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Il sorriso dell’invidia – Psicologia e Biologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Cikara e Fiske due ricercatori presso l’università di Princeton , si sono proposti di studiare la natura dell’invidia.

Dall’esperimento che consisteva nel rilevare se l’immagine presentata provocava piacere o no, utilizzando la misurazione dell’attività dei muscoli coinvolti nel sorriso attraverso un elettromiogramma. Le immagini presentate erano o di avvenimenti positivi o di avvenimenti negativi o neutre.

I ricercatori hanno concluso che quando si prova invidia si esperisce un reale piacere (si sorride) nel vedere l’altro soffrire.

Secondo gli autori questi dati sono importanti nel momento in cui si ragiona in termini di competizione, infatti dallo studio emerge chiaramente un desiderio di fare male ad un altra persona o di sperare che l’altro non raggiunga i propri obiettivi. Questo ha un ruolo cruciale  nel momento in cui si è in competizione con una persona che occupa la posizione desiderata e quindi secondo gli autori bisognerebbe riflettere rispetto al senso di creare competizione ad esempio negli ambienti lavorativi.

 

“Le persone sorridevano di più in risposta ad eventi negativi che in risposta ad eventi positivi – ha spiegato Fiske – ma solo nel caso dei gruppi di cui erano invidiosi”

 

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Psicopatologia della Vita Quotidiana
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Adolescenti ed Impulsività – la difficoltà di fare una scelta diversa

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Un recente studio di Cristina Caudle, neuroscienziato del  Weill Cornell Medical College di New York,  presentato al meeting della Society for Neuroscience e riportato dalla rivista Science ci mostra come gli adolescenti mettano realmente in atto un maggior numero di comportamenti impulsivi (fino ad arrivare ad atti criminali) e perchè.

Gli adolescenti confrontati con bambini ed adulti dovevano distinguere tra immagini di volti neutri e minacciosi e premere un tasto mentre erano monitorati a livello di attività cerebrale.

I risultati fanno emergere come gli adolescenti compino un maggior numero di errori in percentuale rispetto agli altri partecipanti. Questo perchè rispondevano più impulsivamente temendo la minaccia. I ragazzi che sono riusciti a non far prevalere la risposta impulsiva mostravano a livello cerebrale una grande attività come se il cervello di un adolescente avesse bisogno di più risorse ed energie per compiere una scelta non impulsiva davanti ad un eventuale stimolo minaccioso.

Questi dati sono importanti per capire la logica adolescenziale e come mai ci siano cosi tanti atti criminali da parte di una popolazione più giovane.

“È come se il cervello adolescente avesse bisogno di lavorare un po’ di più per trattenere il primo impulso ad agire”

 

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Tratto da: Panorama

 

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I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza – Recensione

 

Recensione del libro:

I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza.

Come riconoscerli e liberarsene.

di Carolyn Stone

Armando Editore (2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l'esistenza. Come riconoscerli e liberarsene.  di Carolyn Stone Armando Editore (2013). - Immagine: Copertina

Il libro “I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza. Come riconoscerli e liberarsene”, scritto da Carolyn Stone  ed edito da Armando editore nella sezione scaffale aperto, potrebbe essere la base da cui partire per riuscire a riconoscere il malessere e capire da cosa potrebbe essere determinato.

Si tratta di un libro di auto-aiuto dove step by step si dipanano disturbi, consigli e test.

Comportamenti dannosi, tensioni, difficoltà, fallimenti lavorativi possono compromettere la qualità della vita. Sì, rimanere incastrati in un funzionamento disfunzionale, disadattivo che provoca sofferenza e determina malessere. Non è facile riuscire a disfarsi di questi comportamenti, perché spesse volte, erroneamente, si rimane intrappolati  in meccanismi di pensiero ripetitivo che inesattamente si assume possano funzionare come soluzione al problema, senza sapere che costituiscono il problema stesso.

Per cui, la persona rimane incastrata nel malessere che si ripercuote in tutte le aree della sua vita, compromettendo il proprio funzionamento psico-sociale.

A questo punto sarebbe necessario che qualcosa si modificasse, che mutasse, ma per cambiare è necessario conoscere le proprie arie di vulnerabilità e adottare delle strategie per non farsi male o riuscire a gestire le emozioni che derivano da situazioni/pensieri di malessere.

A tal proposito il libro “I comportamenti sbagliati che ci avvelenano l’esistenza. Come riconoscerli e liberarsene”, scritto da Carolyn Stone  ed edito da Armando editore nella sezione scaffale aperto, potrebbe essere la base da cui partire per riuscire a riconoscere il malessere e capire da cosa potrebbe essere determinato.

Si tratta di un libro di auto-aiuto dove step by step si dipanano disturbi, consigli e test.

Ogni capitolo si apre con un proverbio cinese, che rispecchia l’essenza del problema e poi si passa alla definizione del disturbo, al test a risposta dicotomica del tipo si/no che permette di dire se è presente in noi quella patologia, e si finisce con una manciata di consigli utili.

Si parte dallo shopping compulsivo, poi si passa all’aggressività, all’ansia, all’arroganza, al fanatismo lavorativo, alla volgarità, alla sottomissione, alla violenza, etc.

Un mix tra disturbi d’ansia e tratti di personalità presentati con leggerezza e semplicità anche rispetto al linguaggio utilizzato. Si presentano sotto forma di comportamenti, attitudini, tratti, che possono richiamare atteggiamenti presenti nell’immaginario collettivo.

Come dice l’autrice, “Ricordatevi che ogni persona ha il suo giardino segreto e che quando le erbacce lo invadono è necessario strapparle. Coltivare il nostro io, in realtà, è essenziale per sentirci bene. Il nostro benessere richiede questo prezzo!”. 

Concludo con un proverbio cinese su cui riflettere: “Le verità che meno desideriamo imparare sono proprio quelle che più dovremmo sapere“.

 

LEGGI:

LETTERATURA PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Prima e dopo l’incidente stradale: il progetto di una nuova vita in terapia di gruppo

Paola Alessandra Consoli

 

“Vivo a modo mio, ma vivo,

vivo sperando continuamente, vivo…”

Mirta Bertolodo, L’albero spoglio, 1995

 

Prima e dopo l'incidente stradale. - Immagine: © fotomek - Fotolia.comL’incidente stradale costituisce la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 24 anni, le misure protettive imposte dal codice della strada hanno diminuito notevolmente il numero di morti adulti per incidente, ma è rimasta pressoché invariata la mortalità giovanile, a dimostrazione che l’adolescenza stessa è uno dei fattori individuali che espongono i giovani a rischio di incidente (Fioravanti et al., 2009).

La ricerca ha dimostrato l’esistenza, in età adolescenziale, di una corretta percezione dei pericoli presenti sulla strada, ma anche una tendenza a sopravvalutare le proprie capacità di controllo e a ritenersi invulnerabili al pericolo. Inoltre i cambiamenti fisici e la fisiologica fragilità narcisistica adolescenziale si manifesterebbe in comportamenti trasgressivi che vogliono celare le sofferenze ansiose o depressive (Carbone et al., 2009).

Una ricerca realizzata presso quattro ospedali romani ha interessato 203 giovani pazienti ricoverati per trauma da incidente, grazie ai quali si sono esplorate le caratteristiche psicologiche e relazionali di questi pazienti per promuovere lo studio dei fattori psicodinamici che intervengono nel rischio di incidenti. L’intervista semi-strutturata e la somministrazione del Defence Mechanism Inventory (DMI) hanno portato ad alcune interessanti conclusioni:

  • i ragazzi che hanno subito uno o più incidenti provengono generalmente da famiglie che hanno vissuto maggiori traumi (decessi, incidenti), vivono conflitti familiari, delusioni sentimentali, fallimenti scolastici ripetuti, ricordano più facilmente gli eventi negativi del passato rispetto a quelli positivi;
  • i ragazzi poli-incidentati hanno un’autostima eccessiva e sopravvalutano la propria autonomia, sintomi di una maniacalità che rappresenta una fuga dalla depressione;
  • gli adolescenti incidentati utilizzano maggiormente, rispetto al gruppo di controllo, lo stile difensivo REV (negazione, diniego, formazione reattiva) e lo stile difensivo INT (intellettualizzazione, razionalizzazione, isolamento).

L’incidente stradale sarebbe allora la tendenza a tradurre in atto problemi e sofferenze che non si riesce ad affrontare e che possono aggravarsi con la coazione a ripetere tipica di quei giovani che hanno vissuto più di un incidente (Carbone et al., 2009).

In qualche caso, sembra che l’incidente sia la sola modalità attraverso cui il giovane sente di poter vivere, ricercando una seconda possibilità all’esperienza traumatica della propria nascita, alla vergogna di essere visti diversamente dal modo in cui si ha bisogno di apparire; una condanna interna a cui si cerca un freno disperato e disastroso all’angoscia di frammentazione, alla dispersione dell’identità o a stati mentali vissuti come intollerabili (Di Cioccio, 2009).

Ne consegue come sia prioritario insegnare ai giovani la distinzione tra esperienze di rischio che favoriscono la maturazione (rischio accettabile) ed esperienze che la bloccano tragicamente (rischio inutile), il rispetto per la propria vita e per quella altrui (Biondo, 2009).

La prevenzione deve essere una priorità per le istituzioni; l’educazione stradale non è sufficiente, ma è necessario imparare la lingua adolescenziale, entrare nel gruppo dei giovani, capire i loro codici perché solo così si potranno avviare con successo esperienze di prevenzione.

Il Patto per il Rischio Accettabile ritiene che i fattori protettivi specifici per gli adolescenti siano: la possibilità di vedere valorizzate nel proprio ambiente naturale le proprie competenze, la possibilità di trovare nel proprio gruppo una posizione equilibrata (accettabile) sui comportamenti di rischio, relazioni significative. Si deve quindi impiegare il gruppo dei pari per la promozione del codice della strada, rendendo protagonisti gli adolescenti che sono allo stesso tempo attori e fruitori di questo percorso: un laboratorio in cui elaborare “la distruttività individuale per trasportarla dall’area del rischio inutile […] a quella del rischio accettabile” (Biondo, 2009).

Nell’ambito della psicologia sociale, sono considerati fattori predittivi per il rischio di incidente stradale l’autoefficacia regolatoria, cioè la “capacità di autoregolare affetti ed emozioni che si costruisce nel corso dello sviluppo attraverso l’interazione coi caregiver primari, ma che è stabilmente acquisita, nei casi fortunati, solo al raggiungimento della maturità” (ovviamente insufficiente in adolescenza), e la sensation seeking, “un tratto definito dalla ricerca di nuove, diverse, complesse e intense sensazioni ed esperienze e dalla volontà di correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari allo scopo di amplificarle” (Zuckerman, 1979), più frequente nei giovani maschi occidentali (Pazzagli et al., 2009).

Le ricerche psicosociali sono state considerate insufficienti e riduzioniste nella spiegazione dei fattori di rischio e nella psicodinamica dell’incidente e quindi disdegnati dalla psicologia clinica che non può accontentarsi di pochi costrutti per analizzare la complessità della psiche giovanile.

Il paziente vittima di trauma cranico è costretto a riparare o ricostruire un senso del Sé e un’identità che l’incidente ha frammentato; cambiano le priorità, tutto ciò che prima aveva importanza assume adesso un significato differente. I familiari scoprono nel paziente una persona completamente diversa da quella con cui convivevano e devono sforzarsi di costruire con lui una nuova relazione. Lo staff medico e riabilitativo vede nel paziente l’espressione delle proprie umane paure: la vulnerabilità, la perdita di funzionalità, la morte (Cattelani, 2006).

L’impatto del trauma cranico è di tale gravità da giustificare l’affermazione secondo cui le vittime dell’incidente sono due: il paziente e la famiglia. Nelle prime ore dopo l’incidente, le reazioni di incredulità, impotenza, ansia, ingiustizia sono giustificate dalla sopraffazione del dolore, la famiglia si trova poi a dover decidere il miglior percorso assistenziale e riabilitativo e ad assumere ruoli per i quali non è preparata: infermiere, terapista, rappresentante legale.

Ad una prima fase di shock e disorientamento che accompagna la fase acuta e post-acuta dell’evento traumatico (rifiuto di allontanarsi dall’ospedale, interruzione della cura verso se stessi e verso gli altri familiari), segue una fase di depressione, ansia e negazione, quando è possibile trarre un bilancio dei deficit e del programma riabilitativo che il paziente dovrà affrontare (Cattelani, 2006).

Quando il paziente rientra in famiglia, è necessario che tutti i membri, dopo un esame della realtà, riassumano il loro ruolo in società e in famiglia. Il processo è reso più difficile se il paziente torna con gravi disabilità croniche o in stato vegetativo, perché i familiari sono costretti ad elaborare una perdita di validità del paziente e dell’intera famiglia: nulla sarà mai come prima. Per questo motivo si parla di lutto incostante” (mobile mourning): la persona è ancora viva, ma non partecipa attivamente alla vita familiare e i congiunti passano da uno stato d’animo di disperazione da lutto di chi ha perso la persona amata, alla rassegnazione di chi accetta un figlio, genitore, fratello inabile ma vivo e da questa considerazione cerca di reinventarsi la quotidianità della famiglia normale (Cattelani, 2006).

Le conseguenze emotive del TCE colpiscono anche la relazione coniugale di una coppia con un figlio vittima di trauma cranico, a cui si deve garantire assistenza emotiva e materiale. Gli effetti riguardano un indebolimento del legame coniugale e un cambiamento di ruolo della moglie che diviene solo madre, acquisendo un potere/controllo sul figlio disabile e sul marito (Camilli, 1995).

Il rapporto tra il giovane paziente e la madre è conflittuale: il figlio può manifestare una rinnovata dipendenza dalla madre, diventare egoista e noncurante delle necessità altrui, ma al tempo stesso può rivelare un comportamento di evitamento e di rifiuto verso di lei, perché è consapevole di non essere più un bambino.

L’istinto materno spinge la donna alla totale dedizione al figlio, trascurando le sue necessità e la sua vita sociale: madre e figlio vivono una rinnovata fase di simbiosi che deve evolversi in una separazione-individuazione, indispensabile affinché il secondo ricostruisca una propria identità anche e nonostante la sua disabilità cronica (Fiscarelli, 1995).

L’incidente che interessa un adolescente è persino più grave di uno occorso ad un adulto perché agisce su una personalità in formazione. Ancor prima che si verifichi l’incidente, in una fase della crescita distinta dalla fragilità narcisistica e da un lavoro di ricerca di se stesso, la sofferenza esistenziale dell’adolescente può rivelarsi nell’assunzione di comportamenti a rischio, ad esempio nella guida di veicoli (Carbone, 2005).

L’incidente è provocato da fattori esterni (il fondo stradale, la nebbia, le condizioni del mezzo), fattori consci (sfida, ricerca di emozioni forti) e inconsci (depressione, autolesionismo); può essere interpretato come “un agito autolesivo che coinvolge concretamente il corpo” (Carbone, 2005).

L’adolescente tende a “sovrainvestire il motorino di una potenza speculare e contraria al proprio senso di impotenza” (Giori, 2005, pag.157): il giovane è frustrato dalle richieste e imposizioni dell’ambiente di cui fa parte (familiare, scolastico, amicale) e il motorino (o l’auto) è un mezzo fisico e tangibile della possibilità di scappare dai suoi problemi.

L’adolescenza è quindi un fattore di rischio perché il giovane vuole dimostrare di non essere più un bambino, costruisce la propria identità e il rischio della velocità fornisce quelle emozioni di cui ha bisogno per sentirsi vivo e presente; il motorino o l’auto invitano alla velocità e a prove di coraggio; il gruppo dei pari e la società in cui il giovane è inserito incitano a violare i limiti; infine i sentimenti di tristezza, di rabbia, di impotenza che caratterizzano l’adolescenza, sono tutte possibili fonti di distrazione dalla guida sicura (Giori, 2005).

Il trauma cranico non è solo fisico ma anche emotivo: è dolore, impotenza e dipendenza, è qualcosa che si è irrimediabilmente rotto per sempre, e che a fatica si proverà a ricostruire, pur sapendo che “non potrà mai più essere come prima” (Carbone, 2003).

La dignità della vita è al centro dell’attenzione: subito dopo l’arrivo dei soccorsi, perché qui la solitudine di chi non può esprimersi è legata indissolubilmente alla solitudine di chi deve decidere per lui, che sia un medico, che sceglie la terapia che ritiene migliore, o un familiare a cui si propone la scelta faticosa della donazione degli organi. Ma la dignità è in gioco anche quando ci poniamo la domanda se vivere coincida con la possibilità di gestire lo stare al mondo, godere delle proprie scelte e investire coraggio nei propri desideri o se invece corrisponda alla semplice presenza: esserci, se non nella propria vita, almeno nella speranza e nell’esistenza di chi ci è vicino.

Purtroppo la dimissione dell’ospedale coincide con una presa di responsabilità totale da parte della famiglia, che viene lasciata sola ad affrontare le conseguenze psicologiche del trauma sul giovane paziente e con poche istruzioni rispetto ai deficit cognitivi.

Sono quindi degne di nota le poche e coraggiose esperienze di accompagnamento e terapia di gruppo che si sono organizzate con lo scopo di creare un contenitore alle angosce dei pazienti traumatizzati cranici e delle loro famiglie.

Un esempio positivo è quello descritto da Bruni, che riguarda una breve psicoterapia di gruppo condotta presso il S. Filippo Neri di Roma, e che ha interessato 4 giovani pazienti traumatizzati cranici (da incidente stradale, rissa e caduta da cavallo), con una storia di recente coma post-traumatico e degenza in terapia intensiva di circa 2 settimane. Un gruppo a termine e omogeneo, quindi, la cui finalità non è riabilitativa, ma di integrazione dell’esperienza emotiva del trauma, attraverso la tecnica delle libere associazioni (Bruni, 2009).

La terapia è di ispirazione bioniana, secondo cui “il gruppo si sviluppa fino a che le emozioni diventano esprimibili in termini psicologici, e la costituzione della mente gruppale (funzione gamma) permette la trasformazione di elementi sensoriali e grezzi (elementi beta) in emozioni narrabili” (Bion, 1961).

I sogni del gruppo narrano la vicenda somatica, riguardano il vissuto personale e gruppale della malattia: il trauma non può essere né ricordato né rimosso, ma segnala il sovraffollamento affettivo che ha superato le capacità integrative dell’esperienza del Sé. Dal sogno emerge la solitudine e la difficoltà a comunicare l’esperienza del buio vissuta durante il coma: nessuno, al di fuori del gruppo, può realmente capire la violenza di questa esperienza.

Il sogno gruppale è il segnale dell’investimento affettivo sul gruppo, che diviene fonte di appagamento per i partecipanti, un seno buono a cui affidarsi con fiducia.

Il gruppo si dota quindi di un apparato per pensare i pensieri, i ragazzi condividono i temi più dolorosi (la terapia intensiva, la paura di morire, la rabbia, il dolore fisico e l’idea del suicidio) e le speranze per un futuro che sentono ancora come un forte richiamo alla vita. E’ il contenitore necessario dove riversare le paure, del passato, quindi di ciò che erano e, forse, non vogliono più essere, e del futuro, che deve essere costruito con nuovi e più motivati progetti, c’è l’assoluta necessità a non gettare via la seconda possibilità ricevuta, anzi a meritarla, e fare di questa esperienza un’opportunità di crescita (Bruni, 2009).

Il gruppo dona ai giovani pazienti, la possibilità di elaborare il proprio lutto, per una vita che è tutta da ricostruire. C’è la possibilità di chiudere un cerchio esistenziale e aprirne un altro, già avviato grazie all’omogeneità dei pazienti: corpi a contatto, che hanno il piacere della condivisione, drammatica ma personalissima del proprio dolore. Ma da questo dolore rinascono con un nuovo sé corporeo rivolto al futuro.

LEGGI ANCHE:

TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – ADOLESCENTI – PSICOLOGIA SOCIALE

DALLA NASCITA ALL’ADOLESCENZA: COSA SUCCEDE AL CERVELLO?

 

BIBLIOGRAFIA:

In gruppo…siamo più attraenti che da soli

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo l’ipotesi del cheerleader effect siamo più attraenti per gli altri quando siamo in un gruppo rispetto a quando siamo da soli.

Per testare questa ipotesi i ricercatori della University of California hanno condotto cinque esperimenti con 130 studenti universitari.

Il primo esperimento prevedeva che i partecipanti guardassero 100 fotografie di persone e che ne valutassero la bellezza. Le persone ritratte nelle fotografie comparivano nelle foto da sole o insieme ad altre due persone dello stesso sesso.

Complessivamente i partecipanti all’esperimento hanno valutato come più attraenti le persone che comparivano in una foto di gruppo rispetto a quando erano raffigurate sole.

In un altro esperimento ai partecipanti sono state mostrate le foto delle singole persone che però erano riunite in un collage di 4 , 9 o 16 immagini. Anche in questo caso l’effetto cheerleader è stato confermato, con voti più alti per i singoli nei collages piuttosto che da soli.

Secondo i ricercatori l’ “effetto cheerleader” può essere il risultato di tre diversi fenomeni cognitivi: il nostro sistema visivo può calcolare automaticamente tutte le “rappresentazioni” di facce presentate all’interno di un gruppo, inoltre i singoli membri del gruppo possono essere influenzati da questa media generale, e infine percepiamo i volti “medi” come più attraenti.

In altre parole i singoli volti saranno più attraenti quando appaiono in un gruppo perché essi appariranno più simili alla faccia media del gruppo, che è più attraente delle singole facce dei membri del gruppo.

 

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA SOCIALE

LA PERCEZIONE DELLA BELLEZZA ALTRUI E IL PRINCIPIO DI CONTRASTO

 

 

BIBLIOGRAFIA

Walker D., Vul E. Hierarchical Encoding Makes Individuals in a Group Seem More Attractive, published in Psychological Science, 29 October 2013.

 

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR – Report dal Convegno Nazionale 2013

Report dal Convegno Nazionale EMDR 2013

Labirinti traumatici: il filo dell’EMDR

8-10 Novembre, Milano

 

labirinti traumatici emdr - 300Si è concluso ieri il Convegno Nazionale EMDR e nonostante la stanchezza delle tre giornate di lavori, l’entusiasmo e la speranza nelle nuove prospettive terapeutiche presentate sono le uniche emozioni che si respirano tornando al lavoro.

LEGGI LA DEFINIZIONE DI EMDR SU PSICOPEDIA

L’EMDR sta proseguendo con il suo tam tam tra i terapeuti di tutto il mondo e anche nel nostro paese si registra ormai un crescente numero di terapeuti praticanti, appassionati e soddisfatti dei risultati ottenuti sul campo.

L’idea forte che guida la sua diffusione non è tanto l’aver posto il trauma al centro dello sviluppo patologico di un individuo, ma piuttosto l’aver colto la necessità di un intervento precoce e rapido per ridurre l’impatto delle violenze non solo su quell’individuo traumatizzato, ma sulle generazioni successive.

I traumi, gli abusi o l’aver assistito a episodi di violenza in età infantile hanno infatti un effetto diretto sul nostro sistema nervoso: violenze fisiche o verbali, creano nella nostra memoria procedurale degli script e dei modelli di comportamento che vengono mantenuti e ripetuti nel tempo e che possono continuare a causare sofferenza all’individuo e ai suoi figli. Interrompere questo ciclo tempestivamente è prioritario.

L’Associazione EMDR Italia a questo proposito ha raccolto con questo Convegno Nazionale una sfida importantissima: mettere al centro dell’attenzione clinica i “carnefici”. Per la prima volta infatti i trattamenti e numerosi protocolli di cura presentati hanno visto, accanto alle vittime, gli autori delle violenze e le loro storie.

L’idea che ha guidato questa scelta è stata da subito chiara: nonostante la fatica nell’affrontare la violenza da questa prospettiva, è tuttavia necessario e indispensabile affrontare, per programmare interventi efficaci e risolutivi, la storia di chi trova nella violenza l’unica soluzione per esprimere e soddisfare bisogni per lui importanti. La sola responsabilità del reato non può di per sè impedire che quel comportamento deviante si ripeta, questo il punto di partenza.

Una seconda ma altrettanto importante sfida pienamente raccolta dall’Associazione riguarda invece il costante riferimento alle neuroscienze e alla ricerca dei substrati neurofisiologici in grado di spiegare quello che avviene nel processo terapeutico. Tema importantissimo per il futuro della psicoterapia!

Julie Stowasser apre così: “il luogo più pericoloso per una donna è la sua stessa casa” e il suo lavoro si concentrerà soprattutto sul rendere quel luogo più sicuro. Poi si scusa, ma ci chiede di concederle il “maschile” nel parlare dei casi che affronterà. Le statistiche del resto, italiane e americane, sono chiare: più del 50% dei femminicidi è operato da un partner o da un ex partner, quindi si parlerà soprattutto di uomini, violenti. L’importanza del suo lavoro si evidenzia subito con la descrizione di un interessante protocollo di intervento, sulla coppia o sull’intera famiglia, per casi di violenza domestica. La necessità di comprendere gli schemi relazionali e i pattern comportamentali dell’aggressore, è fondamentale perché la donna o l’intera famiglia riesca ad uscire dal circolo vizioso di rabbia, in cui tutti, nessuno escluso, si trovano incastrati.

Derek Farrell racconta poi la sua esperienza decennale nella cura delle vittime del clero, cercando di spostare l’attenzione dai comuni e più ovvi giudizi, alle caratteristiche peculiari che invece accomunano i sopravvissuti a questi tipi di violenza: obbligo alla segretezza e traumatizzazione ripetuta nel tempo, sono due aspetti centrali di cui occuparsi nella psicoterapia con queste vittime.

Ronald Ricci ci introduce al trattamento integrato dei sex offenders, che combina EMDR individuale e gruppi di prevenzione e controllo sociale “Good Lives”. Offre inoltre attraverso testimonianze video, un modello per comprendere il percorso evolutivo del loro comportamento deviante soffermandosi su quattro principali meccanismi psicologici: deficit nelle esperienze di intimità e nelle abilità sociali, script sessuali distorti, disregolazione emotiva, credenze a sostegno del reato.

Infine Mark Nickerson descrive con generoso dettaglio, modelli di intervento e protocolli di psicoeducazione da usare nel trattamento di rabbia, ostilità e comportamenti aggressivi. Suggerimenti molto pratici e illuminanti per differenti situazioni cliniche, e questa volta declinate non solo al maschile.

Nonostante le scuse con cui tutti i relatori hanno iniziato introducendo il loro lavoro, le nostre sensibilità cliniche e personali sono state toccate e più volte scosse dalle storie e dai racconti di terapie, ma del resto lo sforzo del cambio di prospettiva è portatore di un importante messaggio sociale e politico: la riabilitazione della devianza è almeno in alcuni casi non solo possibile, ma auspicabile. E resta l’unica via davvero preventiva alla messa in atto di violenze future.

 

La sfida delle neuroscienze è stata invece brillantemente raccolta nell’ultima giornata di lavori dal gruppo di Benedikt Amann, specializzato nel trattamento di pazienti bipolari con una storia di traumatizzazione importante, e dal Dott. Marco Pagani del CNR di Roma, che ha condotto una ricerca importantissima per il futuro dell’EMDR.

I contributi scientifici raccontati sembrano infatti confermare l’efficacia dell’EMDR non solo nel migliorare il vissuto soggettivo del paziente rispetto alla sua sofferenza, ma anche nel modificare in modo funzionale e adattivo le reti neurali coinvolte in quella sofferenza.

Insomma la connettività e la conformazione del nostro cervello verrebbero attivamente modificate durante la rielaborazione di ricordi negativi e traumatici, insieme ai pensieri, alle emozioni e ai comportamenti…..Finalmente abbiamo le prove!

Ai prossimi contributi il dettaglio dei singoli interventi …

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

EMDR: INTERVISTA A ISABEL FERNANDEZ, PRESIDENTE EMDR ITALIA

EMDR: INTERVISTA A MARCEL VAN DEN HOUT

EMDR – Eye Movement Desensitization and Reprocessing

EMDR

Eye Movement Desensitization and Reprocessing

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

L’EMDR è un approccio complesso utilizzato per elaborare eventi traumatici e consiste in una metodologia strutturata che può essere integrata nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.

Il modello considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici e vede nella patologia il “sintomo” di un’informazione immagazzinata in modo non funzionale, su tutti i livelli: cognitivo, emotivo, sensoriale e fisiologico.

Quando avviene un evento ”traumatico” l’equilibrio tra le nostre reti neurali (eccitatorie e inibitorie) viene disturbato e l’elaborazione di conseguenza resta bloccata, come “congelata” nella sua forma ansiogena originale. Questo è il modo in cui le sensazioni del passato si ripropongono come “sintomi” nel presente.

Questa metodologia si fonda su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione (AIP) e utilizza movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio neuro fisiologico, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

I movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica, con le convinzioni negative ad essa legate e con il disagio emotivo facilitano infatti la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. Nella risoluzione adattiva l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

Le ricerche condotte su vittime di violenze sessuali, di incidenti, di catastrofi naturali, ecc. indicano che il metodo permette una desensibilizzazione rapida nei confronti dei ricordi traumatici e una ristrutturazione cognitiva che porta a una riduzione significativa dei sintomi del paziente (stress emotivo, pensieri invadenti, ansia, flashback, incubi).

L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.

Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età  dello sviluppo
  • Eventi stressanti  nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza)

 

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato questo metodo terapeutico ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità . Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association (APA) ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.

 

(Fonte: Associazione EMDR Italia )

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Primo, non curare chi è normale. Di Allen Frances – Recensione

RECENSIONE

Primo, non curare chi è normale

contro l’invenzione delle malattie

Di Allen J. Frances

 

“Icaro volò troppo vicino al sole e le ali di cera si sciolsero, facendolo cadere in mare.”

Primo-non-curare-chi-e-normale.-Di-Allen-Frances-Copertina-2013 - Immagine: © Bollati e Boringhieri 2013Un mea culpa rispetto agli errori fatti dai curatori del DSM-IV e alle relative conseguenze; un j’accuse forte e deciso rispetto alla psichiatria attuale, al suo inflazionismo diagnostico, alla pericolosità delle diagnosi di moda, all’ingenuità dell’entusiasmo di psichiatri, psicologi e operatori della salute mentale che hanno plaudito i nuovi criteri con l’idea di avvicinarsi di più alla “verità” senza porsi il problema dei rischi.

Il DSM-V è appena uscito e già comporta una mole di critiche e una serie d’allarmi che accenderanno il dibattito scientifico e quello filosofico dei prossimi anni. I DSM erano libri anonimi e tentativi poco considerati di unificare il linguaggio psichiatrico e la nosografia fino al DSM-III, che diventò di fatto un’icona culturale, un best-seller, in pratica una “bibbia” della Psichiatria. La motivazione sostanziale è che con i criteri selezionati tracciava il confine tra normalità e malattia mentale in modo netto, chiaro, e da lì a cascata tutte le conseguenze riguardo alle terapie, alla ricerca, alle norme assicurative, sociali, circa l’invalidità, fino a contribuire alla speculazione filosofica tra normale e malato in modo decisivo.

Il DSM-V è stato a lungo atteso, e nasceva con una grande ambizione, quella di introdurre un cambiamento di paradigma nella diagnosi psichiatrica. C’era l’obiettivo irrealistico di trasformare la diagnosi psichiatrica basata su criteri clinici, in una diagnosi “certa”, supportata da elementi esterni di validazione diagnostica, suggeriti dalle entusiasmanti scoperte delle neuroscienze. Un’idea fantastica che ha incontrato scogli insormontabili, e che si è arresa alla constatazione che la meta è ancora troppo lontana. Il secondo obiettivo ambizioso era allargare i confini della diagnosi dando una prospettiva evolutiva alla malattia, cercando di identificare i disturbi ai loro esordi, per applicare una terapia preventiva. La terza ambizione del DSM-5 era di rendere la diagnosi psichiatrica più agevole, quantificando numericamente i disturbi, invece di dar loro semplicemente un nome, introducendo valutazioni dimensionali già ampiamente usate nella pratica clinica.

Il curatore del DSM-IV, Allen Frances, si racconta al lettore in questo libro in modo chiaro e diretto, con lo scopo di alimentare la critica all’attuale sistema diagnostico, a tutto l’impianto del DSM-V, di gettare un allarme ad ampio spettro, che stimoli chi lavora nell’ambito della salute mentale ad uscire da un’eventuale posizione di passività intellettuale. È un mea culpa rispetto agli errori fatti dai curatori del DSM-IV e alle relative conseguenze; è un j’accuse forte e deciso rispetto alla psichiatria attuale, al suo inflazionismo diagnostico, alla pericolosità delle diagnosi di moda, all’ingenuità dell’entusiasmo di psichiatri, psicologi e operatori della salute mentale che hanno plaudito i nuovi criteri con l’idea di avvicinarsi di più alla “verità” senza porsi il problema dei rischi, agli enormi e cinici interessi che muoverebbero la macchina da dietro le quinte (come le aziende farmaceutiche e i loro interessi sui farmaci, le assicurazioni, i professionisti compiacenti). Tutto l’impianto accusatorio trae credibilità dal fatto che a raccontarlo è un uomo che per tanti anni è stato al vertice della Psichiatria che conta, dell’American Psychiatric Association, che conosce cosa accade nella stanza dei bottoni, responsabile addirittura della task force del DSM-IV.

Il libro si snoda in tre passaggi fondamentali: una prima parte in cui l’autore si propone di riportare al centro del dibattito il tema della normalità, evidenziando quanto siano arbitrari i confini di tale definizione, di come risenta della cultura, delle mode, degli interessi. Né i dizionari, né la filosofia, né la statistica, né la medicina, né la psicologia sono in grado di delimitare il campo del significato del termine, che viene pericolosamente eroso dall’avanzare dei confini della malattia mentale. Un dilemma tra il concetto di “sano” e “malato”, tra resilienza e fragilità, che sconfina nel filosofico, che poggia sulla stessa antitetica idea di malattia come continuum rispetto alla normalità, o come frattura netta rispetto al “normale”. La logica conseguenza è l’inflazione diagnostica, come ingenua vittoria della scienza sulla natura, come conclusione del fatto che se poniamo la diagnosi a tutti i costi come assunto, troveremo facilmente i criteri che legittimino tale postulato. Sullo sfondo troneggiano gli interessi delle aziende farmaceutiche che avrebbero tutto l’interesse per incrementare esponenzialmente il mercato per i loro farmaci, con l’appoggio di professionisti compiacenti, ma ancor di più d’ingenui operatori che con entusiasmo sostengono inutili e poco scientifiche rivoluzioni diagnostiche.

La seconda parte è una ricostruzione storica dei più spettacolari errori diagnostici dell’umanità, un’analisi degli errori attuali e una previsione circa quelli futuri, attraverso un’attenta revisione sul metodo delle diagnosi.

La terza parte è un piano d’intervento per contenere l’inflazione diagnostica, contrastare il potere delle aziende, della pubblicità forviante, per domare gli psichiatri e il DSM. Frances propone dei suggerimenti e delle strategie per favorire una consapevolezza diffusa circa il concetto di normalità e una collaborazione tra paziente e curante allo scopo di evitare le principali nefaste conseguenze, che sono, sia quella di curare impropriamente e dannosamente una persona che malata non è, sia di sottrarre risorse fondamentali per quella quota minoritaria di pazienti che sono davvero malati, ma male assistiti nella maggior parte dei casi. Nel dubbio, tuttavia, il monito dell’autore d’ippocratica memoria è Primum non nocere”.

A parer mio il libro ha il grande merito di portare nuovamente il dibattito scientifico, ma anche filosofico, sul concetto di “normalità”, mettendo in guardia e puntando una luce sui molti angoli bui di chi ha tutto l’interesse, talvolta solo per eccesso di entusiasmo, nello psichiatrizzare molti comportamenti umani, prospettando la necessità di una cura opportuna che dia lavoro e guadagni per tutti. L’autore usa indubbiamente toni catastrofici e sembra voler svegliare tutti i professionisti della salute da un grande sonno intellettuale, probabilmente in opposizione ad un supposto rischio di omologazione e ad una crescente e poco rigorosa inflazione diagnostica vista nel DSM-V.

Indubbiamente il nuovo DSM sembra il solito enorme compromesso tra i poteri economici in campo, tra le spinte di politica sanitaria (assicurazioni, corporazioni di psicologi, psichiatri biologisti, psicoterapeuti, operatori dei servizi sanitari) e le dispute culturali che alimentano risvolti sociali, e che per stessa ammissione dell’American Psychiatric Association non ha potuto soddisfare le aspettative con cui era atteso. Lo sguardo del libro è comunque verso un bene comune che è quello della salute dei nostri pazienti, perché la riflessione stimolata serva a costruire una comunità scientifica più affidabile nelle diagnosi e nelle terapie, e li protegga dai nostri errori.

MERCOLEDÌ 13 NOVEMBRE STATE OF MIND INTERVISTERÀ IL PROF. FRANCES. CHI VOLESSE PORRE DELLE DOMANDE PUÒ SCRIVERE ALLA REDAZIONE.

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DSM-5 Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders

PSICHIATRIA E PSICOLOGIA PUBBLICHE

RECENSIONI DI STATE OF MIND

BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE DELLA RECENSIONE:

Filippo Turchi: Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore a contratto presso l’Università di Firenze. Socio SITCC e SIP. Docente presso la Scuola Cognitiva di Firenze.

Perchè non possiamo essere vegetariani – Quel che una pianta sa – Recensione

Recensione del libro

Quel che una pianta sa – Guida ai sensi nel mondo vegetale

di Daniel Chamovitz

Raffaello Cortina Editore (2013)

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Quel che una pianta sa - RecensioneAll’uscita dal cinema, impressionata dalla visione di Babe – Maialino Coraggioso, giurai a me stessa che non avrei mai più mangiato carne in vita mia. Avevo 10 anni.

I miei buoni propositi si arenarono di fronte ad un gustosissimo panino alla mortadella, la sera stessa. La questione morale ha sfiorato la mia anima di carnivora impenitente in qualche successiva occasione, ma la piacevole scarica di dopamina provocata dall’assunzione di una buona bistecca è sempre riuscita a sedare eventuali sensi di colpa.

Diventare vegetariani è una scelta che considera oltre che aspetti salutisti ed ecoambientalisti, anche aspetti etici; significa non voler prendere parte ad un processo che comporta lo sfruttamento, la sofferenza e la morte degli animali, ritenuti degni dello stesso rispetto dovuto agli esseri umani. Chi sbeffeggia questa scelta sostenendo che anche l’insalata soffre si sente rispondere che, a differenza degli animali, i vegetali, pur essendo esseri viventi, non provano dolore né possiedono un’auto-coscienza poiché sono sprovvisti di sistema nervoso e soprattutto di un cervello. Vero. Eppure le piante rappresentano quella che potremmo definire una forma d’intelligenza rudimentale; non avranno un cervello, ma sono straordinariamente simili a noi in più di un aspetto, più di quanto possiamo immaginare.

Quel che una pianta sa – Guida ai sensi nel mondo vegetale è un curioso libro di divulgazione scientifica in cui il biologo Daniel Chamovitz svela le similitudini tra il sistema nervoso umano e gli apparati attraverso cui le piante percepiscono ed interagiscono con il mondo, illustrandone le significative somiglianze riscontrabili a livello genetico.

Leggendo il testo si scopre un mondo sconosciuto che ci fa sentire più vicini alla natura. Che le piante siano in grado di percepire la luce è una nozione da scuola elementare che tutti quanti abbiamo imparato; ma scoprire che le piante “vedono” proprio come noi lascia stupefatti: le piante sono infatti capaci di distinguere tra luce rossa, blu, rosso lontana e raggi UV e reagiscono ad essa traducendo i segnali luminosi ovviamente non in immagini, ma in indicazioni utili per la loro crescita; allo stesso modo rilevano sostanze chimiche volatili nell’aria (es. i feromoni) e convertono questo segnale in una reazione fisiologica; in altre parole, anche le piante sono dotate di olfatto. Sono però prive di udito: nonostante la credenza popolare, non è vero che la musica classica ne favorisce la crescita, con buona pace della Dott.ssa Dorothy Retallack (1973) che dedicò la sua vita a dimostrare quanto i Led Zeppelin fossero nocivi ai gerani (e alle persone). I vegetali non hanno, infatti, bisogno di “orecchie” per orientarsi nel mondo, poiché sanno sempre dove si trovano grazie ad un sistema propriocettivo straordinariamente simile a quello umano che permette loro di reagire alla forza di gravità (distinguendo l’alto dal basso) e di riconoscere la posizione in cui si trovano le varie parti quando si muovono.

Leggendo Quel che una pianta sa non si può non rimanere affascinati da quanto condividiamo con il mondo vegetale. Chamovitz ci accompagna in uno straordinario viaggio tra esperimenti e curiosità che ci lasciano a bocca aperta e ci fanno sentire in sintonia con le piante, che come noi soffrono il jet leg (“ma non diventano irritabili”) e quando “si fanno male” producono metil salicilato (sì, avete capito bene, l’aspirina!).

L’insalata non avrà un cervello, ma è estremamente consapevole del mondo che la circonda: dell’ambiente visivo e dei profumi nell’aria, della forza di gravità e dei tocchi che riceve, ha memoria del proprio passato e modifica la propria fisiologia in base a tali ricordi e alle informazioni che riceve dall’esterno. Alla luce di tutto ciò, forse anche l’insalata merita il nostro rispetto? E se sì, allora l’unica soluzione è diventare fruttariani? Lascio a voi risolvere il dilemma etico.

Io d’ora in avanti guarderò la parmigiana della mia mamma con occhio diverso. Certo è che poi saper resistere non è mica da tutti: parmigiana, m’hai provocato e io te distruggo…con un po’ di senso di colpa…ma te distruggo comunque.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La gravidanza e la relazione oggettuale – Recensione

 

Recensione del libro:

La Gravidanza e  La Relazione Oggettuale. Un nuovo approccio alla maternità

di Roberta Mancinelli

Armando Editore (2013)

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La Gravidanza e  La Relazione Oggettuale. Un nuovo approccio alla maternità  di Roberta Mancinelli  Armando Editore (2013). -Immagine: CopertinaLa relazione oggettuale ha inizio fin dalla vita intrauterina e un nuovo approccio clinico sulla gravidanza ci può permettere di aiutare la donna e di prevenire la patologia mentale. L’obiettivo è quello di creare un metodo scientifico che tenga conto della psicoanalisi, del significato del sogno e del suo rapporto con il sonno e con la dinamica mentale.

La gravidanza e soprattutto la nascita hanno sempre rappresentato un motivo di grande interesse sia collettivo sia individuale e le recenti ricerche scientifiche hanno talvolta eccessivamente enfatizzato un evento che non è solo biologico poiché assolve un compito fondamentale per l’umanità.

Come l’autrice afferma all’inizio del libro, la relazione oggettuale ha inizio fin dalla vita intrauterina e un nuovo approccio clinico sulla gravidanza ci può permettere di aiutare la donna e di prevenire la patologia mentale. L’obiettivo è quello di creare un metodo scientifico che tenga conto della psicoanalisi, del significato del sogno e del suo rapporto con il sonno e con la dinamica mentale.

Il primo capitolo del libro riguarda la genesi della teoria psicoanalitica postfreudiana, ponendo l’accento sull’importante funzione dell’ambiente e sui diversi modelli operativi che caratterizzano le differenti specie animali, compreso l’uomo. Si parte citando gli studi di Darwin e la complessità degli schemi di comportamento specie specifici, per poi passare alla visione tassonomica di Lorenz, sulle anatre e le oche, e a quella di Timbergen sui gabbiani. Ogni specie mostra comportamenti specifici nei confronti della locomozione, del nutrimento, nel  corteggiamento, nell’accoppiamento e nell’allevamento.

L’autrice procede poi descrivendo nel dettaglio gli aspetti che influenzano sensibilmente lo sviluppo nel ciclo vitale, citando Lorenz e il suo celebre studio sull’imprinting, arrivando poi a Bowlby, alla teoria dell’attaccamento e alla psicoanalisi.  Vengono descritti diversi studi nei quali è stato studiato il comportamento di attaccamento dei primati e di altre specie animali fino ad arrivare all’archeantropologia e alla legge della ricapitolazione, in base alla quale la mente umana ricapitola l’ontogenesi e la filogenesi non solo per lo sviluppo del pensiero ma anche nello sviluppo sensomotorio.

La parte conclusiva del capitolo si focalizza sul tema della rivoluzione androcentrica e dello stupro primordiale, dove l’evoluzione dell’uomo dalla scimmia si riproporrebbe in quella dei rapporti tra l’uomo e la donna e nell’origine prima della civiltà. In particolare l’autrice si sofferma nel descrivere l’ipotesi  di un’organizzazione primitiva di tipo matriarcale dove la donna sarebbe stata la fondatrice e la prima portatrice di cultura. Inoltre man mano che le femmine acquistavano la postura eretta (prima dei maschi), i loro genitali rimanevano sempre più nascosti, rendendo il coito a tergo piuttosto complesso. Il maschio si sarebbe sentito sempre più escluso, non solo dalla vita sociale, ma anche dal rapporto sessuale con le femmine.

In tale contesto appare presumibile che l’uomo abbia cominciato ad accoppiarsi ventralmente usando la violenza (infatti tale postura non poteva essere accettata dalle femmine, poiché era segnale radicato di aggressione). Probabilmente questo evento, indicato appunto con il termine di stupro primordiale, ha segnato un periodo di conflitto, la cui soluzione sarebbe poi stata fondamentale per il futuro sviluppo dell’organizzazione sociale e della civiltà.

Il libro procede con un capitolo che fornisce alcuni accenni dello sviluppo psicomotorio, dello sviluppo del linguaggio, della puericultura e delle malattie genetiche dell’infanzia. Il capitolo termina con un approfondimento specifico della patogenesi e delle crisi focali epilettiche.

Segue poi l’ultimo capitolo che affronta la psicopatologia delle emozioni ed il comportamento di attaccamento con un’analisi dettagliata dell’angoscia di separazione e delle varie prospettive e modelli di riferimento secondo la teoria della psicoanalisi.

L’autrice affronta in maniera dettagliata la paura e l’ansia di separazione confrontando la teoria freudiana con le altre teorie scientifiche. Viene sottolineata l’importanza dell’ansia di separazione durante la vita adulta e le connessioni che essa può avere con i membri parentali. Il grande contributo di Melanie Klein è stato quello di aver postulato la capacità individuale di attribuire le caratteristiche proprie agli altri e questo si verifica nelle primissime fasi dello sviluppo normale, con effetti sullo sviluppo della personalità successiva.

La parte più significativa su chi siamo è svolta dalle nostre figure di attaccamento, che ci consentono di comprendere le figure successive di attaccamento nel corso della vita. Nella pratica clinica il compito dell’analista è proprio quello di trovare la strategie da perseguire per far sì che le percezioni che il paziente ha nei confronti del terapeuta gli permettano di comprendere il suo modello operativo, che prende il nome di “traslazione” ed è proprio grazie a questa che vengono alla luce i modelli operativi dei primissimi anni di vita.

Segue un’analisi delle collera e dell’angoscia con una descrizione di collera funzionale e collera non funzionale. Gli psicoanalisti e altri studiosi che hanno adottato il criterio teorico basato sulle relazioni oggettuali , hanno considerato per molti anni l’equilibrio tra la disposizione ad amare, ad arrabbiarsi e ad odiare le figura di attaccamento come uno dei criteri fondamentali per fare una valutazione clinica della persona. In un suo studio la Klein ha dimostrato che più i bambini erano attaccati alla figura materna e più forte era la loro ostilità inconscia nei confronti della madre stessa. La collera e l’ostilità verso una persona amata talvolta vengono rivolte altrove, in tal caso si parla di spostamento o della tendenza di attribuire l’ira altrove.

Il libro si sofferma poi sulla depressione materna, post-partum e sulle conseguenze che essa può avere sui figli, sembra infatti che tali ragazzi crescendo presentino maggiore ansietà e disturbi del comportamento in genere. I figli tendono inconsapevolmente a identificarsi con le figure genitoriali e quando a loro volta diventano genitori tendono a mettere in atto quanto appreso nei modelli di interazione.

Proprio per aiutare le donne in gravidanza, l’autrice conclude il libro descrivendo una ricerca condotta con il Prof.re Carlo Bonromeo, Ordinario di Psichiatria Psicodinamica presso la facoltà di psichiatria di Perugia. La ricerca ha coinvolto complessivamente centro donne in gravidanza, per un totale di dodici/tredici incontri prima del parto ed altri successivi a questo. Le scopo dei primi incontri è stato quello di lavorare sul corpo in movimento, a seconda delle problematiche che ogni gestante presentava. Il movimento, afferma la dott.ssa, distoglie l’ansia.

Durante gli incontri, si è proceduto con il racconto del materiale onirico e con lezioni pratiche legate ad aspetti legislativi sul tema della tutela materno-infantile, cure al neonato, cura del corpo in gravidanza, attività lavorativa, sport in gravidanza ecc. Questo approccio predilige come metodo quello osservativo; l’osservazione è considerata una parte integrante della conoscenza, della ricerca e come afferma l’autrice, osservare significa avvalersi di tre aspetti fondamentali “Quello che si vede, quello che si è, quello che si è visto e che è dentro di noi”.

LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA‘ – ATTACCAMENTOPSICOANALISI

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L’attesa. Il percorso emotivo della gravidanza. di A. Pellai (2013) – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA: 

Cognitive Reappraisal, l’efficacia dipende dal contesto!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Saper regolare le proprie emozioni è importante ma in alcune circostanze può essere poco utile. Il cognitive reappraisal, letteralmente rivalutazione cognitiva, prevede il riconoscimento del fatto che ciò che proviamo dipende non tanto dalle situazioni in cui ci troviamo bensì dal significato che gli attribuiamo, cioè dai pensieri che formuliamo rispetto al contesto in cui ci troviamo, e che è possibile modulare e gestire gli stati emotivi grazie alla riformulazione dei pensieri che hanno elicitato le emozioni stesse.

REAPPRAISAL SU PSICOPEDIA

Secondo un recente studio, l’utilità di questa tecnica sembra dipendere dalla controllabilità, o meno, delle situazioni che generano stress. La rivalutazione cognitiva, utile nei contesti incontrollabili (cioè quelli in cui possiamo solo regolare noi stessi ma non abbiamo modo di influenzare il contesto), sarebbe invece poco utile quando i fattori di stress responsabili dell’attivazione emotiva sono sotto il nostro controllo (ad esempio problemi sul lavoro a causa di scarso rendimento).

I ricercatori hanno reclutato un campione di persone che avevano recentemente subito un evento di vita stressante, ai quali hanno somministrato un questionario online per misurare i loro livelli di depressione e di stress; circa una settimana dopo, in laboratorio è stata testata la loro abilità di cognitive reappraisal.

I risultati dimostrano che la capacità di regolare la tristezza è associata a un minor numero di sintomi depressivi, ma solo per i partecipanti il cui obiettivo era un fattore di stress incontrollabile, un coniuge malato per esempio. Quando il fattore di stress era più controllabile la rivalutazione cognitiva non è stata efficace nel limitare la reazione depressiva.

Questi risultati suggeriscono che nessuna strategia di regolazione delle emozioni è sempre adattiva, ma che è necessario utilizzare interventi terapeutici mirati a seconda del contesto che genera stress; se il cognitive reappraisal risulta efficace nel caso di contesti più incontrollabili, in quelli in cui si ha maggiore controllo potrebbe essere più utile utilizzare il problem solving o la ricerca di supporto relazionale.

I ricercatori hanno in programma di approfondire l’uso di altre strategie di regolazione delle emozioni (l’accettazione, la distrazione, la soppressione) in base hai contesti in cui l’individuo si trova.

LEGGI:

REAPPRAISAL

SCIENZE COGNITIVE – RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’estate di Giacomo di Alessadro Comodin (2011) – Psicologia Film Festival

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL

estate di giacomo pff

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Videocommunity e l’Hub Multiculturale Cecchi Point vi invitano al

3° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Mercoledì 13 Novembre ore 21,00

presso il Cecchi Point, via Antonio Cecchi 17

con la proiezione del film

L’ESTATE DI GIACOMO

di Alessandro Comodin (2011, 75′)

Ingresso libero

Il Psicologia Film Festival è un’iniziativa nata nel 2009 dalla collaborazione fra la Biblioteca Kiesow di Psicologia e alcuni ragazzi del collettivo.

Nato come semplice “appendice” alle lezioni di alcuni docenti, oggi l’obiettivo di questa rassegna, giunta alla quinta edizione, è di creare momenti di confronto e di dibattito non solo per gli studenti di psicologia o per gli esperti del settore ma per tutta la cittadinanza, a partire dalla proiezione di pellicole di giovani autori emergenti, poco distribuiti o poco visti dal grande pubblico. Il festival, grazie alle numerose collaborazioni con altre realtà del territorio torinese, è in continua espansione: per l’edizione 2013-14 sono previste dodici proiezioni fra film e documentari in 5 location differenti!

Il Film

Siamo nella campagna friulana. È estate. Giacomo, diciotto anni, rimasto sordo da piccolo, e Stefania, sua amica d’infanzia, sedici anni, vanno al fiume per un picnic. Come in una fiaba incantata, si smarriscono nel bosco per ritrovarsi in un posto paradisiaco, soli e liberi, durante un pomeriggio che sembra durare il tempo di un’estate. Un apprendistato dei sensi: non ci si tocca, eppure si è tutti pelle, respiro e soffio. La sensualità accompagna i giochi da bambini, finché Stefania e Giacomo non sentono che l’avventura, che hanno appena vissuto, non è altro che un ricordo dolceamaro di un tempo perduto.

Una storia d‘amore e d’iniziazione alla vita adulta, dove il presente si mescola al ricordo e il passato risorge con la chiarezza e lo stupore della prima volta. I ricordi non sono solo ciò che ciascuno di noi porta in sé e che improvvisamente ritrova. “Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo” (Cesare Pavese,”Stato di Grazia” in Feria d’agosto, 1946).

In collegamento skype, parteciperà alla serata e interverrà prima e dopo la proiezione il regista Alessandro Comodin.

Il regista

Alessandro Comodin, originario di Teor, ha studiato lettere a Bologna e Parigi, dove, come lui stesso ammette, passava il tempo alla cineteca. Dopo la laurea riesce ad entrare all’INSAS e proseguire gli studi di cinema. Comodin, che tuttora si divide tra Francia e Italia, ha visto il suo documentario La febbre della caccia entrare nella sezione cortometraggi della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, unico regista italiano della sezione. Si tratta di un documentario sulla caccia, i suoi rituali, i gesti e i suoi silenzi.

Vi aspettiamo numerosi

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Intervista a Sananda Maitreya – Musica e identità

 

Il Dr. Gaspare Palmieri intervista:

Sananda Maitreya

LEGGI L’INTERVISTA ORIGINALE IN INGLESE

 

Sananda . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_17

L’intervista per State of Mind, che Sananda ha simpaticamente definito “Esame di psicologia!”, è stata l’occasione per farci raccontare la sua interessantissima storia e per parlare degli effetti della musica sulla mente umana. 

I radicali cambiamenti di rotta hanno sempre un certo fascino. Circa cinque anni fa mi è capitato di assistere, al Vox di Nonantola, al concerto di Sananda Maitreya, un artista americano dotato di una sublime voce soul, che fino al 2001 era conosciuto nel mondo discografico come Terence Trent d’Arby. Per capirci, il suo primo disco Introducing the Hardline According to Terence Trent D’Arby (1987) ha venduto più di tredici milioni di copie e contiene canzoni straordinarie come Dance little sister, If you let me stay, Sign your name…

Quella sera al Vox, non suonò neanche una delle hit che l’avevano reso famoso, ma fece un grande concerto pieno di energia e di nuove canzoni che costituiscono quello che Sananda definisce il Post Millennium Rock. Oltre al nome, l’artista ha cambiato anche continente e ora vive a Milano con la moglie italiana ed i loro 2 figli.

L’intervista per State of Mind, che Sananda ha simpaticamente definito “Esame di psicologia!”, è stata l’occasione per farci raccontare la sua interessantissima storia e per parlare degli effetti della musica sulla mente umana. 

Ciao Sananda. La musica che stai suonando negli ultimi anni, il Post Millennium Rock (PMR) ha a mio avviso un sapore molto liberatorio e di creazione gioiosa. Ci racconti come nascono queste nuove canzoni?

Grazie per il vostro interessamento. Intendiamoci, la mia reazione iniziale di fronte alla vostra richiesta di intervista è stata “Oddio, allora si sono accorti che sono pazzo!” (risata ndr). Bene, ora che ho vuotato il sacco, possiamo iniziare. Fortunatamente di questi tempi come pazzo non mi sento solo, infatti la sala d’attesa è piena, molto più che  in passato.

Per quanto riguarda il mio processo creativo, fin da bambino ho sempre sentito nella mia testa musica e parole. Il più delle volte la musica esce ESATTAMENTE dal nulla, per esempio ti ritrovi in bagno e all’improvviso compare l’idea che stavi cercando. Si materializzano delle idee che hanno in sé musica e testo. Di solito riesco a buttare giù un ritornello, uno spunto per il testo e il riff principale per la chitarra e la parte del basso. Posso capire dalla prima versione se sarà un brano dove lo strumento principale sarà la chitarra oppure invece la tastiera. Il ritmo del pezzo è un dato di fatto, che arriva insieme alla melodia.

Io mi considero uno dei messaggeri della musica, come un postino che consegna la posta. Per questo motivo molti compositori sono spesso visti come dei “mistici”, perché consapevoli di quel processo che si verifica tra quello che è percepito come il velo tra i mondi. Questo può essere meramente ridotto a un processo biochimico, nonostante ciò è sempre una grande meraviglia da vedere sia a livello emotivo che personale.

Finora non ho mai considerato di “scrivere” delle canzoni, dal momento che io ascolto quello che mi arriva in quei momenti e lo capitalizzo e lo rifinisco con le semplici abilità che ho accumulato in tutti questi anni di musica. Al massimo posso dire di essere “co-autore” delle canzoni, grazie alla mia percezione, insieme allo spirito della Musica e alle Muse mandate per proteggere e per assistere i creativi e gli spiriti erranti come me.

La musica è un deposito di contenuti emotivi. Il PMR (Post Millennium Rock) è nato in un periodo di grande difficoltà psicologica e il fatto di usare la musica per esprimere il dolore e le angosce è uno dei motivi per i quali noi uomini abbiamo bisogno della musica stessa. Anche se d’altro canto oggi è venuto il tempo di rimuginare meno, di non essere più depressi, ma di celebrare e gioire di più. Ce l’abbiamo fatta! Brindiamo, a più gioia nelle nostre vite! Certamente avremo la sensazione di vivere con più gioia se riusciremo davvero ad accoglierla. Noi uomini in fondo non abbiamo pregiudizi nei confronti della gioia.

Il tuo stile musicale è cambiato negli anni, ma la tua incredibile voce resta come una sorta di ponte tra la tua vecchia identità e il nuovo Sananda. Le reazioni emotive alle esperienze di vita possono influenzare la qualità vocali.  Pensi che la tua voce sia cambiata negli anni? 

State cercando di sedurmi con domande credibili! Ascoltami, è semplice. Il corpo umano è un’antenna elettromagnetica, che invia e riceve informazioni sotto forma di dati elettrici. La voce è l’amplificatore e il filtro in grado di misurare molto accuratamente lo stato mentale e fisico. Come filtro è anche in grado di registrare e di accumulare informazioni (l’esperienza) che poi viene a sua volta filtrata ulteriormente attraverso l’amplificazione vocale.

In poche parole la voce è un barometro dello stato di coscienza, con cui è in stretto contatto. E’ in grado di immagazzinare e cancellare grandi quantità di informazioni. La gola e i polmoni sono veicoli della voce. Io canto come un’antenna con un’intenzione verso un mood e una tonalità. In altri termini io sono lì come un cantante che ascolta cosa viene cantato, non solo che canta.

A un certo punto non canto più le canzoni, ma è come se le canzoni stesse mi cantino, perché io ci sono comunque e cos’altro posso fare se non essere presente e pronto “ad essere cantato”. Più i cantanti invecchiano, più si rendono conto di potersela cavare cantando molto meno, ma ottenendo di più. Questo l’ho imparato studiando due dei miei più grandi maestri: Miles Davis e Frank Sinatra. E se il mio stile musicale è cambiato, non ha tanta importanza, perché vuol dire che gli è stato dato lo spazio per crescere. A cosa serve il cambiamento se non alla crescita?

Ho letto che la tua musica è stata usata come terapia in un Trauma Center di Tokio, specializzato in lesioni cerebrali. Ci racconti qualcosa in più? In che modo i medici usano la tua musica?

L’ho scoperto da un amico giapponese che ho incontrato come fisioterapista. Una volta ho avuto bisogno per un problema a un ginocchio e ho scoperto questo fantastico dottore che mi ha raccontato dell’uso della mia musica in quel periodo nel Trauma Center. Ho trovato davvero interessante che in particolare il mio disco Neither fish nor Flesh fosse d’aiuto nella stabilizzazione di gravi traumi. Considerato i “danni cerebrali” che io stesso ho subito per via della reazione a quel progetto da parte della Sony, mi sembrava stranamente gratificante oltre che ironico.

Mi hanno raccontato che la canzone She Kissed Me (ndr la seconda traccia dell’album “Symphony Or Damn”) ha avuto effetti sul risveglio dal coma per alcune persone . La musica è stata inventata per confortare i cuori selvaggi ed è quello che dovrebbe fare. E sono sempre grato e onorato di essere parte di un’esperienza di cura o guarigione, ovunque venga realizzata e da parte di chiunque. Non ho pregiudizi rispetto a rimettere insieme i pezzi della mente, che è ciò in cui consiste la guarigione. Potrei andare avanti da qui alla fine dei miei giorni a scrivere di come la musica ha rapito, rilassato e davvero salvato la mia anima.

Sono sempre più noti ed evidenti gli effetti benefici della musica sul cervello. Ci puoi raccontare qualche episodio della tua vita in cui la musica ti ha aiutato veramente?

Volentieri! Esempio numero uno, quando per la prima volta ho ascoltato She loves you dei Beatles, la mia anima si è stabilizzata. Mi ricordo di aver ascoltato A hard day’s night e di avere visto il mio futuro. E’ successa la stessa cosa quando ho ascoltato per la prima volta Poison Ivy dei Coasters e poi per un periodo dalla grande luce, tutto attorno a me si è fatto scuro per un momento, nel periodo in cui stavo ricevendo l’indottrinamento religioso nella mia adolescenza (ndr a casa gli era impedito ascoltare certa musica).

Successivamente Stevie Wonder ha aperto la mia mente a nuovi miracoli, i Jackson Five hanno avuto una parte importante e le lezioni di James Brown sono state interminabili. La musica Gospel e Country mi ha dato tanto, come anche il Blues, ma il mio cuore, sempre piuttosto ribelle a conformarsi alle convenzioni sociali, mi ha sempre portato verso il Rock, il Pop e le loro più ampie possibilità. Il mio aspetto meticcio mi dà una sorta di diritto ad avere legittimo accesso a tutti i generi musicali che sono compresi nelle mie linee di sangue, e non solo a quella musica che, con i suoi limiti, fa sentire gli altri più a proprio agio, mantenendo tutte le cose al loro posto. Ho sempre adorato e idolatrato l’elemento “Fuck you!” aggressivo del Rock e amo giocare con tutti i “fuochi” che mi sono stati donati. Amo mischiare la musica degli africani e dei vichinghi, e cercare di svegliare la gente. Chi se la sente lo fa e chi non se la sente può solo portare la birra! Ricordo di aver attraversato un brutto periodo di depressione in passato e di essere andato avanti a cercare ogni giorno dei motivi per continuare il viaggio in questo labirinto infernale.

Mi sono ritrovato nel mio soggiorno a mettere in loop (sì ancora loro) i Beatles, nel film “Help”, che suonavano “You’re going to loose that girl”. E durante quel lungo week-end credo di aver riavvolto e riascoltato quella canzone per circa cento volte, come se quella fosse la medicina di cui il mio cuore aveva bisogno. E sapevo che, come ha scritto il maestro poeta Robert Frost, “I had miles to go before I sleep”, “avevo miglia da percorrere prima di addormentarmi”. C’è un qualcosa nella musica dei Beatles che tocca i crepacci più profondi della mia vita, insieme a quella di pochi altri artisti, la loro musica è carne per le  mie ossa.

Se fossi un musicoterapeuta con la possibilitaà di lavorare con persone affette da disturbi psicologici ed emotivi (come ansia e depressione), in che modo utilizzeresti la musica? Che tipo di musica? Faresti solo ascoltare musica o anche suonare o comporre canzoni insieme?

Tutta la musica è adatta. Ad esempio per l’esercizio fisico, che è la forma più economica e valida di terapia, va bene tutta la musica che ti fa muovere il culo! Vai, accendi la musica e soprattutto fai esercizio!

Per il rilassamento invece, i suoni che assomigliano di più alla natura sono i migliori. La musica elettronica è perfetta per la corteccia cerebrale in quanto si relaziona alla funzione neurologica e aiuta a diminuire la tensione muscolare.

Per questioni di stress legato allo stomaco, gli strumenti a corda più bassi come il violoncello e la viola sono fantastici. La musica con molti bassi, come il Reggae, va bene per alleviare le tensioni nella parte bassa del corpo. I violini aiutano a rilassare l’inquietudine mentale e sono utili a mettere in comunicazione corpo e mente. I flauti favoriscono lievi esperienze extracorporee, come il “lasciare andare la mente”, mentre gli altri strumenti a fiato sono ottimi per la tonificazione e il mantenimento del corpo in relazione allo stato emotivo. I sassofoni incoraggiano l’introspezione attiva e le trombe ti svegliano e favoriscono il movimento del corpo in sintonia con la volontà. In ogni caso il mio preferito è il kazoo, inventato invece per stimolare l’attività sessuale (ride). E ancora, niente batte il naturale suono della natura: il soffio del vento, lo scorrere delle acque, il fruscio delle foglie. E giuro che il suono del canto delle cicale, può essere il più terapeutico di tutti.

Quale pensi sia il ruolo dell’arte e della musica nella salute mentale e nel mantenere un equilibrio psicologico?

Credo che il ruolo dell’arte, in ogni sua forma, musica o altro, sia essenziale nel mantenere il funzionamento ottimale della “macchina uomo”.

Te lo dico chiaramente, ciò di cui ho sofferto in passato, e ancora ho a che fare con alcune conseguenze, è stato il Disturbo Post Traumatico da Stress. Sono dovuto venire a patti con questa realtà e affrontarla di conseguenza, senza usare psicofarmaci. Non perché sia un moralista, ma perché non ne ho ancora trovato uno veramente buono! Non sono contro i farmaci. Sono contro i farmaci che non funzionano per me, il che mi sembra abbastanza giusto.

Mi è stato consigliato nel corso degli anni da più persone di iniziare a dipingere. Non ho mai capito perché, visto che non sono capace di disegnare qualcosa che valga un centesimo. Eppure questo mi ha fatto capire che la mia mente fosse ancora limitata al concetto di che cosa fosse in sé l’Arte, di cosa sia stata e di cosa potrebbe essere in futuro. Alla fine mi sono messo a dipingere, sono uscito dalla tana del lupo, non sono bravissimo, ma ho qualcosa da esprimere, e il seguire questa nuova attività mi ha fatto intraprendere un viaggio che ha come obiettivo il salvare qualunque cosa a cui può condurre il dipinto stesso. La linea di fondo è che mi piace davvero creare e sono grato di essere nella posizione di potermi permettere di fare ciò che amo e di assecondare questo bisogno. Sono giunto alla conclusione che, se devo dire la verità di fronte a Dio e mammona, la maggior parte della nostra istruzione fa schifo.

Siamo in grado di ricordare una serie di fatti, in qualsiasi momento, ma la giovinezza dovrebbe essere soprattutto gioco, esercizio creativo e la soluzione condivisa dei problemi. Se vogliamo davvero un futuro più luminoso, quello che le nostre speranze promettono, faremmo bene a liberare i nostri bambini dal peso della nostra educazione, fargliela reinventare in prima persona e farli studiare e andare avanti con quella. 

Si può imparare l’aritmetica online. La scuola riguarda l’imparare a muoversi nella società e a negoziare l’interazione sociale e per questo dovrebbe riguardare soprattutto il modo di divertirsi. I bambini,  molto presto aimè diventeranno come noi, vecchi e miserabili bastardi.

Credi nell’educazione musicale per i bambini? Come dovrebbe essere secondo te l’educazione musicale ideale?

Sì credo nell’insegnare musica ai bambini, ma rispettando i loro interessi. Per uno può significare imparare a suonare il bassotuba (poveretto), per un altro accontentarsi di ascoltare il bassotuba. La musica dà qualcosa a tutti, a seconda delle loro necessità. I bambini gravitano in modo naturale verso la creazione di musica, noi lo chiamiamo rumore! Per loro invece è qualcosa di divino che accade.

Mi ha colpito il fatto che tu abbia cambiato nome e identità. Ci racconti perchè hai scelto il nome Sananda Maitreya? Ha qualche significato religioso?

Sono certo che possa avere un significato religioso, per quanto possa implicare molte altre cose. Io non ho mai cercato il significato religioso, cerco solo ciò che ha senso per me. Il nome Sananda è arrivato prima, dopo una richiesta di aiuto, attraverso una serie sogni (circa 3) che mi ricordo ancora. In uno di questi camminavo in una radura della foresta con alcuni amici che ho riconosciuto nel sogno essere angeli e dai boschi ho sentito chiamare un nome, che era “Sananda”. Dopo l’ultimo sogno, mi sono reso conto che questo era il mio nome, wow, grazie, fico!

Da alcune ricerche iniziali è risultato che Sananda è in primo luogo, un nome femminile molto diffuso in India, quindi forse il sogno è stato anche uno scherzo giocato sulla mia voglia di cambiare. Un po’ come cambiare sesso, senza doverti necessariamente tagliare le palle! Per me, è stato come prendere due piccioni con una fava, io amo le donne e mi piace il nome Sananda. E’ per assonanza è un nome abbastanza vicino a “banana”, ma fortunatamente non c’è bisogno né di sbucciarlo e né di guardarlo diventare molle e marroncino. Quanto a Maitreya, dopo circa tre anni che ho adottato il nome Sananda, mi sono reso conto che si trattava davvero di una vera e propria nuova vita e di un nuovo spirito e non di un “rattoppo”, e che quindi un cognome poteva essere utile.

Durante quel periodo, stavo leggendo il libro di un mio amico, J. Krishnamurti, e l’ho sentito parlare spesso del suo angelo custode, o maestro spirituale, che si chiama Maitreya. Mi sono molto ispirato all’esperienza di vita di Krishnamurti, che in prima persona aveva seguito il percorso stabilito per lui, procedendo a suo modo, quindi con la sua “raccomandazione” mi sono sentito a mio agio a scegliere tale nome.

In realtà è stato tutto molto familiare per me. Molto prima di questo, era venuto fuori un fastidioso tira e molla sulla mia precedente identità. Come se, una volta che sei stato bollato, diventi due volte timido. La mia precedente identità e il mio nome non mi appartenevano più e ciò mi era stato reso palesemente chiaro dall’industria discografica e dallo Stato.

Il Tira e molla dura troppo a lungo? Lasciate andare la corda.

Così ho fatto io, e il resto non è che un mucchio di note a piè pagina. Che cosa c’è in un nome? I soldi di qualcun altro.

Posso immaginare che cambiare la propria identità non sia stato facile da un punto di vista psicologico. Ci racconti che tipo di difficoltà hai incontrato? Ti sei sentito confuso in certi momenti, o più sollevato?

Si può presumere che avevo una scelta, ma non l’avevo. Io e la mia banda di allegri ragazzi pazzi abbiamo dovuto abbandonare la nave prima che bruciasse tutto. È stato difficile? A volte enormemente difficile, ma almeno io sono fortunato a sapere quella che è la mia meditazione. Mi può colpire soprattutto quando vivo dei piccoli episodi maniacali. Non è un segreto che la maggior parte di noi creativi soffra di disturbi maniaco-depressivi, anche se a quanto pare la scienza ha verificato che il processo chimico della malattia maniaco-depressiva è di vitale importanza nel produrre le onde cerebrali necessarie per le scintille dell’ispirazione.

Immagino di aver attraversato alcune lievi fasi bipolari, benché la sorpresa nella nostra cultura è quella di farci crescere senza portarsi dietro tendenze bipolari.

E ancora una volta, tutto questo non è che un altro modo elegante per descrivere quello che sono fondamentalmente la rabbia e i vecchi problemi di sopravvivenza. Ci sono, naturalmente, come si sa, molte malattie legate alla nostra rabbia. La mia famiglia, le mie esperienze, la musica, l’arte, la scrittura, il buon cibo, il bere alcolici e la marijuana mi hanno aiutato moltissimo ad affrontare tutte le ferite subite durante il periodo delle mie guerre culturali. E a questo punto, per quanto riguarda TUTTI NOI, non ci sono più grandi battaglie in corso, se non quelle che hanno come obiettivo il controllo delle nostre menti, sia individualmente che collettivamente.

Nel tempo ho imparato che la rabbia, se ben gestita è un meraviglioso servitore e motivatore del proprio sè. I nostri processi hanno un valore  e la nostra pazienza è di vitale importanza. L’idea di schizofrenia è interessante perché penso che siamo tutti abitati da diverse personalità, soprattutto quelle che gli antichi avrebbero considerato come quelle dei nostri antenati. I greci classici erano certi che chi può gestire i propri Demoni sarebbe riuscito a dominare il mondo. La loro convinzione era che i nostri Demoni sono lì per motivare e ispirare. Io ho messo i miei demoni a lavorare per me, sono molto preziosi e sono anche disposti a lavorare per meno del salario minimo! Questo è il motivo per cui ho dovuto lasciare l’America, perché con i miei sintomi e il mio passato, mi avrebbero probabilmente affidato all’“Obamacare” e forse chiuso in un manicomio, e come diceva il grande Bo Diddley, “così in basso, che avrebbero dovuto pomparci l’aria”. Solo lo Spirito Santo e ciò che restava del mio piccolo ingegno mi hanno protetto. E per non contraddirmi, tenete a mente che la mia fede nello Spirito Santo non è religiosa, ma pratica.

La scelta di cambiare il tuo nome è stata per fornire un chiaro messaggio ai tuoi fan e al mondo musicale o era qualcosa che sentivi più profondamente?

Io non sono un martire che sceglie di sacrificarsi totalmente, senza almeno vedere che guadagno ci potrebbe essere per me. Io sono disposto a morire tra le fiamme della Fenice, ma solo se so che quando mi alzo dalle ceneri, c’è qualcosa che posso pretendere. E se c’era un messaggio da mandare, quel messaggio era per me. Ma quello che può essere raccolto dalla mia esperienza è questo, c’è vita dopo la morte corporale! Naturalmente non avrei potuto tirar fuori questo se non l’avessi sentito con il corpo e con l’anima. Rispetto troppo la mia vita per giocarmela con mezzi superficiali. E al di là che si cambino o meno i nostri nomi, la metamorfosi è reale. Come cantava il grande maestro Sam Cooke, A change is gonna come (il cambiamento sta per avvenire). E notare che io sono stato semplicemente una parte dello zeitgeist (dello spirito del tempo), infatti dal quel momento ad oggi anche molte altre persone, per non parlare di società e nazioni, hanno cambiato nome.

Humpty DumptyStavo semplicemente sfilando con gli altri alla parata!

Vi ringrazio per l’attenzione al mio lavoro. A volte la mia mente è un po’ sottosopra, a causa delle cicatrici del passato, ma il buon Dio mi ha insegnato come raggirare questo impiccio, e come usarlo a mio vantaggio.

We could never manage to get Humpty-Dumpty back into an egg shape, but boy does he make for one hell of a lamp shade!

Non saremmo mai riusciti a far rientrare Humpty-Dumpty / Unto Dunto dentro la forma di un uovo, ma caspita in qualità di paralume è davvero fantastico!”

Dio ti benedica e ROCK ON!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Sananda Maitreya . Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_3

Sananda Maitreya . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_7

 

Altra Europa di Rossella Schillaci (2011) – Psicologia Film Festival – PFF

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL PRESENTA:

altra europa - pff

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Videocommunity, SUR, Azul Produzioni e Cinemaitaliano.info vi invitano al

2° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Domenica 10 Novembre ore 21,00

Area EX- MOI, via Giordano Bruno 201

con la proiezione del film documentario

ALTRA EUROPA

di Rossella Schillaci (2011, 75′)

Ingresso libero ad offerta libera

 

Nel novembre del 2008 circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in uno storico quartiere operaio di Torino. La clinica è per loro l’unico rifugio, nonostante l’allacciamento all’energia elettrica sia precario e pericoloso e l’acqua corrente ci sia solo in quelle che erano le vecchie cucine della clinica, una per piano, una per circa 80 persone. Ma i rifugiati sono ben intenzionati a costruirsi qui un’alternativa, impegnandosi in corsi di avviamento al lavoro e nello studio della lingua italiana. Ed è proprio la loro determinazione ad animare gli squallidi e gelidi interni della clinica.

Un’altra storia, forse: nell’aprile di quest’anno 2013 circa trecento migranti rimasti senza tetto e speranza dopo la fine del Programma ENA (Emergenza Nord Africa) occupano tre palazzine dell’ex Villaggio Olimpico. Gli stabili, costruiti in occasione delle Olimpiadi del 2006 e abbandonati da più di 6 anni dall’amministrazione pubblica, hanno ripreso vita e sono ora la casa dei rifugiati dimenticati dalle istituzioni del nostro paese. Terminati i fondi del solito business emergenziale si sono ritrovati per strada; vincolati da una convenzione comunitaria non possono migrare verso altri paesi europei, mentre l’Italia, che avrebbe dovuto accoglierli e favorirne l’integrazione, chiude gli occhi sull’ennesimo disastro sociale.

Da aprile a oggi sono arrivati all’ex-Moi altri rifugiati nella stessa situazione raggiungendo il numero di 600 persone alle quali le istituzioni locali negano la concessione della residenza, requisito indispensabile per il rinnovo dei permessi e l’accesso ai servizi sociali.

Gli occupanti dell’ex Moi, hanno intrapreso un percorso collettivo per reclamare i loro diritti ma oggi si trovano alle porte dell’inverno con la necessità di affrontare gli stessi problemi raccontati nelle vicende di “Altra Europa”: la mancanza di acqua calda e riscaldamento.

Dopo la proiezione proveremo a confrontare la situazione attuale con l’esperienza di ieri, saranno presenti anche la regista Rossella Schillaci, il prof. Roberto Beneduce, docente di Antropologia Culturale e naturalmente gli occupanti dell’ex-Moi.

La proiezione è ad offerta libera per sostenere il Comitato di Solidarietà Rifugiati e Migranti.

Altra Europa (2011, 75’) di Rossella Schillaci, prodotto da Azul Film.

Il documentario segue le vicende di Khaled, Shukry e Alì nell’arco di un anno in cui, insieme ad altri compagni, i tre viaggiano tra mille difficoltà per arrivare in Europa e conquistarsi una vita migliore. La meta che vogliono raggiungere è un’”Altra Europa”, ma si trovano bloccati in Italia perché la legislazione europea li obbliga a risiedere nel primo paese in cui arrivano, dove vengono prese loro le impronte digitali.

La vicenda narrata nel film prende spunto da quanto accaduto nel novembre 2008, quando circa 300 rifugiati somali e sudanesi occupano una vecchia clinica abbandonata in un quartiere operaio di Torino, che rappresenta per loro l’unico rifugio, per quanto precario e pericoloso. La determinazione dei rifugiati nel costruirsi un’alternativa li porterà a studiare la lingua italiana e a frequentare corsi di avviamento al lavoro, animando allo stesso tempo gli squallidi interni della clinica. La vicenda dei tre personaggi rivela da vicino il loro punto di vista sull’Italia e sull’Europa attraverso uno sguardo intimo e partecipe. La storia collettiva mostra, tra sogni e delusioni, il costante desiderio di fuga e la ricerca di un’altra Europa in grado di offrire loro la possibilità di una vita dignitosa.

Il documentario, prodotto da Azul Film, è stato diretto da Rossella Schillaci, autrice e regista per Raisat, che in passato è stata assistente alla regia in produzioni Rai e Mediaset ed ha collaborato con la casa di produzione Laranja Azul di Lisbona. Tra le sue realizzazioni figura Living beyond borders, un documentario televisivo trasmesso dalle reti nazionali indiane nel’ambito del progetto Eu-india documentary.

ARTICOLI SU CINEMA

L’errore del terapeuta in psicoterapia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

L’errore del terapeuta in psicoterapia

 Ruocco F., Montali A., Fiore F.

(Psicoterapia Cognitiva e Ricerca – Bolzano)

 

INTRODUZIONE:

Nel linguaggio clinico l’errore viene spesso attribuito al paziente. Per quanto riguarda, invece, l’approccio CBT, è importante stabilire che l’obiettivo terapeutico si gioca nella relazione terapeutica. Tre grossi elementi sono coinvolti nell’errore terapeutico: emozioni, cognizioni e comportamenti, sia del terapeuta che del paziente. Nel nostro lavoro abbiamo, quindi, estrapolato quattro tipologie di errore: 1. competenza tecnico-terapeutica; 2. conduzione del colloquio; 3. formulazione del contratto terapeutico; 4. competenza interpersonale. Abbiamo inoltre preso in considerazione la presa di consapevolezza dell’errore e la determinazione della causa.

L’obiettivo posto è stato quello di sondare la percezione dell’errore in un ambiente di professionisti, per ricercare eventuali spiegazioni che i terapeuti si danno sul drop-out dei pazienti, confrontandoli con un precedente lavoro su terapeuti formati (S. Errico, 2011). Abbiamo inoltre comparato i dati con una recedente ricerca: ‘Analisi delle Aspettative di Errore in Gruppi di Allievi in Corso di Formazione in Terapia’ (S. Lissandron, 2010). Ciò che ci si chiede è se fosse possibile rintracciare delle categorie formali nelle aspettative di errore da parte dei professionisti.

Il questionario utilizzato è un riadattamento del questionario utilizzato per le precedenti ricerche (S. Lissandron 2010). Abbiamo raccolto 30 questionari compilati in forma anonima. Sono state prese in considerazione le seguenti categorie di errore: il tipo di errori ricorrenti, l’attribuzione causale e la consapevolezza. Si sono, così, confrontati i differenti approcci terapeutici rispetto alla tipologia di errore, all’attribuzione e alla modalità di acquisizione della consapevolezza rispetto all’errore, sui gruppi maggiormente rappresentati: sistemico, cognitivo-comportamentale e costruttivista. La risposta più rappresentata per le ‘categorie di errore’ è relativa alla competenza tecnico-terapeutica, con un 38%. L’attribuzione di errore maggiormente rappresentata è relativa alle abilità professionali, mentre la consapevolezza dell’errore deriva per il 26% dalle reazioni del paziente e segnali di questi al terapeuta e dalla riflessione esplicita del terapeuta stesso.

I dati si sono potuti suddividere in due filoni che corrono paralleli. Ciò che li separa sembra essere l’approccio psicoterapeutico. È, difatti, emerso che per terapeuti di stampo cognitivo-comportamentale e costruttivista il focus dell’errore è decisamente più interno rispetto ai colleghi di stampo sistemico. Questo è suggerito dal tipo di risposte raccolte. Se da un lato per terapeuti cognitivo-comportamentali e costruttivisti l’errore è di competenza tecnica, l’attribuzione è alle proprie abilità professionali e la consapevolezza è dovuta a riflessione esplicita o interna. Per il colleghi sistemici invece l’errore è maggiormente causato dalla conduzione del colloquio, l’attribuzione è data dalle caratteristiche del paziente e la consapevolezza deriva dalla supervisione clinica.

I risultati più evidenti di questa ricerca sono diversi. Possiamo, infatti, alla fine confermare che sia i terapeuti esperti che terapeuti non esperti hanno la percezione dei propri errori. Per diversi indirizzi di specializzazione in psicoterapia si hanno diverse tendenze alla percezione ed all’attribuzione dell’errore. Infatti, sia ad una attribuzione dell’errore, sia all’attribuzione della causa che per la presa di coscienza emerge la tendenza interna per terapeuti cognitivi-comportamentali e costruttivisti ed invece uno stile esterno per terapeuti sistemici.

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

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Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica

Il conflitto: da ragionevole divergenza a escalation violenta – Parte 1

 

Il conflitto pt. 1

da ragionevole divergenza a escalation violenta, cosa si vede all’esterno e cosa accade sotto la superficie.

LEGGI: PARTE 2

Il conflitto parte 1. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Il conflitto: un tentativo di definizione psicosociale.

Il conflitto costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo.

La guerra è padre di tutte le cose, re di tutte le cose, rivela la divinità degli dei e l’umanità degli uomini.”

Così scrisse Eraclito nel suo frammento 53, che rappresenta forse il primo modello di filosofia del conflitto; secondo la sua prospettiva infatti, la conflittualità costituisce una parte essenziale ed integrante della natura umana e rappresenta il punto focale della dialettica tra uomo e mondo. Nell’opposizione si costituiscono l’individualità e la natura degli uomini, i rapporti umani e sociali e i valori che ne regolano l’esistenza. Eraclito utilizza il termine πόλεμος (pólemos) che in lingua greca non indicava solamente il conflitto bellico o il combattimento vero e proprio, ma anche il principio vitale naturalmente opposto all’armonia e alla pace. Nel pensiero di Eraclito, che sarà poi ripreso, riadattato e riconcettualizzato in tempi moderni da altri autori, πόλεμος diviene un principio regolatore universale e una condizione naturale intrinseca sia a livello del microcosmo umano, sia a livello del macrocosmo sociale.

Quale sia la definizione di conflitto e quali siano le sue funzioni, sono state domande al centro del pensiero dei più grandi filosofi e intellettuali dell’età moderna e contemporanea; le risposte mostrano un movimento oscillatorio tra coloro che vedono nella conflittualità un valore positivo e un motore di conoscenza e potenzialità, e coloro che invece leggono il conflitto come elemento negativo e come forza distruttiva che si oppone alla naturale tendenza degli esseri umani ad aggregarsi e a costruire relazioni.

La diatriba riguardante la portata positiva o negativa del conflitto risale all’antichità e si è prolungata fino ai tempi della scienza moderna; i teorici del conflitto sono attualmente concordi nel ritenere che esso è inevitabile all’interno delle relazioni umane, ma rimangono divisi tra coloro che lo interpretano come una risorsa e una possibilità di cambiamento e adattamento, e coloro che invece lo ritengono una forza distruttiva portatrice di caos e distruzione (Winstok e Eisikovits, 2008).

Definire in maniera univoca e uniforme un processo complesso come quello del conflitto non è compito semplice.

Martello (2006a), riconosce nel conflitto, in quanto dinamica essenziale delle relazioni umane, una multidimensionalità che lo rende un processo sfaccettato e complesso. Il conflitto può infatti manifestarsi a livello intrapersonale, ma anche interpersonale o intergruppi, può essere causato da carenze oggettive, ma anche dalla divergenza di opinioni, valori e interessi in merito a una questione, coinvolge direttamente non solo gli aspetti visibili del comportamento umano ma anche le strutture conoscitive, motivazionali e identitarie profonde. Secondo l’autrice dunque, il conflitto è parte integrante della natura e delle relazioni e non rappresenta necessariamente con un effetto distruttivo o negativo sugli agenti. Il conflitto infatti può costituire un’occasione di crescita personale e relazionale nel momento in cui accresce la tendenza al rinnovamento, permette di chiarire le proprie convinzioni e opinioni, aiuta a comprendere meglio la propria posizione all’interno delle relazioni accrescendone il valore e l’autenticità (ibid.; Martello, 2006b). Tuttavia, il conflitto può anche essere un fattore di rischio per il felice mantenimento e rinnovamento delle relazioni, soprattutto quando una o tutte le parti in causa tendono a irrigidire il proprio ruolo, a distorcere la realtà dei fatti a proprio favore e, soprattutto, quando virano le proprie invettive dalla questione oggettiva alle caratteristiche individuali dell’altro agente (Martello, 2006a; Geiger e Fischer, 2006).

Arielli e Scotto (2003) descrivono il conflitto come “un’azione o una situazione prodotto di azioni in cui vi è un contrasto, una incompatibilità, tra le intenzioni, le aspettative o i bisogni degli agenti” (p. 18); gli autori sostengono dunque che il fulcro della conflittualità risiede nella mancata soddisfazione dei propri bisogni o scopi di un agente a causa dell’interferenza di un altro agente. Gray e collaboratori (2007) aggiungono che alla base del conflitto non risiede semplicemente l’incompatibilità delle azioni, ma la percezione di tale incompatibilità; per gli autori il conflitto esiste quando effettivamente gli attori lo percepiscono come tale. Quando un conflitto è percepito, quindi, gli attori ne interpretano il significato e la portata attraverso strutture cognitive preesistenti, tra cui credenze, schemi, stereotipi; ad ogni punto di questo processo di percezione e interpretazione, i conflitti possono essere letti e vissuti come più o meno importanti, più o meno minacciosi, più o meno intrattabili, definendone il destino futuro e il loro cambiamento qualitativo e quantitativo nel tempo.

La caratteristica centrale dei processi conflittuali risulta dunque essere la loro dinamicità e la loro tendenza a modificarsi nel tempo, in riferimento non solo alle nuove questioni apportate all’interno della discussione da parte degli agenti (Arielli e Scotto, 2003), ma anche ai cambiamenti della percezione che gli agenti hanno della discussione stessa (Kennedy e Pronin, 2008) nonché della partecipazione emotiva e dell’intensità degli affetti messi in gioco (Geiger e Fischer, 2006).

Quando il conflitto si colora di una sempre maggiore intensità emotiva, di risorse cognitive e comunicative sempre più forti, di questioni sempre meno riguardanti la causa scatenante e sempre più mirate alle persona singola, si parla di escalation. L’escalation può essere definita come un “aumento parallelo di intensità e di violenza in un conflitto” (Arielli e Scotto, 2003, p. 69) che nasce dalla percezione e interpretazione dell’incompatibilità tra agenti come negativa, intenzionale e ingiustificata (Gray et al., 2007).

Alcuni autori (Gray et al., 2007; Coleman, Vallacher, Nowak e Bui-Wrzosinska, 2007) definiscono i conflitti caratterizzati dall’escalation come conflitti intrattabili; la persistenza, la distruttività e la resistenza sono le caratteristiche centrali che fanno apparire i conflitti intrattabili impossibili da risolvere. I conflitti intrattabili emergono da tematiche e questioni profonde, vissute come non negoziabili, spesso di natura morale o identitaria e sono percepiti dagli agenti come impossibili, vincolanti e invischianti (Gray et al., 2007). Facendo riferimento ad una cornice teorica di matrice sistemica, Coleman et al. (2007) descrivono il conflitto intrattabile come un’unità dinamica e olistica, le cui componenti tendono all’influenza, all’adattamento e al bilanciamento reciproci; il conflitto come sistema si evolve nel tempo, adattandosi ai mutamenti contestuali e strutturali, e ogni cambiamento a livello di un elemento genera una riorganizzazione e una ristabilizzazione globale del sistema stesso. Per questo motivo, i conflitti divenuti irreparabili e intrattabili sono caratterizzati sempre da un processo escalativo, tendono a rimanere stabili nel tempo e mantengono al proprio interno equilibrio omeostatico ed auto-organizzazione. Secondo gli autori, il conflitto diventa intrattabile quando nega e appiattisce la fisiologica complessità e multidimensionalità delle relazioni umane; il collasso della multidimensionalità, per usare la terminologia degli stessi autori, appiattisce la struttura e i processi alla base delle relazioni interpersonali e gruppali, promuovendo l’acutizzazione e l’escalation del conflitto.

L’escalation si caratterizza a livello osservabile per un aumento di intensità emotiva e di aggressività verbale e/o comportamentale; tuttavia, gli aspetti direttamente visibili non sono gli unici a costituirne il nucleo. Winstok e Eisikovits (2008) descrivono l’escalation come il culmine di un conflitto che, se anche poteva essere stato originato da intenzioni costruttive e positive, in questa fase diventa distruttivo e resistente a una sua eventuale conclusione pacifica; secondo gli autori l’escalation si presenta nel momento in cui una dinamica conflittuale devia totalmente dalla questione o situazione da cui ha tratto origine e continua a persistere anche oltre il punto in cui gli obiettivi originari sono diventati secondari o irrilevanti.

Inoltre, sempre gli stessi autori, sostengono che l’escalation conflittuale sia un processo dinamico, complesso e determinato da tre diverse componenti: comportamentale, cognitiva ed emotiva. Solo tenendo conto di questi tre livelli diversi ma strettamente interagenti e interdipendenti tra loro, è possibile studiare le caratteristiche e gli effetti di questo fenomeno (ibid.; Winstok, 2008).

LEGGI: PARTE 2

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VIOLENZA – CREDENZE – BELIEFS

RELAZIONI TOSSICHE: UN RISCHIO PER LA SALUTE COME IL JUNK FOOD

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

Teoria e clinica del perdono di Barcaccia e Mancini – Recensione

 

 Recensione del libro:

Teoria e clinica del perdono

di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini

Raffaello Cortina Editori (2013)

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Teoria e clinica del perdono di Barbara Barcaccia e Francesco Mancini Raffaello Cortina Editori (2013)

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Nonostante il tema del perdono sia stato da sempre dibattuto nei domini appartenenti alla filosofia e alla religione, solo di recente è stato affrontato in una prospettiva psicoterapeutica, evidenziandone le potenzialità curative. La ricerca scientifica internazionale sta indagando sulle potenzialità terapeutiche del perdono da oltre 10 anni ma è solo con l’opera di Mancini e Barcaccia che assistiamo alla prima sistematizzazione sull’argomento nel panorama italiano.

Uno dei motivi che ne ha reso difficile la riflessione scientifica in ambito psicologico è senz’altro l’impronta religiosa che il costrutto del perdono porta con sé. Sebbene le religioni, e in particolar modo il cristianesimo, forniscano spesso delle linee guida rispetto a una pratica morale come il perdono, alcuni studi sottolineano che chi è praticante di fatto non riesce a perdonare le offese subìte più di quanto faccia chi praticante non è.

Con lo svilupparsi della recente prospettiva psicologica positiva assistiamo allo spostamento del focus di ricerca dalle carenze ai punti di forza dell’uomo, tra i quali viene annoverata la propensione al perdono. Si tratta infatti di una abilità utile a migliorare la qualità della vita e a potenziare le capacità personali di resistenza e adattamento, competenza che tradizionalmente veniva concepita solo come eticamente desiderabile.

Studi sperimentali hanno dimostrato che la concessione del perdono determina nella vittima un maggior benessere, sia fisico che psicologico, indipendentemente dalla oggettiva gravità dell’offesa.

La ricerca suggerisce così che chi è incline al perdono abbia una pressione arteriosa più bassa, un sistema immunitario più forte, riferisce minori livelli di stress, solitudine e depressione, una migliore qualità del sonno e un minor utilizzo di farmaci.

Per contro, la ruminazione mentale sugli eventi che ci hanno visto come vittime di un torto perpetua nella persona quelle emozioni e quei pensieri intrusivi negativi legati all’offesa, in primo luogo la rabbia, non facendo altro che amplificarne la sofferenza. Allo stesso modo il desiderio di vendetta sembra prolungare lo stato di sofferenza della vittima, al contrario di quanto si possa credere. Ciò che è particolarmente nocivo è il risentimento cronico associato ad una condizione di passività, vale a dire non accompagnato dai tentativi di sanare la situazione.

Il libro viene così diviso in due parti. La prima parte si occupa dell’analisi cognitiva del costrutto di perdono. Per avere ben chiaro il costrutto di perdono infatti, vengono distinte le differenze con concetti affini ma solo apparentemente sovrapponibili. Si è reso così necessario svincolare la tematica del perdono dalla dimensione esclusivamente religiosa e di analizzarne le componenti, i modulatori, il processo, prima ancora di proporne delle applicazioni cliniche.

Magistrale in questo senso è il capitolo redatto da Castelfranchi e Miceli che con la precisione di un bisturi operano una vera e propria “anatomia cognitiva” del perdono distinguendone il processo da altri affini, quali lo scusare, il giustificare, il dimenticare o il riconciliarsi e spiegano con accuratezza quali siano le condizioni necessarie e non perché si possa parlare di vero e proprio perdono.

La seconda parte del libro affronta invece le applicazioni cliniche del perdono interpersonale e del perdono di sé, fornendo indicazioni per l’utilizzo terapeutico del perdono nel disturbo ossessivo compulsivo, nei disturbi di personalità borderline ed evitante, e nella depressione.

Come spiegano gli autori, il disturbo ossessivo compulsivo sarebbe caratterizzato da un eccessivo senso di colpa nel paziente legato alla morale generale. In questa ottica, le ossessioni altro non sarebbero che contenuti mentali che, agli occhi del paziente, minacciano, ammoniscono, segnalano il rischio di violazione della norma, mentre le compulsioni rappresenterebbero le azioni, tentativi volti a prevenire, contrastare o neutralizzare tale rischio. Il paziente andrebbe quindi accompagnato in un processo di perdono del sé, dibattendo in seduta circa la liceità della fallibilità umana.

Allo stesso modo la rabbia del borderline potrebbe essere modulata attraverso una implementazione delle capacità di decentramento, portando il paziente a valutare ad esempio le attenuanti al comportamento degli altri, imparando al tempo stesso a perdonare i propri agiti sganciandosi dalla spirale dell’odio di se stessi.

Facile dedurre come le condotte di evitamento possano nuocere con il medesimo processo all’individuo stesso che fugge dalle persone che ritiene abbiano commesso un torto nei loro confronti. In questo modo infatti, il paziente arriva a costruirsi una vera e propria gabbia intorno, evitando in tutti i modi di affrontare quello che ritiene il proprio carnefice.

Utile nella depressione sarebbe invece il discorso del perdono nei riguardi dei propri disturbi. Molto spesso infatti assistiamo a quello che in letteratura è chiamato problema secondario. Il paziente in questo caso si rimprovera per i propri disturbi, arrivando inconsapevolmente ad alimentarli. È così che il perdono di sé sembra arrivare a rappresentare l’unica strada terapeutica primariamente percorribile.

È per questo che con la precisa analisi del costrutto del perdono e l’elenco dei principali disturbi che beneficerebbero di un intervento su questo tipo di tematica, il libro di Mancini e Barcaccia viene a costituirsi quindi come un ottimo manuale che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni terapeuta di orientamento cognitivista e non solo.

LEGGI:

ETICA & MORALEDISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’DISTURBO OSSESSIVO -COMPULSIVO -OCD – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA‘ – DEPRESSIONE

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

GUARDA L’INTERVISTA DI STATE OF MIND A FRANCESCO MANCINI

Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Obesità e vita di coppia: le conseguenze relazionali del dimagrimento

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

In alcune coppie la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

In caso di forte sovrappeso, perdere peso è sicuramente un bene per la salute ma può non essere altrettanto benefico dal punto di vista delle ripercussioni che questo dimagrimento ha sulla vita di relazione.

Secondo una recente ricerca, infatti, se l’obiettivo di una vita più sana non è pienamente condiviso da entrambi i partners, l’ impegnarsi in questo senso da parte di uno dei due può rompere un delicato equilibrio di coppia e portare a non pochi problemi.

I ricercatori della North Carolina State University e l’ Università del Texas a Austin hanno esaminato 21 coppie (42 adulti) su tutto il paese. Uno dei due coniugi aveva perso più di 30 chili in meno di due anni, con una perdita media di peso di circa 60 chili. Il dimagrimento era stato raggiunto in diversi modi: dieta, esercizio fisico e procedure mediche. Ciascun membro della coppia rispondeva a dei questionari che indagavano l’impatto della perdita di peso sulla vita di relazione.

I ricercatori hanno scoperto che la perdita di peso, nella maggior parte dei casi, ha influenzato positivamente la comunicazione di coppia. Dai risultati emerge infatti che il membro della coppia che è dimagrito parlava con maggiore frequenza di comportamenti salutari e incoraggiava il/la partner a condurre una vita più sana, e che tutte le coppie in cui entrambi i partners si sono impegnati in comportamenti salutari hanno riferito interazioni più positive e una maggiore intimità fisica ed emotiva.

In alcune coppie, tuttavia, la perdita di peso ha peggiorato la comunicazione e la vita di relazione: il dimagrimento di uno dei due partner e l’incoraggiamento a condurre una vita più sana non è stato accolto dal/dalla compagna come un buon esempio da seguire, ma piuttosto come un rimprovero, con l’effetto di renderlo insicuro e farlo sentire minacciato e perseguitato dal partner, generando inevitabilmente tensione nel rapporto di coppia.

Questi partners “poco collaborativi” risultavano essere fortemente resistenti al cambiamento degli equilibri di coppia, che contrastavano con commenti critici, comportamenti di sabotaggio (proporre cibo malsano) e azioni passivo aggressive (come l’astinenza sessuale). I risultati di questo studio ci fanno riflettere sulla complessità delle dinamiche di coppia e su come non dobbiamo mai dare niente per scontato o casuale nella vita di coppia, ma chiederci sempre su quali comportamenti si regge il patto implicito sul quale ogni coppia, nessuna esclusa, costruisce la sua unione e il suo equilibrio.

Anche i comportamenti apparentemente più negativi, infatti, possono essere la base su cui si costruisce l’intesa di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIALIMENTAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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