato la sua efficacia è ammissibile. Se efficace, soprattutto in modo stabile, significa che la procedura ha prodotto apprendimento (cambiamento) a livello sia cognitivo, che emotivo e comportamentale. Il punto di attacco può essere variabile in base al caso clinico, così come emerge dalla FCC, che viene comunque aggiornata ricorsivamente durante la terapia.

Le tecniche sono molto numerose. Alcune di queste sono già descritte nel progetto CLP (Common Language for Pscyhotherapy procedures). Problem solving, tecnica “dell’amico”, autodialogo alternativo, esposizione, tecniche immaginative, recitative (role playing), di autocontrollo, di scrittura espressiva, etc.

4 Per noi terapeuti è importante monitorare e valutare il cambiamento. Tu adotti delle procedure per fare questo? E quali?

Il cambiamento viene periodicamente sorvegliato, usando soprattutto le autosservazioni del paziente, cosa che consente di aggiustare il tiro, o individuare nuovi problemi da affrontare.

Per i cambiamenti specifici concordati con il paziente, è possibile usare scale e schede ad hoc, non standardizzate (ad es., n. di bevute e quantità di alcolici, per un alcolista, il differenziale semantico di Osgood, per una varietà di problemi di percezione di sé). Periodicamente ogni 2-3 mesi, si possono usare l’Inventario dei pensieri automatici (traduz. dell’Automatic Thoughts Questionnarie di Hollon e Kendall), per valutare l’ideazione ansioso-depressiva, ed una scala di “Sintomi da stress”, molto sensibile al malessere psicoemotivo e somatico.

Invece, per una valutazione iniziale e finale, il Middlesex Hospital Questionnaire (di Meyer e Crisp), per una rapida valutazione psichiatrica, e la Dysfunctional Attitude Scale (DAS) per le convinzioni disfunzionali. A ciò vengono aggiunte scale specifiche, come il Beck Depresion Inventory, da noi modificato (BDIM), se è evidente un problema di depressione, o altre.

5 La chiusura della terapia è un momento che a volte rischiamo di dare per scontato. Tu hai delle procedure specifiche da raccontarci, o delle linee guida cliniche e/o teoriche che ci puoi descrivere e raccontare?

Sarebbe preferibile chiudere la terapia in modo concordato. Spesso si riesce in questo intento, talvolta non si riesce. Quando si è raggiunto un livello “sufficientemente buono” negli obiettivi concordati e nei sintomi inizialmente lamentati, lo si segnala al paziente e si sonda quanto sia disposto ad andare avanti da solo, ap- plicando le metodiche acquisite, eventualmente aggiungendo un periodo “di controllo”, con sedute meno ravvicinate e poi ancora più diradate. Noi abbiamo anche eseguito uno studio catamnestico, richiamando vecchi pazienti, da cui si è ricavato che i cambiamenti ottenuti sono abbastanza conservati a distanza.

6 Il paziente difficile. Riconosci l’utilità di questa categoria introdotta da Perris? E se si, come ritieni che si modifichino le tue tecniche e procedure terapeutiche con questo tipo di paziente?

Il “paziente difficile” richiede particolari competenze relazionali al terapeuta. Tecniche e procedure devono tener conto del basso livello di “sintonia” di cui il paziente è capace; in altri termini il paziente difficile impegna il terapeuta ad operare dando un’attenzione primaria all’interazione in corso, piuttosto che a questioni strategiche. Ciò significa che il terapeuta farebbe bene ad occuparsi di queste ultime dedicando del tempo (5-15′) prima e/o dopo la seduta.

Tuttavia, il “paziente difficile” come categoria riflette la tendenza degli psichiatri a categorizzare. In realtà, ogni paziente presenta gradi diversi di difficoltà, a seconda delle sue specifiche variabili rilevanti.

7 I modelli di terza ondata. Cosa ne pensi in generale, in bene e/o in male? Li vedi accomunati da un qualche principio comune o molto diversi tra loro? Ne hai studiato qualcuno approfonditamente? E quale/i e perché?

La cosiddetta “III onda” è solo un modo di denominare un gruppo eterogeneo di proposte teoriche e cliniche, che – complessivamente considerate – non risultano avere una sola caratteristica comune, tranne forse il fatto di essere presentate come “alternative” alle proposte precedenti, soprattutto quelle cognitive.

Tale caratteristica alternativa, peraltro, non è neanche ben chiara e netta. Ad esempio, la terapia metacognitiva di Wells è di I, II o III onda? Sembrerebbe un ibrido delle prime due. La mindfulness, considerata una disciplina buddista secolarizzata, in cosa differisce dalle tecniche di meditazione di cui si servivano i terapeuti della I onda per ottenere una riduzione dell’attivazione emozionale? Il concetto di “accettazione” nella ACT, qualora lo volessimo operazionalizzare per studiarlo, in che cosa differisce dall’estinzione, di lontana memoria? La FAP (Terapia Funzionale Analitica) in cosa differisce dalle tecniche operanti (I onda)? E così via. Solo se si dimenticano concetti e modelli storicamente precedenti si può pensare di essere totalmente originali.

Un’altra caratteristica comune, se si vuole, è la scarsa elaborazione teorica. A parte la terapia meta- cognitiva di A. Wells, non sono quasi mai ben chiari i principi del cambiamento ipotizzati ed i relativi modelli di psicopatologia; qualora questi siano abbastanza chiari, non è chiaro come siano compatibili con gli attuali paradigmi di studio della mente e del comportamento, e talvolta non è neanche chiaro come le procedure proposte derivino dai principi proposti (vedi ad es. nella ACT di S. Hayes).

Un’idea di fondo sembra essere che i problemi psicopatologici derivino dal rifiuto o dai tentativi del soggetto di soppressione delle emozioni (v. Barlow); gli interventi psicologici, pertanto, dovrebbero promuovere l’esposizione all’esperienza emotiva e la sua accettazione. Tuttavia, questa idea, per quanto comune, non è chiaramente visibile in tutte le proposte della III onda e comunque non è nuova.

Per quanto riguarda l’efficacia delle procedure, solo ora cominciano ad emergere alcuni risultati, ma almeno fino a pochi anni fa i criteri di Chambless e Ollendick (2001) per poter etichettare questi trattamenti psicoterapici come “empiricamente fondati” (EST) non erano soddisfatti, laddove lo sono invece per la CBT tradizionale in molte condizioni cliniche (Ost L.G., 2008).

8 L’integrazione con gli approcci non cognitivi. Cosa ne pensi? Tu l’hai effettuata in prima persona? In modo solo teorico e o seguendo varie forme di training? Se lo hai fatto, cosa ne hai ricavato e come lo ha inserito nella cornice teorica di riferimento?

Io ho inizialmente effettuato l’integrazione inversa, da quando ho iniziato ad usare l’approccio comportamentale, insieme a S. Borgo, a seguito della nostra formazione con V. Meyer (un allievo di H.J. Eysenck). Ho cioè integrato inizialmente l’approccio cognitivo (successivo) a quello comportamentale (precedente), di cui credo di aver acquisito e conservato la lezione metodologica.

Tuttavia, il determinismo reciproco, come ho detto inizialmente, non può essere considerato semplicemente “cognitivo” o “comportamentale”. Credo che, in termini di paradigmi scientifici, potrebbe essere considerato un approccio vicino al connessionismo, secondo alcuni un paradigma emergente.

Non dimentichiamo che la psicoterapia è ben lontana dall’aver raggiunto uno statuto di scienza. A malapena stiamo uscendo adesso da un lungo periodo pre-scientifico che ha inquinato pesantemente il linguaggio, le teorie e le prassi dal fare psicoterapia. Questa rimane una disciplina applicativa, non ancora una scienza, anche se consente uno speciale osservatorio sul comportamento umano.

Infine, non credo affatto che altri approcci debbano essere integrati con quello cognitivista. Credo piuttosto che chi vuole fare proposte nuove le debba presentarle abbastanza chiaramente da consentire le necessarie verifiche: sia verifiche di efficacia delle procedure che di validità dei presupposti teorici. Solo qualora queste verifiche siano state superate si può pensare all’utilità di qualunque “integrazione”.

 

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Star wars – Analisi della coppia in uno scenario sistemico

 

Star wars – Analisi delle coppie  in uno scenario sistemico.    

Parte I

L’incontro tra Amigdala e Anakin:

La morsa dell’intergenerazionale e transgenerazionale.   

 

Star wars - Analisi della coppia in uno scenario sistemico. #1Spesso le neocoppie si ritrovano a dover fare i conti con questioni inerenti il contesto e la famiglia allargata e spesso trovare un equilibrio equo risulta complesso.

La prima trilogia (prima, ma non di genesi cinematografica) di Star Wars si apre in uno scenario politico dove la repubblica costituita dai senatori e dall’ordine dei jedi (cavalieri che dotati di grande maestria salvaguardano la pace e l’equilibrio) è in preda alla ricerca del misterioso nemico (il senatore Palpatine) che minaccia il benessere e l’integrità dello stato.

La principessa Amigdala, orfana e senatrice, sotto mentite spoglie e con l’appellativo di Padme, decisa a voler dare un volto a questo nemico, in una spedizione con due cavalieri jedi nel paese di Tatooine, si imbatte nel  piccolo Anakin ( più giovane di lei), orfano di padre e schiavo in un negozio per saldare i debiti contratti dalla madre.

Già dal primo incontro, nonostante la giovane età, fra Padme e Anakin scatta un interesse. In chiave sistemica, rispetto l’incontro della coppia, ci sono diverse teorie al riguardo.

Personalmente mi ritrovo, rispetto la genesi della coppia con quanto sostengono Bowen, Framo, Whitaker, Canevaro, Cigoli circa l’importanza e l’influenza che esercita il trigenerazionale (influenza delle generazioni precedenti) e, per certi aspetti, il transgenerazionale (miti che si tramandano spesso senza il filtro della consapevolezza).

In questo contesto Amigdala e Anakin, oltre ad avere un debito filiare con le rispettive radici (nobiliari per l’una e rurali per l’altro) si ritrovano in un contesto che, in quanto matrice di significati (Bateson docet) non favorisce la loro nascita come coppia ufficiale bensì ufficiosa, nonostante gli effetti trasformativi retroattivi che questa unione porterà al sistema in futuro. Ciò che la coppia si troverà ad affrontare, oltre la sfera sentimentale, saranno anche tematiche inerenti il benessere collettivo (salvaguardia della pace nella repubblica) che porterà inevitabilmente ad un ritaglio di tempo e  spazio (nel secondo episodio della saga faranno un viaggio che li porterà nello scenario della nostra Reggia casertana) della loro vita affettiva.

Spesso le neocoppie si ritrovano a dover fare i conti con questioni inerenti il contesto e la famiglia allargata e spesso trovare un equilibrio equo risulta complesso.

Infatti, nello specifico, l’incontro di Anakin e Amigdala sarà severamente minacciato da alcuni che, nell’universo simbolico, rappresentano il padre (il senatore Palpatine nel caso di Anakin) e la madre (Obi Wan Kenobi nelle funzioni accudenti verso la principessa). Non avendo la coppia sufficiente indipendenza rispetto questi  personaggi, si ritroverà coinvolta in un qualcosa di più grande che la porterà alla inevitabile separazione (nonostante il concepimento di due gemelli), separazione dove gli artefici non sono due bensì  il sistema intero impersonato nelle figure del senatore Palpatine e del jedi Obi Wan kenobi.

A mio avviso, ciò che gioca a questo proposito è, oltre l’immaturità affettiva, intesa in ottica Boweniana come una difficoltà a mantenere la sfera pubblica (il lavoro di senatrice per Amigdala e la formazione a cavaliere jedi per Anakin)  lontano da quella privata ( il loro essere una coppia generatrice di due gemelli), qualcosa che, forse, si tramanda.

Probabilmente un mito implicito che recita così “il benessere del sistema in toto avviene a discapito di quello privato”. Questi potrebbe essere il fil rouge che collega le dinamiche che si vengono a innescare.  Essendo il mito, come testè citato, un qualcosa che si trasmette non seguendo le vie della conoscenza esplicita, bensì di quella implicita, è probabile che questo influenzi Anakin e Amigdala che perseguono un ideale di stato democratico non sapendo che proprio all’interno di esso si nasconde ciò  (il tradimento del senatore Palpatine) che  porterà ad un duplice crollo: quello dello stato democratico e quello del “ noi” di coppia.

FINE PRIMA PARTE

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Mindfulness e pressione arteriosa

Mindfulness e pressione arteriosa . - Immagine: ©-Dmytro-Smaglov-Fotolia.comI ricercatori della Kent State University (Ohio), con un nuovo studio pubblicato su Psychosomatic Medicine: Journal of Biobehavioral Medicine, la rivista ufficiale dell’American Psychosomatic Society, ci sottolineano come praticare la mindfulness possa ridurre lo stress ed abbassare la pressione arteriosa nei pazienti con ipertensione borderline o pre-ipertensione.

Altro studio a favore dell’efficacia della Mindfulness nell’essere una pratica di “buona salute”.

I ricercatori hanno applicato il protocollo MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) su un gruppo di cinquantasei uomini e donne con diagnosi di pre-ipertensione e ipertensione borderline, cioè che ancora non necessita di una farmacoterapia. La pre-ipertensione è una condizione che spesso viene sottovalutata, ma ormai i medici sono concordi nel considerarla associata a diverse malattie cardiache e a problemi cardiovascolari.

Il campione sperimentale è stato diviso in due gruppi. Uno ha partecipato al programma MBSR, che prevede otto sedute di gruppo della durata di due ore e mezzo; ai partecipanti, oltre ad alcune tecniche mindfulness, body scan, meditazione seduta, consapevolezza del respiro, meditazione camminata, sono stati insegnati anche alcuni esercizi di yoga. Inoltre è stata data loro la consegna di praticare gli esercizi imparati più volte durante la settimana.

L’altro gruppo, il gruppo di controllo, ha fatto alcuni incontri di psicoeducazione rispetto ad un corretto stile di vita, e i partecipanti hanno appreso qualche tecnica di rilassamento muscolare. Prima, durante e dopo il trattamento ai partecipanti è stata misurata la pressione sanguigna, così da poter confrontare i diversi valori.

Alla fine del trattamento, il gruppo che ha seguito il protocollo MBSR ha, secondo i ricercatori, mostrato una significativa riduzione del valore della pressione arteriosa. In particolare, la pressione arteriosa sistolica era diminuita in media di quasi 5 mmHg, rispetto a una diminuzione di meno di 1 mmHg del gruppo di controllo. 
Per quel che riguardava la pressione arteriosa diastolica, nel gruppo MBSR si è verificata una riduzione media di 2 mmHg, rispetto a un aumento di 1 mmHg del gruppo di controllo.

Resta il fatto che sono necessari ulteriori studi per valutare quanto e in che misura la Mindfulness sia efficace nella riduzione dei valori di pressione arteriosa in pazienti con pre-ipertensione, e anche per valutare quanto i benefici ottenuti vengano mantenuti nel tempo. Tuttavia i ricercatori, ad oggi, sostengono che una via da percorrere e da andare a valutare meglio sia quella dell’utilizzo della Mindfulness nella prevenzione.

Di fatto, la meditazione di consapevolezza potrebbe essere un’ottima tecnica per prevenire, o quanto meno ritardare, la comparsa di una sintomatologia pre-ipertensiva, ritardando quindi la necessità di dover prendere una terapia farmacologica anti-ipertensiva.

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 BIBLIOGRAFIA:

 

Videogiochi & Psicologia: Super Mario fa aumentare la materia grigia?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’uso di videogiochi potrebbe essere terapeuticamente utile per i pazienti con disturbi mentali in cui le regioni del cervello sono state alterate o ridotte di dimensioni, come ad esempio la schizofrenia, il disturbo da stress post-traumatico o malattie neurodegenerative, come la demenza di Alzheimer.

L’uso dei videogiochi provoca aumenti nelle regioni del cervello responsabili per l’orientamento spaziale, la memoria, la pianificazione strategica e le capacità motorie. È quanto emerge da un nuovo studio condotto Max Planck Institute for Human Development and Charite University Medicine St. Hedwig-Krankenhaus. Gli effetti positivi dei videogiochi potrebbero rivelarsi utili anche in interventi terapeutici mirati ai disturbi psichiatrici.

Al fine di indagare come i videogiochi influenzano il cervello, i ricercatori hanno chiesto a dei soggetti adulti di giocare a “Super Mario 64” per un periodo di due mesi, per 30 minuti al giorno. Un gruppo di controllo non ha giocato al videogioco. Volume del cervello è stata quantificato utilizzando la risonanza magnetica (MRI). In confronto al gruppo di controllo, il gruppo di gioco mostrava un incremento della materia grigia nell’ippocampo destro, nella corteccia prefrontale destra e nel cervelletto.

Queste regioni del cervello sono coinvolte in funzioni come l’orientamento spaziale, la formazione della memoria, la pianificazione strategica e le capacità motorie delle mani. Più interessante ancora il fatto che questi cambiamento erano più pronunciati in quei soggetti che dichiaravano maggiore desiderio di giocare al videogioco.

Questo studio dimostra, sostengono i ricercatori, il legame causale diretto tra l’uso di videogiochi e un aumento volumetrico del cervello, ciò dimostra che specifiche regioni del cervello possono essere addestrate con i videogiochi.

L’uso di videogiochi potrebbe essere terapeuticamente utile per i pazienti con disturbi mentali in cui le regioni del cervello sono state alterate o ridotte di dimensioni, come ad esempio la schizofrenia, il disturbo da stress post-traumatico o malattie neurodegenerative, come la demenza di Alzheimer. Molti pazienti accetterebbero più facilmente di giocare ai videogiochi piuttosto che altri tipi di interventi medici.

Ulteriori studi sugli effetti dei videogiochi in pazienti con problemi di salute mentale sono in programma. Uno studio sugli effetti dei videogiochi nel trattamento del disturbo da stress post -traumatico è attualmente in corso.

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TECNOLOGIA & PSICOLOGIA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

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