expand_lessAPRI WIDGET

Schema corporeo o Immagine corporea? Tra psicologia e neuropsicologia

 Paola Alessandra Consoli

“Ogniqualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti.

Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede,

uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente»

(William James, The Principles of Psychology, 1890)

 

Schema corporeo o immagine corporea?. - Immagine: © longquattro - Fotolia.comPsicologia e neuropsicologia hanno tentato di spiegare le possibili correlazioni fra la percezione reale del corpo e l’immagine mentale che abbiamo di esso.

Quando parliamo di rappresentazione del corpo, ci riferiamo a due costrutti: l’immagine corporea, argomento di discussione psicologica e lo schema corporeo, che interessa maggiormente la neuropsicologia.

Fino a pochi anni fa, esisteva un’enorme confusione concettuale fra questi due costrutti. Uno stesso autore poteva parlare di rappresentazione corporea utilizzando termini intercambiabili. L’Autore a cui mi riferisco è Schilder, la cui opera “Immagine di sé e schema corporeo” (1935) è la prima e più completa opera in merito a questo argomento. Schilder ha avviato questo dibattito, ha chiarito qualche interrogativo, ma, al tempo steso, ha aperto una ricerca decennale, non ancora del tutto soddisfatta, in merito alla rappresentazione corporea.

Come si è giunti al concetto di “schema corporeo”? Perché il termine “immagine corporea” si riferisce alla sola patologia psichica o psichiatrica? Quali sono i punti di sovrapposizione?

Il concetto di schema corporeo nasce agli inizi del XX secolo, ma una primissima elaborazione teorica sulla rappresentazione mentale del nostro corpo si può far risalire alla seconda metà del XIX secolo nella ricerca fisiologica e neurologica dell’epoca.

Il primo ad utilizzare il termine “schema corporeo” fu Bonnier, nel 1905, distinguendo il senso dello spazio e l’orientamento soggettivo rispetto al mondo esterno. Il criterio topologico di Bonnier ci consente di occupare un luogo nello spazio (solo nostro), all’interno del quale sappiamo orientarci e localizziamo le diverse parti del corpo. Egli definisce “aschematia” l’alterazione di tale rappresentazione topografica e spaziale e individua nell’attività vestibolare il contributo principale ad essa.

Schilder, nella sua opera più famosa, definisce l’immagine del corpo umano come “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi” oppure “lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea”.

Schilder è uno psicologo, si occupa poco della localizzazione dello schema corporeo, anzi accetta le ipotesi dei suoi predecessori, quali Pick o Anton e Babinski e per questo viene attaccato dalla neuropsicologia, seppure preso molto in considerazione per le sue teorie “ponte” fra la psicologia tradizionale e la moderna neuropsicologia. Nello stesso Autore convivono tre pensieri: quello dello sviluppo libidico, da cui dipenderebbe uno schema corporeo che si struttura e destruttura all’infinito, quello sociologico, secondo cui la rappresentazione corporea non è altro che la somma delle immagini corporee della comunità, da cui dipenderebbe il nostro modo di rapportarci con il nostro corpo e con gli altri e quello neuropsicologico, un maldestro ma interessante tentativo di spiegare i disturbi dello schema corporeo, che interessano soprattutto il lato sinistro del corpo, per una dominanza o preferenza del lato destro che, essendo più forte, sarebbe meno esposto a questi disturbi.

Schilder fu un autore molto apprezzato, ma l’errore che il mondo scientifico non gli ha perdonato è quello di aver utilizzato i termini “schema corporeo e immagine corporea” come se si trattasse dello stesso costrutto, mentre oggi sappiamo che lo schema corporeo è inconsapevole, mentre l’immagine corporea è presente alla coscienza.

Merleau-Ponty (1945), invece, oppone un “corpo-oggetto” ad un “corpo-me” assimilato al pensiero cosciente: conosciamo il nostro corpo attraverso le rappresentazioni mentali che ci facciamo di esso. Il soggetto è fatto di corpo e lo schema corporeo è un modo di esprimere che “il mio corpo è al mondo”, che funziona nel mondo come il cuore nell’organismo, e l’uomo è coscientemente in possesso dei suoi organi di cui conosce ogni posizione e orientamento. Lo stare al mondo ha una dimensione temporale: il presente è ciò che il soggetto vede (e vive) nel momento attuale, il passato è ciò che torna per confrontarsi con il presente e il futuro è la percezione di ciò che sarà.

Per questo motivo, la spiegazione dell’Autore riguardo l’arto fantasma sarebbe quella di “un vecchio presente che non si decide a diventare passato” una definizione interessante per chi desiderava una spiegazione esclusivamente psicoanalitica ai disturbi della rappresentazione corporea, ma che certamente non poteva soddisfare i neuropsicologi.

La svolta in campo neuropsicologico si ha con Critchley (1953) e la sua opera The Parietal Lobes, la prima descrizione dettagliata dei disturbi dello schema corporeo quali l’anosognosia, la negligenza spaziale unilaterale, il terzo arto fantasma.

La ricerca moderna nasce solo nel secondo dopoguerra, grazie all’utilizzo dei metodi di indagine anatomofunzionale. Le ricerche localizzarono lo schema corporeo nel lobo parietale destro e attribuirono a questa localizzazione la maggior parte dei disturbi della rappresentazione corporea.

La differenza consiste nel verificarsi, nelle lesioni emisferiche destre, di disturbi sensitivo-sensoriali e visuo-spaziali che producono una difettosa integrazione dei distretti corporei e degli stimoli provenienti dall’emisoma sinistro; invece, nelle lesioni emisferiche sinistre, i disturbi dell’orientamento corporeo sono aggravati spesso da sindromi agnosiche, per l’interessamento lesionale dei centri del linguaggio.

Lo schema corporeo può essere localizzato nella corteccia parietale destra, che comprende le aree 5, 7, 39 e 40 di Broadman. Le circonvoluzioni pre e postrolandica sono caratterizzate da somatotopia, cioè a definite zone del corpo corrispondono aree specifiche della corteccia cerebrale, così come rappresentato nell’Homunculus di Penfield.

I concetti di schema corporeo e di immagine corporea condividono la possibilità di rappresentare la totalità e la complessità del corpo umano. Mentre il primo è un articolato schema percettivo legato al processo di localizzazione spaziale compiuto dal sistema nervoso, la seconda include le componenti soggettivo-cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee. Essendo oggettivo il primo e soggettivo il secondo costrutto, divennero, rispettivamente, interesse della neuropsicologia e della psicologia.

L’immagine corporea riguarda la situazione emotiva, i ricordi, le motivazioni e i propositi d’azione dell’individuo; non è statica, ma si modifica continuamente per merito delle esperienze personali. Approfondire questo concetto richiederebbe di abbandonare lo studio della struttura cerebrale dedicata allo schema corporeo e analizzare l’energia libidica, la relazione oggettuale madre-bambino o gli eventi emozionali che tanta importanza assumono nell’esistenza di un individuo.

 Sebbene la rappresentazione del corpo sia di interesse psicologico quanto neuropsicologico, non si potranno mai discriminare i disturbi che colpiscono esclusivamente l’immagine corporea, da quelli che colpiscono lo schema corporeo. Possiamo ipotizzare un continuum dove collocare, ai due estremi, diagnosi solo psicologiche o solo neuropsicologiche e immaginare, lungo di esso, diversi casi intermedi.

Un disturbo che si colloca in posizione centrale tra quelli specifici dello schema corporeo e quelli dell’immagine corporea è il “disturbo da dismorfismo corporeo” (BDD), caratterizzato dalla preoccupazione per un difetto del proprio aspetto corporeo, della forma o di alcune caratteristiche. Pur essendo considerato un disturbo psicopatologico, perché condivide la sua neurochimica con il disturbo ossessivo-compulsivo e l’ansia sociale, ha notevoli correlazioni con i disturbi dello schema corporeo: i circuiti neuronali coinvolti con il BDD sono la corteccia occipito-temporale (per l’immagine generale del corpo) e le regioni fronto-striatale e temporale-parietale per i giudizi sulla forma e bellezza del viso.

Un altro esempio, descritto da Oliverio Ferraris (2011) tratta il caso di un bambino di 3 anni, non mancino, che improvvisamente manifesta una difficoltà nel movimento del braccio destro, che gli impedisce l’uso corretto delle posate e degli oggetti di uso comune e la produzione di un disegno disordinato e spezzettato. La remissione spontanea del disturbo avviene durante una vacanza lontano da casa, all’età di 14 anni e fa ipotizzare ai medici che lo hanno in cura che il disturbo dello schema corporeo, resistente a qualsiasi trattamento, compreso quello dello psicomotricista, si sia risolto perché il ragazzo, durante la pubertà ha chiarito i suoi contrasti inconsci con quel braccio “nemico” che da bambino aveva usato per picchiare la sorella e che la lontananza dalla famiglia l’abbia, in qualche modo, guarito e reso più indipendente dalla sua immagine corporea infantile per fargli assumere quella di un giovane proiettato nel futuro e capace di “perdonare” il suo corpo. Questo è un esempio evidente di come schema e immagine corporea siano, sebbene distinti, anche molto continui.

Possiamo adesso chiederci se la rappresentazione corporea sia innata o acquisita. Alcuni autori ipotizzavano un percorso dettato dal patrimonio genetico, secondo cui le tappe dell’acquisizione della rappresentazione corporea sono predeterminate alla nascita e lo schema corporeo è il risultato dell’interazione della genetica con l’ambiente e l’oggetto, mentre altri autori invece ipotizzavano un esclusivo intervento dell’ambiente. Al primo gruppo appartiene Piaget (1928) con le ben note fasi dello sviluppo infantile, che egli adattò per spiegare la rappresentazione corporea. Al secondo gruppo, appartengono gli psicoanalitici classici, a partire da Freud (1922), che sostiene che l’Io deriva da sensazioni corporee e il rapporto dell’individuo con il proprio corpo, che si realizza tenacemente in ogni momento, riassume in sé la propria storia, riattiva angosce e conflitti del passato che si materializzano in contesti nuovi. Winnicott (1970) con i termini holding e handling materna affermò l’importanza relazionale madre-bambino nella costruzione della membrana-frontiera che separa l’Io dal non-Io. Secondo Winnicott l’assenza o la perdita di questa membrana provocherebbe l’abolizione delle frontiere del corpo e la frantumazione dell’Io, quindi della rappresentazione corporea.

Infine Le Boulch (1975) descrisse 4 fasi di sviluppo dello schema corporeo: corpo subito, corpo vissuto, corpo percepito, corpo rappresentato.

Una minuziosa comprensione della rappresentazione del nostro corpo non è del tutto raggiunta, ma vi è ancora un lungo tratto da percorrere. Per lungo tempo, la confusione terminologica tra schema corporeo e immagine corporea non ha aiutato gli specialisti in materia di anosognosia per l’emiplegia, arto fantasma, disturbi dell’alimentazione o altre sindromi che colpiscono l’integrità della rappresentazione del corpo.

Non possiamo escludere che vi siano aree del cervello non ancora del tutto esplorate che promettono nuove e più ricche potenzialità e solo quando conosceremo il contributo di ogni più piccola area cerebrale potremo dire di possedere una completa consapevolezza corporea.

 

 

LEGGI ANCHE:

NEUROPSICOLOGIA – NEUROSCIENZE

RIABILITARE IL DOLORE DA ARTO FANTASMA CON LA tDCS

BIBLIOGRAFIA:

 

La percezione della Bellezza altrui e il Principio di Contrasto.

Barbara Cicconi, Katiuscia Morelli

 

 

 

Il Principio di contrasto nella percezione della bellezza altrui. -Immagine: © julien tromeur - Fotolia.comIl principio del contrasto: quando i mass-media trasformano il principe in rospo.

Le attrattive fisiche dei nostri partner, reali o potenziali, spesso ci soddisfano meno per via del bombardamento di modelli di bellezza imposti dai media.

Il principio del contrasto (Cialdini R. B., 1995) è un principio che opera nell’ambito della percezione umana. Esso origina nello studio sulla differenze percettive che noi esseri umani avvertiamo fra due stimoli presentati in successione. In breve il principio afferma che, in presenza di due stimoli che si succedono, se il secondo differisce abbastanza dal primo, noi tendiamo a vederlo diverso dal primo in misura maggiore di quanto lo sia realmente. Ad es. se solleviamo prima un oggetto leggero e poi uno pesante, quest’ultimo ci sembrerà più pesante di quanto ci sembrerebbe se l’avessimo sollevato per primo.

Il principio del contrasto è saldamente validato nel campo della psicofisica (Benson P.L., Karabenic S. A., Lerner R. M., 1976) e opera per tutti i tipi di percezione, non solo per il peso: infatti, se ad una festa stiamo intrattenendoci con una bella donna e poi ne sopraggiunge un’altra che presenta caratteristiche fisiche tanto discrepanti dalla prima e quindi dai nostri canoni di bellezza,  quest’ultima ci sembrerà con buona probabilità meno attraente di quello che è in realtà. Oppure, che accade quando un commerciante ci presenta un prodotto di buona qualità con un prezzo più basso rispetto al primo che abbiamo valutato?

Recenti ricerche in questo ambito, sono state condotte presso l’ università dell’Arizona (Cialdini R. B., Baer N. e Lueth N., 2012). In particolare, in uno di questi esperimenti, studenti e studentesse universitari dovevano valutare e quindi assegnare un punteggio, osservando una fotografia, all’aspetto fisico di un soggetto di sesso opposto: i giudizi risultavano più sfavorevoli se prima i partecipanti all’esperimento avevano sfogliato le pagine pubblicitarie di un rotocalco.

Riprendendo i risultati di questa ricerca, il nostro esperimento (Cicconi B., Morelli K., 2013) si è proposto di indagare l’eventuale peso del “principio del contrasto” nella percezione della bellezza altrui in adolescenza, fase dello sviluppo ritenuta più vulnerabile rispetto all’ attribuzione di giudizio estetico verso se stessi e verso gli altri. Hanno preso parte all’esperimento 314 soggetti bilanciati per sesso, di età compresa tra 14 e 20 anni  (di cui 248 soggetti sperimentali e 66 di controllo).

Ai partecipanti è stata mostrata una foto di una persona le cui caratteristiche estetiche rispondevano a canoni di bellezza della popolazione media, di genere opposto a quello del soggetto. Le foto (una per il gruppo dei maschi, una per quello delle femmine) sono state selezionate da una giuria composta da cinque insegnanti di discipline artistiche e due psicologi che ne hanno scelte due, raffiguranti volti di un ragazzo e di una ragazza presi dalla vita comune, che rispondevano a canoni di valutazione media (giudizio medio di 6/10).

Dunque veniva chiesto ai partecipanti al gruppo sperimentale di attribuire un giudizio soggettivo sulla bellezza dell’individuo presentato in foto su una scala da 0 a 10 (prima valutazione). A questo punto, venivano mostrate 10 foto di volti di modelli/e  tratte dai rotocalchi di moda. Infine veniva richiesto un nuovo giudizio sullo stesso soggetto mostrato inizialmente (seconda valutazione).

Il gruppo di controllo, invece, ha effettuato le due valutazioni della stessa foto-target di “bellezza media” mostrata al gruppo sperimentale, intervallate da alcuni minuti in cui ai partecipanti venivano poste domande generiche.

In accordo con i dati precedenti, l’ipotesi era che per il “principio del contrasto” la seconda valutazione dello stesso soggetto target fosse significativamente inferiore alla prima.

Le analisi statistiche hanno confermato l’intervento del principio del contrasto. Infatti circa il 59% dei soggetti ha espresso un secondo giudizio differente dal primo: la maggioranza dei soggetti (n.126) ha attribuito un punteggio più basso nella seconda valutazione, 98 ragazzi non hanno variato il proprio punteggio, mentre la minoranza (n.19) ha dato un valore maggiore durante la seconda somministrazione.

Non sono emersi risultati significativi rispetto alla relazione tra sesso e variazione nel giudizio, non evidenziando differenze degne di nota.

Invece è stato possibile notare una relazione tra età e variazione di giudizio: il gruppo di ragazzi di 16 anni ha mostrato dei cambiamenti più importanti nelle due valutazioni (seguiti dal gruppo dei 17 anni), mentre il gruppo che ha attribuito punteggi meno discrepanti nelle due valutazioni è quello dei 20 anni. Un dato che confermerebbe come vi sia una percezione particolarmente sensibile e vulnerabile nell’età adolescenziale più giovane, in accordo con la letteratura esistente (Guidano V., 1988; Marcelli D., Bracconier A., 1985; Cheetham A, Allen NB, Whittle S, et al. 2012).

Infine, il confronto tra il gruppo di controllo e quello sperimentale permetterebbe di asserire che la differenza nelle due valutazioni non sia dovuta al caso quanto piuttosto alla presentazione di immagini distrattorie tra la prima e la seconda esposizione della figura target.

Queste conclusioni ci portano a riflettere su come le attrattive fisiche dei nostri partner, reali o potenziali, spesso ci soddisfino meno per via del bombardamento di modelli di bellezza imposti dai media e che gli adolescenti più giovani (più influenzati rispetto ai ventenni) siano, più o meno consapevolmente, fedeli “fruitori” di tali messaggi.

Si ringrazia per la collaborazione nella realizzazione dell’esperimento la classe 5 C anno scolastico 2012-2013 dell’Istituto Alberghiero “Einaudi” di Porto Sant’Elpidio (FM) e in particolare: Luna Cococcioni, Benito Centanni, Marta Costantini, Andrea Palazzo, Angela Pastanella e Fabio Alesiani.

LEGGI:

ADOLESCENTI – PSICOLOGIA SOCIALE

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Neuroestetica: La Bellezza Sta Negli Occhi di Chi Guarda

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ADHD: la luce solare come fattore protettivo?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studiosi hanno raccolto e analizzato molteplici data-set provenienti da Stati Uniti e altri nove paesi e hanno scoperto una correlazione tra l’intensità solare e la prevalenza dell’ADHD: regioni e paesi con una più elevata intensità di sole avrebbero una minore prevalenza di ADHD, come se la luce solare potesse svolgere il ruolo di fattore protettivo per l’insorgenza della patologia.

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività è tra i distrubi più comuni nei bambini ed è caratterizzato da una difficoltà a focalizzare l’attenzione, dall’iperattività e condotte impulsive. Molti pazienti riportano anche difficoltà nel sonno, al punto che in alcuni contesti vengono attuati interventi cronobiologici –inclusa light therapy- mirati a ristabilire i normali ritmi circadiani.

La prevalenza mondiale dell’ADHD si aggira in un range di 5-7% ma un nuovo studio appena pubblicato su Biological Psychiatry pone in evidenza differenze regionali specifiche.

 

Gli studiosi hanno raccolto e analizzato molteplici data-set provenienti da Stati Uniti e da altri nove paesi e hanno scoperto una correlazione tra l’intensità solare e la prevalenza dell’ADHD: regioni e paesi con una più elevata intensità di sole avrebbero una minore prevalenza di ADHD, come se la luce solare potesse svolgere il ruolo di fattore protettivo per l’insorgenza della patologia.

Indagando lo stesso tema in relazione ad altri disturbi, come la depressione maggiore o l’autismo, in realtà non sono state riscontrate correlazioni significative: questo a d indicare la specificità della correlazione tra intensità della luce solare e ADHD. Gli autori si domandano quindi :”I climi più miti e soleggiati riducono la gravità o la prevalenza dell’ADHD? E se si, come? Secondo quale meccanismo?

Ulteriori studi sono necessari in tale direzione, primi tra tutti studi che possano replicare tali risultati. E chiaramente attenzione, si parla di correlazione e non di relazione causale tra la variabile metereologica e quella psicopatologica.

LEGGI:

BAMBINI DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E DELL’IPERATTIVITA’ – ADHD

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: intervista con Francesco Mancini

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI 

State of Mind intervista:

Francesco Mancini

Direttore delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC

Giovanni Maria Ruggiero intervista per State of Mind Francesco Mancini, direttore delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC. L’intervista ha avuto luogo ad Assisi, durante il V Forum sulla Formazione in Psicoterapia. Questa è la prima di un ciclo di interviste che State of Mind farà ai grandi clinici italiani, per realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia. 

 

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

Dismorfismo Muscolare – Insoddisfazione per l’immagine corporea – Assisi 2013

Assisi 2013

Insoddisfazione per l’immagine corporea e fitness in un campione di soggetti di sesso maschile

A.Mercantelli, A. Cicciarelli, C. Ziella, C. Fabbri, E. Moretti, L. Pagnanelli, S. Taddei, C. La Mela

 

INTRODUZIONE:

Il Dismorfismo Muscolare (Choi et al. 2002) è una condizione di sofferenza psicologica caratterizzata da una insoddisfazione patologica circa la propria muscolosità, anche in presenza di ipertrofia muscolare (Pope et al. 1997, 2005). Tale preoccupazione patologica si realizza in un costante tentativo di aumentare la massa muscolare attraverso l’esercizio fisico (sollevamento pesi), adozione di comportamenti alimentari disfunzionali (diete ricche di proteine ​​e strategie contro l’incremento del grasso corporeo), uso di integratori alimentari o steroidi anabolizzanti (Hildebrandt et al. 2006).

Scopi del presente studio sono stati quelli di:

–  valutare la presenza della condizione di rischio per disturbi alimentari in soggetti maschi che svolgono attività di potenziamento muscolare in palestra;

–  valutare se coloro che presentano maggiore muscolosità, abbiano anche una maggiore insoddisfazione per l’immagine corporea;

–  valutare se nel campione oggetto d’indagine si riscontrano comportamenti e caratteristiche che la letteratura riporta come tipici dei soggetti affetti da Dimorfismo muscolare.

Dai risultati del nostro studio si evince quindi che la maggior presenza di muscolosità sia legata ad una maggiore insoddisfazione per l’immagine corporea, al desiderio di divenire più muscoloso, al bisogno di controllare la dimensione dei propri muscoli, alla adozione di una alimentazione specifica più integratori, ad uno stato d’animo ansioso nel caso di mancato allenamento, ad una compromissione socio-lavorativa (aspetti di Dismorfismo Muscolare), mentre non si evidenziano positività per i Disturbi Alimentari (EDRC<70°Percentile).

 

VAI ALLA PAGINA DI ASSISI 2013 (V Forum sulla Formazione in Psicoterapia)

ARTICOLO CONSIGLIATO: La Dismorfia Muscolare o Vigoressia : lo Specchio deforme di Adone

 

LEGGI:

DISMORFOFOBIA – DISTURBO DEL DISMORFISMO CORPOREO – ATTIVITA’ FISICA

TUTTE LE PRESENTAZIONI 

 

BIBLIOGRAFIA:

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – Conclusioni – PARTE 5

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

– PARTE 5-

Conclusioni

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

Genesi-e-risoluzione-attaccamento-Conclusioni-Parte5. - Immagine: ©-Maksim-Bukovski-Fotolia.comWinnicott nel 1956 definì la “preoccupazione materna primaria“, quale capacità di sentire empaticamente ciò di cui il bambino ha bisogno e di attaccamento come un istinto biologicamente stabile che si attiva e si evolve.

Da allora le evoluzioni e le applicazioni della teoria dell’attaccamento sono state tante e vanno dagli studi sulla continuità dei modelli di attaccamento dall’infanzia all’età adulta, alla relazione tra attaccamento e psicopatologia, dalle ricerche su attaccamento e relazioni di coppia, fino agli studi sulle basi neuroscientifiche dell’attaccamento, per citarne alcune. Molte di esse hanno individuato una forte relazione causale tra stile di attaccamento e comportamento adottato nei rapporti interpersonali.
Il presente articolo si ascrive all’interno di quest’ambito di ricerca ponendo particolare attenzione alla relazione tra stile relazionale ed emotività considerata nel duplice aspetto: capacità di esprimere consapevolmente le proprie emozioni piacevoli, e capacità di gestire le emozioni che producono stati di disagio e insofferenza.

Dall’analisi dei dati, che ha permesso di verificare l’ipotesi di partenza, si evince che le persone con un legame di attaccamento sicuro sono più capaci di regolare la propria esperienza emotiva rispetto ai soggetti con un pattern di attaccamento di tipo evitante ed ambivalente, i quali appaiono più carenti nell’autoefficacia percepita nella gestione e nell’espressione di detta esperienza.

Possiamo dunque concludere che, se la capacità di gestire le emozioni non è innata, può essere ampiamente recuperata, in molti casi, grazie a relazioni significative, divenute centrali nel processo di crescita e di strutturazione della personalità.

Giunti a questo punto, conveniamo che in senso operativo e preventivo – a partire dalla scuola – possiamo fare tanto come adulti attenti al mondo emotivo dei giovani?

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

LEGGI ANCHE:

ATTACCAMENTO RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE 4

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

-PARTE 4-

Attaccamento e gestione delle esperienze emotive
Una ricerca

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

 

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno infantile PARTE-4. -Immagine: © Svetlana Fedoseeva - Fotolia.comI soggetti con un legame di attaccamento sicuro sono più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente?

Ipotesi di ricerca

Il presente studio intende verificare se i soggetti con un legame di attaccamento sicuro siano più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente, ovvero in che misura  lo stile relazionale di un individuo incida nella gestione delle esperienze emotive.

Campione

Complessivamente il campione è composto da 100 studenti di cui 54 femmine e 46 maschi, iscritti a diverse facoltà universitarie. I questionari sono stati somministrati collettivamente nelle aule delle varie facoltà durante le pause di lezione.

Strumenti  utilizzati

Lo studio è stato condotto  impiegando i seguenti strumenti:

L’Adult Attachment Styles (AAS), (Hazan e Shaver, 1987).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative  (AP_ EN), (Caprara, 2000).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive  (AP_ EP), (Caprara, 2000).

L’Adult Attachment Styles è uno strumento self-report di tipo categoriale messo a punto da Hazan e Shaver (1987) al fine di valutare le differenze individuali nello stile di attaccamento negli adulti. L’assunto di questi autori è che il legame che si sviluppa tra persone adulte nell’ambito delle relazioni di coppia sia mediato dallo stesso sistema motivazionale che regola il legame emozionale che si instaura tra il bambino e i suoi caregivers.

Essi hanno pertanto trasferito allo studio delle relazioni adulte di coppia la classificazione degli stili di attaccamento proposta da Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (1978) nei loro studi sull’età infantile condotti con la procedura della Strange Situation (Agostoni, 2007).

Il questionario è composto da tre brevi autodescrizioni, ciascuna delle quali corrisponde ad uno specifico stile di attaccamento (ansioso/ambivalente, evitante e sicuro). Il soggetto è invitato a concentrare la propria attenzione sulle relazioni amorose più importanti che ha avuto nel corso della sua vita, e in particolare sulle emozioni sperimentate all’interno del rapporto, sulla fiducia/sfiducia riposta nell’altro, sulla vicinanza emotiva e sulla fine della relazione.

Il soggetto è quindi chiamato a scegliere, tra le autodescrizioni proposte, quella che egli ritiene più rappresentativa dei suoi sentimenti all’interno di tali relazioni. Si tratta, in pratica, di una procedura di somministrazione “a scelta forzata”, nella quale i diversi stili di attaccamento sono trattati come categorie discrete e mutualmente escludentesi (Agostoni, 2007).

La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative (AP_ EN), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di regolare adeguatamente situazioni di ansia, disagio, insofferenza e irritazione (ad es. “Superare la frustrazione se gli altri non ti apprezzano come vorresti”). Ciascun item (otto in tutto) si presenta come brevi proposizioni le quali testimoniano singole abilità nel riconoscimento e nella regolazione delle emozioni.

I ragazzi e le ragazze coinvolti nella ricerca sono chiamati ad indicare se e in quale misura si ritengono capaci in quella abilità. Le possibilità di risposta variano da 1 a 5, dove 1 equivale a per nulla capace e 5 a del tutto capace.

La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive (AP_ EP), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di  esprimere le emozioni positive. Composta da sette items, il soggetto deve valutare il grado in cui ritiene di essere capace di manifestare la propria felicità o soddisfazione per obiettivi personali o per successi raggiunti da persone care. La scala, prevede cinque posizioni che vanno dal – per nulla capace – al – del tutto capace- tra cui a titolo d’esempio la proposizione: “Esprimere la tua felicità quando ti succede qualcosa di bello”.

Analisi dei dati

L’analisi percentuale delle risposte all’ Adult Attachment Styles, riporta che il 51% del campione tende verso una modalità relazionale di tipo sicuro, il 23% di tipo insicuro ed il restante 26% di tipo ambivalente.

Nella tabella 1.1 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 1.1 GENESI ATTACCAMENTO

Nella tabella 1.2 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 2.2 GENESI E ATTACCAMENO

Dall’analisi della Varianza sono emerse differenze significative nella gestione delle emozioni negative e nell’espressione di quelle positive ascrivibili allo stile relazionale.

Relativamente alla gestione delle emozioni negative, i soggetti con uno stile relazionale di tipo sicuro risultano più capaci di superare la frustrazione se gli altri non li apprezzano,  riescono ad evitare di scoraggiarsi di fronte alle avversità e sanno mantenersi calmi in situazioni di stress.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano poco capaci di superare la rabbia se sono stati rifiutati, non riescono ad evitare di arrabbiarsi quando percepiscono che gli altri si comportano male con loro e provano un senso di scoraggiamento di fronte alle avversità ed in seguito a pesanti critiche.

Per quanto concerne l’autoefficacia percepita nell’espressione delle emozioni positive, si può sostenere che i soggetti con attaccamento sicuro sono più capaci di esprimere la propria felicità, di gioire dei propri successi, e di rallegrarsi del successo di una persona amica rispetto a chi ha uno stile relazionale di tipo insicuro o ambivalente.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano i meno capaci di divertirsi in compagnia di amici, di entusiasmarsi quando ascoltano musica che gli piace.

I risultati dei test illustrano come la capacità di regolare le emozioni sia positive che negative dei soggetti con stile relazionale di tipo insicuro-evitante si colloca a metà tra quella di chi ha un pattern di attaccamento sicuro e quella di chi ha uno stile relazionale ambivalente. Per entrambe le scale non sono emerse differenze significative ascrivibili al genere.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

LEGGI ANCHE:

ATTACCAMENTO  – BAMBINI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Ansia e panico durante le immersioni subacquee: conseguenze e prevenzione

Immersioni subacquee: uno studio del 1995 Anxiety and panic in recreational scuba divers ha dimostrato che oltre la metà dei sub ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico.

Sara Di Michele

 

Immersione subacquea: aspetti psicologici ed evoluzione nel tempo

Il subacqueo fino agli anni 70 era, nella maggior parte dei casi, una persona con spiccate caratteristiche di individualismo, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello sportivo. La struttura di personalità era più simile a quella dell’alpinista, dello scalatore o del paracadutista nel senso di atleti che cercano di migliorare le proprie capacità, di riuscire a superare i propri limiti e che cercano la solitudine, quasi la condizione ascetica.

Le rivoluzionarie innovazioni tecnologiche hanno profondamente modificato l’immersione subacquea consentendo praticamente a tutte le persone – compresi i portatori di handicap – di poter effettuare delle piacevoli immersioni ricreative.

L’immersione subacquea (diving) può essere vista come una risposta alle esigenze dell’inconscio tanto individuale che collettivo di recuperare quel rapporto primordiale presente sia nel ritorno alla condizione intrauterina, dove la vita si svolge nell’acqua, sia nelle profondità del mare dove vivono i pesci, nostri lontanissimi antenati. Il momento più significativo dell’attività subacquea corrisponde, però, al momento in cui viene attraversata quella linea che segna il confine tra l’aria atmosferica e l’acqua, che vuol dire di fatto varcare una linea reale, unica, diversa da qualsiasi altro confine di tipo metaforico tra dimensione reale e virtuale o tra somatico e psichico. Confine che segna la separazione tra due mondi: quello terrestre e quello sottomarino.

Uno degli aspetti più affascinanti dell’ immersione subacquea è l’isolamento: il subacqueo (diver) è tagliato completamente fuori dal mondo esterno, la comunicazione subacquea è molto limitata e parallelamente si incrementa la consapevolezza del subacqueo che il proprio benessere fisico è completamente nelle sue mani.

Negli anni anche la personalità di chi si approccia a al diving è cambiata: se prima erano personalità tese all’isolamento, oggi ci si approccia a tale attività per cercare un’attività ludica nella quale ricrearsi, incontrare nuova gente e sentirsi parte di un gruppo (Capodieci, 2006). Negli ultimi anni la maggiore richiesta di corsi e di immersioni subacquee ha provocato un’immediata risposta di interesse economico, rilasciando brevetti con estrema facilità.

Bisogna però ricordare che il diving è un’attività sportiva che ci mette a confronto con un ambiente a noi non naturale, al quale il corpo deve comunque adattarsi, ad un’attrezzatura che bisogna saper armeggiare, al mare, che è un elemento imprevedibile con il quale bisogna approcciarsi nella maniera più prudente e rispettosa possibile, affinché non si tramuti in una brutta esperienza. A questo proposito sarebbe meglio adottare misure preventive per evitare spiacevoli incidenti nelle immersioni.

 

Ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Uno studio del 1995, Anxiety and panic in recreational scuba divers ha rilevato come oltre la metà dei sub che praticano immersioni sportive ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico. Statistiche del DAN e dell’Università del Rhode Island sostengono che il panico è stato responsabile del 20-30% degli incidenti mortali in immersione ed è tra le prime cause di morte nelle attività subacquee. In una situazione di panico, il subacqueo (o diver) riesce a concepire un solo obiettivo nella propria mente: raggiungere la superficie il più rapidamente possibile; in questo modo dimentica di respirare normalmente, con il risultato di una possibile embolia gassosa arteriosa. 

 

Caratteristiche dell’ ansia nelle immersioni subacquee

Secondo Zeidner le principali caratteristiche dell’ansia durante un immersione sono:

A. L’individuo percepisce la propria situazione come minacciosa, difficile o impegnativa.
B. L’individuo considera la sua capacità di far fronte a questa situazione come insufficiente.
C. L’individuo si concentra sulle conseguenze negative che conseguiranno al suo fallimento (di risolvere i problemi), piuttosto che concentrarsi sul trovare delle possibili soluzioni alle sue difficoltà.

I sintomi fisici dell’ansia possono variare dalla sudorazione delle mani e la tachicardia delle forme medie fino all’agitazione psicomotoria, alla paralisi emotiva o allo scatenarsi di un attacco di panico o di una reazione fobica.

 

Il senso evolutivo dell’ansia e gli incidenti subacquei

L’ansia ha una funzionalità ben precisa : è un allarme ad una minaccia, un allontanamento da una situazione non confortevole, ha un valore di sopravvivenza e la fuga ne è la risposta comportamentale più tipica. Alcuni studi hanno evidenziato che un livello medio di ansia garantisce una prestazione ottimale in certe situazioni perché provoca a volte un aumento della motivazione a concentrarsi sulle proprie finalità. Un eccessivo stato d’ansietà invece può condurre a quella dimensione cognitiva e percettiva ridotta, nella quale la concentrazione e l’attenzione del subacqueo si colloca verso altri timori facendogli perdere il controllo della situazione.

Come ritiene Cattel (si veda pubblicazione di Lingiardi, 2010) “la personalità è ciò che permette di predire quello che una persona farà in una data situazione“, e a questo proposito nel 1995 a Toulouse è stata svolta una ricerca per misurare l’ansia come tratto caratteriale della personalità dell’individuo, quella che diventa la sua capacità di risposta a una situazione di stress. Lo studio ha rivelato che la maggior parte degli incidenti subacquei avviene nelle persone che hanno riportato sulla Scala dell’Ansia di Cattel, i risultati più elevati.

 

Prevenzione di ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Nell’ambiente subacqueo è molto difficile ricondurre la causa di un incidente all’ansia perché l’individuo avrà difficoltà ad ammetterlo e ad esplicitarlo. Esistono diverse tecniche di visualizzazione e di rilassamento per gestire l’ansia nelle situazioni di stress. Sarebbe quindi opportuno pensare di iniziare i corsi di immersione con queste tecniche, non solo per insegnare all’individuo come gestire l’ansia sott’acqua, in situazioni di stress, ma anche per rendere esplicito, che momenti di paura e tensione durante un’immersione, possono essere normali, accolti ed esplicitati.

Incentivando la prevenzione di ansia e attacchi di panico nel diving, il mare può restare un amico, nel quale ci si tuffa quando ci si sente pronti, quando ci si sente sereni, ed evitare che diventi un nemico solo perché noi stessi siamo non abbiamo ascoltato il nostro corpo o siamo stati superbi. Ci vogliono umiltà, e una grande consapevolezza, per dire:

“mi tuffo la prossima volta, oggi non me la sento!”, e questo potrebbe almeno evitare la metà degli incidenti in immersione.

Politica & Psicologia: essere estremisti aumenta il senso di superiorità?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Politica & Psicologia: Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle proprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Gli estremisti dei due poli dello spettro politico presentano un medesimo fenomeno psicologico: entrambi i gruppi hanno la tendenza a ritenere le loro opinioni superiori rispetto a quelle degli altri, con la credenza che il loro punto di vista sia l’unico “corretto”; e tale sensazione di superiorità emerge in relazione a specifiche questioni politiche. 

Secondo una ricerca recentemente pubblicata su Psychological Science invece le persone con atteggiamenti più moderati sarebbero più obiettive.

I ricercatori hanno chiesto a più di 500 partecipanti di completare diversi questionari che affrontavano diversi punti di vista su alcune tematiche politiche controverse tra cui per esempio sanità, immigrazione, aborto, aiuti statali, tasse, etc.

Ai partecipanti è stato poi chiesto di indicare quanto fossero corrette le loro opinioni rispetto a quelle degli altri su una scala Likert che variava da “non più corretto di altri punti di vista” a “totalmente corretto — il mio punto di vista è l’unico corretto”.

Ecco quanto emerge dai risultati: sono i conservatori e i liberali più estremisti che considerano le loro idee superiori a quelle degli altri, ma non in generale.

Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle prioprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Quindi  secondo lo studio la polarizzazione di opinioni sarebbe bipartisan ma estremista e oltretutto ciascuno sui “propri” temi.

LEGGI:

PSICOLOGIA SOCIALEBIAS -EURISTICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Le parole che non riesco a dire. Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

Le parole che non riesco a dire

Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

a cura di Sara Boggio e Associazione Culturale Mondi Possibili

Venerdì 15 NOVEMBRE 2013

h. 21.00 – Circolo dei Lettori Via Bogino 9 – Torino

INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI
PRENOTAZIONI: info.mondipossi[email protected]

Presentazione del libro

Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori)

Intervengono:
Gianluca Nicoletti, autore del libro, scrittore e giornalista Valerio Berruti, artista
Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista

393 2423585 – [email protected]

SCARICA IL COMUNICATO STAMPA (PDF)
SCARICA LA BROCHURE (PDF)

Venerdì 15 novembre 2013 alle h. 21.00, presso il Circolo dei Lettori, in via Bogino 9 a Torino, avrà luogo la presentazione del libro Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori) di Gianluca Nicoletti.
Vincitore del Premio Estense 2013, il libro racconta la vita dell’autore con il figlio adolescente Tommy, autistico, svelando senza filtri tutti gli aspetti di una quotidianità complessa ma speciale, come il rapporto che li unisce.

Gianluca Nicoletti, editorialista per La Stampa e conduttore di Melog su Radio24, dialogherà con Valerio Berruti, artista italiano di fama internazionale, noto per le sue immagini essenziali, che affrontano con leggerezza ed eleganza i temi degli affetti familiari e dell’infanzia.

Modererà l’incontro Gian Luca Favetto, scrittore, giornalista, critico cinematografico e drammaturgo, conduttore radiofonico per RadioRai.

L’incontro è un preziosa occasione per affrontare un tema che coinvolge oltre 400.000 famiglie italiane, ma che deve essere portato all’attenzione di tutti. A tale scopo, scrive l’autore, “è necessario che si inizi a raccontare l’autismo usando lo strumento dello stupore”, ed è per questo che a dialogare con lui sarà un artista, ad ampliare ulteriormente la dinamica di scambio e confronto che è di vitale importanza per rompere il silenzio, uscire dall’isolamento, individuare nuovi percorsi.

L’appuntamento si configura come anteprima di Le parole che non riesco a dire, rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo a cura di Sara Boggio e dell’associazione culturale Mondi Possibili.
La rassegna avrà luogo ad aprile 2014 presso il Circolo dei Lettori e vedrà coinvolti familiari di ragazzi autistici che, dalla loro personale esperienza con i disturbi dello spettro autistico, hanno ricavato racconti, romanzi, fumetti o film – avvalendosi dell’espressione artistica per trasformare le difficoltà in bellezza, il disagio in risorsa e l’isolamento in condivisione.

Il percorso proposto si snoda infatti lungo il duplice ma complementare versante della patologia e della creatività, perché l’isolamento e le difficoltà del quotidiano, tradotte in racconto, possono diventare una fucina di spunti, intuizioni, idee e proposte – come dimostrano le opere degli autori coinvolti nella rassegna, che posseggono tutta la forza necessaria a spostare il limite, dimostrando che il passaggio dal silenzio alle parole ai fatti non è un’utopia, ma una possibilità concreta, oltre che un’urgente necessità.

L’appuntamento è a ingresso libero fino a esaurimento posti.

_________________________________________________

Ufficio Stampa
Mondi Possibili
Daniela Sciangula
393 2423585 [email protected] www.mondipossibili.net

Con il patrocinio di:

In collaborazione con:

Media partner:

www.stateofmind.it

ARTICOLI SU: AUTISMO – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

 

Ospiti della serata:

Gianluca Nicoletti (Perugia, 1954 – vive e lavora a Roma) Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo.

La sua collaborazione con la Rai inizia nel 1983.
Capostruttura alla Divisione Radiofonia per il settore dedicato all’innovazione, ha diretto la start up per il primo portale Internet dinamico della Rai.
Su Radio2 ha condotto 3131, Qui lo dico e qui lo nego, Vipera e, per undici anni, Golem: idoli e televisioni, pluripremiato programma dedicato all’attualità e al mondo dei media.
Nel 2005 approda a Radio24, dove è autore e conduttore di Melog 2.0, oltre ad aver ideato i programmi Corpi, Il volto e l’anima, La guardiana del faro.
Nell’ottobre 2012 viene insignito del premio Cuffie D’Oro Lelio Luttazzi nella categoria “One Man One Voice” con la seguente motivazione: “È una delle voci più conosciute tra gli intellettuali italiani. Vanta il piacevole dono dell’imprevedibilità e dell’uso sapiente della parola. Fine scrittore, critico televisivo e fustigatore di costumi, Gianluca rappresenta un’eccellenza della radio italiana”.
Ha collaborato con vari programmi televisivi, per la Rai e Mediaset: Uno più uno, Mediamente, Telesogni di notte, La parte dell’occhio, in onda su Rai 1, Raccolta differenziata su Rai 2, Niente da perdere su Rai 3, Matrix su Canale 5 e Jekyll su Italia 1.
Tra i libri pubblicati Ectoplasmi. Esistere nell’aldilà catodico: il potere medianico della televisione (Baskerville, Bologna 1994), Amen (Mondadori, Milano 1999), Le vostre miserie, il mio splendore. La discesa nella seconda vita dell’avatar bitser Scarfiotti (Mondadori, Milano 2007), Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali (Sironi, Milano 2009), Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, Milano 2013).

Valerio Berruti (Alba, CN, 1977 – Vive e lavora ad Alba) Artista

Laureato in Critica dell’Arte al DAMS di Torino.
Nel 2005 viene selezionato dall’International Studio and curatorial Program di New York come unico artista italiano.
Nel 2008 inaugura a Seoul la personale Magnificat, presso la Keumsan Gallery, oltre a partecipare alla XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e alla collettiva Detour, presso il Centre Pompidou di Parigi.
Nel 2009 è il più giovane artista scelto da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli per il

Padiglione Italia della 53a Biennale di Venezia, dove presenta La figlia di Isacco, video-animazione con colonna sonora composta per l’occasione da Paolo Conte (tutti i disegni e lo spartito originale sono pubblicati da Damiani Editore nell’omonimo volume).

Nello stesso anno realizza la copertina dell’album di Lucio Dalla Angoli nel cielo con il lavoro I can fly.
Nel 2011 viene selezionato dalla Nirox Foundation per una residenza a Johannesburg e inaugura le personali Too much light not to believe in light presso il City Museum di Belgrado, Maddalena, presso il Salon Blanco di L’Havana, e Kizuna, presso il Pola Museum di Tokyo, in cui viene esposto un video con le musiche appositamente realizzate da Ryuichi Sakamoto.

Dalla collaborazione tra Berruti e Sakamoto è nato un progetto per aiutare le vittime del terremoto in Giappone a cui ora si sono aggiunti i compositori Alva Noto e David Sylvan.
Nel 2012 vince il Premio Luci d’Artista a Torino.

Gian Luca Favetto (Torino, 1957 – vive e lavora a Torino)

Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo, drammaturgo, critico cinematografico.

Autore di numerosi romanzi e raccolte di racconti, con Marcos y Marcos ha pubblicato Chiunque va a piedi è sospetto (1992) e Tommaso Torelli, inseguitore (1994). A undici metri dalla fine (2002), Se vedi il futuro digli di non venire (2004), Italia, provincia del Giro (2006) e La vita non fa rumore (2008) sono editi da Mondadori. Nel 2009 è uscito per Verdenero-Edizioni Ambiente il romanzo Le stanze di Mogador’ e nel 2010 il racconto Diventare pioggia (Manni).

Per il teatro ha curato la drammaturgia di Operette morali’ (Gruppo della Rocca, 1986), Canto per Torino (con la regia di Gabriele Vacis, 1995), Passaggi (Teatro dell’Angolo, 1996), Nel catalogo figurate come uomini (Gruppo della Rocca, 1997), Aspettando – Suite per Godot (Gruppo della Rocca, 1998) e Camminanti (1998). Nel 2006 ha realizzato il progetto Interferenze fra la città e gli uomini, spettacolo che intreccia il linguaggio letterario e teatrale a quello del web.

Ha pubblicato cinque raccolte di poesia: La collina delle streghe (Italscambi, 1980), Il buio e la memoria (Italscambi, 1982), L’ultima meraviglia (Genesi, 1990), Il versante accogliente dell’ombra (Marcos y Marcos, 1996), Mappamondi e corsari (Interlinea, 2009).

Scrive su La repubblica e Diario. Per RadioRai ha condotto 7 gradi longitudine Est, 3131 e Trame.

L’organizzazione:

Sara Boggio (Castellamonte, TO, 1978 – vive e lavora a Torino)
Traduttrice, curatrice e critico free-lance.
Laureata in Lettere e in Pittura, ha lavorato come writer, redattrice e traduttrice per numerose case editrici, in Italia e in Australia, dedicando i primi anni di attività alla critica letteraria e alla storia della lingua. È stata tutor di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Torino e ha curato, insieme al Circolo dei Lettori e alla Scuola Holden, una rassegna di incontri dedicati alla graphic novel che ha coinvolto i più prestigiosi autori del settore, da Craig Thompson a Lorenzo Mattotti. Per la galleria In Arco di Torino ha realizzato percorsi espositivi dedicati al disegno e alla pittura con i lavori di Daniele Galliano, Raymond Pettibon, Jim Shaw, Marcel Dzama, Ann Craven e Kathe Burkhart. Attualmente collabora con la start up Maieutical Labs su un progetto di e- learning multimediale per la storia dell’arte. Le sue ultime traduzioni per la critica d’arte, editi da Ponte Alle Grazie e dalla Rivista di Estetica dell’Università di Torino, rappresentano la prima versione italiana del discorso critico di Huang Zhuan, direttore del Contemporary Art Terminal di Shenzen, sull’artista cinese Wang Guangyi. I suoi contributi critici sono stati pubblicati da Italian Poetry Review, Rizzoli, Skira.

Mondi Possibili

www.mondipossibili.net

È un’associazione culturale torinese nata con l’intento di promuovere progetti artistici e culturali a sfondo sociale. La finalità delle iniziative curate da Mondi Possibili è quella di veicolare, attraverso l’arte e la cultura, contenuti di rilevanza etica, in grado di restituire forza, valore e dignità alle realtà più trascurate del tessuto sociale, nella convinzione che il linguaggio artistico, la creatività e le espressioni culturali siano strumenti fondamentali per accrescere il senso di appartenenza alla propria comunità, tutelare i diritti di chi non ha voce, favorire l’integrazione e la condivisione di valori comuni.

Mondi Possibili si avvale del supporto di diverse professionalità esperte nei vari settori della programmazione culturale, dalla comunicazione alla produzione video.

Daniela Sciangula (Borgomanero, NO, 1976 – vive e lavora a Torino), co-curatrice di Le parole che non riesco a dire, è socia fondatrice di Mondi Possibili.
Laureata in Scienze della Comunicazione e Master in Comunicazione Web, ha esperienza pluriennale nella progettazione e promozione di iniziative culturali, festival, mostre, reading e conferenze, organizzate in collaborazione con varie realtà associative del territorio piemontese e sempre focalizzate sulle tematiche sociali. Responsabile della comunicazione per il Teatro Giulia di Barolo di Torino, dalla fine del 2010 collabora con l’Associazione Il Contesto Onlus per Dentro e Fuori, il blog dei detenuti della casa circondariale di Torino. Nel 2011 ha co-organizzato la mostra Cultura+legalità=libertà – l’arte contro le mafie, che ha ottenuto la medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

 

 

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia: uno studio correlazionale

C.Frau1,2, M.Giovini1, E.Muntoni2, C.Sodde2
1 Studi Cognitivi, Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Modena, 2 Centro di Salute Mentale, ASL Sanluri

 

La sintomatologia dissociativa e’ la piu’ frequente dopo ansia e depressione. Quando un qualsiasi disturbo elencato nel DSM-IV e’ complicato da sintomi dissociativi, la risposta a qualsiasi trattamento disponibile e’ meno soddisfacente. Data l’importanza di trattare la dissociazione per un buon esito terapeutico, diventa altrettanto importante comprenderne la relazione con le altre variabili, inserirla nel quadro di personalita’ psicopatologica e definirne l’eziologia.

ARGOMENTI CORRELATI:

ANSIACREDENZEATTACCAMENTODISSOCIAZIONE

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

Amore e Familiarità: una questione di Attaccamento

Amore e familiarità . - Immagini: © Maksim Samasiuk - Fotolia.comL’amore, spettacolo affettivo di particolare bellezza, si manifesta in tutte le sue espressioni più sublimi verso una persona, scelta accuratamente.

Quando si prova l’ebrezza dell’amore si ha voglia di trascorrere del tempo con la persona (effetto mantenimento del contatto), ci si rivolge all’altro per condividere o risolvere un problema (effetto rifugio sicuro), si può contare sull’altro (effetto base sicura), si prova nostalgia quando si è lontani (effetto ansia da separazione) e si vorrebbe trascorrere insieme quel tempo.

Dunque, scegliere una persona con cui condividere tutte queste cose è impresa ardua, ma spesse volte la scelta avviene senza pensarci troppo su, ovvero in maniera automatica. Sì, automatica! Ci attrae qualcosa nell’altro che riconosciamo come noto, al punto da considerarlo familiare.

Scegliamo qualcuno che somigli ai nostri fratelli o a persone vicino a noi (effetto familiarità), molto simile per gusti, costumi e cultura, (effetto somiglianza). Oppure si preferisce una persona perché molto accorta ai nostri bisogni e sentimenti (effetto sensibilità). Insomma, la scelta è fatta di istinto, di pancia, e la pancia sceglie su basi non puramente oggettive.

Cosa ci muove verso l’altro a noi sconosciuto?

Quello che ci attrae è sempre un aspetto di familiarità, qualcosa che fa risuonare in noi una simpatia per la persona individuata. Questa alchimia si esplica anche nella modalità di manifestare il tipo di legame che si crea. A livello fisico ci sono delle cose che ci attraggono dell’altro, che richiamano alla memoria qualcosa che ci fa sentire a casa. Questo inganno attira l’attenzione nei confronti di un viso piuttosto che un altro, una sorta di sezione aurea.

Quindi, una volta individuato il nostro altro/familiare facciamo il primo passo, ovvero il corteggiamento: voce dolce postura equivoca, bella presenza, che presto cede il posto all’innamoramento, fase in cui si vuole condividere con l’altro tutto, anche la vicinanza fisica, la passione, l’idillio. Infine, si passa all’amore vero e proprio ovvero intimità, complicità, progettualità, e in questa fase il legame di attaccamento si è consolidato, di conseguenza si attua una interdipendenza emozionale e la base sicura. Solitamente si tende a riproporre nella coppia il tipo di attaccamento avuto con i genitori, e avendo scelto una persona affine alle proprie attitudini e facile che questa cosa possa accadere.

Insomma, se si dovesse avere un attaccamento sicuro, si ha una ottima intimità e affinità, ci si sente a proprio agio mostrandosi realmente per quelli che si è.

Al contrario se l’attaccamento fosse ambivalente si potrebbe avere un amore maniacale, nevrotico, eterno innamoramento contrapposto alla perdita di amore allo stesso tempo e bassa fiducia in se stessi. Con un attaccamento evitante i due membri della coppia evitano accuratamente il coinvolgimento affettivo, per questo il legame è definito circospetto.

Comunque, qualsiasi tipo di legame si possa manifestare nella coppia la cosa importante e vivere quell’amore e di quell’amore, perchè solo vivendolo si può capire se porta in sè il segreto magico dell’eternità.

 

LEGGI ANCHE:

AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALISCELTA DEL PARTNER

 ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

DALLA FAMIGLIA D’ORIGINE ALLA SCELTA DEL PARTNER

 

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini: la lezione psicologica

Un’idea, un concetto, un’idea 

finché resta un’idea è soltanto un’astrazione 

se potessi mangiare un’idea 

avrei fatto la mia rivoluzione. 

Un’idea, Giorgio Gaber, 1972

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini- La lezione psicologica. -Immagine: www.sandroluporini.it Giorgio Gaber e Sandro Luporini: L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta.

L’idea di scrivere questo articolo è maturata leggendo il bel libro di Sandro Luporini Vi racconto Gaber (2013). Sandro Luporini è un pittore viareggino, coautore di tutti gli spettacoli teatrali e delle canzoni più evocative di Gaber. Dopo la scomparsa del grande cantautore milanese (nel 2003) ha condotto una vita abbastanza ritirata dal punto di vista mediatico e questo libro è la testimonianza che molti attendevano di un lavoro creativo straordinario che è durato più di trent’anni.

Quando iniziò a lavorare con Luporini, Giorgio Gaber era già un cantante affermato, con una fama nazionalpopolare. L’incontro tra i due sancì un cambio di rotta nella carriera del cantautore, che da allora in poi privilegiò i teatri come luogo di scambio con il pubblico, dando vita a una nuova forma di spettacolo, costituita da canzoni e monologhi, che ha preso il nome di teatro canzone.

Il teatro permetteva di creare una dimensione artistica più intima, dove il pubblico risultava maggiormente coinvolto e in grado di recepire i messaggi e le emozioni degli spettacoli. Della vecchia produzione musicale, caratterizzata da testi spesso leggeri, restava solo un ingrediente che ha sempre contraddistinto il cantautore: l’ironia. Le tematiche affrontate diventarono invece via via più profonde e complesse, seguendo uno straordinario processo di maturazione artistica e personale, in cui Luporini ebbe sicuramente un ruolo fondamentale.

Anche prima di leggere il libro, avevo sentito parlare della loro affascinante modalità compositiva: Gaber e Luporini si trovavano ogni estate in Versilia e trascorrevano un mese intero a parlare liberamente dell’attualità dell’Italia e del mondo, dell’uomo e delle sue contraddizioni, dei libri letti e di tutto ciò che poteva stimolare la loro curiosità. Spesso venivano coinvolti nelle discussioni altri amici fidati o alcuni intellettuali di passaggio (o in pellegrinaggio). Da questi brain storming nascevano i monologhi e le canzoni per gli spettacoli, caratterizzati da una forte impronta umanistica.

L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta. D’altra parte come diceva l’illustre paziente Alda Merini (2008) “Rendere interessante un malato ai suoi stessi occhi è una cosa davvero importante, è il cominciamento della sua guarigione.

L’intento della coppia Gaber-Luporini andava sicuramente oltre il semplice intrattenimento, in quanto è noto che l’arte, quando è arte vera, cerca di rivelare l’essenza delle cose, di trovare un orizzonte di significato, un senso da contrapporre alla realtà caotica e incoerente in cui viviamo.

L’atteggiamento con cui i due hanno indagato l’uomo ricorda più un osservatore della psiche e del comportamento, forse un filosofo (a questo riguardo non negarono di aver preso ispirazione per alcuni testi dai filosofi esistenzialisti), che un semplice artista. “Abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio, non abbiamo fatto altro che porci delle domande senza alcuna pretesa di risposta” racconta Luporini. Questo atteggiamento socratico, il rifuggire da concetti assolutistici, fino a relativizzare anche il bene e il male ricorda il lavoro di uno psicoterapeuta, che Vittorio Guidano (1988) definiva “perturbatore strategicamente orientato.

D’altra parte, in scena l’artista si analizzava, si interrogava ponendosi delle domande, promuovendo un’identificazione proiettiva collettiva. Non usava modalità persuasive, ma invitava indirettamente il pubblico ad un’autoanalisi. Negli spettacoli di Gaber era impossibile distogliere lo sguardo e si era costretti a guardare dentro di sé. L’obiettivo era uscire dalla sala con meno certezze e l’effetto destabilizzante veniva addolcito dall’uso dell’ironia, che come diceva Gaber “permette di giocare seriamente e fare cose serie giocando”, arrivando ad ironizzare anche sulla sofferenza.

Lo psicoterapeuta Amedeo Pingitore (2013) ha scritto un bel libro in cui delinea un interessante profilo psicologico di Gaber come artista, mettendolo a confronto con altri grandi perturbatori come Pier Paolo Pasolini, con cui condivideva la capacità di sfuggire dai recinti ideologici, o come il pittore Edvard Munch, per la capacità di rappresentare la precarietà dell’esistenza umana.

I numerosi spettacoli teatrali scritti dalla coppia e i dischi di canzoni registrate in studio abbondano di spunti di riflessione psicologica. Vediamo qualche esempio.

Dialogo tra un impiegato e un non so (1972), uno dei primi spettacoli, contiene la canzone Un’idea, che pone l’accento sulla distanza tra pensiero e sentimento, sulla mancanza di sintonia tra corpo e mente e sulla perdita di naturalità che ne consegue. Tanti disagi esistenziali e disturbi psicosomatici hanno alla base questo tipo di conflitto ed il lavoro terapeutico in questi casi è di integrazione delle varie parti (Semerari, 1999).

E’ nello spettacolo successivo, Far finta di essere sani (1973), che la coppia esplora maggiormente gli scenari della psiche, influenzata dalla lettura de L’io diviso (1969) dello psichiatra scozzese Ronald Leing, considerato uno dei principali rappresentanti del movimento antipsichiatrico, che affermava “che un gran numero di “guarigioni” di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l’altro, ha deciso di ricominciare a fare finta di essere sano”.

Nello spettacolo troviamo ad esempio la canzone Un’emozione, in cui viene trattato il conflitto tra razionalità e istintività, con un appello alla “dolce prudenza”, come meccanismo di difesa e di evitamento emotivo.

Quello che perde i pezzi è invece la storia di un individuo iper-razionale che si dimentica del corpo, fino a perderne delle parti, con conseguente esilaranti. Ancora la mancanza di sintonia tra corpo e mente.

L’impotenza è un brano che si sofferma nuovamente sulla ricerca di equilibrio tra fisicità e pensiero con l’esortazione a “imparare a sentire il presente in un tempo così provvisorio” e rapido come il nostro, in sintonia con le moderne teorie di mindfullness.

L’elastico è una canzone sulla schizofrenia, dove l’immagine dell’elastico che si spezza rappresenta l’angoscia di frammentazione della crisi psicotica, con quel “Me fuori di me” a evidenziare la perdita dei confini come ci viene descritta classicamente dalla letteratura (Gabbard, 2002).

La canzone Il narciso sottolinea in modo impietoso le modalità relazionali della persona affetta da personalità narcisistica, dove l’altro viene usato in modo strumentale, come un oggetto (“perché io, con una donna, mi scopo”).

La libertà, forse uno dei brani più noti, contiene la citatissima frase “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”, che sottolinea come nel conflitto tra individualità e il bisogno di appartenenza vince quest’ultima. Questo tema verrà poi ripreso nella Canzone dell’appartenenza (2001) che recita “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. Sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”. Il concetto di appartenenza riveste una certa importanza nell’ambito della maturazione dell’individuo.

La capacità di percepire un sentimento d’appartenenza ad un gruppo sociale è infatti una delle funzioni basiche della personalità normale. Si può sentire di appartenere alla famiglia, a un gruppo di amici o di lavoro, a una squadra sportiva o altro, con un conseguente senso di completezza e vivacità interiore. L’analisi di trascritti di sedute di pazienti con Disturbo Narcisistico ed Evitante di Personalità ha suggerito che, almeno in questi disturbi, l’esperienza di non appartenenza sia pervasiva e influenzi il quadro psicopatologico (Dimaggio, Procacci, Semerari, 1999).

Lo spettacolo Polli da allevamento (1978) contiene il monologo Il suicidio, che tratta l’argomento in modo ironico concludendo saggiamente che “ c’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte”.

Nel brano Quando è moda è moda emerge come il confondersi con gli altri attraverso le mode, ci permetta di evitare l’angoscia che può derivare dal definire la nostra identità, con il rischio di non essere accettati.

Anni affollati (1981) include il brano Il dilemma, che racconta la storia di una coppia che crede al rapporto come qualcosa di autentico per cui valga la pena lottare, senza accettare compromessi, essendo addirittura pronti a morire per esso.

Io se fossi Gaber (1985) contiene invece la canzone Ipotesi per una Maria che recita “perché per credere all’amore davvero bisogna spesso andarsene lontano e ridere di noi come da un aeroplano”, descrivendo l’ambivalenza di certe donne divise tra il bisogno di starti accanto e la consapevolezza di riuscire a esistere solo come persone libere. Questo tipo di conflitto si trova tipicamente nelle organizzazioni di personalità di tipo fobico (Guidano, 1988).

Vale la pena inoltre soffermarsi sugli ultimi due dischi registrati in studio da Gaber: La mia generazione ha perso (2001) e Io non  mi sento italiano (2003). Sono due lavori bellissimi, ma intrisi di pessimismo e disillusione. Rappresentano la testimonianza di come Gaber e Luporini abbiano assistito all’appassirsi dei sogni di cambiamento degli anni settanta, siano stati testimoni appassionati di tante battaglie sociali che aspiravano alla conquista di nuova morale, ma alla fine si siano arresi alla delusione di fronte a un mondo sempre più individualista e spoglio di valori. 

Ci sono alcuni capolavori di “psicologia musicata” come I mostri che abbiamo dentro, che descrive le istanze psichiche pulsionali e istintuali (“silenziosi e insinuanti sono il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”), che ricordano molto l’Es freudiano (Freud, 1985). L’uomo è destinato a vivere nel conflitto tra le aspirazioni di altruismo e di solidarietà e questi mostri atavici che ci spingono all’odio, alla violenza e all’egoismo.

Sì può descrive uno spaccato spietato e lucidissimo delle libertà del nostro tempo (Si può fare i giovani a sessant’anni…Si può trasgredire qualsiasi mito…), che possono paradossalmente portare  all’ossimoro della “libertà obbligatoria”, dove “Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale”. L’obeso racconta l’uomo moderno, ingordo di cibo, idee, esperienze, che viene stigmatizzato con la splendida metafora “l’obeso è l’infinito di un leopardi americano”.

Ancora in tema di ideali e disillusione Qualcuno era comunista descrive “una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita”, ma “senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici”. La metafora dei “gabbiani ipotetici” è a mio avviso potentissima e contiene tutta la tensione tra un io ideale e un io reale.

Quando sarò capace di amare accenna al superamento del complesso di Edipo freudiano   (“non avrò bisogno di assassinare in segreto mio padre, né di far l’amore con mia madre in sogno”), come indice di crescita e maturazione da un “uomo bambino” a un individuo adulto.

Non insegnate ai bambini è un piccolo trattato di pedagogia, in cui il cantautore consiglia ai genitori di “coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore il resto è niente”, piuttosto che cercare di trasmettere ai figli norme morali, pensieri, ideali sociali.

La rabbia e l’amarezza verso questo mondo da alcuni è stato etichettato come disfattismo. Potrebbe anche essere, ma credo che gli italiani abbiano un grande debito di riconoscenza verso Gaber e Luporini, per le perturbazioni emotive e per i tanti utilissimi dubbi suscitati. O no?

LEGGI:

ARTE MUSICA LETTERATURA

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA & MUSICA: IL SUICIDIO NELLA CANZONE ITALIANA#2

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’efficacia della CBT in pazienti con patologie mediche

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un altro trial clinico multicentrico che porta risultati incoraggianti  per le terapie cognitivo-comportamentali è stato pubblicato pochi giorni fa sulla rivista The Lancet, tra gli autori Paul Salkovskis.

Questa volta oggetto di indagine è l’efficacia della CBT sull’ansia connessa allo stato di salute in pazienti con problematiche somatiche in trattamento presso ambulatori di cardiologia, gastroenterologia e simili.

Tra i criteri di inclusione vi è l’età compresa tra i 16—75 anni ed  elevati livelli di ansia connessa allo stato di salute.

Nello studio 444 pazienti con diagnosi di ansia eccessiva connessa allo stato di salute (i pazienti effettivamente coinvolti nello studio sono stati reclutati a partire da uno screening su circa 28.000 pazienti delle cliniche) sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni: sottoporsi a un protocollo breve di psicoterapia cognitivo-comportamentale oppure un trattamento standard ambulatoriale per patologie mediche senza alcun intervento psicologico.

Il protocollo di trattamento di CBT breve comprendeva dalle cinque alle dieci sedute di terapia cognitivo-comportamentale gestita da psicoterapeuti, mentre il gruppo di controllo ha ricevuto un trattamento standard previsto dalla clinica – che dal punto di vista psicologico prevedeva generiche rassicurazioni da parte dei medici.

Dopo un anno di trattamento dai dati emerge che, rispetto ai controlli, i pazienti sottoposti a CBT presentano un significativo miglioramento nella sintomatologia ansiosa, variabile di outcome misurata mediante lo strumento Health Anxiety Inventory a un anno dal termine del trattamento.

Simili differenze significative sono state riscontrate sia a sei mesi che a due anni dal termine del trattamento, senza rovinosi effetti nemmeno in termini di aumento di costi sanitari.

Lo dice The lancet: “It (CBT) deserves wider application in medical care” [“(La psicoterpaia cognitivo-comportamentale) merita una più ampia applicazione nell’ambito dell’assistenza medica”]. Lo studio è registrato sul sito controlled-trials.com.

LEGGI:

PSICOTERAPIA COGNITIVA ANSIAACCETTAZIONE DELLA MALATTIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mind wandering: i pensieri inutili che ci rendono intelligenti!

Mind wandering. I pensieri inutili ci rendono intelligenti . - Immagine: ©-Konstantin-Yuganov-Fotolia.comUn’idea nuova e curiosa sviluppata da un gruppo di ricercatori della New York University guidati dal Prof. Kaufman che ha pubblicato un’appassionata review sul mind wandering e sul suo ruolo nel determinare l’intelligenza umana.

Che l’intelligenza umana non potesse ridursi alla mera valutazione psicometrica, è cosa condivisa da molti. Ma immaginare che quando la nostra mente vagabonda lontano dalla realtà stia lavorando alla soluzione di problemi molto rilevanti per la nostra vita… questo sì, è rivoluzionario!

Molte sono le ricerche condotte sul mind wandering , o daydream, dai primi lavori di Singer (1964) ad oggi, ma tuttora l’attività mentale più frequente nell’uomo (si stima circa il 50% delle ore di veglia!) sfugge a qualunque definitiva interpretazione: a cosa ci serve sognare ad occhi aperti mentre lavoriamo? O ripensare al nostro capo, mentre leggiamo un libro? O trovarci a passeggiare in montagna, mentre facciamo la spesa? Perché tutte queste energie apparentemente finalizzate a nulla?

A queste domande sembra rispondere La Teoria dell’Intelligenza Personale di Kaufman e collaboratori, secondo i quali l’intelligenza sarebbe il risultato della dinamica interazione tra impegno e abilità innate, osservata in un periodo di tempo prolungato, finalizzata al raggiungimento di obiettivi personali importanti (Kaufman, 2013).

Non si parte da un compito cognitivo con degli obiettivi prestabiliti da un educatore o da uno psicologo sperimentale, ma dall’idea di valutare una performance cognitiva considerando se l’individuo si sia ingaggiato nel compito mantenendo l’attenzione ai propri obiettivi personali. Le abilità da misurare dovrebbero essere dunque sia le risorse cognitive “volontarie” (attenzione focalizzata e sostenuta, memoria di lavoro, accuratezza, velocità,..), sia quelle “spontanee” (intuizione, emozioni, apprendimenti impliciti, utilizzo spontaneo di memoria episodica,..). E’ l’insieme di TUTTE queste capacità cognitive a determinare l’intelligenza umana! Un notevole cambio di paradigma.

In questa cornice, il vagabondare della mente – considerato altrimenti un’attività altamente fallimentare e costosa dal punto di vista delle sole performance cognitive, poiché portatrice di pochi o nessun beneficio nell’immediato (Mooneyham and Schooler, 2013) – potrebbe assumere un ruolo centrale e molto costruttivo nella soluzione di problemi che non hanno a che fare con il qui ed ora, ma che riguardano obiettivi personali e di vita a lungo termine.

Una spiegazione neuroscientifica ci viene da una recentissima pubblicazione di Kam et al. (2013). L’Executive Attention Network (EAN), rete neurale attribuita a compiti classicamente cognitivi, e il Default Mode Network (DMN), generalmente attivo durante periodi di riposo o liberi da compiti specifici, possono secondo i risultati della ricerca, trovarsi a lavorare insieme anche durante episodi di mind wandering. Le risorse attentive non sarebbero dunque affatto assenti nel daydreaming, ma piuttosto sembrerebbero attive e capaci di orientarsi all’interno, ad elaborare un “treno di pensieri” in cui ci troviamo immersi pur senza un motivo apparente. In discussione dunque il tradizionale punto di vista secondo il quel la EAN sia attivata dalla sola presenza di stimoli esterni, seguendo un processo attentivo sempre volontario e consapevole.

Non poco lavoro attende i ricercatori che vorranno raccogliere la sfida di Kaufman, mentre per noi restano alcune buone notizie. In questa ottica, infatti, comportamenti apparentemente “non intelligenti” come rileggere tre volte una riga senza comprendere cosa c’è scritto, bloccarsi a riflettere proprio mentre si sta raccontando una storia, arrivare a casa senza aver comprato le uova per le quali si era usciti apposta … potrebbero non essere così sciocchi.

Nonostante la loro dubbia utilità nel presente, potrebbero infatti essere il segnale che la nostra mente sta lavorando alla soluzione di problemi ben più importanti della cena da mettere in tavola!

 LEGGI LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA DI: DEFAULT MODE NETWORK (DMN)

EXECUTIVE ATTENTION NETWORK (EAN)

LEGGI ANCHE:

MIND WANDERINGINTELLIGENZA – QISCOPI ESISTENZIALI – NEUROSCIENZE

NEUROSCIENZE: MIND WANDERING. PERCHE’ LA NOSTRA MENTE VAGABONDA? 

BIBLIOGRAFIA:

 

Default Mode Network (DMN) – Connettività funzionale intrinseca

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataDefault Mode Network: si tratta di una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive” (connettività funzionale intrinseca).

 

Viene invece dis-attivata quando al cervello è richiesto di svolgere compiti che richiedono un’attenzione focalizzata (vedi anche: Executive Attention Network – EAN).

 

Le abilità cognitive legate all’attivazione di quest’area riguardano: capacità di accedere ai ricordi della propria vita (memoria episodica autobiografica), di riflettere sui propri e altrui stati mentali, di riconoscere stimoli familiari e non, e di provare emozioni in relazione a situazioni sociali che riguardano noi stessi o gli altri, di valutare le reazioni proprie e degli altri in alcune situazioni emotive.

Default Mode Network

Le strutture corticali e sottocorticali che fanno parte di questa rete possono in parte variare da individuo ad individuo, ma in generale sono riconducibili ad alcune aree principali: ippocampo, giro para-ippocampale, corteccia prefrontale mediale, regioni temporali laterali e temporo-parietali, cortecce posteriori mediali (corteccia cingolata posteriore e precuneo).

Le differenze individuali nella connettività tra queste aree è stata associata a sintomi psicopatologici in pazienti con disturbi mentali, quali schizofrenia, depressione, autismo e ADHD.

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

LEGGI ANCHE:

NEUROSCIENZEMEMORIA – MIND WANDERING

MIND WANDERING: I PENSIERI INUTILI CI RENDONO INTELLIGENTI!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Executive Attention Network (EAN)

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataExecutive Attention Network: si tratta di una rete neurale, distribuita in diverse aree cerebrali, in grado di attivarsi quando ci troviamo a svolgere compiti che richiedono un’attenzione volontaria e focalizzata.

 

Le capacità cognitive controllate da questa rete sono quelle riconducibili alle funzioni esecutive: linguaggio (lettura e comprensione), memoria di lavoro, abilità visuo-spaziali, organizzazione delle azioni e abilità di decision making.

 

Gli studi neuropsicologici ci permettono oggi di ricostruire, a partire da studi su pazienti con lesioni cerebrali specifiche, le strutture cerebrali che sottendono queste funzioni, definite funzioni esecutive.

Executive Attention Network

La rete neurale comprende diverse aree cerebrali corticali e sottocorticali, tra loro interconnesse:

 

Corteccia pre-frontale laterale e anteriore, corteccia prefrontale dorso laterale, corteccia prefrontale mediale e giro del cingolo, corteccia parietale inferiore e superiore; inoltre fanno parte della EAN tutte le connessioni presenti nelle aree associative, che collegano queste aree cerebrali tra loro e con alcune strutture sottocorticali (amigdala).

 

 LEGGI ANCHE:

NEUROSCIENZELINGUAGGIO E COMUNICAZIONENEUROPSICOLOGIA

MIND WANDERING: I PENSIERI INUTILI CI RENDONO INTELLIGENTI!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Barbey,A.K.,Colon,R.,Solomon,J., Krueger,F.,Forbes,C.,andGraf- man, J.(2012). Anintegrativearchi- tecture for general intelligenc eand executive functio nrevealed by lesion mapping. Brain 135, 1154–1164.doi: 10.1093/brain/aws021

L’effetto della ruminazione sul craving nel consumo problematico di alcool – Assisi 2013

 

Assisi 2013

“L’EFFETTO DELLA RUMINAZIONE SUL CRAVING NEL CONSUMO PROBLEMATICO DI ALCOOL: UN DISEGNO SPERIMENTALE”

Querci S. 1, Gemelli A. 1, Caselli G. 1, Canfora F. 1, Lugli A. M. 1, Ruggiero G. M. 1, Sassaroli S. 1, 

Annovi C. 2, Watkins E. 3, Rebecchi D. 4

1 Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Studi Cognitivi
2 Servizio Dipendenze Patologiche, Dipartimento Salute Mentale, Azienda USL Modena
3 School of Psychology, University of Exeter, Exeter, UK
4 Servizio di Psicologia Clinica, Dipartimento di Salute Mentale, Azienda USL, Modena

 

INTRODUZIONE:

Una serie di studi ha mostrato il ruolo centrale della ruminazione mentale nel mantenimento dei disturbi da abuso di alcool e nel rischio di ricaduta anche dopo un trattamento che non interveniva su questa variabile.

Lo scopo dello studio era esplorare l’impatto del craving sulla ruminazione in tre popolazioni: nei soggetti con problemi alcol-correlati, nei problem drinkers e nei social drinkers.

I partecipanti dei tre gruppi sono stati randomizzati in due compiti d’induzione di uno stile di pensiero: distrazione e ruminazione. Il craving è stato misurato prima e dopo la condizione sperimentale e successivamente alla resting phase.

I risultati hanno dimostrato che la ruminazione, rispetto alla distrazione, ha un effetto significativo nell’incrementare il craving nei pazienti con diagnosi di disturbo di dipendenza da alcol ma non nei bevitori problematici e nei bevitori scoiali. Tale effetto si manteneva anche a seguito della resting phase.

La ruminazione ha un impatto diretto sul craving in una popolazione di soggetti con dipendenza da alcol.

 

 

ARTICOLI SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE – CRAVING

ALCOOL

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

cancel