La tDCS (transcranical direct current stimulation) è una tecnica di stimolazione cerebrale, in questo studio è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci
E’ una tecnica non invasiva, di recente e crescente impiego nelle neuroscienze per la riabilitazione di svariate patologie neurologiche e non: afasia, emiplegia, negligenza spaziale unilaterale, demenza, emicrania, depressione, dipendenze e altre patologie psichiatriche.
La tDCS influenza l’eccitabilità corticale attraverso l’erogazione di corrente elettrica continua sullo scalpo a bassa intensità (2 mA), attraverso due elettrodi: l’anodo e il catodo; la stimolazione anodica provoca la depolarizzazione del potenziale di membrana, inducendo un incremento nell’attività neurale spontanea e quindi un aumento dell’eccitabilità corticale nell’area stimolata della corteccia cerebrale, mentre il catodo, al contrario, attraverso l’iperpolarizzazione del potenziale di membrana inibisce l’attività della corteccia sottostante. In questo studio la tDCS è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci. A seguito dell’amputazione di un arto è possibile che il paziente abbia la sensazione cinestesica, motoria e/o sensoriale che la parte amputata sia ancora presente (sensazione fantasma).
Quando la sensazione fantasma si associa a dolore si parla di PLP. Le cause di questo fenomeno sono rintracciabili in meccanismi psicologici, periferici, a livello spinale e a livello corticale; è a quest’ultimo livello, sui meccanismi di plasticità corticale, che agisce la tDCS.
La letteratura disponibile sul dolore da arto fantasma imputa il fenomeno a meccanismi di riorganizzazione corticale: a livello di S1 (corteccia somatosensoriale primaria) l’area di rappresentazione del volto si espande invadendo l’area deafferentata nell’emisfero controlaterale all’arto amputato, e a livello sia di S1 che di M1 (corteccia motoria primaria) l’area in cui è rappresentata la bocca invade l’area deputata alla rappresentazione dell’arto amputato.
In un primo studio sono stati confrontati gli effetti sul fenomeno dell’arto fantasma in 4 condizioni diverse: stimolazione eccitatoria di M1, eccitatoria e inibitoria di PPC (corteccia parietale posteriore) e sham (un altro vantaggio della tDCS è che permette di condurre studi in doppio cieco, in quanto nella condizione sham l’apparecchio interrompe l’erogazione di corrente impercettibilmente dopo 30 secondi e la condizione sham o real è determinata dal codice che viene inserito nell’apparecchio alla sua accensione).
Le valutazioni del dolore sono state eseguite mediante la compilazione di VAS (scale graduate di 10 cm), prima dell’inizio della seduta, al suo termine e dopo 90 minuti. I risultati hanno mostrato una diminuzione statisticamente significativa del dolore, immediatamente dopo la fine della seduta di stimolazione eccitatoria su M1, effetto che svanisce dopo 90 minuti, e non è presente in seguito nelle altre 3 condizioni di stimolazione.
Alla luce di questi risultati la tDCS eccitatoria è stata applicata su M1 controlaterale al lato dell’amputazione in 10 sedute da 15 minuti di cui 5 sham stimulation e altre 5 real stimulation (sempre in doppio cieco) in uno studio single case.
I risultati mostrano che la stimolazione eccitatoria di M1 in 5 sessioni ripetute è in grado di ridurre il PLP a lungo termine (follow-up fino a 2 mesi), e anche il dolore al moncone.
La terapia è rivolta a pazienti bipolari attualmente in buon compenso psicopatologico. Prima dell’inizio degli incontri verrà effettuato un colloquio clinico ed una valutazione psicodiagnostica che sarà ripetuta al termine dei 10 incontri per monitorare i risultati della terapia.
PSICOEDUCAZIONE PER IL DISTURBO BIPOLARE
Il Disturbo Bipolare ha una prevalenza nella popolazione tra il 3 ed il 5%, con conseguenze sulla qualità della vita molto negative. Negli ultimi anni è stata ampiamente dimostrata l’efficacia della Psicoeducazione nella prevenzione delle ricadute e nel miglioramento della qualità di vita delle persone con disturbo bipolare. Il trattamento di gruppo proposto da Colom e Vieta della sezione Psicoeducazione del Barcelona Bipolar Disorder Program, è attualmente l’intervento psicoterapico migliore nell’ integrare e potenziare l’efficacia della terapia farmacologica nella cura del disturbo bipolare.
ORGANIZZAZIONE, COSTI e SCOPI della TERAPIA
La terapia si svolgerà in un gruppo composto da un massimo di 15 persone. Si strutturerà in 10 sessioni a cadenza settimanale, della durata di un ora e mezza ciascuna, dalle 18.30 alle 20.00 presso la sede in via delle Porte Nuove, 10 Firenze .
COSTO 300 euro (IVA inclusa)
Lo scopo della terapia è quello di migliorare la qualità della vita di chi soffre di Disturbo Bipolare ed apprendere una tecnica che aiuti il paziente ad aver un minor numero di ricadute. Questo avverrà attraverso l’aiuto a gestire meglio le crisi, a riconoscere i segnali iniziali ed affrontarli precocemente.
TEMI DELLE SESSIONI:
1) Descrizione generale della terapia di gruppo, introduzione e definizione.
2)Descrizione e definizione del Disturbo Bipolare
3)Sintomi maniacali e ipomaniacali indotti da sostanze
‘Mate choice and courtship in humans is complex,’ said Professor Robin Dunbar. ‘It involves a series of periods of assessments where people ask themselves “shall I carry on deeper into this relationship?” Initial attraction may include facial, body and social cues. Then assessments become more and more intimate as we go deeper into the courtship stages, and this is where kissing comes in.’
[…]
To understand more, Rafael Wlodarski and Professor Robin Dunbar set up an online questionnaire in which over 900 adults answered questions about the importance of kissing in both short-term and long-term relationships.
Rafael Wlodarski explained: ‘There are three main theories about the role that kissing plays in sexual relationships: that it somehow helps assess the genetic quality of potential mates; that it is used to increase arousal (to initiate sex for example); and that it is useful in keeping relationships together. We wanted to see which of these theories held up under closer scrutiny
What’s in a kiss? A study by Oxford University researchers suggests kissing helps us size up potential partners and, once in a relationship, may be a way of getting a partner to stick around. (…)
Il trauma da tradimento descrive il dolore dovuto alla rottura della fiducia nelle persone e nelle istituzioni su cui l'individuo contava per la sopravvivenza
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Fenomenologia dell’amicizia col benefit
In inglese è il “friend with benefits”: si tratta di relazioni di amicizia che comprendono il beneficio del rapporto sessuale, senza il coinvolgimento e gli impegni di un rapporto di coppia.
(Lehmiller et al., 2011).
In brasiliano “amigo colorido”, in italiano, più prosaicamente, trombamico/a (con la variante di scopamico/a), che per praticità chiameremo in questo articolo TA.
Questo tipo di rapporto, sempre più frequente nella società occidentale, viene studiato da psicologi e sociologi per le possibili implicazioni sulla salute fisica (malattie sessualmente trasmesse) e psichica (a seconda di come possono evolvere o finire). La TA va distinta dal cosìdetto “hookup”, o rapporto sessuale occasionale tra sconosciuti o conoscenti che ha luogo un’unica volta. Per parlare di TA gli incontri sessuali devono essere più di uno, e soprattutto devono interessare persone legate da un rapporto di amicizia.
In diversi studi americani, condotti sulle popolazioni studentesche, oltre la metà degli intervistati ha riportato pregresse esperienze di TA (Bisson and Levine, 2009). Nonostante l’attenzione si sia concentrata come sempre sugli studenti universitari, per la relativa facilità ad essere reclutati e studiati, la TA può riguardare pure età più avanzate, anche se mancano dati precisi in tal senso.
Le ricerche hanno mostrato come gli incontri di TA sarebbero caratterizzati da una varietà di attività sessuali (sesso orale, toccamenti, penetrazione), anche se il rapporto completo è quello che si manifesta con più frequenza. Spesso i partner concordano una sorta di “regolamento”, che comprende accordi sulle precauzioni da prendere durante l’atto sessuale e sulla privatezza degli incontri (chi può sapere della TA?).
In realtà un esplicito “negoziato” relazionale spesso non viene fatto e questo può rendere comunque il rapporto problematico. Gli intervistati hanno individuato proprio nell’attività sessuale con una persona conosciuta e fidata il maggior vantaggio di questo tipo di rapporto, oltre che la possibilità che dall’esperienza fisica possa nascere un legame affettivo. Tra gli svantaggi della TA sono stati individuati timori rispetto alla possibilità di rovinare l’amicizia o la possibilità di provare sofferenze emotive a causa del coinvolgimento sessuale. Gli intervistati, in particolare i maschi (che sorpresa…), hanno comunque dichiarato che la TA susciterebbe più reazioni emotive positive, che negative (Owen and Fincham, 2011).
Rispetto al profilo demografico delle persone che sperimentano la TA, si tratta soprattutto di soggetti che vivono in aree urbane (ah, la pace della campagna…) e che solitamente non sono religiosi praticanti (peccatori…).
Sembra che i maschi abbiano più esperienze di TA rispetto alle femmine (54% vs 42), come del resto accade anche per i rapporti sessuali occasionali, anche favoriti da un maggior permissivismo a livello sociale, visto che ancora oggi le donne sessualmente più “sportive” possono essere denigrate o non viste favorevolmente (Schmitt et al., 2003). Quest’ultimo fatto potrebbe costituire un deterrente per le femmine rispetto all’ esprimere il proprio interesse per i rapporti occasionali, costituendo perciò un bias per gli studi. Un aspetto interessante da tener conto è che è stato dimostrato che se la donna si dichiara emotivamente coinvolta con il partner occasionale, il giudizio sociale negativo migliora (Cohen and Shetland, 1996), come a dire che il coinvolgimento emotivo legittima l’atteggiamento libertino.
Altri studi evidenziano come le femmine tendano a considerare la TA in modo più emotivo e meno fisico rispetto ai maschi, forse nel tentativo di giustificare e autoassolvere un comportamento che può essere biasimato a livello sociale (Mc Ginty et al., 2007).
L’abuso di alcol favorirebbe la nascita di questo tipo di rapporti, soprattutto per quanto riguarda le femmine (Owen and Fincham, 2011).
Spesso i trombamici hanno una visione dell’amore non particolarmente romantica, credono di potersi innamorare di più persone nel corso della vita e sono convinti che il sesso possa avere un senso anche senza amore (Puentes et al., 2008).
Secondo Mongeau e colleghi (2013) esisterebbero ben sette sottotipi diversi di TA: i veri amici (persone legate da un reale e sincero rapporto di amicizia, con il “benefit” come accessorio), i “solo sesso” (si pensa all’altra persona solo quando si ha voglia di sesso), i “salvagenti sessuali” (persone che condividono lo stesso gruppo sociale e che a fine serata, quando il party finisce, si ritrovano nello stesso letto), i TA “in transito” (TA che sfociano in vere relazioni sentimentali; in realtà questa categoria comprende tre sottotipi a seconda che ci sia o no un’intenzionalità consapevole o meno di utilizzare la TA come anticamera del rapporto di coppia), i “terminandi” (residuati sessuali di una relazione di coppia ormai conclusa).
Gli studiosi sottolineano la grande utilità di avere a disposizione questa lista di categorie, per definirsi in modo preciso a livello relazionale, anche sui social network, superando finalmente la vetusta dicotomia single/fidanzato (o sposato).
Di questo passo arriveremo al punto che quando incontreremo un amico di infanzia, che non vediamo da anni, alla fatidica domanda “Beh allora ti sei sposato, hai fatto figli?”, lui potrà rispondere “No, però ho un salvagente sessuale!”.
Restando in tema di rapporti amicali, ma discostandosi leggermente dalla TA, vale la pena accennare a un recente studio texano (“in Texas ci nascono solo tori e checche” gridava il Sergente Hartman in Full Metal Jacket), che è andato a indagare un altro tipo di benefit, che compare nelle amicizie uomo-donna, quando però il “lui” è omosessuale (Russel et al., 2013). Il plus in questo tipo di rapporti sarebbe l’imparzialità nelle consulenze sentimentali e nei consigli amorosi. Lo studio, condotto usando i social network, ha mostrato come le donne eterosessuali percepiscano la consulenza offerta da un uomo gay come più affidabile di quella offerta da un uomo o una donna eterosessuale. Allo stesso modo, i partecipanti maschi gay percepiscono i consigli d’amore di una donna eterosessuale come più affidabili rispetto allo stesso consiglio offerto da un uomo o una donna omosessuale.
Gli studiosi hanno motivato le predilezioni dall’assenza di “conflitti di interesse” in questi tipi di rapporti, privi di sentimenti di rivalità o attrazione sessuale.
Per concludere, l’amicizia tra uomo e donna può esistere eccome, anche se pare sempre più complessa.
At a party, the shy person is standing by herself but looks uncomfortable (“I wish I had the nerve to talk to somebody. I wish somebody would come and talk to me.”). The introvert is standing by herself, but looks content (“Don’t bother me. I’m happy just standing here holding up this wall.”).
No, shyness is not the same as introversion. In fact, the motivational nature of shyness has more in common with extroversion than introversion.
An introvert is someone who prefers solitary activities but can be social when the need arises, such as when attending public functions, such as dinner parties and poetry readings. On the other hand, the shy person is someone who truly wants to be with others.
In fact, my own research indicates that one of the most common strategies used by shy individuals to deal with their shyness is what I call “forced extroversion.” With forced extroversion, shy individuals will go voluntarily to a variety of social activities, such as parties, clubs, and shopping centers, with the specific intent of meeting other people.
While shy individual go to great lengths to be in those setting where they will have the opportunity to socialize with others, for a variety of reason, they find socializing difficult. For example, while going to a party with the specific intent of meeting others, a shy person may have trouble talking to someone he or she is attracted to or wants to get to know.
To help clarify this distinction between shyness and introversion, consider this example. At a party, the shy person is standing by herself but looks uncomfortable (“I wish I had the nerve to talk to somebody. I wish somebody would come and talk to me.”). The introvert is standing by herself, but looks content (“Don’t bother me. I’m happy just standing here holding up this wall.”).
Actually, unlike the shy person who probably went to the party willingly, it is unlikely the introvert would go to a party at all. Thus, while both the shy individual and the introvert may be standing against the wall at the party, their reason for doing so are totally different: the introvert is there because he prefers to be, whereas the shy individual is there because she feel she has no choice. As this example illustrates, what shyness really comes down to is a matter of control. For shy individuals, their shyness controls them.
For more information on dealing effectively with your shyness, visit the Indiana University Southeast Shyness Research Institute at www.ius.edu/shyness.
I cani provano emozioni nello stesso modo dei bambini
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
E’ riuscito a fare al suo cane Callie, e altri 11, un esame così importante come la risonanza magnetica. Il fine era di indagare il cervello canino, per vedere se funzionava come il nostro, sopratutto per quel che riguarda la competenza emotiva.
Dopo un paio di anni di training è riuscito a far si che una dozzina di cani riuscisse ad effettuare la risonanza magnetica e da questa è emerso che, nel momento in cui il cane veniva stimolato con immagini del padrone, del cibo o di una mano si attivavano quelle aree del nucleo caudato come avviene in noi esseri umani.
L’attivazione dell’area analoga viene detta “omologia funzionale” e ci suggerisce che i cani abbiano una competenza emozionale, per quel che riguarda emozioni positive, come i bambini; sono quindi in grado di mostrarci amore ed affetto più che come fossero soltanto dei migliori amici.
Le aree cerebrali umane che si «illuminano» quando si pensa a situazioni piacevoli (cibo, amore, denaro) sono esattamente le stesse che si «illuminano» nel cane quando gli si fornisce l’indicazione di dove è il suo cibo preferito.
La terapia assistita con gli animali (AAT) può essere particolarmente adatta alle persone con autismo permettendo una forma di interazione meno stressante
I motivi principali dei metodi alternativi alla sperimentazione animale sono due: evitare all’animale la sofferenza e sviluppare modelli più attendibili
Lo studio di Hui Gan et al. (2019) ha esplorato in modo approfondito come gli animali domestici possono influenzare la salute mentale degli adulti anziani
Trösch e colleghi (2019) hanno studiato come i cavalli percepiscono e reagiscono alle emozioni umane e come questo potrebbe impattare sul loro benessere
Lorenz elaborò il concetto di imprinting, fissazione di un istinto innato su un determinato oggetto, costrutto ancora attuale e studiato dalle neuroscienze
Nel libro L'ultimo abbraccio vengono messe in luce le dinamiche legate alle emozioni di alcuni animali facendoci comprendere la natura a cui apparteniamo
Il video dell'ottavo incontro di Dialoghi con Sandra. Insieme al Dott. Gabriele Caselli si è discusso di perchè vogliamo gli animali in casa e cosa ci danno
Psicoeconomia – Le persone attribuiscono più valore alle cose per le quali devono attendere a causa di un processo che gli psicologi chiamano auto-percezione – capiamo cosa noi stessi vogliamo osservando il nostro comportamento (se aspettiamo tanto per una cosa significa che la desideriamo tanto).
Diciamolo, a nessuno piace attendere. Ma come replichereste all’affermazione che proprio l’odioso atto di attendere ci rende più pazienti e più disponibili a rimandare la nostra soddisfazione?
Considerate la scelta fra avere l’ultimo modello di smartphone, che verrà messo in vendita la settimana prossima, e aspettare per un modello ancora più nuovo, disponibile il prossimo mese. Può il fatto di attendere una settimana per esprimere la propria scelta (non decido adesso ma decido fra una settimana), influire sulla scelta stessa?
Secondo un recentissimo studio di Ayelet Fishbach, Professore di Behavioral Science and Marketing alla Booth School of Business dell’Università di Chicago, e Xiani Dai, ricercatore della CUHK Business School dell’Università di Hong Kong, attendere prima di esprimere una scelta di fatto rende le persone più pazienti.
Per verificare le loro ipotesi, i due ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti negli Stati Uniti, in Cina e Hong Kong. In un primo esperimento i ricercatori hanno invitato i partecipanti a rendersi disponibili a partecipare a futuri studi. Come premio per tale disponibilità tutti i partecipanti potevano scegliere fra due lotterie: una consentiva di vincere 50$ in tempi brevi, l’altra 55$ ma in tempi più lunghi.
Le attese erano diversificate fra 3 gruppi sperimentali: il 1° gruppo poteva subito scegliere fra 50$ in 3 giorni o 55$ in 23 giorni; per gli altri due gruppi si prevedeva una vincita di 50$ in 30 giorni oppure una vincita di 55$ in 50 giorni, ma mentre il 2° gruppo poteva scegliere subito, il 3° gruppo doveva aspettare prima di esprimersi. Ventisette giorni dopo il primo invito, i ricercatori contattarono i componenti del 3° gruppo, a quel punto questi partecipanti, come quelli appartenenti al 1° gruppo, dovevano scegliere fra aspettare altri 3 giorni per vincere 50$ oppure altri 23 giorni per vincerne 55.
Nel 1° gruppo soltanto il 31% ha scelto di aspettare per un premio maggiore. Nel 2° gruppo la percentuale è salita al 56%. Invece, fra le persone del 3° gruppo, che hanno dovuto aspettare diverse settimane per esprimere la loro preferenza, l’86% ha scelto di aspettare pur di ricevere un premio maggiore. Anche se avevano le stesse alternative del 1° gruppo, il fatto di aver aspettato a scegliere ha fatto aumentare la loro pazienza.
Evidentemente avere del tempo per esprimere la propria decisione non significa semplicemente fare una scelta in anticipo e aspettare di comunicare tale scelta.Se così fosse i livelli di pazienza dimostrata dal 1° e dal 3° gruppo non avrebbero presentato differenze. Il fatto che il terzo gruppo si dimostri ulteriormente disponibile ad attendere, sostengono gli autori, implica che l’attesa aumenta il valore attribuito alla scelta tanto da incidere sul livello stesso di pazienza.
In un altro esperimento è emerso invece il fatto che quando il premio in gioco è uno solo, non siamo disposti ad attendere ulteriormente e preferiamo affrontare dei costi (come quelli di spedizione) pur di averlo subito: l’attesa fa aumentare il valore percepito dell’oggetto desiderato ma la nostra pazienza in questo caso diminuisce.
I risultati di questi esperimenti modificano le teorie esistenti sull’argomento in quanto identificano le condizioni nelle quali l’attesa nella formulazione di una scelta può aumentare il livello di pazienza di una persona.
In generale, secondo la Fishbach, le persone attribuiscono più valore alle cose per le quali devono attendere a causa di un processo che gli psicologi chiamano auto-percezione – capiamo cosa noi stessi vogliamo osservando il nostro comportamento (se aspettiamo tanto per una cosa significa che la desideriamo tanto).
Dai, X., Fishbach, A. (2013). When waiting to choose increases patience. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 121, 256-266. (DOWNLOAD)
La Psicoterapia può cambiare il cervello? – Neuroscienze
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Un interessante articolo sugli effetti della psicoterapia nell’attività funzionale del cervello.
Un primo importante dato emerso è che la psicoterapia apporta dei significativi cambiamenti nell’attività funzionale del cervello dei soggetti affetti da disturbi psichici e che tali cambiamenti cerebrali si correlano al miglioramento clinico di questi soggetti, per cui solo nei soggetti in cui alla fine di un periodo di trattamento psicologico si osserva una significativa riduzione dei sintomi clinici è rinvenibile un cambiamento significativo dell’attività funzionale del cervello (Wykes-Brammer-Mellers et al. 2002). Un secondo dato di non minore importanza è che la psicoterapia induce un cambiamento nell’attività funzionale di specifiche aree cerebrali, ossia induce un cambiamento nell’attività di quelle aree corticali e/o sottocorticali il cui funzionamento anormale sostiene i sintomi clinici che caratterizzano una specifica patologia psichica (Kandel 1999).
Recentemente, molti neuroscienziati – ancora una volta un nome per tutti: Kandel – hanno sostenuto che la psicoterapia non è solo un efficace trattamento psicologico, in grado di indurre dei signif… (…)
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E’ più facile guarire un bambino felice
Come in ospedale c’è un personale che si occupa della malattia, deve esserci anche un personale che si occupa della parte sana del bambino. Ecco allora che, affianco a medici, infermieri e psicologici, la presenza di figure con ruolo ludico come il dottore clown, diventa di fondamentale importanza.
Ridere è un’attività che travolge meccanismi mentali, sblocca sistemi neurovegetativi, offre sponde al cognitivo, lubrifica la relazione sociale, diviene sistema pedagogico: fa scintillare la vita che è in noi (Fioravanti e Spina, 2006).
La ricerca ha dimostrato i diversi effetti benefici della risata: incrementa la secrezione di sostanze chimiche naturali, catecolamine ed endorfine che migliorano il senso di benessere generale (Adams, 1999); aumenta a livello cerebrale l’attività elettrochimica, con conseguente maggiore reattività, creatività e acutezza mentale, grazie alla produzione di beta endorfine responsabili dell’innalzamento della soglia della percezione del dolore (Fioravanti e Spina, 2006); diminuisce la secrezione di cortisolo e abbassa il tasso di sedimentazione, migliorando la risposta immunitaria; purifica le vie respiratorie superiori; provoca una ginnastica addominale che ha effetti profondi sull’apparato digerente; diminuisce l’insonnia, poiché le tensioni interne diminuiscono; è un antidoto allo stress. In sintesi l’humour costituisce il fondamento di una buona salute mentale (Adams, 1999).
I pericoli che possono sorgere, come conseguenza del trauma emotivo che accompagna l’ospedalizzazione in età evolutiva, sono resi noti ormai da tempo ma ancora oggi sono pochi gli ospedali pediatrici italiani che si occupano seriamente di questa questione (Capurso, 2001). Ogni piccolo paziente che entra in ospedale porta con sé, non solo la sua malattia ma anche il suo “essere bambino”, che è indissolubilmente collegato a una parte sana, ricca di potenzialità, di attitudini, di competenze. Come in ospedale c’è un personale che si occupa della malattia, deve esserci anche un personale che si occupa della parte sana del bambino. Ecco allora che, affianco a medici, infermieri e psicologici, la presenza di figure con ruolo ludico come il dottore clown, diventa di fondamentale importanza.
Il gioco è la via principale per aiutare il bambino ad affrontare situazioni dolorose, gran parte della salute mentale del bambino dipende dalla possibilità di giocare perchè contribuisce a ridurre lo stress emotivo, favorisce la comprensione di quanto succede e sviluppa nel piccolo la capacità di superare la difficile prova dell’ospedalizzazione. Giocare è bello e un ospedale dove si gioca non può essere un posto brutto (Capurso, 2001).
I dottori clown non fanno diagnosi e non compilano cartelle cliniche, loro offrono una sorta di ricette che non si applicano alla parte malata del paziente ma a ciò che in lui è in buona salute. Essere un dottore clown vuol dire essere amore puro in azione, coinvolgere l’altro nella risata, donarsi incondizionatamente. Per fare ciò si usano armi tutte particolari: meraviglia, curiosità, creatività, spontaneità, servizio e strategie d’amore (Adams, 1999), con l’unico scopo di rendere più serena la vita dei piccoli pazienti ricoverati, per non far spegnere in loro il sorriso, l’entusiasmo, la gioia di vivere (Simonds e Warren, 2003).
Il dottore clown entra nella stanza del bambino in punta di piedi, la sua è una presenza non ingombrante, diventa partecipe della consapevolezza che il bambino ha della sua malattia. Egli è soltanto uno strumento che accoglie il dolore del bambino, lo comprende, lo trasforma e lo restituisce in una forma a lui più adatta.
Una conferma dell’importanza della presenza di tale figura in un ospedale pediatrico è venuta da uno studio condotto nel 2009 all’interno dell’ospedale G. Salesi di Ancona con l’ipotesi iniziale che la presenza di una figura ludica, come quella del dottore clown, diminuisca la frequenza di comportamenti di disagio nei bambini che entrano in contatto con la realtà ospedaliera.
Lo studio, che ha riguardato 40 bambini ospedalizzati di età compresa tra 2 e 10 anni, si è basato sulla rilevazione della frequenza di comportamenti, assunti come indicatori di disagio da parte del bambino, attraverso la somministrazione di uno schema di codifica, elaborato e validato, a partire dalle osservazioni condotte nei reparti.
La rilevazione della presenza o assenza di questi comportamenti è avvenuta prima nel gruppo sperimentale, formato da bambini che hanno preso parte durante l’ospedalizzazione alle attività con il dottore clown, e poi nel gruppo di controllo, formato da bambini che non hanno preso parte alle attività.
I risultati ottenuti hanno mostrato una notevole differenza tra i due gruppi che va a confermare l’ipotesi iniziale: l’interazione con il dottore clown in un ospedale pediatrico aiuta i piccoli pazienti ad affrontare un’esperienza dolorosa e stressante e diminuisce significativamente la comparsa di comportamenti di disagio da parte loro.
Sembra impossibile pensare a una reale unione di due elementi così contrapposti: da una parte il gioco, il riso, il divertimento e dall’altra parte la sofferenza, il dolore fisico e psichico, ma ciò è possibile e i dottori clown fanno di questa unione il principio della loro vita. È sulla base dell’unicità di questa relazione tra dottore clown e persona che l’ospedale può diventare un posto migliore e si può iniziare a utilizzare gli effetti benefici che una risata può apportare.
Dopotutto, é più facile guarire un bambino felice (Simonds e Warren, 2003).
Ripensare la psicoterapia attraverso Madonna e Bateson
“La psicoterapia attraverso Bateson“: è questo il titolo del lavoro di Giovanni Madonna, psicologo-psicoterapeuta del Servizio Sanitario Nazionale, nonché didatta presso la sede di Napoli dell’IIPR (Istituto Italiano Psicoterapia Relazionale).
Ciò che più colpisce del testo, ristampato quest’anno con la Casa Editrice Franco Angeli, dopo una fortunata prima edizione curata nel 2003 da Bollati Boringhieri, è che esso, lungi dall’essere una mera presentazione e illustrazione del complesso pensiero batesoniano, ne costituisce un’ interessante proposta di rilettura e sviluppo.
Tale lavoro, pur proponendo una teoria della psicoterapia, per le sue implicazioni epistemologiche si rivolge anche ai non clinici e fornisce un contributo a una pratica della psicoterapia fondata sulla sensibilità e alla sua possibilità di insegnamento/apprendimento. L’ “estetica” (della cura), menzionata nel sottotitolo, non va intesa in senso filosofico, come dottrina del bello; va invece collegata, secondo l’etimo greco, alla conoscenza sensibile, e sta a indicare il sentimento del rispetto da parte del clinico, la capacità di uscire dai percorsi usuali, di assumersi la responsabilità di sé e degli altri.
Madonna di recente, confermandosi ancora una volta come uno dei maggiori esperti del pensiero batesoniano, ha portato a compimento un secondo volume dal titolo “La psicologia ecologica. Lo studio dei fenomeni della vita attraverso il pensiero di Gregory Bateson” in cui, pensando i temi tradizionali della psicologia (la percezione, l’apprendimento, la memoria, la personalità, le emozioni…) in chiave ecologica, concepisce la psicologia come parte integrante e non separabile della più vasta ecologia della mente.
Professor Madonna com’è entrato in contatto con il pensiero di Gregory Bateson e cosa di esso apprezza e ama di più?
“Ho studiato psicologia a Roma, alla “Sapienza”, nella seconda metà degli anni Settanta. Lì qualche docente particolarmente illuminato – non ricordo chi – inserì nel programma d’esame un paio di saggi tratti da “Verso un’ecologia della mente”, che è stato pubblicato in Italia nel 1976. Mi pare si trattasse di “Verso una teoria della schizofrenia” e de “La cibernetica dell’‘io’: una teoria dell’alcoolismo”. Fu così che entrai in contatto col pensiero di Bateson. Ne rimasi affascinato per la sua capacità di mettere insieme cose comunemente ritenute molto distanti l’una dall’altra, e studiate nell’ambito di discipline diverse. La capacità di connessione è tuttora l’aspetto del pensiero batesoniano che amo di più.”
Nel suo primo testo grande spazio è affidato a un tema a lei molto caro quello della formazione… Colpisce molto laddove lei, parlando di una forma di “apprendimento a bottega”, afferma che “il didatta non può insegnare in maniera diretta ma può solo allestire le condizioni più adatte al realizzarsi dell’apprendimento” (Giovanni Madonna, “La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, 2013, p. 33)… Può spiegarci meglio cosa intende dire con ciò?
“Intendo dire che uno psicoterapeuta lavora principalmente con la persona che è. E i modi di essere non sono singoli elementi di comportamento.Questi, sì, possono essere insegnati e imparati, in maniera diretta e volendo farlo: funzionano sulla base delle leggi del rinforzo, per le quali gli elementi di comportamento premiati tenderanno a riproporsi e quelli puniti tenderanno a estinguersi. E i premi e le punizioni possono essere decisi e anche programmati. Ma i modi di essere possono essere concepiti come classi di comportamento. E le classi di comportamento non funzionano sulla base delle leggi del rinforzo; attengono invece alle modalità di somministrazione del rinforzo (al fatto, per esempio, che i rinforzi siano somministrati con modalità prevalentemente continua o discontinua, premiante o punitiva, eccetera). E le modalità di somministrazione del rinforzo molto difficilmente possono essere decise e programmate: attengono a loro volta ai modi di essere, ai tratti di personalità, o aspetti del carattere, che dir si voglia. E questi funzionano al di fuori della coscienza e della volontà. E allora un didatta – “a bottega”, appunto – non può che allestire le condizioni in cui più probabilmente un certo apprendimento possa, per vie imprevedibili, realizzarsi… può coltivare, non progettare e programmare.
A un tratto lei poi, parlando più nello specifico della psicoterapia afferma che lo psicoterapeuta sa di “non possedere e di non poter raggiungere la verità assoluta e sa che, insieme al suo paziente ne costruisce una” (Giovanni Madonna, La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, 2013, p.71 sg.), dunque il terapeuta deve rinunciare alla scoperta della verità? Non trova che ciò corra il rischio di regalare un eccessivo senso di incertezza?
Da quando, all’inizio degli anni Ottanta, c’è stato l’avvento della cibernetica del secondo ordine – e dell’introduzione dell’osservatore nel campo di osservazione, che essa ha comportato – che piaccia o no, nessuno studioso (fisico, medico, psicologo o antropologo che fosse) ha potuto più pretendere di conoscere le cose in maniera oggettiva ed esaustiva. Tutti si son dovuti accontentare di conoscere le cose in maniera soggettiva e parziale. Lo psicoterapeuta che si introduce nel campo di osservazione è certamente più incerto e dubitoso – e dunque più umile e tollerante – ma il fatto di sapere di non poter raggiungere la verità lo avvicina un po’ di più alla verità, anzi alla verità sulla verità, che è una verità di ordine più elevato: “vero è che non posso conoscere la verità”… più incerto, sì, ma forse anche un pochino più saggio o, almeno, meno protervo e arrogante.
Se dunque ho capito bene il modello psicoterapeutico da lei proposto “centrato sul terapeuta”, nutre l’idea di un terapeuta che “riconosca il carattere integrato del sistema che comprende lui insieme al suo paziente, che consideri il verbo “cambiare” anche nella sua accezione intransitiva e per il quale il cambiamento è coevoluzione… che non rivendicherà il merito del cambiamento del paziente, non si sentirà né vorrà sembrare un mago” (Giovanni Madonna, La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, p.42 sg.).
Esatto. E’ Proprio così!
Semplificando, per quanto ciò possa essere possibile, cosa a suo avviso è responsabile dell’insorgenza della patologia e cosa possiamo invece intendere per guarigione?
Umh… effettivamente è difficile dirlo con poche e semplici parole… Diciamo che la psicopatologia insorge quando c’è contrasto fra parti di una mente e disconoscimento o negazione della connessione fra le parti in contrasto. Il disconoscimento o la negazione vengono generati da “errori epistemologici”, che allontanano gli esseri umani da come funziona la natura e allestiscono le condizioni in cui la psicopatologia può attecchire. Gli errori epistemologici più comuni e dannosi sono a) Credere di percepire le cose come sono; b) Ignorare la circolarità dei sistemi e c) Tentare di controllare una parte del sistema cui apparteniamo e perfino noi stessi. Possiamo chiamarli, sinteticamente, errore dell’obiettività, errore della linearità ed errore della finalità. Questi errori, insieme e in combinazione, orientano alla separazione, in particolare alla separazione di chi li commette dal tutto più ampio che lo comprende. La separazione rappresenta l’humus sul quale la psicopatologia attecchisce e del quale si nutre.
Quanto alla guarigione, possiamo dire che attiene alla correzione degli errori epistemologici – e delle loro implicazioni – e alla riconnessione di ciò che è stato separato.
Ci parla un po’del suo ultimo libro e di cosa intenda dire quando parla di “ecologia della mente”?
L’ecologia della mente è un paradigma epistemologico proposto negli anni Settanta da Gregory Bateson. Possiamo considerarla una scienza connettiva in virtù della quale possiamo giungere all’integrazione dell’insieme dei fenomeni biologico/mentali, ovvero di una gamma molto ampia di fenomeni apparentemente assai diversi l’uno dall’altro, ma molto simili nell’organizzazione e nel funzionamento. Questi fenomeni riguardano la vita in generale: l’evoluzione, l’apprendimento, il linguaggio e tutti gli altri processi, piccoli e grandi, che innervano di sé e che costituiscono il mondo degli esseri viventi.
Col mio ultimo libro, “La psicologia ecologica” ho voluto rendere esplicita la psicologia sulla quale, con il precedente libro, “La psicoterapia attraverso Bateson”, avevo fondato la proposta di una psicoterapia sistemica. Ne “La psicologia ecologica” propongo la psicologia attraverso l’epistemologia batesoniana ovvero in termini di <<ecologia della mente>>, come parte integrante e non separabile di quella matrice epistemoplogica.
Una nuova ricerca messa a punto da David Comer Kidd e Emanuele Castano (The New School for Social Research), pubblicata sul giornale Science, ha indagato l’effetto che la lettura di opere di narrativa ha sulla capacità di comprendere gli stati mentali degli altri, ovvero sulla Teoria della mente.
Quest’ultima è una complessa abilità sociale che ci permettere di “leggere” la mente dell’altro e di comprenderne gli stati mentali. Lo studio vuole indagare in che modo la qualità della lettura, valutata attraverso 3 diversi tipi di narrativa, influiva sulla Teoria della mente dei soggetti. La prima categoria riguardava la narrativa “letteraria”, relativa a quelle opere di maggior prestigio letterario che raccontavano storie percepite come verosimili.
La seconda, la “narrativa di genere”, comprendeva romanzi di fantascienza e la terza, denominata “non-fiction”, raggruppa tutte le opere non categorizzabili nei due gruppi precedenti, come ad esempio le opere di matrice storica. Per ognuna delle tre categorie vennero selezionate delle opere che furono assegnate, secondo un ordine casuale, a ciascuno dei partecipanti. Dopo la lettura dei romanzi, i ricercatori valutarono la Teoria della mente dei soggetti tramite diverse misurazioni.
Una di queste (denominata “Reading the Mind in the Eyes”) consisteva nell’osservare delle fotografie in bianco e nero e cercare di riconoscere l’emozione provata dal soggetto raffigurato. Un’altra, invece, valutava indici cognitivi ed affettivi. Dai risultati emerse che in tutte le diverse misurazioni, i soggetti destinati alla lettura della narrativa letteraria ottennero punteggi mediamente superiori rispetto a quelli assegnati alle altre due categorie, le quali non evidenziarono differenze significative.
Sembra, quindi, che non è sufficiente la lettura di opere di vario genere per migliore la nostra teoria della mente, ma l’elemento cruciale è rappresentato proprio dal tipo di narrativa di cui si fa uso. Sono le opere di narrativa letteraria appartenenti alla prima categoria a stimolare un maggior pensiero creativo ed un coinvolgimento intellettivo superiore che permettono di ottenere effetti positivi sulle nostre abilità sociali.
La letteratura narrativa richiede, infatti, una maggior coinvolgimento intellettivo del lettore, necessario per comprendere le mille sfaccettature che si snodano nel racconto e la complessità di ciascun personaggio. Come accade nella vita reale, al lettore è richiesto uno sforzo cognitivo per capire i personaggi nella loro totalità e dare senso al loro comportamento. Sembra, dunque, che la capacità della lettura e della narrativa di influire positivamente sulle abilità sociali e sulla teoria della mente è determinata dal fatto che i romanzi stimolano un processo intellettivo raffinato necessario per scrutare dentro ogni personaggio.
Ricerca di un percorso nella cura dei disturbi alimentari:
dalla struttura secondaria all’organizzatore emotivo di base
Nei DCA è spesso possibile ricostruire l’esistenza di un significativo disturbo nell’interazione precoce con la madre – che ha coinvolto il contatto corporeo e la nutrizione, il più delle volte con manifestazioni clinicamente lievi e frequentemente con insorgenza entro il terzo mese di vita della paziente – che sembra in grado di organizzare un disturbo dei nascenti sentimenti relativi al Sé corporeo e all’alimentazione.
Ciò avviene in presenza di una particolare difficoltà materna, spesso specifica per “quella figlia”, mentre più raramente è una caratteristica che può ripetersi con più figli. Ho quindi momentaneamente optato per la definizione di un profondo disturbo emotivo di “maternità conflittuale” che ben rende l’estensione al Sé sia della madre che della figlia, piuttosto che orientarsi sulla sola alimentazione.
Nell’esperienza che sommariamente riporto mi avvalgo di un’impostazione diagnostica in cui opera una apposita équipe, complessa e diversificata per formazione e specializzazione che, oltre a utilizzare i diversi strumenti tipici per i disturbi alimentari, è addestrata a utilizzare come elemento centrale, ogni volta sia possibile, un accurato lavoro di ricostruzione delle vicende emotive precoci tra madre e figlia e dell’evidente disturbo del contatto tra loro: in atto allora, e di solito tutt’ora presente.
Le madri vengono quindi coinvolte come testimoni di quanto è accaduto anni prima, e da queste vere e proprie collaborazioni emergono spesso elementi molto significativi.
La prospettiva che si apre in questo percorso è che per disinnescare il disturbo alimentare in atto può divenire prioritario tentare di aiutare a sanare il tormento persistente tra madre e figlia. Permettere quindi innanzitutto, per quanto riguarda la figlia, il passaggio da una diagnosi di disturbo “congenito” e misterioso del Sé a un identificabile, descrivibile e comprensibile disturbo emotivo nella relazione primaria. È al contempo auspicabile la riparazione, per quanto riguarda la madre e il suo cruccio altrimenti ineliminabile, anche indipendentemente dalle patologie d’altro genere eventualmente presenti in entrambe. La riparazione, in sostanza, può aiutare la mamma a riaggiustare almeno in parte il proprio sentimento materno e percepirsi come una buona madre, in quanto finalmente in grado di fornire il proprio aiuto emotivo profondo alla figlia. Per quest’ultima la riparazione può comportare il sentirsi almeno in parte pacificata nel suo essere al mondo e sanare parzialmente il suo sentimento di figlia che non avrebbe dovuto esserci, o non essere così.
Può essere al contrario, ed è possibile asserirlo anche per le frequenti constatazioni nelle pazienti pluritrattate, assolutamente fuorviante perseguire a priori e prematuramente percorsi di cosiddetta “emancipazione” tra le due, che spesso fomentano e mantengono nel tempo distruttive polemiche e caratterialità lasciando invariato il disturbo di fondo: la qualità tormentosa mantiene infatti attiva la relazione patologica anche a distanza.
L’esperienza clinica dimostra invece che, quando è possibile, il risanamento della tormentosità della relazione può facilitare una più naturale successiva evoluzione e un più fisiologico distacco.
L’orientamento attuale nella comprensione e cura dei Disturbi Alimentari, che descriverò qui brevemente, ha preso avvio a partire da osservazioni cliniche e ha a sua volta fornito materiale per il lavoro tuttora in atto sulla psicopatologia, soprattutto per quanto riguarda il criterio della differenziazione tra sentimenti di base del Sé, vicissitudini relazionali e organizzazioni sintomatologiche.
Il percorso cui mi riferisco nel titolo rientra di fatto in un approccio alla psicopatologia cui faccio riferimento da anni insieme ai colleghi A.R.P.
In questo scritto ometterò volutamente tutte le considerazioni sulla psicopatologia del Sé emergente e delle sue evoluzioni nell’adolescenza, che mi riservo di descrivere in un altro momento. L’obiettivo è invece “raccontare” sinteticamente una modalità di lavoro clinico, in parte già consolidata ma in continua evoluzione, che apre interessanti prospettive su questa complessa patologia.
I disturbi alimentari sono sindromi cliniche complesse, con definizioni diagnostiche tra le più minuziose e dettagliate del DSM – sia nella versione IV (American Psychiatric Association (APA) Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, (DSM-IV-TR), Masson, Milano (2001)) che nella più recente DSM V (American Psychiatric Association (APA) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-5 (2013) – seppure sia comunque difficile includere nelle definizioni le molte variabili di decorso (Per esempio, io ritengo utile considerare l’esistenza di manifestazioni sintomatologiche miste, con rapida alternanza di ritiro dal cibo, attacchi di fame e restrizione, che porta alla disorganizzazione acuta del rituale), sia dal punto di vista della gravità che delle fasi di cronicizzazione e acuzie.
Perché si strutturi un disturbo alimentare vero e proprio sono necessari elementi clinici ben definiti, che poco hanno a che fare con i canoni estetici a cui fanno tanto spesso riferimento i mass media; notizie e dibattiti sul tema non tengono conto della differenza tra “problemi alimentari” e “disturbi alimentari” veri e propri e finiscono per contribuire al peggioramento di situazioni già compromesse, ma non sono da soli in grado di strutturare un disturbo alimentare.
Affinché si sviluppi un vero disturbo alimentare è necessaria la compresenza di due elementi invarianti: un profondo disturbo del sentimento del sé corporeo e un disturbo specifico dell’appetito, che insieme contribuiscono a formare la costellazione “primaria” da cui si scatena, solitamente in adolescenza e proprio sotto la pressione delle spinte evolutive, il ben noto irriducibile tormento verso il proprio aspetto e la propria fame.
Sui disturbi del comportamento alimentare molto è stato detto e molto si dice.
In particolare, i colleghi cognitivisti (C. Fairburn 2003, S. Sassaroli e G.M. Ruggiero (2011), R. Dalle Grave (1993), hanno descritto l’apparato emotivo e cognitivo secondario e ritualistico che caratterizza questi quadri clinici in modo che possiamo ormai considerare clinicamente esaustivo ed efficace e a tali descrizioni, quindi, ci si può riferire. Per apparato secondario intendo tutto quanto di emotivo e cognitivo si mette in moto, in adolescenza, attorno ai due elementi base “primari” cui ho appena fatto riferimento.
Nella mia personale casistica e in quella che afferisce al Servizio Disturbi Alimentari A.R.P. ho da tempo (Seminario sui Disturbi Alimentari, A.R.P. 2005) avuto modo di effettuare alcune osservazioni, molto istruttive, che mi hanno indotto a rivolgere sin dall’inizio della consultazione clinica una specifica e immediata attenzione, oltre che all’apparato secondario, a quello primario – ovvero alle emozioni di fondo che strutturano e organizzano i diversi casi di disturbo alimentare, e ciò sia per quanto riguarda l’aspetto diagnostico sia per il successivo intervento.
Certamente la casistica del nostro Servizio non può essere rappresentativa di tutta la gamma di possibili quadri sintomatologici che caratterizzano i disturbi alimentari in quanto, almeno in parte, è inevitabilmente preselezionata: sia per il tipo di invio che per la scelta da parte delle (Per quanto il numero di casi di disturbi alimentari in pazienti maschi sia in costante aumento, la casistica in carico al nostro Servizio Disturbi Alimentari rimane prettamente femminile; scelgo per questo motivo di riferirmi genericamente a pazienti femmine) pazienti e delle loro famiglie di afferire a una consultazione clinica privata e a una struttura molto caratterizzata (mi riferisco alla notevole differenza rispetto alla casistica afferente, per esempio, ai Servizi Pubblici o ai reparti di degenza ospedalieri) nella sua metodologia.
Ritengo che questa casistica possa comunque fornire un interessante apporto per alcuni spunti di riflessione sia sulla psicopatologia che sulle possibili vie di trattamento.
È importante precisare che l’impostazione clinica che qui presento è nata grazie al contributo iniziale di alcune madri di pazienti, che hanno spontaneamente raccontato quanto era accaduto nei primi mesi di vita della figlia e con la figlia, concorrendo a farci ricorrere e addestrare a una particolare “anamnesi emotiva”: relativa, cioè, ai primi mesi di vita della bambina e al costituirsi della relazione madre-figlia, proprio nella fase di accudimento e nutrizione primari.
Quelle madri hanno descritto reazioni emotive verso la neonata e la necessità di nutrirla che inizialmente ho definito come un “ripudio conflittuale”: una sensazione di disagio, rifiuto, talvolta paura o soggezione per la figlia, che al contempo le faceva sentire profondamente colpevoli e sbagliate, ma anche costrette a “combattere” per eliminare quel sentimento disturbante. Successivamente ho avuto modo di individuare con più precisione una gamma di situazioni differenti e il fatto che, accanto a madri con difficoltà più generalizzate verso la maternità, fosse spesso prevalente una problematicità nel sentirsi idonee, come madri, proprio a causa dei sentimenti sperimentati verso “quella figlia”.
Si è configurata, così, l’ipotesi di un disturbo definibile come maternità conflittuale, cioè un conflitto emotivo complesso che coinvolge il Sé materno e quello della figlia.
Devo in particolare ringraziare una signora (di origini e cultura modeste ma molto lucida sul proprio modo di sentire) che parecchi anni fa, dopo che ebbi visto la figlia con un grave disturbo anoressico-bulimico cronico, mi chiese un appuntamento per spiegare il suo punto di vista ed esprimere il suo cruccio: “Dottore, avrei preferito che questa figlia non ci fosse, perché ero innamorata di un altro e volevo separarmi da mio marito. Addirittura, per un attimo, ho sperato che lei potesse essere figlia dell’altro, ma appena l’ho vista ho capito che non era così: era proprio la copia di mio marito. Non sono cattiva, ma questa odiata creatura non c’entrava niente con la mia situazione, era figlia di un momento di debolezza, quasi una violenza subita. Io so che lei ha sentito in che stato ero: a 2-3 mesi da un lato mi respingeva, dall’altro si attaccava al seno come se fosse l’ultimo pasto, e così ha continuato con il biberon, e adesso fa col cibo. Certo, io non ero tranquilla, anche se cercavo in tutti i modi di impormi di esserlo. Ancora oggi le preparo da mangiare come se fosse il mio modo di farmi perdonare per non averla voluta, ed è per questo che non riesco mai a prepararle del cibo normale, né a dargliene di meno, anche se so che poi vomiterà. Le assicuro, dottore: mia figlia sentiva che io ero in quello stato d’animo”.
La splendida lezione di psicopatologia fornita da questa signora può ben far capire quanto dicevo riguardo al cambio di approccio diagnostico: l’importanza di tornare a chiedere, quando possibile alle persone giuste, al di là di teorie e spiegazioni varie, cosa davvero è capitato tra madre e figlia, anni prima, per comprendere come si è strutturato il disturbo alimentare tuttora presente.
Il cambiamento di approccio ha permesso di intravedere rapidamente anche una possibile modalità di intervento. Ciò è avvenuto anche perché la stessa signora ha accettato di spiegare alla figlia, che appariva irrimediabilmente persa in una sua diagnosi di inguaribilità – era convinta di essere posseduta da una fame “geneticamente” mostruosa e da una profonda e immodificabile cattiveria e deformità – quanto era accaduto. Ne è conseguita una commovente modificazione sia della relazione madre-figlia che della situazione clinica della ragazza.
Le situazioni emotive descritte dalle madri intervistate con il nuovo assetto erano molto diverse tra loro; ne cito alcune: “Le sembrerà strano, ma appena nata mia figlia mi faceva paura, fisicamente paura, anche solo a guardarla. Sembrava già subito determinata e prepotente e avevo davvero difficoltà a nutrirla”; “Quando è nata ho provato subito un profondo sentimento di estraneità: non poteva essere mia figlia, completamente diversa e molto più bella di me, era uguale alla famiglia di mio marito, verso cui ero così in soggezione”; “Era come una clandestina, nella mia vita dedicata al lavoro: la nutrivo appena potevo, il resto del tempo stava con una tata. Ma sembrava che la disturbasse avere a che fare con me, dovevo ogni volta riguadagnarmi, quasi imponendomi, il diritto di accudirla e nutrirla”; “L’aveva voluta mio marito, a tutti i costi. Quando sono rimasta incinta sono stata profondamente contrariata e speravo di abortire, poi è nata e all’inizio l’ho odiata e mi sono odiata. Provavo davvero fastidio ad occuparmene e nutrirla. Lui mi stava addosso, dicendomi che non stavo volentieri con lei perché non lo amavo”; “Ho dovuto allattarla per forza e con un fastidio tremendo fino a tre mesi, con la suocera che mi dava della viziata e della fannullona se solo accennavo all’idea di passare al biberon”.
Come si può facilmente rilevare, ciò che accomuna queste mamme è il fatto di aver sperimentato la maternità con una forte criticità, un vero e proprio momento di crisi.
Con alcune madri non è stato possibile accedere ad alcuna utile traccia emotiva: si tratta di persone con cui si è immediatamente instaurato un contatto troppo disturbato per stabilire una vera alleanza. Nei racconti delle madri più collaborative si rileva spesso, invece, al di là delle notevoli differenze che ogni caso presenta, che sin dalla nascita e già nei primi 3-4 mesi di vita della figlia si è creato un sentimento conflittuale, in vario modo relativo all’esistenza stessa della piccola: un’interferenza emotiva specifica verso il suo corpo e il relativo accudimento e verso la sua nutrizione, un sentimento molto disturbante per la mamma e, conseguentemente, per la bambina.
Sovente in quei resoconti viene descritto un disturbo sub-clinico del rapporto con il cibo, generalmente insorto entro i tre mesi di vita, cui al momento non era stato attribuito un particolare significato e che può riaffiorare alla memoria se, nella ricostruzione anamnestica, si conferisce molta attenzione proprio ai primi mesi – cosa peraltro non sempre facile.
In questi casi non viene dunque descritta una vera e propria patologia alimentare infantile ma un disturbo relazionale, precoce e significativo, con manifestazioni clinicamente lievi a carico dell’appetito, frequentemente entro il terzo mese di vita della bambina, e che può venire collegato dalla madre stessa al “contagio emotivo” con il conflitto personalmente sperimentato nei confronti della piccola.
Se si pensa alle pazienti anoressiche, questo risulta particolarmente rilevante: spesso solo un disturbo profondo, precoce e molto “fisico”, può produrre un effetto così potente da permettere un ritiro, un’astinenza totale dal cibo – probabilmente altrimenti inaccessibile – in grado di persistere addirittura fino alla morte (la situazione più simile è la cosiddetta depressione anaclitica). La capacità di ritirarsi totalmente dal cibo, dalla fame e dal mondo è altrimenti estremamente difficile da raggiungere, e può essere importante reperire e ricostruire un precursore di quell’attitudine, sperimentata in una fase precocissima, magari in sintonia con un profondo ritiro emotivo della madre, come spesso viene dolorosamente descritto.
È essenziale non dimenticare che per molte donne, di tutte le età, provenienze ed estrazioni sociali, la maternità rappresenta un vero e proprio “esame della vita”, spesso particolarmente drammatico: per la puerpera, dal momento in cui nasce il suo bambino, nella particolare condizione post partum può avere inizio un vero e proprio tormento: una incessante e allarmata verifica della propria adeguatezza, come madre ma anche come donna ed essere umano, attraverso la propria capacità di amare, accudire e far crescere il figlio. Ogni reazione, sentimento e comportamento nei confronti del piccolo è vagliato con apprensione e incertezza, con un verdetto sospeso sulla propria capacità di affrontare il compito, divenuto centrale nell’esistenza di quella donna, di essere una buona madre, in grado di provvedere alla sua vita.
Questa atmosfera incombente va tenuta sempre presente, e non solo per i disturbi alimentari. Può costituire infatti la cornice entro cui, mentre una neomamma sorride faticosamente a parenti e amici, dentro di lei si scatenano sentimenti molto intensi e particolarmente violenti, con difficoltà spesso non facili da sopportare.
Se una madre è in grado di dirsi: “Questa figlia non mi piace/non è come la volevo” oppure “Non avrei voglia di allattarla”, e può fare a suo modo i conti con questo sentimento, è possibile che non si strutturi una relazione tormentosa con la figlia intorno al contatto con il suo corpo e la sua nutrizione. Provare sentimenti di ostilità e fastidio per quel piccolo esserino può essere difficile da tollerare e può accadere, in presenza di particolari condizioni emotive, che il pensiero “Assomiglia a quell’odiosa di mia suocera, la detesto” si trasformi nel tormento: “Se lo penso non sono una buona madre” (o addirittura “Sono incapace di fare la madre”) e sfoci in un sentimento, spesso rifiutato e misconosciuto, di ulteriore ostilità e/o soggezione verso la figlia, che può pervadere e disturbare la relazione nascente.
Si può creare insomma un clima emotivo in cui la figlia, e la situazione di accudimento e nutrimento, diventano un pericolo persistente per la madre, perché la fanno sentire continuamente sbagliata e in lotta per essere invece impeccabile e, proprio per questo, impossibilitata a chiedere aiuto; a sua volta la bambina, condividendo inevitabilmente l’emozione tormentosa della madre, struttura un senso di sé e della nutrizione profondamente alterato. Si tratta di un vero e proprio contagio emotivo, in una situazione di vicinanza molto stretta come quella dei primi mesi: la condivisione di un’inquietudine profonda e disturbante che mamma e figlia vivono su di sé e verso l’altra, e che si struttura in un modo di sentire di fondo che, anni dopo, riemergerà nella forma virulenta tipica di questi casi.
La diagnosi dell’eventuale disturbo precoce relativo al contatto fisico con il corpo e con la nutrizione e l’individuazione delle emozioni condivise da mamma e figlia possono dunque essere elementi di fondamentale importanza per comprendere e trattare le patologie alimentari: per poterli indagare è cruciale riuscire a stabilire una buona alleanza diagnostica con entrambe le protagoniste, la paziente e sua madre.
La procedura che sto presentando prevede infatti come passaggio essenziale, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, il ricorso alla testimonianza delle madri, indipendentemente dalle eventuali concomitanti anamnesi familiari. Queste ultime sono solitamente utilizzate, infatti, per ricostruire eventuali situazioni più complesse all’interno del gruppo familiare che potrebbero altrimenti sfuggire all’attenzione del clinico, ma non possono sostituire il particolare clima dei colloqui anamnestici con le madri, dedicati ai primi mesi e all’allattamento.
Articolo Consigliato: Anoressia Nervosa. Il Cervello Anoressico.
Fin dal primo colloquio con la paziente, la si informerà che al fine di effettuare una ricostruzione della situazione primaria e degli affetti più primitivi e “psicosomatici” ancora attivi nella sua vita, potrà essere necessario, come prassi abituale, coinvolgere sua madre in quanto in grado di ricordare elementi e situazioni che lei non potrebbe recuperare perché troppo piccola quando sono avvenuti.
Questo approccio, invece che spaventarle o irritarle, sorprende spesso positivamente le pazienti con disturbo alimentare, che nella maggior parte dei casi accettano l’assetto diagnostico così impostato con maggior naturalezza e senza che questo coinvolgimento sia percepito come una indebita ingerenza in un loro spazio; spesso, al contrario, trapela la soddisfazione per il fatto che la madre si impegni e lavori attivamente per loro.
Il fatto di dichiarare che si cerca di comprendere quali vicende emotive sono all’origine del problema alimentare, oltre che incuriosire le pazienti, ha spesso contribuito a far spostare la loro attenzione dal complesso apparato ritualistico connesso al cibo verso la qualità della relazione affettiva con la madre. La disponibilità di quest’ultima a dare il proprio contributo, inoltre, ha spesso di per sé facilitato una parziale apertura tra le due, spesso fino a quel momento assai problematica.
I colloqui con le madri vanno – ovviamente – rigorosamente effettuati in un clima il più possibile collaborante e non giudicante, esplicitando apertamente che non si è a caccia di colpevoli ma che, al contrario, è stata e continua ad essere la cosiddetta colpa (In realtà la colpa è solo una componente: l’altra è, come spiegherò più avanti, l’intollerabile sentimento di inadeguatezza del Sé) a rappresentare la principale fonte del disturbo: mi è capitato di dover paradossalmente citare l’esempio di madri che, per sottrarsi a una relazione faticosa e disturbante per sé e per i figli, hanno scelto di farli allevare dalla nonna o da apposito personale.
Ed è d’altra parte anche importante poter riconoscere a queste mamme che il timore di essere sottoposte a un processo, come madri e come persone, può rappresentare un vero e proprio ostacolo mentre si sta tentando di comprendere, grazie al loro prezioso apporto, che cosa è accaduto anni prima.
Lo scopo, vero e dichiarato, di questi colloqui è invece rilevare le difficoltà che possono aver sperimentato, verso la figlia e con la figlia, in alcuni casi sin dal suo concepimento e comunque nei suoi primi mesi di vita. Esplicitare l’intento non giudicante della consultazione è fondamentale, ma risulta convincente solo se genuinamente convinto: è quindi necessario avere la consapevolezza di addentrarsi in un mondo tormentoso in cui la madre è spesso prigioniera di un continuo processo alla sua persona. Sapersi muovere in questo clima senza aggravare la sua percezione di colpevolezza è una competenza, tecnica ed emotiva, difficile da apprendere e maneggiare, e il rischio per il clinico è sentirsi a sua volta colpevole di arrecare dolore con le proprie domande; può essere di aiuto, in questi casi, pensare alle difficoltà di quei primi mesi come un equivalente di una depressione post-partum.
Le madri di pazienti con disturbo alimentare sono costantemente afflitte, anche quando inizialmente lo negano, da un cruccio specifico in relazione alla figlia. Questo cruccio riguarda il passato ma è sempre presente, anche nella situazione attuale, con diverse caratteristiche – di colpa, profonda inadeguatezza, ostilità – perché la figlia, con il suo disturbo e spesso con le sue accuse, esplicite o implicite, continua da sempre a tenere vivo il proprio tormento.
Il cruccio materno può essere molto spesso accompagnato da una, seppur conflittuale, esigenza riparativa. Proprio questa esigenza, come ho già detto, ha fatto intravedere non solo la possibilità di accedere all’alleanza con le madri, ma anche quella di un utile raffronto, diretto e guidato, con la figlia, che si è dimostrato potenzialmente in grado di intervenire rapidamente sul disturbo alimentare, pur lasciando ovviamente sul campo molte delle tematiche conflittuali correlate, comprese quelle relative alle cosiddette, e spesso vistose, comorbilità.
Il confronto diretto tra madre e figlia sull’origine del disturbo si rivela spesso cruciale per il trattamento del disturbo; ogni qualvolta ciò sia possibile, questi incontri a tre (clinico, paziente e madre) sono previsti come parte culminante della procedura e si traducono spesso in momenti di “verità”: per le pazienti con disturbo alimentare sentirsi raccontare dalla madre quali sono state le vicende emotive che hanno fatto instaurare il disturbo, persistente e da sempre presente tra loro, ha un potente effetto di chiarificazione del tormento che le affligge. Questo spesso permette un accesso emotivo in grado di smontare la certezza di queste pazienti di essere portatrici di una caratteristica mostruosa spesso vissuta come ontologica e irrimediabile, più di qualunque interpretazione o spiegazione da parte dei dottori.
In questi incontri il clinico si limita a fare da facilitatore e da intermediario tra le due: senza intervenire troppo, cerca di aiutare la figlia a entrare in contatto con la sensazione di profondo malessere in cui la madre ha vissuto decenni prima. Questo consente il riconoscimento della genesi dell’antica e costante sensazione di non piacere alla mamma: si tratta di un intervento che certamente potremmo definire “riparatore”. Il racconto della madre, che rivela ciò che è accaduto nel suo modo di sentire anni prima assume quasi sempre, infatti, caratteristiche riparative nel vissuto delle pazienti con disturbo alimentare, perché così facendo la madre torna, dolorosamente e faticosamente, a occuparsi di lei e del suo dolore e non più del suo cibo, ridiventando davvero madre.
Il poter dire alla mamma: “Sento di non piacerti” oppure “Sono sempre stata un problema per te” e sentirsi confermare che è stato davvero così, anni prima e per ragioni ben precise, ha frequentemente l’effetto di smontare il malessere profondo che le lega; può ridurre il senso di continua contesa, di reciproca accusa e di falsità sottostante, e soprattutto può sanare il livello di tensione e di sofferenza continue per la sensazione di non andare mai bene, condiviso da entrambe e diventato ormai oggetto di rivendicazione reciproca perenne, spesso con accese polemiche intrise di caratterialità e spesso connesse proprio alle abitudini alimentari.
Si struttura infatti, in questa interazione, difficile sin dal suo inizio, ciò che ho definito il “tragico equivoco”: una relazione patologica madre-figlia, disturbata e disturbante, che si mantiene nel tempo e nelle successive tappe evolutive. La figlia, infatti, sviluppa un atteggiamento verso l’alimentazione diverso dalle attese della madre, proprio perché già impregnato dalle inquiete sensazioni provenienti dal contatto iniziale; la madre, interpretando il contatto relazionale disturbato come un ripudio, un’imputazione, un attacco, una tirannia oppure un fallimento, finisce per prenderne le distanze e respingerlo risolutamente, senza riconoscerne la genesi.
Il fatto che la madre, nell’incontro a tre, possa finalmente dire: “Ero in difficoltà con me stessa e quindi con te” permette di spostare il profondo sentimento di persistente disagio dal Sé della figlia, su cui era finito, al disturbo del contatto primario, vera origine del sentimento disturbato.
La dominanza del sentimento di Sé precoce, con tutti i suoi effetti percettivi (“mi vedo per come mi sento”) e somatici (“ho una fame mostruosa o un ritiro ascetico dal corpo e dalla sua fame”), è la traccia emotiva che può consentire di smontare l’importanza dell’elaborazione secondaria della sopravvenuta crisi adolescenziale, dell’estetica, dello schifo, del perfezionismo, dei rituali fisici ed alimentari. Questi elementi, certamente dominanti nell’esistenza delle pazienti con disturbi alimentari conclamati, sono comunque secondari ai sentimenti di base, che potremmo definire gli “organizzatori emotivi” del disturbo alimentare; il recupero del fastidio originario può diventare il vero elemento in grado di produrre un effetto mutativo sul disturbo in atto, ma soprattutto nel modo di percepirsi della paziente, mentre gli elementi secondari vengono ridotti nella loro virulenza.
Ciò può valere anche per le conseguenze nelle relazioni. È infatti possibile un doppio chiarimento: comprendere le modalità con cui le emozioni della madre hanno agito nell’eziopatogenesi del sintomo della figlia, ma anche esplorare l’effetto della piccola e delle sue alterate richieste alimentari sulla mamma, con il mantenimento di una struttura relazionale che spesso diviene successivamente “polemica” tra famiglia e paziente e tra i familiari che parteggiano per l’una o l’altra posizione.
Nei casi in cui il coinvolgimento delle madri non è stato realizzabile e si è potuto ricorrere alla sola ricostruzione con le pazienti, l’esperienza pregressa con madri collaborative ha comunque offerto una serie di utili tracce nel tentativo di identificare con sufficiente approssimazione le qualità del disturbo di base originario. Potremmo dire che le testimonianze delle madri collaborative sono d’aiuto, oltre che alle proprie figlie e ai clinici, anche ad altre madri e altre pazienti.
Sulla base di queste esperienze, come ho accennato, si è venuto a strutturare in A.R.P. un procedimento clinico che prevede tappe specifiche (primi colloqui con le pazienti; test – una scala valutativa dei disturbi alimentari e una batteria di test standardizzata completa di test cognitivi, narrativi e proiettivi e anamnesi alle pazienti – ; colloqui anamnestici – il protocollo di queste anamnesi è andato perfezionandosi nel tempo, soprattutto per la qualità delle domande previste – alle madri e, in alcuni casi, ai padri; colloqui di confronto con pazienti e madri), anche in presenza di una eventuale psicoterapia già in corso – in quest’ultimo caso l’intervento si può inserire nel trattamento senza sostituirlo, un apporto esterno alla processualità già in atto – mantenendo, per quanto possibile e il più delle volte, l’intero percorso nell’ambito dell’assetto diagnostico.
Questa scelta affatto particolare ha diverse motivazioni. La prima deriva dall’esperienza, che ci ha mostrato come proprio l’assetto di consultazione viene spesso spontaneamente utilizzato dalle pazienti per una più rapida riduzione della tormentosità e dell’intensità del sintomo, potendolo di fatto esse stesse trasformare in una tecnica di intervento mutativo. La seconda ragione è che queste pazienti accettano spesso con sollievo la comunicazione che si intende procedere con un lavoro sostanzialmente diagnostico e non con un ulteriore trattamento.
Molte di loro, il più delle volte pluritrattate e reduci da innumerevoli tentativi di cura, inefficaci e interrotti, spiegano le pregresse rotture – alcune anche in corso di prenotazione telefonica o di consultazione iniziale – con quella che ho definito la “sindrome delle mani nel piatto”: l’attribuzione, anche arbitraria, al clinico di una troppo precoce e inopportuna intenzione di interferire con le proprie abitudini alimentari e il proprio modo di vivere. Spesso tale attribuzione si inserisce nel clima già fortemente e reciprocamente critico dell’ambiente in cui la paziente si muove e in cui finisce per essere coinvolto sia l’invio che il clinico.
Viene quindi chiaramente precisato sia alla paziente che ai familiari che la consultazione avrà una finalità di ricerca approfondita, non limitata al disturbo, e che in questa fase non si metterà in atto alcun trattamento, proprio perché queste pazienti insegnano che è determinante mantenere, per il tempo necessario, un assetto sospensivo. Questa scelta ha mostrato di ridurre notevolmente le interruzioni precoci che spesso si manifestano nei preliminari della consultazione con pazienti con disturbo alimentare.
La procedura “diagnostica” sembra spesso avere, già di per sé, un effetto momentaneamente calmante sulla conflittualità e la rivendicatività tipiche di queste costellazioni sintomatologiche, purché siano garantiti collateralmente, quando necessari, i trattamenti d’urgenza. Questi ultimi, spesso invocati a gran voce dai familiari, talvolta si rendono immediatamente necessari perché fasi di acuzie si possono scatenare già solo nella prospettiva della consultazione, come peraltro è esperienza comune di chi si occupa di questi disturbi.
Soprattutto nei casi più gravi è molto importante, perciò, che sia prevista sin dall’inizio, collateralmente alla consultazione, la collaborazione con un dottore o un’istituzione sanitaria di fiducia in grado di controllare i parametri vitali e maneggiare le eventuali urgenze mediche o psichiatriche dichiarando che ciò è importante, oltre che per la salute dell’interessata, proprio per garantire lo spazio di indagine al di là dell’urgenza.
Queste rapide esacerbazioni sono d’altronde la spia dello stato di notevole allarme e attivazione che caratterizza questi disturbi. La sempre presente minaccia di essere profondamente sbagliate, per sé e per gli altri, si accompagna infatti all’attivazione allarmata e all’attitudine eliminatoria: come la madre ha tentato ripetutamente, iperattivandosi, di sbarazzarsi del sentimento disturbante che non avrebbe voluto provare e di tutto ciò che la faceva sentire una madre sbagliata, anni dopo la figlia sentirà parti del suo corpo, o addirittura tutta la sua fisicità, come ontogeneticamente e ineluttabilmente estraniati e disturbanti, e cercherà tormentosamente e attivamente la modalità per sbarazzarsi del fastidio, con tutti i rituali che ne conseguono. Allo stesso modo potrà cercare di sbarazzarsi del disturbo di avere a che fare con i dottori.
Ancora una volta, madre e figlia condividono lo stesso sentimento: in questo caso, il bisogno di eliminare quanto le disturba. A questo proposito, va detto che l’attitudine mentale “eliminatoria” nell’affrontare le situazioni – qualunque difetto o sentimento disturbante non dovrebbe esistere e bisogna sbarazzarsene, in modo iperattivo – caratterizza la maggior parte delle famiglie con problematiche alimentari.
Anche a questo proposito non dobbiamo dimenticare che per le pazienti con disturbo alimentare vale quanto detto per le madri riguardo alla maternità: l’esplosione dell’adolescenza diviene il loro terribile “esame della vita”, il tormento di fronte al quale si ritrovano sempre sotto la minaccia di risultare definitivamente perdenti, con la terrificante percezione di essere portatrici di un’ineluttabile mostruosità, talvolta una vera e propria maledizione.
Queste pazienti vivono spesso nello stesso clima di processo continuo sperimentato dalle madri, non solo per il tormento originario di fondo ma anche a causa della reazione del loro ambiente alle particolari e disadattive attitudini alimentari messe in atto: molto spesso infatti, come è ben noto, il momento del cibo nelle famiglie di queste pazienti diventa il culmine del dramma familiare.
La rilevazione, nel racconto delle madri, della situazione di conflitto e conseguente allarme riguardo alla vicinanza fisica con la figlia e alla sua nutrizione ha da un lato l’importante funzione di rendere conto della profondità biologica del disturbo: nella precocissima fase della vita in cui si costruisce la fiducia di base – nel suo elemento più “corporeo” – la profonda inquietudine relativa al momento della nutrizione e del contatto fisico si può inserire come un cuneo nella strutturazione del comune sentimento di tranquillità e sicurezza che il cibo arriverà e della fiducia – vera memoria fisica – che dallo stato di appetito si potrà passare alla sazietà e al benessere.
Se per la maggior parte delle persone il momento del cibo, nell’arco della giornata, è piacevolmente e affettivamente atteso, così non è in queste famiglie. Il momento della nutrizione, infatti, divenuto intensamente problematico e carico di allarme in quei primi mesi, lo ridiventa anni dopo, a disturbo conclamato, finendo spesso per modificare radicalmente l’esistenza di tutta la famiglia, in una drammatizzazione rituale dalle caratteristiche eclatanti, che sembrano descrivere le antiche difficoltà emotive di cui sono memoria.
Tornando alla “psicopatologia descrittiva” delineata dalle madri, essa comprende quattro tipi prevalenti di disturbi “affettivi” nelle figlie, riguardo alla nutrizione: 1) il ritiro dal cibo, 2) il rifiuto attivo, 3) la fame avida, spaventata, definita molto spesso come “da ultimo pasto”, e 4) la frequente alternanza di questi stati. In qualche caso è capitato che la componente “spaventata” fosse descritta dalla madre come personalmente indotta, per il timore del rifiuto o del ritiro da parte della figlia, proprio per spingerla a mangiare: la piccola a sua volta ha precocemente adottato modalità tormentose di accesso al cibo e il rimedio attuato si iscrive in una situazione emotivamente sempre inquieta. È evidente, da questi racconti, che se il momento della nutrizione è anche solo minimamente allarmato, la fame non potrà acquisire carattere di naturalezza e ne sarà direttamente coinvolta, alterandosi.
Proprio per questi meccanismi, le pazienti con disturbo alimentare possono sentirsi letteralmente possedute dalla percezione disturbante e innaturale della loro fame e spesso descrivono le proprie giornate come monopolizzate dalla ricerca di modalità per sedarla o tenerla a bada, come per esempio la restrizione da infliggere al proprio corpo. In qualche caso, all’interno di un decorso più “cronicizzato”, vi possono essere fasi anche molto acute in cui la paziente “diventa” la propria fame allarmata, totalizzante, la cui sedazione è talmente imprescindibile da non poterla considerare postponibile; pervasa dal terrore che questa percezione crea in lei, ha la necessità di farla sparire in ogni modo: la fame in sé ma soprattutto la paura, fisica e palpabile, ad essa collegata.
Dobbiamo però ricordare che la clinica dimostra che altrettanto rilevante della fame è la questione della sazietà: in questi quadri clinici anch’essa è profondamente alterata, e da stato anche solo parzialmente piacevole può trasformarsi in uno sgradevole e spesso insopportabile “riempimento”, che presto si associa al più generale sentimento di sgradevolezza corporea.
Il disturbo della sazietà e il suo malessere sono una parte rilevante del tormento giornaliero e dell’organizzazione del rituale che domina la vita di queste pazienti: anche la fase della nutrizione è fonte di possibile fastidio; per questo cercano incessantemente di escogitare il modo di eliminarlo, rendendo così l’inferno del cibo ancora più invasivo. Si tratta dell’attitudine eliminatoria precedentemente descritta: queste pazienti sono letteralmente pervase dal fastidio profondissimo e dall’insofferenza apparentemente incontrastabile per qualcosa che non dovrebbe esserci: la sporgenza di un osso, il senso di pesantezza post prandium, la paura di trasformarsi in modo mostruoso e, solo in ultimo, quella vera e propria di “ingrassare” nel senso che possono intendere coloro che non hanno questo disturbo.
Il termine “ingrassare” va sempre tradotto, dai clinici, in trasformazione mostruosa (nei disturbi alimentari si assiste, oltre alla più nota dismorfofobia, una specifica fobia del cibo, che chiamo fobia di trasformazione: più misconosciuta della precedente, innesta la paura che il cibo possa trasformare e deformare, immediatamente e irrimediabilmente, il corpo. Mi riservo di approfondirne la descrizione in altra sede), per comprendere davvero di cosa si parla con queste pazienti, che sembrano volerci sempre dire: “Non mi piace il mio corpo, che percepisco come estraneo, verso cui provo rabbia e il desiderio di eliminarlo (che configura la cosiddetta “suicidarietà strutturale”) o di eliminarne le parti più disturbanti”.
La specificità emotiva di questi quadri sintomatologici è quindi il profondo fastidio per il corpo, per il cibo e per il momento dell’alimentazione nel suo insieme, compreso il senso di sazietà. Si tratta di emozioni precoci, cioè di ricordi somatici di quelle emozioni e di quel fastidio, che è a sua volta connesso alla pretesa che tali disturbi non dovrebbero esserci – così come, all’estremo, non dovrebbe esserci il problema di essere nutriti: essendo la questione del cibo e della fame ineliminabile, questo ripudio conflittuale con il corpo e la fame può ingigantirsi fino al punto che il doversi nutrire diventa un mostruoso e fastidioso difetto congenito di cui ci si dovrebbe sbarazzare.
Per questo mangiare un chicco di mais può diventare un gesto pericoloso.
All’interno del percorso di confronto tra madre e figlia, è possibile reperire i precursori di queste situazioni cliniche nelle emozioni, ingigantite dalla drammaticità delle manifestazioni sintomatologiche attuali, che emergono nei racconti delle mamme intervistate. Una di loro ha detto: “Mi sentivo un mostro ad avere questa difficoltà a nutrirla e ad averci a che fare: era un incubo ogni volta, avrei davvero voluto sparire pur di non farlo, avrei voluto non essere sua madre. È stato un sollievo quando a tre mesi ho potuto smettere di allattarla”.
Ed è questo tipo di traccia che mi ha sempre fatto pensare all’emozione inevitabilmente condivisa tra madre e figlia, nella situazione difficile di una nutrizione e di un accudimento conflittuale: per entrambe può essere un momento gravemente tormentoso.
Le diverse situazioni e storie familiari danno vita a molteplici variabili cliniche, con caratteristiche emotive diverse, che strutturano casi apparentemente molto differenti tra loro. Citarli tutti è impensabile in questa sede, mi limiterò dunque ad accennarne solo qualcuno: la figlia che si sente cattiva e approfittatrice se mangia; quella che protegge la madre, anche se la respinge, perché la sente fragile (è forse la tipologia clinica con il maggior rischio di morte); la figlia in costante polemica e respingente (diventerà accusatoria: la mamma non fa mai abbastanza, così come il mondo); la paziente incontenibile: la madre è dall’inizio in soggezione e sia lei che la famiglia sentono di doverla subire per cui diviene ai loro occhi sempre più mostruosa e prepotente.
Anche nella descrizione della madri delle pazienti con disturbo alimentare è possibile delineare tipologie diverse. Per esempio, negli ultimi anni accade sempre più frequentemente di osservare mamme influenzate, oltre che da componenti emotive personali e familiari che incrementano l’allarme delle proprie emozioni verso la figlia, dall’idea di non poter dedicare tempo all’allattamento e all’accudimento, spesso con la motivazione di dover tornare rapidamente al lavoro, con un fastidio e un’urgenza che le porta ad affrontare l’allattamento con fretta e impazienza, animate dal sottostante desiderio di far durare quel momento il più breve tempo possibile.
È suggestivo come questo stile “efficientistico-impaziente” rimandi al comportamento di alcune pazienti bulimiche che maneggiano cibo e vomito come una pratica aziendale da espletare in modo perfettamente organizzato. In questi casi si intravede come si può essere instaurata, nella bambina, la paura di perdere il cibo: se non ha sperimentato il sentimento di avere a disposizione tutto il tempo che le serviva, per poppare, ha iniziato a mangiare avidamente, come se fosse appunto l’ultimo pasto, e così sarà, anni dopo, una volta instaurato il disturbo alimentare vero e proprio.
Sono esperienza comune le mamme che considerano il cibo come un premio, da elargire alla piccola come ricompensa, magari riparativa, o come un mezzo per tentare di rinforzare e riaffermare il proprio legame con la bimba; sono quelle che chiamo “spacciatrici di cibo”. Anche in questo caso, il momento di alimentarsi non è tranquillo, per la figlia, che vive sempre nella tensione del dubbio e dell’allerta, con un appetito deformato dalla confusione tra il proprio appetito, la necessità di dover mangiare a tutti i costi e quella di accontentare le richieste materne. Queste situazioni sono spesso facilmente identificabili perché la paziente riporta di riuscire a mangiare più tranquillamente in ambienti percepiti come neutri e non richiedenti.
La paziente con disturbo alimentare convive da sempre con emozioni che considera mostruose, nella convinzione di avere a che fare con un proprio difetto biologico intrinseco: la qualità somatica di questi sentimenti è la vera difficoltà con cui ha a che fare, e con lei i dottori che cercano di curarla. Per questo può essere fondamentale che il clinico la aiuti recuperare queste sensazioni come prodotto dei ricordi somatici di emozioni precocemente condivise con la madre nel disagio dei primi contatti. L’obiettivo finale sarà quello di aiutarla a passare dalla convinzione di essere un mostro, senza alcuna possibilità di contrastare questo ineluttabile stato, alla consapevolezza di essere una persona che, per la storia che ha contraddistinto lei e sua madre in quel contesto familiare, ha specifiche paure riguardo al cibo e al fatto di essere portatrice di un difetto mostruoso, paure di cui ci si può occupare.
Come ho già detto, questo profondo cambio di prospettiva, oltre al cambiamento relazionale con la madre, spesso permette il ridursi del disturbo alimentare, sottraendo motivazione all’apparato ritualistico secondario, talvolta senza che occorra toccarlo direttamente.
Un altro aspetto riguarda i dottori: l’esperienza di sentirsi narrare come si è strutturato quel disturbo – frutto di un’emozione antica, condivisa tra madre e figlia, un modo di sentire che tuttora le anima entrambe e non uno stato ineluttabile di cui avere paura e di cui doversi sbarazzare a tutti i costi – può permettere ai clinici di seguire la traccia emotiva alla base del disturbo in una prospettiva diversa, rispetto ai sentimenti di inaccessibilità che spesso alcune di queste pazienti suscitano. Anche il sentimento di fondo del clinico, dunque, sia nei confronti della madre che della figlia, può essere quello di poter essere di maggior aiuto riguardo al sentimento di ineluttabilità del loro destino.
Il confronto tra madre e figlia dimostra infatti che questi modi di sentire, gestititi da sempre da entrambe con modalità conflittuali, sono in realtà condivisi molto profondamente: trasmessi da una all’altra in una sorta di contagio fin dall’origine, comprese le preoccupazioni di tipo ontologico.
Il ruolo determinante della qualità della relazione con la madre nei disturbi alimentari è dato per acquisito da moltissimi AA (E. Kestemberg e S. Decobert (1972), H. Bruch (1982), M. Selvini Palazzoli et al. (1988, 1998), Noveletto (2009), S. Minuchin (1974): oltre che fornirne conferma, le osservazioni che presento in questa sede indicano che è spesso possibile trovare rispondenze molto strette – e clinicamente utilizzabili – tra gli stati affettivi della madre nei primi mesi di vita della figlia, persistenti tuttora nella traccia di relazione conflittuale attuale, e il modo di sentire sottostante alla sintomatologia di quest’ultima, che li drammatizza e amplifica.
Pur non disponendo di una casistica di grandi numeri, tutti gli elementi incoraggiano a proseguire in questa direzione: considerando il disturbo alimentare come conseguenza di una drammatica e complessa difficoltà emotiva relativa alla maternità, al proprio valore come madre e alla relazione madre–figlia, riteniamo sia possibile modificare profondamente le attuali modalità di approccio clinico, perfezionarle e, con gli apporti di colleghi con attitudini diversificate, reperirne altre, anche più efficaci. È infatti a mio avviso evidente che tutte le considerazioni precedenti possono contribuire a modificare le sequenze tecniche e le strategie dei trattamenti, qualunque sia l’orientamento del clinico.
Sassaroli, S. & Ruggiero, G.M. (a cura di) (2011). I Disturbi Alimentari. Roma: Laterza
Bruch, H. (1982). Anorexia nervosa: Theory and therapy. American Journal of Psychiatry, 139, 1531-1538.
Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1988). I giochi psicotici della famiglia. Milano: Raffaello Cortina.
Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1998). Ragazze anoressiche e bulimiche. La terapia familiare. Milano: Raffello Cortina Editore.
Kestemberg J., Decobert S.(1972). La Faim et le Corps, PUF, Paris.
NOVELLETTO A. (2009), L’adolescente: Una prospettiva psicoanalitica. Astrolabio, Roma
Minuchin, S. (1974). Families and Family Therapy. Harvard University Press: Cambridge.
Dalle Grave, R., Bartocci, C., Tudisco, P., Pantano, M., Bosello, O. (1993). Inpatient treatment for anorexia nervosa: A lenient approach. European Eating Disorders Review, 1, 166-176
La paura della felicità e i suoi rischi – Psicologia
La paura delle emozioni positive sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici.
Il timore di provare emozioni negative e dolorose (ansia, tristezza, colpa) può essere chiaro, comprensibile e seppur in diversa misura, identificabile nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
Meno immediato agli occhi dei più è il timore delle emozioni positive che tuttavia sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici.
Molte persone temono proprio quelle emozioni piacevoli (eccitazione, felicità, tranquillità) che sentono mancare nella propria vita quotidiana e in modo più o meno consapevole mettono in atto comportamenti per evitarle (Williams, Chamblers & Ahrens, 1997).
Ma qual è il senso di questo timore? Quale il suo nucleo? Solitamente la base non ha una natura biologica o inconscia ma cognitiva, la differenza si realizza in base a come interpretiamo le emozioni positive e a come vi reagiamo.
Le regole che governano queste interpretazioni possono essere diverse. Innanzitutto alcuni individui si spaventano perche temono che l’eccitazione li porti a perdere il controllo e quindi quando l’entusiasmo sale tendono a frenarsi e a imporsi un forte e rigido autocontrollo (se mi eccito troppo perdo il controllo delle mie azioni, impazzisco, non capisco più nulla).
Secondariamente, uno stato di serenità e tranquillità (per esempio nel rapporto affettivo con un compagno/a) può essere interpretato come una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie tese a prevenire pericoli e minacce (se sono tranquillo posso essere impreparato quando qualcosa di negativo accadrà, perché sicuramente accadrà, per cui mi devo tenere all’erta e preoccuparmi delle cose negative che potrebbero accadere).
Infine anche la soddisfazione e la felicità possono essere temute e interpretate come una prova di ingenuità, superficialità, scarso valore personale (non posso restare fermo a godere di queste sensazioni ma devo capire cosa non funziona, dove potrei sbagliare, cosa potrebbe andare male per non sedermi sugli allori ma continuare a migliorarmi).
L’impatto di queste convinzioni può proiettarsi in modo negativo su diversi disturbi psicologici come il disturbo d’ansia generalizzata o la depressione (Olatunji, Moretz & Zlomke, 2010).
La valutazione di queste convinzioni così come interventi terapeutici orientati alla loro discussione critica possono eliminare un importante ostacolo alla riduzione della sofferenza mentale.
“Micro-aggressioni”, lo abbiamo già capito tutti, è un concetto complementare a quello di “politicamente corretto”. Anche se non conoscevo questa parola, mi è bastato vederla per capire quale fosse il suo significato. E per provare un moto di fastidio, un misto di collera e colpa. No, esagero. Non era proprio fastidio. Era semmai micro-fastidio, un misto di micro-collera e di micro-colpa. Il che è ancora più fastidioso.
Micro-aggressioni. È una parola che ho imparato questa estate, aggirandomi tra le esposizioni dei libri al congresso dell’American Psychological Association. Era nel titolo di molti libri che erano esposti li, al congresso. Non è stato necessario sfogliarli per capire immediatamente a cosa si riferisse quel termine. La copertina, su cui era rappresentata un’agitata conversazione tra persone di varia provenienza etnica, aiutava a comprendere di che cosa si trattasse. Ma probabilmente ci sarei arrivato anche senza quell’aiuto.
Micro-aggressioni è un termine coniato dallo psicologo Chester M. Pierce negli anni ’70 e indica tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o anche culturale (Pierce, 1977; Sue, 2007).
“Micro-aggressioni”, lo abbiamo già capito tutti, è un concetto complementare a quello di “politicamente corretto”. Anche se non conoscevo questa parola, mi è bastato vederla per capire quale fosse il suo significato. E per provare un moto di fastidio, un misto di collera e colpa. No, esagero. Non era proprio fastidio. Era semmai micro-fastidio, un misto di micro-collera e di micro-colpa. Il che è ancora più fastidioso.
Trovo questo termine, “micro-aggressioni”, particolarmente utile perché forse ci consente di capire più a fondo il significato del termine “politicamente corretto” e del perché molti di noi possano trovare questa parola -e tutto il movimento culturale che lo sostiene- al tempo stesso profondamente giusta e profondamente fastidiosa. O meglio, profondamente micro-fastidiosa. Tutto sta in quella paroletta rivelatrice: “micro”.
Il politicamente corretto esprime un bisogno giusto. Il bisogno di rapporti sociali umani e civili, in cui non si è etichettati semplicisticamente in base all’etnia, la religione o la preferenza sessuale, ma come persone. Bene. Tuttavia quel “micro” rivela che questo bisogno, per realizzarsi, è costretto a incarnarsi in un’ossessiva attenzione a qualunque micro-manifestazione che potenzialmente abbia un significato svalutativo, anche indiretto.
Quindi anche elogiare l’innato senso della musica di certi popoli, o la bontà della cucina di un altro certo popolo possono essere una micro-aggressione. Ed effettivamente, se alla fine di una mia presentazione scientifica qualcuno si congratulasse con me dicendomi: “come siete bravi a cucinare voi italiani!” il significato sarcastico sarebbe evidente. Ma, nel politicamente corretto, questa frase è sempre svalutante, anche in un contesto che la giustifica. Ovvero a cena a casa mia (dove peraltro si mangia malissimo).
Si dirà: esagerazioni degli americani. Il che è vero. Infatti, ricordo che in quello stesso congresso, durante una discussione scientifica uno degli oratori rispose a una domanda dicendo: “this is a micro-aggression!” Non so, magari era anche vero che l’oratore fosse stato (micro) aggredito. Però per la mia sensibilità italiana mi pareva che la sottolineatura fosse irrimediabilmente piagnucolosa.
Però, malgrado le esagerazioni degli americani, questa tendenza inevitabilmente prende piede e prenderà piede sempre di più anche da noi. È inutile negarlo, non è un complotto. Personalmente, la considero una spontanea tendenza umana a diminuire sempre di più la violenza e l’aggressività. Lo dimostra lo psicologo Steven Pinker in un bel libro appena tradotto in italiano: “Il declino della violenza” (Pinker, 2013).
Quindi anche da noi ci sarà sempre più attenzione alle micro-aggressioni, malgrado millenni di abitudine italiana a una comicità aggressiva e feroce, dai fescennini degli antichi romani alla commedia dell’arte. Ce ne sono vari esempi. Ma l’esempio migliore è già il fatto che io, in questo momento non ho nessun desiderio di fare un esempio specifico, perché già farne è rischiare una micro-aggressione.
Per esempio, l’infortunio accaduto recentemente a una nota impresa alimentare italiana potrebbe essere un buon esempio. Potrei scriverne. Ma non lo faccio. Non ho desiderio di infilarmi in un ginepraio di distinguo, in cui ogni cosa che si dice suonerebbe irrimediabilmente goffa. Mi limito a dire che già soltanto etichettare quell’episodio come una micro-aggressione per qualcuno potrebbe suonare come una micro-aggressione, perché svaluterebbe la gravità del fatto. E così via.
La faccio troppo lunga? Probabile. Cammino sulle uova? Sicuro. Me la caverò parlando di un episodio più piccolo, capitato qui tra noi, nel (micro) mondo di State of Mind. Una nostra collega ha pubblicato uno spiritoso articolo sulle differenze intellettuali tra maschi e femmine, concludendo con un paio di battute sul cervello del maschi.
L’articolo ha attirato un gran numero di clic e qualche commento irritato, da parte maschile. In sé un micro-episodio, una tempesta in un bicchier d’acqua. Ma abbiamo già visto che tutto il politicamente corretto si nutre di micro-elementi. Quindi l’episodio è importante proprio perché futile.
Vi confesserò che c’è stata un po’ di maretta anche nella nostra redazione. Una micro-redazione di sette persone, in cui le quattro donne hanno trovato l’articolo spassosissimo mentre almeno due maschi su tre hanno espresso qualche dubbio. Uno di noi se l’è cavata con un argomento scientificamente corretto: la parte scientifica andava approfondita. Vero, ma non credo che fosse solo quello il problema. C’era anche il (micro)-problema del (micro)-fastidio generato dalle battute della collega, riassumibili nell’espressione: gli uomini ragionano con il pisello. Insopportabile? Non direi. Fastidioso? Un po’. Intollerabilmente micro-fastidioso? Sicuramente.
Vi dirò (lasciatemi raccontare i retroscena di redazione, in puro stile “new-journalism”; mi fa sentire tanto Tom Wolfe): ho tentato di gestire il micro-fastidio esprimendo l’opinione che l’articolo era sicuramente un successo (è stato gradito da un significativo numero di lettori e, sospetto, soprattutto lettrici), ma ho aggiunto che la parte satirica necessitava di qualche limatura, pena un retrogusto da misandria tardo-femminista anni ’70 un po’ superato. Roba da “SCUM manifesto” di Valerie Solanas (1968), un curioso oggetto di modernariato culturale, un libro che teorizzava l’inferiorità genetica del genere maschile. Un libro che ancora oggi non si riesce a digerire, se non etichettandolo come “satira”. Ma in fondo non si riesce. Perché? Perché la Solanas era del tutto priva di auto-ironia.
Insomma, in tempi di politicamente corretto e di micro-aggressioni la satira diventa un esercizio sempre più difficile da eseguire, e necessita di un livello di scrittura da campioni del mondo.
Unico salva-condotto: mescolare l’ironia con l’auto-ironia. Ovvero possiamo abbandonarci a esercizi satirici a patto di riuscire, continuamente, a prendere in giro anche noi stessi mentre lo facciamo. Quindi possiamo essere misandrici (o perfino misogini), ma a patto di riuscire a dare di noi stessi (e di noi stesse) l’immagine di persone a nostra volta un po’ sfigate, in fondo bisognose e innamorate dell’oggetto della nostra satira, uomo o donna che sia.
Concludo con una considerazione. Il bisogno di proteggere le minoranze dalle micro-aggressioni è comprensibile e civile. Tuttavia, se il politicamente corretto è un bene, esso sarà necessariamente un bene universale. Il che significa che il politicamente corretto non può non estendersi oltre le minoranze. E già si estende oltre le minoranze, assumendo il significato di limitazione e censura di qualunque espressione micro-aggressiva, come si vede in un articolo di Sue e dei suoi collaboratori (Sue e coll., 2007).
Con inevitabili limitazioni anche delle varie forme di umorismo. Già oggi l’umorismo misogino, così come quello a sfondo etnico, è inevitabilmente escluso. Rimangono delle zone ancora franche, sempre più limitate. Dei cosiddetti “acceptable prejudice” come li chiama il filosofo Philip Jenkins (2003). Esempi? L’anti-cattolicesimo, o –appunto- la misandria. Delle eccezioni non giustificabili, perché illogiche. Il che può essere (micro)-irritante. Come ascoltare battute anti-maschili senza poter davvero ribattere. Troppo difficile.
Che fare? Nulla, siamo adulti e –come diceva Albert Ellis- possiamo tollerare le micro-aggressioni ancora accettabili in società. Sapendo che stiamo assistendo agli ultimi fuochi. Ancora pochi anni e anche noi potremmo rispondere a una micro-aggressione anti-maschile con un definitivo “This is not appropriate!” che, a quanto pare, è il segnale sociale utilizzato in USA per zittire una deriva politicamente scorretta in una conversazione. Sarà bellissimo. E noiosissimo. E sottilmente piagnucoloso. Non aggiungo altro, sono già giunto al confine di una micro-aggressione.
Pierce, C.M., Carew, J.V., Pierce-Gonzalez & Wills, D. (1977). An experiment in racism: TV commercials. Education and Urban Society, 10, 61-87. (DOWNLOAD)
Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – Il lavoro dei Danzamovimento Terapeuti formati da ATI si propone di utilizzare il linguaggio primitivo preverbale come fonte di conoscenza per intraprendere un processo di cura: grazie a tale processo si potranno tradurre in parole o in linguaggio simbolico le esperienze psicofisiche primitive che fondano l’essere della persona e che possono essere fonte di disagio o psicopatologia.
Nel caso specifico di L. è stato importantissimo il setting di terapia individuale, per potere lavorare accuratamente in un rapporto esclusivo, sulle aree di carenza originaria del paziente, agendo sulle parti deprivate, permettendogli una “seconda nascita”, e procedendo in un rapporto evolutivo e di riconoscimento dei significati esistenziali delle sue azioni.
Grazie dunque al sostegno di uno spazio dedicato e di un contenitore stabile (l’holding environment di Winnicott), dato dal setting e dalla presenza empatica e sintonizzata del terapeuta, si può dare sostegno al Sé grandioso scisso del paziente, ricreando in prima battuta inizialmente lo spazio protetto dove questi possa vivere l’illusione di un rapporto avvolgente e esclusivo; allo stesso tempo, si creano i presupposti di un contenitore che accolga e moduli le esperienze della parte deprivata e debole nel successivo momento del distacco, della differenziazione, della disillusione, dando così asilo sia alla parte grandiosa, sia alla parte deprivata dell’individuo.
Vi sono così le condizioni per agire in un ambiente protetto e sicuro che permette al paziente di relazionarsi col terapeuta come a un oggetto d’uso (Winnicott) e come a un Oggetto-Sé materno (Kohut) nei termini riparativi di una regressione al servizio dell’Io.
Il mio lavoro con L. è stato pensato e condotto secondo i principi e gli strumenti metodologici della Danzamovimento Terapia come è insegnata nella Scuola di Art Therapy Italiana (ATI). Il lavoro dei Danzamovimento Terapeuti formati da ATI si propone di utilizzare il linguaggio primitivo preverbale come fonte di conoscenza per intraprendere un processo di cura: grazie a tale processo si potranno tradurre in parole o in linguaggio simbolico le esperienze psicofisiche primitive che fondano l’essere della persona e che possono essere fonte di disagio o psicopatologia.
La DMT si è rivelata efficace per accedere ai vissuti primitivi annidati nella memoria somatica preverbale di L., gemello rifiutato e “sacrificato”.
L’attenzione alla sfera non verbale della relazione, l’osservazione del corpo e del movimento attraverso gli strumenti del sistema di analisi del movimento Laban (LMA), del Kestenberg Movement Profile (KMP) e dei patterns di connessione corporea di Peggy Hackney, permette di riconoscere nelle forme, nei ritmi e nelle variazioni del tono muscolare una biografia degli affetti, e agevola a individuare le difese insediatesi nella muscolatura per stabilire la modalità e il livello di relazione oggettuale del paziente. Si possono così formulare interventi clinici congruenti e riconoscere i messaggi nascosti presenti nel movimento del paziente e del terapeuta che vi interagisce: si possono così presentare al paziente esperienze (object presenting) nella forma di azioni e movimenti intenzionali di movimento (handling).
L’ascolto profondo delle tematiche somatiche controtransferali, aiuta il terapeuta a leggere nel proprio corpo e successivamente propri pensieri quello che accade nel contatto col paziente.
Grazie alla disciplina del Movimento Autentico, la quale “aiuta a sviluppare il ruolo del terapeuta come testimone non giudicante, non proiettante e non interpretante, a incrementare la conoscenza e la consapevolezza dei propri movimenti e degli stati psicocorporei a essi associati, del funzionamento dei meccanismi associativi, proiettivi, interpretativi relativi al movimento, e a comprendere i modi in cui siamo propensi a fare proiezioni e i modelli inconsci che adottiamo in relazione a incontri e relazioni specifiche con l’altro e con eventi specifici.” (Govoni 2012).
Ciò è funzionale al mantenere attive le capacità di pensare e aperta la ricezione e la comunicazione empatica con pazienti che non sono in contatto con il nucleo originario del Sé, e tendono a mostrare una immagine di sé cristallizzata nella grandiosità, sottraendosi alle esperienze frustranti e spaventose in cui il sé deprivato diviene visibile.
In DMT il terapeuta si serve di modalità di rispecchiamento empatico analoghe a quelle descritte da Winnicott e Kohut: in questi momenti il terapeuta, come la madre, funziona come uno specchio, che fornisce al paziente un riflesso dei suoi gesti e della sua esperienza, in cui egli si riconosce. In queste interazioni il terapeuta mette in atto una capacità di sintonizzazione affettiva (Stern), simile a quella della madre che dà senso all’esperienza soggettiva preverbale del bambino, interpretandone accuratamente i suoi stati affettivi interni a partire dalla loro intensità, ritmo e forma (Pieraccini 2012).
Dopo questa iniziale esperienza, si può poi attivare una sperimentazione individuale di modalità nuove di movimento, sostenute, modulate e accolte dal terapeuta, abbandonando il rispecchiamento: qui il ruolo del terapeuta diviene più “paterno”, e permette al paziente l’esplorazione di sé nella realtà.
Nel lavoro col corpo, l’uso di specifici materiali facilitatori si rivela utilissimo nel riattivare le connessioni corporee (Hackney), favorendo la scoperta e l’evoluzione di qualità di movimento e affettive che richiedono una sperimentazione, uno sviluppo e un consolidamento. In questo modo si può raggiungere un personale stile di movimento in una forma intenzionale, giungendo a una interazione efficace col mondo reale.
E’ poi necessaria una lettura della dimensione simbolica del movimento, e l’attribuzione di forma e significato all’esperienza somatica dell’individuo; questa permette di tradurre l’esperienza del corpo in linguaggio metaforico, divenendo consapevoli delle connessioni fra le proprie componenti emotive, affettive, cognitive.
Dai movimenti e dalle azioni del corpo si può passare a nominare i vissuti e i sentimenti che vi erano sotto i gesti, sotto il movimento; si attua uno scarto da un’attività legata al fantasticare (Winnicott) a un racconto narrativo legato alla biografia del paziente, in cui si possono affrontare –nominandoli e significandoli- elementi simbolici e reali relativi a vissuti di rabbia, gelosia, esclusione, abbandono, timore di “non farcela”, “non essere capace”, non piacere, non essere amato, non essere “normale”… e rendere concreto il desiderio del paziente di essere preso sul serio, di agire sul reale, grazie a una maggiore consapevolezza delle sue rappresentazioni mentali che egli ora può riconoscere e collegare significativamente coi propri pensieri, emozioni e proprie azioni, in un vissuto di maggiore genuinità esistenziale, anche proiettata nel futuro.
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Il percorso di educazione al sonno svolto con mamme e papà ha portato non solo a un miglioramento del sonno nei bambini con autismo (ASD), ma ha avuto anche un impatto positivo su stati ansiosi, disfunzioni attentive e comportamenti ripetitivi nei piccoli pazienti nella loro quotidianità diurna.
Secondo una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Autism e Developmental Disorders , alcuni aspetti comportamentali nei bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD) possono migliorare a seguito di un training di igiene del sonno (una sorta di educazione al sonno) dei loro genitori.
I ricercatori del Vanderbilt Kennedy Center, della University of Colorado Denver e dell’Università di Toronto hanno esaminato 80 bambini con ASD di età compresa tra 2-10 anni coinvolgendo i genitori in questo training di psicoeducazione al sonno.
Dai risultati è emerso che il percorso di educazione al sonno svolto con mamme e papà ha portato non solo a un miglioramento del sonno nei bambini con ASD, ma ha avuto anche un impatto positivo su stati ansiosi, disfunzioni attentive e comportamenti ripetitivi nei piccoli pazienti nella loro quotidianità diurna.
Inoltre anche i genitori ne avrebbero beneficiato segnalando una maggiore percezione di competenza genitoriale al termine del training. Forse, non solo una migliore qualità del sonno ma anche maggiore autoefficacia percepita dei genitori può essere un fattore moderatore degli effetti benefici.
Simili contributi svolgono un ruolo importante poichè sostengono l’efficacia di interventi semplici per supportare i genitori di bambini con ASD- e non solo -in quello che è spesso uno dei fattori di stress che devono affrontare: il momento della nanna.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Un articolo molto chiaro e interessante del New York Times su una questione purtroppo nota anche in Europa: il cronico problema di immagine della psicoterapia. Mal rappresentata dai media, preferita dai pazienti rispetto alle sole terapie farmacologiche, avallata da trial scientifici che ne dimostrano inequivocabilmente l’efficacia, osteggiata dalle case fermaceutiche che dispongono di un ben altro arsenale per rappresentare la realtà a colpi di lobbying.
Nei soli USA dal 1998 al 2007 la percentuale di pazienti ambulatoriali curati con la sola psicoterapia è calata del 34% mentre il numero di pazienti che hanno ricevuto la sola terapia farmacologica è aumentata del 23%.
Questo mentre 33 differenti studi indipendenti hanno rilevato che i pazienti preferiscono 3 volte tanto la psicoterapia rispetto al trattamento farmacologico.
Ma non è tutta colpa del Big Pharma, sostiene l’articolo: il problema si trova anche all’interno: ancora troppi psicoterapeuti per un motivo e per l’altro non fanno riferimento a terapie scientificamente provate, a protocolli testati di provata efficacia e sono tanti i casi di professionisti che applicano teorie eccentriche e mai verificate o indulgono in vecchie terapie old school che dovrebbero essere definitivamente abbandonate (come alcune polverose e quasi esoteriche psicoanalisi freudiane).
Il rischio, conclude il giornalista del NYT, è che se i servizi di psicoterapia non si fondano sulle ultime e migliori ricerche scientifiche, l’intera professione verrà lentamente allontanata dai servizi di sanità pubblica, a favore ancora una volta delle terapie farmacologiche.
The answer is that psychotherapy has an image problem. Primary care physicians, insurers, policy makers, the public and even many therapists are largely unaware of the high level of research support that psychotherapy has. The situation is exacerbated by an assumption of greater scientific rigor in the biologically based practices of the pharmaceutical industries — industries that, not incidentally, also have the money to aggressively market and lobby for those practices.
For the sake of patients and the health care system itself, psychotherapy needs to overhaul its image, more aggressively embracing, formalizing and promoting its empirically supported methods.
[…]
Psychotherapy faces an uphill battle in making this case to the public. There is no Big Therapy to counteract Big Pharma, with its billions of dollars spent on lobbying, advertising and research and development efforts. Most psychotherapies come from humble beginnings, born from an initial insight in the consulting office or a research finding that is quietly tested and refined in larger studies.
The fact that medications have a clearer, better marketed evidence base leads to more reliable insurance coverage than psychotherapy has. It also means more prescriptions and fewer referrals to psychotherapy.
Lo psicologo, possiede un ruolo fondamentale nel promuovere la corretta funzionalità tiroidea e quindi nel supportare i pazienti con problematiche tiroidee
Tra empatia simulata e dipendenza emotiva, i chatbot basati sull’intelligenza artificiale per contrastare la solitudine sono una soluzione o solo un'illusione?
La transizione alla genitorialità influisce su autostima, attrazione fisica e vita sessuale: uno studio indaga i vissuti dei neo genitori dopo la nascita
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
Raramente un film si può definire perfetto. Come trama, tempi recitativi, costruzione dei dialoghi. “To be or not to be,Vogliamo vivere!” nella traduzione italiana -, pellicola del 1942 firmata da Ernst Lubistch e recentemente riproposta nelle sale dopo essere stata restaurata e rimasterizzata, è un film perfetto.
Siamo nella Polonia invasa dai nazisti e le vicende di una coppia di attori teatrali si intrecciano a quelle della Resistenza; il dilemma amletico è una scena che ritorna più volte e puntualmente il protagonista, iniziando il celebre monologo shackespeariano, vede uno spettatore alzarsi da una delle prime file e andarsene: la ferita all’orgoglio d’artista sarebbe ancor più cocente se l’attore sapesse che il camerino di sua moglie è il luogo in cui lo sconosciuto, un giovane e aitante aviatore, si reca ogni sera all’incipit del monologo.
In breve tempo scoppia il conflitto bellico e il triangolo amoroso inaugura un susseguirsi di equivoci e intrighi sottili in cui il marito intuisce senza aver certezza, trovandosi poi costretto dagli eventi a collaborare con il presunto amante della moglie per combattere il comune nemico tedesco.
La compagnia teatrale è al centro di acrobazie pericolose ed esilaranti a stretto contatto con la Gestapo, che viene ripetutamente ingannata e sbeffeggiata a pochi passi dal precipizio mortale.
“To be or not to be“, si diceva, è un’opera perfetta; l’ironia con cui viene affrontato un tema complesso come la guerra, l’arguzia utilizzata per descrivere gli stati d’animo dei personaggi non possono essere pienamente trasmesse a chi non ha visto il film: si tratta di una comicità seria, comunicata attraverso espressioni da registro drammatico che vengono sapientemente modulate per ottenere l’effetto della farsa.
I dialoghi sono geniali, spesso serrati e i colpi di scena si susseguono senza diventare ridondanti, le situazioni alternano i diversi piani del racconto e li sovrappongono, variando di continuo i temi, i riferimenti. Le risate dello spettatore sono inevitabili ma non indotte dalla ricerca del ridicolo, poiché ogni scena sarebbe perfettamente plausibile anche in un film drammatico e lo stesso può dirsi per i dialoghi; sono la magistrale espressività degli attori e la superba raffinatezza della sceneggiatura, che in ogni passaggio afferma qualcosa per intendere altro, a generare l’effetto comico.
La regia di Lubistch è eccezionale specie nel lavoro sugli interpreti, che con un gesto quasi impercettibile o un movimento del corpo studiato ad arte fanno comprendere al pubblico le differenti dinamiche dei sentimenti, la gelosia, una reazione indispettita, il gioco divertito tra realtà e finzione o il compiacimento incosciente di un ingenuo Amleto al cospetto del Terzo Reich. La missione di far ridere senza un solo sorriso recitato viene ampiamente portata a termine e l’opera riesce anche a entrare nel cuore, dileggiando la follia nazista con leggerezza penetrante, mettendo a nudo l’ottusità di certi umani ma in fondo di tutti gli umani e mantenendo vivo l’interesse dello spettatore sia verso le intenzioni comiche sia nella riflessione sul destino dei personaggi; un film da assorbire tutto d’un fiato, da amare e rivedere per cogliere i dettagli che nella prima proiezione si perdono.
Vogliamo vivere, ed è molto meglio farlo con questi film.