Leadership negli Sport di Squadra
TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP – Parte 3
LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA
La leadership è, quindi, un processo volto a influenzare o modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di altre persone [Hersey e Blanchard, 1988] e a partire da questa definizione molti autori hanno sviluppato modelli e teorie per individuare le caratteristiche essenziali che deve possedere una persone per assumere la posizione di leader.
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L’obiettivo è stato quello di comprendere cosa rende certe persone in grado di influenzare gli altri più di quanto sono influenzati essi stessi. Diverse teorie si sono susseguite nell’analisi di quest’argomento dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi e hanno portato alla nascita di modelli piuttosto differenti. E’ importante premettere come tuttora il dibattito sia completamente aperto in tutti gli ambiti e in special modo in quello sportivo dove la tematica in questione ha ricevuto attenzione solo recentemente.
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Uno di questi, e uno dei primi, tentativi è quello che si basa sulle teorie dei tratti.
Questo fondamento teorico ha portato alcuni psicologi a cercare di individuare, principalmente attraverso questionari come il Questionario dei 16 fattori di Cattel, alcune caratteristiche tipicamente comuni alla maggior parte dei leader. Il concetto alla base è l’idea che per essere leader siano necessarie alcune doti naturali identificate in specifici tratti di personalità. Appare, ed è, una posizione estremamente innatista che confina le possibilità di divenire un leader alle proprie caratteristiche naturali. Per questo motivo l’insieme dei modelli che si basano su questa idea sono stati etichettati come Teorie del grande uomo. Risulta sin troppo facile individuare i limiti di queste ricerche che, come nota Hollander [1985 ] nella sua rassegna sulla leadership, si limitano a considerare solo una categoria di fattori, quelli legati alle capacità del leader, escludendone altre importanti.
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L’inefficacia di questo modello, che in ambito sportivo ha retto sino all’inizio degli anni Ottanta, è stata verificata da uno studio di Stogdill [1974] su 150 ricerche appartenenti all’approccio del grande uomo, dalle quali si può facilmente notare come anche i tratti di personalità più ricorrenti presumibilmente associati alla posizione di leader non riescono, in realtà, a darne ragione.
La consapevolezza del fallimento delle teorie del “grande uomo” ha portato alla necessità di individuare alternative. In particolare sono state percorse due diverse strade che hanno posto l’accento, l’una, sul comportamento del leader e, l’altra, sulle caratteristiche della situazione, più che su i tratti della personalità.
La prima ha sviluppato l’idea degli stili di leadership che rappresentano schemi comportamentali tipici della persone che rivestono lo status di leader e che possono essere finalizzati a diversi obiettivi e classificati in diverse categorie. In particolare Bales e Slater [1955] distinguono due diverse tipologie di leader definite da due funzioni ben distinte: la prima (leader socio-emozionale) si concentra sul mantenimento del morale del gruppo e di un clima sereno per tutti i membri, la seconda (leader centrato sul compito) si orienta al raggiungimento degli obiettivi per cui il gruppo è nato e quindi all’organizzazione e alla gestione del lavoro.
Come afferma Palmonari [in Arcuri, 1995] questi due orientamenti possono essere individuati nella stessa persona o possono esistere due leader legati a diverse funzioni. Questa distinzione è particolarmente importante in ambito sportivo dove la prestazione ottimale, intesa come compito della squadra, che può essere raggiunta attraverso il lavoro di un leader centrato sul compito non può prescindere da una soddisfazione intrinseca dei membri che la compongono e della quale si occupa un leader socio-emozionale, soprattutto in particolare situazioni (vedi sotto).
Anche in quest’ambito, pur non negando la possibilità che la medesima figura possa aderire a entrambi gli stili di leadership, si può osservare come l’ottimale rendimento della squadra richieda, nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza di più di un leader, proprio perché spesso uno solo non è in grado di ottimizzare le prestazioni e la soddisfazione della squadra in tutte le situazioni. Un’altra distinzione che fa sempre riferimento agli stili comportamentali del leader e che può facilmente essere ricondotta a quella appena presentata è stata elaborata da Lewin, Lippit e White [1939]. Anche secondo questa teoria possiamo osservare come le conseguenze del comportamento del leader determini conseguenze sostanzialmente a due livelli: quello della produttività e quello del morale del gruppo. Gli stili individuati da questi autori sono:
– Stile autoritario: è un leader che tende a gestire con rigoroso controllo i membri del gruppo e le loro azioni, spesso senza dar loro possibilità di recriminare e generando così disgregazione e aggressività. Sicuramente questo comportamento risulta dannoso per il morale del gruppo ma in compenso favorisce oltremodo la produttività, per questo si può collegare a quello che Bales e Slater definiscono come leader centrato sul compito.
– Stile democratico: il gruppo viene condotto in modo partecipativo, in cui ciascun membro ha la possibilità di intervenire e di sentire riconosciuto il proprio ruolo nel team. Questo tende a massimizzare la profondità della relazione tra i membri e il morale individuale. Anche la produttività risulta positiva anche se non ai livelli di quella determinata da uno stile autoritario. Questo stile di leadership potrebbe essere connesso all’idea di leader socio-emozionale di Bales e Slater in quanto si focalizza principalmente sul rapporto tra i componenti del gruppo.
– Stile lassez-faire: il comportamento del leader è completamente disinteressato e ciò porta all’emersione dal gruppo di altri leader spontanei e ad una situazione caotica che tende comunque a disgregare le relazioni intragruppi. In questo modo, senza alcuna guida, la produttività non può che essere scadente e, d’altro lato, anche il morale del gruppo non è elevato e il rapporto tra i membri minimo; questo perché il leader fallisce in tutti i compiti associati alla posizione a cui è stato assegnato.
Secondo l’approccio che, al contrario delle teorie del “grande uomo”, si è focalizzato sulla rilevanza delle caratteristiche situazionali, il leader diventa colui in grado di svolgere determinate azioni (ottimali per il raggiungimento di un obiettivo), in determinate condizioni. In questo modo, non solo non esiste un leader tale per caratteristiche della personalità innate ma ogni situazione pone in rilievo una persona diversa come potenziale leader. Non viene riconosciuta quindi l’esistenza di un leader unico ma, anzi, i sostenitori di quest’approccio associano un leader diverso per ogni situazione. Per avvalorare quest’ipotesi Nixon e Carter [1949] sottopongono diverse coppie a tre compiti di diversa natura osservando come difficilmente la stessa persona assume il ruolo di leader in tutte le condizioni. Questo sistema di teorie, se ha il pregio di porre l’accento sull’importanza delle variabili che contraddistinguono la situazione, d’altra parte commette l’errore, come Hollander [1985] gli attribuisce, di esagerare dalla parte opposta alle teorie basate sui tratti non fermandosi a superarle ma arrivando a trascurare completamente le qualità individuali dei componenti del gruppo.
L’esagerazione di questo approccio è evidente anche in ambito sportivo. Presupponendo infatti che ogni situazione di gioco necessiti di una diversa figura di leader si arriverebbe ad analizzare una partita in quanto insieme di singole azioni perdendo di vista l’importanza dell’organizzazione generale della squadra e della persona che la gestisce.
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