Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 3
Alessandra Cocchi.
Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità
Un intervento di Danza Movimento Terapia
PARTE 3
Prime interazioni e analisi del movimento nel caso di L.
LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2
Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – Il lavoro dei Danzamovimento terapeuti per un’analisi delle prime interazioni e del movimento del bambino.
Quando lo vedo arrivare nel corridoio accompagnato dal papà e quando in palestra mi sta di fronte rigido e chiuso nella sua giacca a vento, noto che l’effort1 del peso2 non è mai interamente attivato, e prevale in sua sostituzione il flusso di tensione muscolare3 tenuto ad alta intensità4. Mentre sta in piedi, con le braccia lungo il corpo, studiandomi e raccontandomi le sue fantasie, L. congela il movimento e il respiro, e mantiene un flusso di forma5 chiuso e ristretto.
Secondo Judith Kestenberg il flusso di forma chiuso ha a che fare con un disagio nei confronti dell’ambiente circostante, il quale non favorisce la motivazione a gettare un ponte fra sé e il mondo. Osservo che, qualunque cosa faccia, manca in L. la connessione col centro del corpo, e, ancor prima, col respiro6, che non può sostenere le altre azioni. Il flusso di tensione muscolare tenuto non gli permette di allargare la forma del corpo, come se creasse una vera e propria seconda pelle (Bick 1968). Ciò suggerisce la mancanza di un oggetto interno contenitivo e l’ ansia per non potersi lasciare andare all’aiuto e alla disponibilità emotiva degli altri.
Un obiettivo di lavoro nella prima fase della terapia riguarda la costruzione di una relazione che diventi una pelle mentale per L., che gli permetta di interiorizzare il nostro appuntamento come uno spazio-tempo in cui poter stare in presenza di un adulto interessato e partecipe, che riconosca e contenga la sua parte deprivata, facendogli sentire accolta la totalità del suo essere.
Questo tipo di relazione permette una regressione terapeutica (Winnicott, Kohut), che favorisce la sperimentazione di oggetti Sé empatici, riducendo nel paziente la scissione verticale che lo divide fra aspetti di grandiosità e sensazioni di vuoto e inibizione, in modo da integrarli nella totalità del Sé.
Inoltre, salta subito all’occhio uno scarso utilizzo della cinesfera
7: L. è spesso confinato nel suo spazio intimo
8, da cui a volte esce improvvisamente per mimare calci e pugni allo specchio indirizzati a “
rivali”, o per ripropormi le coreografie dei suoi eroi del wrestling. Quando si dedica a tali movimenti di apertura, predomina il pre-effort
9 della repentinità
10: in quella situazione il corpo “
si scompone”, per cui, invece che sferrare calci e pugni come vorrebbe, gli arti “
esplodono” fuori dalla cinesfera intima, perdendo ogni coordinazione.
Gli manca quindi una vera e propria gestualità direzionale11 che parta dal centro del corpo e vada verso l’esterno; non è in grado di attivare efficacemente la connessione nucleo-distale12. Nei suoi gesti e movimenti non riesce a esprimere l’intenzionalità di andare verso lo spazio, gli oggetti e le persone per prendere o raggiungere ciò che desidera.
Judith Kestenberg (Kestenberg 1975) descrive il neonato come impegnato, nei primi mesi, a formare un suo guscio di tensione muscolare esterna per sentire nel corpo la differenziazione dalla madre; in questa condizione, il piccolo, intento ad acquisire il controllo sul restringersi e l’espandersi, sul mantenere una tensione corporea costante e sul riadattarla nei suoi spostamenti, crea una prima relazione direzionale quando comincia ad afferrare gli oggetti.
II desiderio di prendere oggetti distanti lo spinge fuori dal centro del corpo, verso lo spazio, per raggiungerli.
Sebbene abbia constatato l’incompleta attivazione dell’effort del peso, scorgo in questa sua posizione eretta, stazionaria, rigida, un tentativo di mantenimento dell’atteggiamento corporeo tipico del bambino nella fase anale dello sviluppo psicosessuale (Kestenberg 1975). In questa fase l’attenzione del bambino è molto concentrata sulla parte inferiore del corpo, perchè deve imparare a stare in piedi; l’esplorazione e il mantenimento della posizione eretta dà al piccolo la sensazione di essere “tutto di un pezzo”, un solido muro verticale che si oppone alla gravità. In effetti L. raramente cammina per la stanza, più che altro sta fermo o al massimo passa il peso da un piede all’altro, o fa pochi passi avanti e indietro o lateralmente, esibendo ritmi ora anali lottanti, ora genitali interni13; in tutto ciò le braccia sono sempre piegate strette vicine al busto, o, più spesso, lungo il corpo, ciondoloni.
Nell’intento di accogliere il bambino e di farlo sentire visto e sostenuto, in un primo momento sono ricorsa, nel modo di stare in piedi o seduta, di muovermi, di parlare, di ascoltarlo, soprattutto al rispecchiamento e alla sintonizzazione sui ritmi, le intensità e le forme del corpo di L.
14. Ad esempio: durante i suoi racconti fantastici mi mettevo di fianco a lui e ne imitavo il ritmo con cui passava il peso da un piede all’altro; oppure stavo seduta di fronte a lui raggomitolata, anche io in un flusso di forma chiuso, dondolandomi al ritmo dei suoi spostamenti di peso. A volte gli proponevo attività ispirate alle arti marziali, modulando il movimento e suggerendo la sperimentazione di una maggiore pienezza dei movimenti del calcio e del pugno da lui ricercati.
Tutte le volte che lo rispecchiavo con troppa precisione, o quando gli proponevo di muoverci insieme, cioè di “negoziare” i suoi movimenti coi miei, cadeva nel flusso neutro15, deanimandosi come una bambola di pezza, con lo sguardo perso nello spazio remoto16. Nei bruschi cambiamenti degli attributi del flusso di tensione17 ora descritti, ho potuto vedere come, nel corpo, L. esprimesse uno scollegamento fra l’immagine irrealistica e fantastica di sé e il reale vissuto corporeo. L., infatti, sentiva l’impulso di passare bruscamente dallo stato di ritiro e chiusura descritto, ad azioni che avrebbero richiesto l’attivazione della connessione corporea omolaterale e controlaterale18, necessaria per sferrare un pugno o un calcio efficaci e credibili. Lo scomporsi del suo movimento quando tentava un aggancio “reale” agli spericolati atti che mi descriveva, non davano la sensazione di un movimento espressivo e compiuto, diretto a un fine, come avviene quando gli effort descritti da Laban si esplicano nella loro pienezza. L’uso frequente del pre-effort della repentinità, legato ad azioni che si svolgono prevalentemente su un piano sagittale19, indica, secondo Kestenberg, uno stato di allerta permanente, un essere pronti all’attacco e alla fuga come difesa controfobica20.
Il non avere raggiunto la capacità di usare effort pieni denotava una scarsa padronanza degli schemi di movimento che permettono di affrontare la vita quotidiana; il wrestler alle prese con le sue micidiali coreografie lottanti, il karateka che esegue (termine) i suoi kata con efficacia e convinzione di combattente, erano solo ideali per L., che sferrava calci e pugni davvero poco realistici.
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NOTE