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L’esame di stato per Psicologi di Piccinini e Zoppi – Recensione

Recensione  del libro:

L’esame di stato per Psicologi

di Laura Piccinini e Alessia Zoppi

edito da Alpes Italia 2013

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L'esame di stato - Piccinini e Zoppi. -Immagine: copertinaQuesto testo è uno strumento importante per gli studenti che si stanno preparando per le prove che dovranno sostenere durante l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di psicologo.

Il testo è suddiviso in tre parti per facilitare lo studente ad orientarsi e a organizzare il lavoro in maniera semplice ed efficace. Lo scopo è padroneggiare un’organizzazione concettuale che guidi lo studente ad affrontare con metodo e precisione le varie prove.

Infatti  la prima parte è focalizzata  sulla prima prova dell’esame di stato ovvero il tema, la seconda parte verte sul  progetto, ed infine il caso clinico inoltre è presente una bibliografia per argomenti per approfondire le varie tematiche di interesse.

Il testo si propone di delineare in maniera chiara la modalità  di svolgimento per ogni prova con degli esempi e delle esercitazioni pratiche, dove lo studente può cimentarsi a completarle.

Per la prima prova  è necessario  comprendere bene la richiesta della traccia quindi tracciare dei nessi logici tra vari argomenti  con coerenza concettuale sviscerando i punti chiave.  E’ importante essere flessibili per adempiere alle richieste della commissione in maniera coerente.

Inoltre mette in luce i trabocchetti delle tracce che possono mandare in crisi lo studente. Inoltre il libro propone come organizzare il tema seguendo i vari punti dall’introduzione alla definizione generale del costrutto, i punti deboli e i punti di forza che possono essere segnalati, i metodi di ricerca e le variabili che il costrutto intende argomentare. Il confronto con le varie teorie, i fenomeni che si propongono di indagare.

Nella prima parte ci sono anche delle mappe concettuali  per una visione globale e per porre l’attenzione sulle aeree maggiormente trattate  e gli argomenti più rilevanti.

Lo scopo è facilitare lo studente nel percorso di organizzazione del materiale teorico, per identificare gli elementi più rilevanti per svolgere la prova. Inoltre sono presenti delle tracce svolte di temi uscite nelle sessioni precedenti.

La seconda parte del libro orienta lo studente a sviluppare un progetto  in ambito psicologico e nelle sue  varie branche (Clinica e Comunità, Evolutiva Lavoro).

L’importanza di questa prova è mettere in evidenza  le competenze dello psicologo in riferimento alle capacità di sapersi muovere nell’ambito della progettazione con utenze diverse tra loro ed attuare  interventi mirati e specifici. In maniera esplicativa delinea i passaggi della progettazione e propone degli esempi su come va impostato il progetto e viene spiegato come svolgerlo. Bisogna tener presente che nel rispondere alle richieste è necessario rispettare una coerenza interna al progetto e alla realtà entro cui si interviene.

Bisogna considerare in primo luogo a chi è indirizzato il progetto, la tipologia dello stesso, che può essere  ad esempio di prevenzione o di riabilitazione e promozione della salute psicologica.  Ma anche il  modello teorico di riferimento che si intende usare. Gli obiettivi  che si intende raggiungere devono essere chiari accurati, come anche la descrizione sui metodi per ottenerli,  le risorse a disposizione e i risultati attesi.  Nel libro sono spiegati in maniera esaustiva tutti  i punti. Troviamo una lista delle tematiche più spesso trattate nelle tracce con cui confrontarsi e delle esercitazioni.

Infine viene spiegata  la modalità di svolgimento della terza prova che verte  su un caso clinico su cui formulare delle ipotesi diagnostiche e segnalare la tipologia  d’intervento più indicata rispetto al trattamento dei disturbi ipotizzati.

E’ mostrato il corretto inquadramento del caso clinico che implica la capacità di individuare all’interno della traccia  gli elementi significativi rispetto ai quesiti posti, il ragionamento sulle informazioni a disposizione. Ci sono le tabelle di sintesi dei criteri diagnostici del DSM-IVper facilitare la memorizzazione.

Concludendo ci sono anche in appendice i principali trattamenti evidence-based che si possono usare a seconda del disturbo psicopatologico considerato. Sono anche suddivisi i principali disturbi di Asse I del DSM-IV e l’età media di insorgenza.

Questo testo non si propone di sostituirsi ai manuali di preparazione per l’esame di stato, ma dopo un ripasso accurato, lo si può usare per svolgere degli esercizi e mettere in gioco il proprio apprendimento e le proprie conoscenze.

LEGGI:

PSICOLOGIA & FORMAZIONE

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Esame di Stato – Professione Psicologo: Timori, Speranze e Riflessioni –

24 Temi Svolti di Psicologia. Download Booktrailer

 

BIBLIOGRAFIA:

Rigidità e dicotomia: la personalità ossessiva – Psicologia

Rigidità e dicotomia . - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.comLa personalità ossessiva vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Ricordate la signorina Rottenmeier , la governante di Heidi? Ops, “devo essere molto precisa“, governante di Clara, amica di Heidi. Sì, proprio lei, la terribile, perfettina, petulante, severissima, rigorosissima e professionalmente implacabile Rottenmier. Non ne lasciava passare una ed era sempre pronta a castigare le mal capitate. La sua vita era fatta di estremi, tutto scandito da una serie di rigide regole ed eccessi.

Ma, secondo voi, che disturbo della personalità presentava? Anancastico, ergo Ossessivo-Compulsivo!

L’ossessivo vive in un mondo in bianco e nero, non esistono altri toni, nemmeno il grigio è contemplato. Le regole e il rigore sono il pane quotidiano, cerca la perfezione ed è determinato nel perseguirla, “devo eccellere altrimenti non sono nessuno!”.

Salta da un estremo all’altro di un continuum, non esistono vie di mezzo, anzi non sono neppure considerate le mezze misure. Si tratta, dunque, di una personalità dicotomica, che si muove tra il tutto o il nulla, fra contraddizioni morali, di pensiero e di comportamento.

L’ossessivo vive di logica, nella razionalità e nell’ordine, concetti che mal si miscelano alle emozioni. E’ molto formale nelle relazioni, educato e corretto al punto da risultare giudicante, critico, controllante e punitivo nei confronti di coloro che non rientrino negli schemi. Nel rapporto con gli altri tende al comando, a dare disposizioni per potere controllare meglio, e quando dice qualcosa in realtà impartisce ordini da far eseguire meticolosamente, solo cosi appaga il bisogno di tranquillità. Non ha fiducia in nessuno, il delegare sarebbe un rischio, se lo facesse verrebbero meno il controllo e le regole.
Svolge una vita dedita alla produttività, raggiunta attraverso attività programmate, elaborazione di schemi, liste. E il denaro? E’ da accumulare in vista di catastrofi future.

Ma, il vero nemico della personalità ossessiva è il controllo minuzioso di ogni minima cosa fino al punto da riuscire a procrastinare gli impegni più importanti per raggiungere la minima perfezione.

Anche le emozioni sono soggette a severissimo controllo, perché se mostrate sono sinonimo di debolezza e vulnerabilità. L’ossessivo può essere felice se e solo se ha la sorte di imbattersi in qualcuno di estremamente elastico che attraverso l’emotività, esperita tramite rispecchiamento cui deve assolutamente esporsi poco alla volta, potrebbe fargli incontrare l’altro nella sua interezza. Vive la rabbia ogni qualvolta non è in grado di mantenere il controllo del proprio ambiente fisico e interpersonale, tuttavia, difficilmente la esprime direttamente, perché concentrato su cosa vuole l’altro, modalità di controllo della dipendenza.

Rischia la noia e per questo è disposto a qualsiasi esagerazione: è una personalità inquieta. E alla fine approda nella depressione, perché fondamentalmente l’ossessivo si auto-svaluta, si auto-critica, e, così facendo, i pilastri della rigidità crollano.

L’affettività è anch’essa controllata e ampollosa, vissuta con disagio, al punto che la relazione affettiva è percepita come una potenziale minaccia alla propria autostima, fragile e traballante visto l’alto grado di dubbio mosso da se stesso nei confronti delle proprie capacità.

L’infanzia di questa persona, pare sia stata costellata da una scarsa valorizzazione, poco riconoscimento e un insufficiente amore da parte dell’ambiente familiare sterile, di conseguenza il bimbo ha dovuto sviluppare una serie di regole rigide che gli permettessero di sopravvivere.

La soluzione? Empatizzare con le difficoltà per riuscire ad abbandonare o smussare la rigidità e il rigore. Abbandonare le intellettualizzazioni, i pragmatismi, le procrastinazioni, i vissuti di frustrazione e rabbia per portare l’ossessivo ad accettare la sua umanità e fragilità.

Cosa fare?

1) facilitare l’identificazione dei sentimenti e la tendenza a minimizzarli;

2) facilitare lo sfogo dei sentimenti sia positivi che negativi;

3) esplorare insieme i problemi legati al controllo e alla frustrazione associati con il perfezionismo;

4) sviluppare delle aspettative più realistiche su di sé, riportandoli alla realtà dei fatti;

5) ridurre la frequenza dei comportamenti dispotici/prepotenti;

6) aiutare a sviluppare fiducia verso gli altri, delegando loro dei compiti;

7) ridurre la frequenza del criticismo verso gli altri e se stesso;

8) aumentare la bassa autostima dopo averla riconosciuta.

Concludo con una celeberrima frase di un celebre film in cui il protagonista ossessivo è finito alla pazzia: “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy“, dedicata agli ossessivi, meticolosi,estimatori del cinema Horror.

 

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DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD – DISTURBO OSSESSIVO DI PERSONALITA’ – DEPRESSIONE

L’OSSESSIVO FURIO ON BIANCO, ROSSO E VERDONE. CINEMA E PSICOTERAPIA NR. 9

 

BIBLIOGRAFIA:

La relazione di coppia compromessa dall’uso degli sms?- Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno; questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione” che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Secondo la CTIA – The Wireless Association, nel 2012 circa 2.190 miliardi di sms sono stati inviati negli Stati Uniti, l’equivalente di 171.300 milioni ogni mese; tra questi un numero significativo è stato inviato al/alla partner.

Un gruppo di ricercatori della Brigham Young University si è interessato alla frequenza e ai contenuti di questi messaggi scoprendo che questa modalità di comunicazione gioca un ruolo importante nel determinare la qualità della relazione di coppia.

Lo studio ha coinvolto 276 soggetti tra i 18 e i 25 anni e impegnati in una relazione; di questi il 38% ha dichiarato di essere in una relazione seria, il 46% di essere fidanzato e il 16% sposato. Tutti i partecipanti rispondevano a un sondaggio dettagliato sull’uso della tecnologia come mezzo di comunicazione con il/la partner.

I risultati, pubblicati sul Journal of Couple and Relationship Therapy, hanno rivelato che circa l’82 % delle persone comunica con il partner via sms più volte al giorno e che questa pratica è una forma di “manutenzione della relazione”, che rischia però di livellare la qualità della comunicazione e della relazione di coppia verso il basso.

Via sms infatti ci si confronta in merito alle reciproche differenze, si chiede scusa, si prendono decisioni e si fanno programmi di coppia, evitando in questo modo un confronto diretto con il partner. Ma è solo grazie al “faccia a faccia” che riusciamo a cogliere l’altro nella sua interezza, a vederlo cioè per come è realmente e a fare i conti con eventuali delusioni.

La comunicazione via sms quindi, quando è la forma di comunicazione prevalente e si sostituisce all’abitudine di un confronto diretto con il partner, rischia di favorire una sorta di “disconnessione” con l’altro e di peggiorare inevitabilmente la qualità della relazione di coppia.

In particolare i ricercatori hanno scoperto che, per quanto riguarda i maschi, più hanno l’abitudine di usare sms per comunicare con la partner minore è la qualità della relazione di coppia.

Non tutti gli sms però peggiorano la comunicazione di coppia, la frequenza di messaggi romantici, infatti, correla positivamente, sia negli uomini che nelle donne, con una maggiore soddisfazione di coppia.

LEGGI:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALITECNOLOGIA & PSICOLOGIATELEFONI CELLULARI-SMARTPHONES-MOBILE – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Studi Sperimentali: risposta di Lucio Sibilia a Giancarlo Dimaggio

Con questo articolo Lucio Sibilia risponde a Giancarlo Dimaggio che aveva descritto un lavoro che paragonava l’efficacia di una terapia psicodinamica (PP, psychodinamic psychotherapy) e una terapia cognitivo comportamentale (CBT, cognitive behavioural therapy). 

 

LEGGI L’ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

Lucio Sibilia - foto
Prof. Lucio Sibilia

Studi che dimostrano l’efficacia della psicoterapia detta “psicodinamica” ne sono stati pubblicati ormai parecchi. Ma affinché si possa parlare di “scienza” in psicoterapia, molti pensano, e io concordo, che non basti la semplice dimostrazione di efficacia. È necessario anche mostrare che i presupposti hanno fondamenti empiricamente validati.

In altri termini, non basta che io ti dimostri di saper fare un buon caffè, ma se voglio parlare di una “scienza del caffè”, è necessario che ti dimostri di farlo seguendo dei principi fondati, mostrando che sono fondati.

In questo senso la CBT, nella misura in cui mantiene un saldo ancoraggio ai suoi principi fondanti, potrebbe ambire al riconoscimento di disciplina scientificamente fondata. Ovviamente, ciò non sottrae mai le sue procedure all’indagine e verifica sperimentale. Perciò, quando la verifica ci conferma un’efficacia della CBT, presente ma limitata, si possono subito porre alcune domande. Per esempio: sono stati applicati bene quei principi? Sono stati applicati correttamente?  Sui giusti bersagli? Con un’analisi cognitivo-comportamentale adeguata? Da terapeuti esperti, come ha appunto contestato Clark? Domande che non devono necessariamente mettere in dubbio i fondamenti, ma la correttezza della loro attuazione.

Passando alla PP, invece, c’è da chiedersi su quali principi si fondi. I suoi sostenitori affermano che sia ispirata alla psicoanalisi. Se così fosse, sarebbe molto problematico il suo status di disciplina scientificamente fondata. Invece, un’ispezione anche superficiale delle sue procedure ci mostra che la PP è tutt’altro dalla psicoanalisi. Come ho avuto modo di scrivere altrove, se partisse dalla psicoanalisi, si direbbe che abbia fatto un viaggio agli antipodi.

Le sue caratteristiche procedure, infatti, almeno come definite da Gabbard (2004), sono le seguenti:

• Focus sull’affettività e l’espressione dell’emozione (stimolare le risposte emotive è già presente in tipiche procedure di behavior therapy)
• Esplorazione dei tentativi di evitare aspetti dell’esperienza (impedire gli evitamenti, come nelle tipiche procedure di esposizione, o di blocco della risposta)
• Identificazione di schemi e temi ricorrenti (come nell’analisi cognitiva, alla Beck o alla Ellis, e così via)
• Discussione sulle esperienze passate (procedure di rielaborazione narrativa, ristrutturazione, e così via)
• Focus sulla relazione terapeutica (autoosservazione del comportamento relazionale)
• Esplorazione di desideri, sogni e fantasie (contenuti cognitivi, oggetto anch’essi di alcune procedure CBT)

Oppure le caratteristiche generali (non procedurali) della “psicoterapia psicodinamica breve” sono così descritte (Leichsenring, Rabung, Leibing, 2004):
time limited (di solito 16-30 sedute in un ventaglio da 7 a 40)
setting faccia a faccia

  • terapista relativamente attivo
  • sviluppo dell’alleanza terapeutica
  • sviluppo di un transfert positivo
  • focalizzazione su conflitti specifici o temi formulati precocemente in terapia
  • focalizzazione sul qui e ora
  • attenzione all’aderenza al focus
  • attenzione all’accordo su obiettivi realistici
  • attenzione alla relazione presente tra paziente e terapista, non necessariamente ricondotta al passato

Come si vede, non dovrebbe sorprendere affatto che anche la cosiddetta PP sia efficace. Infatti, essa contiene alcune procedure terapeutiche molto simili se non identiche a quelle della CBT, per quanto definite in maniera meno precisa. Eventuali altre componenti procedurali non riferibili all’area dell’apprendimento socio-cognitivo, se presenti nella PP, dovrebbero comunque dimostrarsi necessarie per il cambiamento, per essere prese in considerazione.

Trovo comunque che c’è un aspetto nella PP, il lavoro sul comportamento relazionale, che manca nella “terapia cognitiva”, almeno quella tradizionale alla Beck per intenderci, anche se non manca ovviamente in approcci di tipo più comportamentale. D’altra parte Beck aveva un approccio intrapsichico in sintonia con la sua formazione psicoanalitica. Forse questo aspetto potrebbe da solo spiegare la mancata differenza di efficacia: un possibile vantaggio della PP su di una psicoterapia soltanto “cognitiva”, per la presenza di una componente che vi manca, appunto il comportamento relazionale del paziente.

Confesso di essere un po’ stanco di leggere articoli sulla PP, come se questa fosse una versione attualizzata della psicoanalisi. Non lo è. Ma se non lo è, e aspira comunque ad uno status “scientifico”, i suoi sostenitori dovrebbero chiarire quali ne siano i fondamenti e perché sono validi. Che l’efficacia clinica fosse usata per dimostrare la validità dei principii usati accadeva sì negli anni ’50, ma allora si trattava di principii sperimentalmente stabiliti, non teorici!

In conclusione: ben vengano gli studi sperimentali, ma attenzione alle trappole che vi possono essere!

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ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

 

BIBLIOGRAFIA:

I paradigmi sperimentali nelle ricerche sullo schema corporeo

Paola Alessandra Consoli.

 

“Io sento il mio io.

Mi pare di conoscerlo meglio degli altri.

Ne sono sicuro”.

Peccarisi Luciano, Riflessioni sulla mente, 2010

Schema corporeo . - Immagine: ©-dimdimich-Fotolia.comSchema corporeo: la rappresentazione mentale del nostro corpo ci consente, continuamente, di compiere piccoli o grandi gesti, come pettinarci, utilizzare correttamente le posate, o utilizzare gli strumenti del nostro lavoro.

Solo quando questi comportamenti, che diamo per scontati, sono disturbati da una patologia, ci rendiamo conto di quanto siano importanti nella nostra vita.

I disturbi della rappresentazione corporea si possono manifestare in patologie psicologiche e psichiatriche, ma molto più spesso come conseguenza di patologie neurologiche (lesione cerebrale o lesione periferica, epilessia, ictus, emicrania). Nel primo caso si parla di “interruzione dell’immagine del corpo”, nel secondo di “disturbi dello schema corporeo” (Vignemont, 2010).

Il protagonista del funzionamento di una corretta rappresentazione corporea è il lobo parietale, ritenuto responsabile dell’organizzazione di tutte le aree sensomotorie e connesso con l’orientamento nello spazio. Gli studi sulla somatotopia hanno permesso di predisporre mappe della corteccia cerebrale per cui ad “ogni punto della superficie cutanea corrisponde un punto di massima eccitabilità corticale” (Benedetti, 1969, p.467).

Non si tratta di una rappresentazione punto per punto, perché ogni punto eccitabile della cute corrisponde a una superficie di diversi millimetri del giro post-centrale e alcune regioni del corpo (labbra, dita) sono rappresentate da superfici più vaste della corteccia rispetto ad altre. Questi recettori periferici, oltre alla percezione tattile, hanno un ruolo importante nell’orientamento spaziale. Il lobo parietale ha diverse funzioni, distinte ma correlate fra loro: la percezione tattile, la percezione del proprio corpo (somatognosia), la percezione dello spazio (gnosia spaziale), l’organizzazione superiore dei movimenti (prassia) (Benedetti, 1969).

La ricerca neuropsicologica moderna impiega paradigmi sperimentali differenti e forse stravaganti per comprendere le modalità di funzionamento della nostra corteccia cerebrale quando viene eccitata da uno stimolo tattile.

I risultati ottenuti suggeriscono che l’illusione di essere toccati in un punto del corpo impegna la stessa area del cervello che avrebbe risposto se quella parte del corpo fosse stata effettivamente toccata e illuminano la strada a chi si occupa di riabilitazione neuropsicologica per pazienti amputati o con diagnosi di disturbo della rappresentazione corporea.

Le informazioni sensoriali e propriocettive che riceviamo dall’esterno e dall’interno del corpo sono molteplici, convergenti e ridondanti. Spesso non è facile discriminare quale sia il contributo di un senso o di un altro perché il nostro cervello compie continuamente un lavoro di integrazione sensoriale. La multisensorialità e le sue conseguenze sulla rappresentazione del corpo possono essere analizzate creando situazioni sperimentali in cui un’informazione sensoriale è in contrasto con un’altra.

Un soggetto sottoposto all’esperimento della mano di gomma (Rubber Hand Illusion, RHI) viene ingannato quando ha la percezione di un tocco applicato su una mano di gomma posta di fronte a lui.

Nel paradigma RHI, i partecipanti siedono con il braccio sinistro a riposo su un tavolo, nascosto alla vista da un paravento. Viene chiesto loro di fissare visivamente una mano di gomma posta di fronte al soggetto, nella stessa posizione del braccio reale, e lo sperimentatore, con l’aiuto di due pennelli, toccherà ripetutamente e contemporaneamente la mano del partecipante e la mano finta.

Dopo poco tempo, la maggior parte dei partecipanti sentirà il tocco nello stesso posto in cui è stata toccata la mano di gomma e alcuni percepiranno questa mano finta come propria (Kammers et al., 2010).

L’effetto dell’illusione è ridotto quando la postura o la lateralità della mano di gomma è incongruente con la mano reale nascosta dietro il paravento e scompare se la mano di gomma è ruotata di 90° rispetto alla mano del partecipante (Pavani et al., 2000).

La somiglianza tra la mano reale e quella fittizia non influenza la RHI, ma lo stesso non si può dire di una precedente esperienza. Questo dimostra che l’integrazione sensoriale che conduce alla rappresentazione del nostro corpo non è sufficiente a generare la RHI, ma quest’ultima avviene a dispetto di un preesistente senso di auto-attribuzione del corpo (Gallese, Sinigaglia, 2010).

L’integrazione fra le informazioni propriocettive, motorie e visive è disturbata dalla vista della mano di gomma e dall’apparente assenza della propria mano reale. La corteccia premotoria, che ha la funzione di definire l’appartenenza dei propri arti, si fa ingannare perché è portata ad integrare le informazioni che riesce a vedere. In questo caso l’informazione visiva è più potente di quella tattile.

Questo paradigma si basa sull’opportunità quotidiana di poter raccogliere informazioni visive e tattili concorrenti durante la manipolazione di oggetti. Se queste informazioni vengono elaborate in strutture cerebrali diverse, la visualizzazione di una parte del corpo accelera l’elaborazione tattile.

Diverse ricerche hanno dimostrato che l’acuità tattile migliora quando i pazienti vedono stimolare il loro braccio, realizzando un rinforzo visivo del tatto (visual enhancement of touch) (Serino, 2010).

La visualizzazione dell’arto (reale, protesico o mano di gomma) influisce sull’attività della corteccia somatosensoriale, inducendo una rinnovata attività neurale mediante un circuito di interneuroni responsabili del giudizio dell’acuità tattile. La visione contribuisce a definire meglio lo spazio del corpo a cui fa riferimento l’informazione tattile (Serino, 2010).

Lo svantaggio di questo paradigma è che si basa su una rappresentazione illusoria di una mano di gomma statica che non può essere incorporata nello schema corporeo del soggetto proprio per la sua immobilità. I partecipanti a cui si richiede una risposta motoria, perdono immediatamente l’illusione della mano di gomma tornando alla rappresentazione della mano reale (Newport et al., 2010).

Una ricerca interessante è stata condotta da Kammers e coll. (2010) e ha coinvolto 11 studenti universitari che non conoscevano l’esperimento. Per la prima volta si è studiato l’effetto della RHI sui parametri cinematici del movimento di afferrare. I partecipanti erano posti di fronte ad un tavolo alto e indossavano un grande grembiule nero per nascondere le braccia alla loro stessa vista. Il braccio destro era posto nello scomparto inferiore di un dispositivo di legno che conteneva, nello scomparto superiore, la mano di gomma, nella stessa posizione della mano reale.

La RHI veniva indotta da carezze simultanee su pollice e indice della mano reale e contemporaneamente su quella di gomma. Si chiedeva poi ai partecipanti di prendere, in un unico movimento, un piccolo cilindro posto di fronte al dispositivo e nel frattempo si registravano i movimenti della mano destra reale.

Si è verificato che gli studenti avviavano il movimento con la stessa apertura della mano di gomma e se questa non era sufficiente per afferrare il cilindro o la posizione non era corretta, il programma motorio avviato dalla mano reale conduceva al fallimento del compito, a causa di un errore di puntamento. L’errore accadeva più frequentemente se la consegna prevedeva di svolgere il compito ad occhi aperti. Questo succede perché il cervello “si fida” maggiormente di ciò che vede, quindi dell’informazione visiva, rispetto a quella propriocettiva (posizione di partenza, configurazione della mano), ma in questo esperimento la vista si fa ingannare dalla mano di gomma.

Un paradigma davvero curioso è quello del coniglio cutaneo. Applicando colpetti sequenziali prima in una posizione, poi in un’altra del braccio, con vibrazioni puntuali alla giusta frequenza e distanza, si crea l’illusione somatosensoriale di un piccolo coniglio che salta sulla pelle.

Applicando 5 brevi impulsi della durata di 2 msec ciascuno ad intervalli di 40-80 msec sul polso e poi, senza interruzione, gli stessi a 10 cm di distanza dalla prima applicazione e ancora 5 a 10 cm dalla seconda applicazione, i colpetti successivi non si sentiranno solo nei tre posti in cui sono stati somministrati, ma anche in posizioni intermedie, in maniera uniforme, dando la sensazione di un piccolo coniglio che saltella dal polso al gomito. Applicando solo 4 impulsi sulle 3 posizioni si ha una minore distinzione del coniglio illusorio, che scompare del tutto se si applicano solo 3 impulsi (Sherrick, Geldard, 1972).

Il coniglio cutaneo illusorio (cutaneous rabbit) non attraversa la linea mediana del corpo e sembra attribuibile all’attività somatotopica in S1 (corteccia primaria somatosensoriale), che corrisponde al sito di pelle in cui la sensazione illusoria si è verificata. Il “coniglio cutaneo” può anche saltare su un bastone tenuto tra le dita del soggetto esaminato, a dimostrazione che l’oggetto può essere incorporato nello schema corporeo e che quest’ultimo è dinamico e adattabile agli strumenti abitualmente utilizzati dall’individuo, anche se, ovviamente, lo strumento manca di una specifica zona reattiva in S1, che risulterebbe quindi dotata di una plasticità transitoria (Miyazaki et al., 2010).

La ricerca di Miyazaki e coll. (2010) ha coinvolto 8 soggetti con nessuna conoscenza pregressa dell’esperimento. Gli studi con fMRI hanno dimostrato un coinvolgimento delle aree premotoria e prefrontale nella rappresentazione dell’oggetto inclusa nella rappresentazione corporea.

La percezione della forma del corpo può essere modificata sperimentalmente utilizzando l’illusione di Pinocchio. I fusi neuromuscolari sono recettori propriocettivi, posti nei muscoli striati volontari; forniscono informazioni sulla variazione di lunghezza dei muscoli. E’ possibile attivarli sperimentalmente stimolando il tendine con uno stimolo vibratorio. Applicando questa stimolazione al bicipite, la percezione sarà quella di una estensione del braccio, anche se il braccio rimane fermo. Se questo viene stimolato mentre contemporaneamente le dita dello stesso braccio tengono la punta del naso, si produce una condizione paradossale: percepiamo il braccio che si prolunga, la mano si allontana dalla faccia e il naso si allunga fino a 30 cm (Medina, 2010).

In questo caso, contrariamente al paradigma della mano di gomma, l’informazione tattile si integra con l’informazione vestibolare per sovrastare l’informazione visiva e creare l’illusione di allungamento (Lackner, 1988).

L’illusione di Pinocchio costituisce la soluzione di un conflitto sensomotorio: la vibrazione crea l’illusione di allungamento del braccio, ma essendo la mano in contatto con il naso, anche quest’ultimo sembrerà in movimento. Visto che la testa e il corpo sono stazionari, sembrerà che sia il naso a muoversi, crescendo in lunghezza. Le parti del corpo vengono rappresentate nel loro rapporto reciproco e questa rappresentazione è il risultato delle numerose informazioni sensoriali che provengono dal corpo e sono integrate in un tutto funzionale (Vignemont, 2005).

Una variante di questo esperimento è stata proposta da Ehrsson (2005): si è chiesto ad una giovane donna di porre le mani sui fianchi mentre le venivano somministrati rapidi impulsi sul tendine del polso, creando la sensazione che le mani si curvavano verso l’interno. Allo stesso tempo, la donna sentiva la vita e i fianchi restringersi di diversi centimetri per circa 30 sec.

Lo stesso Ehrsson ha sottoposto 24 persone a questo esperimento durante una fMRI e ha verificato un’attivazione parietale tanto maggiore quanto minore è la circonferenza illusoria della vita. L’esperimento può essere ripetuto quante volte sono necessarie per la rilevazione della fMRI, poiché l’illusione di restringimento della vita si manifesta ogni volta che sono applicati gli impulsi.

La plasticità cerebrale, con le sue infinite possibilità di recupero, parziale o totale, da una lesione, consente di mettere in dubbio l’assoluta somatotopia descritta negli ultimi decenni. Il corpo rappresentato nel cervello potrebbe non essere perfettamente isomorfo al corpo reale.

Fino a quando queste infinite opportunità di rappresentazione corporea non saranno scoperte e fino a quando le tecniche riabilitative non avranno raggiunto l’eccellenza nella possibilità di guarigione di un paziente, potremo avere il ragionevole dubbio di possedere non uno ma diversi “corpi nel cervello”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Chi trova un amico, trova un tesoro! Proverbio o evidenza scientifica?

 

 

 

Chi trova un amico trova un tesoro. - Immagine: © Igor Yaruta - Fotolia.comVi siete mai chiesti da dove derivi il vecchio adagio “chi trova un amico, trova un tesoro”? Se ne trova traccia anche nella Sacra Bibbia, dove l’amicizia viene descritta come un tesoro dal valore inestimabile: “l’amico fedele è un balsamo nella vita” (Libro dell’Ecclesiastico, 6,5-17).

Una ricerca condotta nel 2011 a Montrèal, in Canada, fornisce prove scientifiche che sembrano confermare quanto i nostri nonni ci hanno sempre insegnato: la presenza di amici, in particolare del migliore amico, è uno strumento utile in grado di mitigare gli effetti che esperienze negative (un litigio, un brutto voto, etc.) possono avere sulla propria autostima.

Adams, Santo e Bukowski hanno monitorato per quattro giorni un gruppo di 103 tra ragazzi e ragazze (55 maschi e 48 femmine) con età compresa tra i 10 e i 12 anni.

Ciascuno di loro ha dovuto compilare un quaderno annotando ciò che capitava loro durante la giornata e nel contempo veniva misurato il livello di cortisolo presente nella saliva, un ormone il cui aumento sembra direttamente collegato ad esperienze stressanti.

Secondo i ricercatori in un bambino, di fronte ad un’esperienza negativa, si verifica un aumento di cortisolo e una diminuzione di autostima, ma se accanto a lui è presente il migliore amico tale effetto negativo è meno forte e si ristabiliscono più velocemente le condizioni precedenti all’evento, ossia riduzione del livello di stress (diminuzione di cortisolo) e miglioramento del tono dell’umore e del livello di autostima.

I risultati raggiunti sembrano quindi confermare l’ipotesi di effetti protettivi dovuti alle amicizie: la presenza del migliore amico durante un’esperienza negativa riduce in modo significativo il suo effetto su cortisolo e autostima globale.

In assenza del migliore amico invece si verifica un significativo aumento di cortisolo e una significativa riduzione dell’autostima globale.

Non sarà un tesoro in denaro, ma l’amicizia sembra essere effettivamente un “balsamo nella vita”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Viviana Spandri

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare l’Alzheimer. Le anomalie associate ad ApoE4 e Alzheimer, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1.

La Malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease-AD) è la forma più comune di malattia degenerativa invalidante a esordio prevalentemente senile, tipicamente esordisce con un deficit di memoria per i fatti recenti ed è caratterizzata da morte neuronale in seguito alla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, attribuibili alla proteina beta-amiloide.

I malati di AD in Italia sono circa 492000, mentre nel mondo nel 2006 ammontavano a 26.6 milioni, principalmente di sesso femminile. Al momento non esistono trattamenti curativi, o anche solo efficaci al 100% nel fermare la progressione della malattia e la ricerca si sta muovendo in più direzioni per cercare le cause di questa forma di demenza e riuscire a sviluppare trattamenti preventivi.

Una di queste strade di ricerca mira a trovare un trattamento preventivo per il 2.5% della popolazione portatrice di due alleli ApoE4, condizione che nella popolazione di razza caucasica o giapponese porta a un rischio stimato di 10 o 30 volte superiore di sviluppare la malattia rispetto a coloro che non hanno neanche un allele; inoltre l’allele singolo ApoE4 è presente nel 25% della popolazione.

La presenza dell’ApoE4 (posizionato sul cromosoma 19) rappresenta ad oggi quindi il maggior indicatore di rischio genetico per sviluppare AD. L’ApoE4 è una delle 3 principali isoforme, insieme ad ApoE2e ApoE3, dell’ApoE (apolipoproteina E), è normalmente coinvolta nelle reazione metaboliche del colesterolo, e nello specifico del Sistema Nervoso Centrale (SNC) viene prodotta dagli astrociti e trasporta il colesterolo ai neuroni attraverso i recettori ApoE.

Resta un mistero quale sia il meccanismo attraverso cui l’ApoE4 aumenti il rischio di sviluppare una malattia degenerativa. In una ricerca pubblicata recentemente dal gruppo di ricerca del Buck Institute è stata dimostrata una correlazione negativa tra ApoE4 e SirT1, una proteina “anti-aging” bersaglio del resvaratrol, presente nel vino rosso.

Nello specifico questo gruppo di ricerca ha scoperto che ApoE4 provocherebbe una grave riduzione nella concentrazione di SirT1, una delle 7 sirtuine che possiede l’uomo, sia in cellule neuronali coltivate in laboratorio che in campioni di tessuto cerebrale di pazienti con ApoE4 e AD.

Le anomalie associate ad ApoE4 e AD, come il costituirsi di fosfo-tau e beta-amiloide, potrebbero essere prevenute aumentando la concentrazione di SirT1, che è stata dimostrata avere un ruolo di protettore per la neurotossicità in quanto associata a un cambiamento nell’elaborazione della proteina precursore dell’amiloide (APP), mentre ApoE4, al contrario, favorisce la formazione del peptide beta-amiloide associato con le placche amiloidi, uno dei segni distintivi di AD.

Inoltre la presenza dell’allele ApoE3 (che non porta ad aumentare il rischio di sviluppare AD) sembrerebbe essere correlata ad una concentrazione più elevata di peptide anti-AD (alfa sAPP) invece che di peptide beta-amiloide pro-AD. Il meccanismo d’azione di SirT1 sarebbe quindi spiegato, dal momento che la sovra-espressione di SirT1 è stata precedentemente connessa all’aumento di ADAM10, la proteasi che scinde APP per produrre sAPP alfa e prevenire la beta-amiloide. L’ApoE4 porterebbe a una diminuzione della SirT1 in rapporto alla SirT2, nota per essere tossica per le cellule neuronali, e quindi mediante questo meccanismo porterebbe alla morte neuronale.

LEGGI:

MORBO DI ALZHEIMERTERZA ETA’GENETICA & PSICHE – DEMENZA

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La cura della Fobia Sociale e il primato tra CBT e terapia Psicodinamica

 

 

 

Dimaggio ansia sociale - Immagine: © intheskies - Fotolia.com - SQUAREMeccanismi differenti per trattare la fobia sociale: terapia cognitivo-comportamentale e terapie psicodinamiche a confronto

Da sempre in psicologia clinica ci si chiede quali siano i trattamenti psicoterapeutici, o almeno gli interventi, più efficaci per determinati sintomi. La risposta definitiva non è ancora arrivata, e le risposte –solide ma non conclusive- che la scienza ci mette a disposizione non sempre ci soddisfano. Per questo desidero tentare una riflessione e condividerla con i lettori di State of Mind.

I sintomi psicologici sono sorretti da meccanismi molteplici. L’ansia sociale può essere mantenuta da rappresentazioni schematiche maladattive di sé con l’altro che portano ad anticipare una risposta negativa quando si attiva il desiderio di essere accettati e apprezzati. Può essere sostenuta da meccanismi di evitamento comportamentale che rinforzano il ritiro sociale e impediscono di contrastare le rappresentazioni maladattive schematiche. Variabili temperamentali possono essere in gioco, ad esempio una timidezza su base genetica. Altri meccanismi di mantenimento possono essere prevalenti, bias attenzionali a segnali di rifiuto o meccanismi di rimuginio metacognitivo che mantengono nella mente il focus su rappresentazioni di umiliazione, derisione e rifiuto.

Se i meccanismi di mantenimento sono molteplici, ne consegue che i punti di attacco sono vari, e che si possa generare miglioramento sintomatico attraverso vie diverse.

In questa ottica, il problema è meno: quale trattamento manualizzato può offrire la migliore soluzione all’ansia sociale (o ad altri disturbi sintomatici)?
Una domanda più interessante mi sembra: quale meccanismo o meccanismi sottendono l’ansia sociale in questo specifico paziente e tra le tecniche disponibili, qual è la più adatta a risolvere il problema?

La logica della ricerca di efficacia sui trattamenti psicoterapeutici non aiuta a dirimere la questione. Il trend prevalente è quello di gettare due trattamenti nell’arena e vedere quale funziona di più. Dimenticandosi che, anche se un trattamento funziona meglio dell’altro, non è detto che sia utile a tutti i pazienti. E non è detto che molti dei pazienti per cui il trattamento che appare superiore non beneficerebbero dell’altro trattamento, più adatto al problema che effettivamente presentano.

Questo dibattito si è recentemente ravvivato a seguito di un trial che comparava la terapia cognitivo-comportamentale (da questo momento CBT: cognitive behavioural therapy) per l’ansia sociale con la terapia psicodinamica, trial che offre spunti di riflessione in questa direzione.

Leichsenring e colleghi (2013) hanno trattato un totale di più di 400 pazienti assegnati random ai due trattamenti (Link). Gli autori concludevano che: entrambi i trattamenti erano efficaci ed entrambi superiori a pazienti in lista d’attesa; che la CBT era superiore per la remissione dall’ansia sociale ma non per la risposta globale; rispetto alle misure secondarie di outcome, ovvero depressione e fobia sociale la CBT era anche lievemente superiore. La differenza tra i due gruppi era però considerata dagli autori piccola. Detto in termini semplici, la CBT emergeva non come nettamente superiore alla terapia psicodinamica.

Alla pubblicazione del trial è seguito un dibattito. David Clark, uno dei principali autori del modello di terapia CBT per l’ansia sociale, e sempre in prima linea nel difendere le ragioni della CBT nei dibattiti scientifici, ha sollevato una serie di obiezioni, tutte mirate a sostenere che la CBT non era stata effettuata al meglio e quindi gli esiti ottenuti erano inferiori a quelli che avrebbe prodotto una CBT applicata secondo canone.

La risposta di Clark si trova qui. La riassumo:

la forma di CBT applicata era stata diluita in 8-9 mesi contro i 3-4 mesi consigliati. Le sedute erano di 55 minuti invece dei 90 minuti consigliati per potere applicare gli esercizi di esposizione comportamentale; la competenza dei terapeuti CBT era inadeguata; i terapeuti CBT non erano abbastanza esperti ed avevano in media meno anni di esperienza dei terapeuti psicodinamici. Clark quindi concorda con gli autori che entrambi i trattamenti erano risultati efficaci e la CBT era superiore. Tuttavia obiettava che la magnitudine della superiorità è stata sottostimata a causa dei problemi sopra elencati. Invoca quindi nuovi studi di confronto in cui la CBT venga applicata in modo pienamente corretto.

 

Gli autori dello studio hanno replicato: Link  Le loro argomentazioni erano le seguenti:

la CBT non era stata modificata e seguiva il manuale di Stangier, Clark e Ehlers. L’esperienza dei terapeuti non aveva avuto un impatto sui risultati. Controbiettano poi che in studi precedenti condotti dallo stesso Clark la competenza dei terapeuti CBT non era stata analizzata, quindi la sua obiezione non aveva fondamento su prove empiriche precedenti e mettevano in dubbio la generalizzabilità del precedente studio di Clark che includeva pochi (21) pazienti trattati da 6 terapeuti super-esperti. Aggiungono poi che se la CBT è stata manualizzata da tempo, la terapia psicodinamica per l’ansia sociale lo è stata da poco e il livello di competenza con cui era stata applicata in questo trial era sub-ottimale, quindi essa per prima suscettibile di miglioramento. Infine precisano di non avere sostenuto che la CBT era superiore alla terapia psicodinamica, ma solo di avere mostrato alcune significatività statistiche in alcune misure di esito specifiche. Il tasso di differenza nei successi tra i due trattamenti era infatti basso (tra 8 e 10%) e insufficiente per affermare la superiorità di un trattamento rispetto all’altro. Concludono quindi che sulla base del loro studio non è possibile affermare che la CBT sia superiore ed è necessario che lo studio venga ripetutamente replicato.

Il dibattito è interessante ed entrambe le parti portano argomenti sensati. Quello che appare evidente è che la differenza nell’efficacia, se esisteva, era minima, e che entrambi gli approcci hanno buone ragioni per dire che il loro trattamento poteva essere implementato meglio. Il che, ed è un merito, invita a raffinare i trattamenti e migliorarne l’applicazione.

Tornando al mio punto di partenza, è probabile che il punto interessante non sia quanto le terapie siano efficaci, una volta stabilito che nessuna della due si imponga come chiaramente migliore e quindi da suggerire ai pazienti come prima scelta.

I due trattamenti erano completamente diversi rispetto a tecniche usate. La terapia psicodinamica cercava di aiutare i pazienti a riconoscere i propri schemi interpersonali che sottendevano l’ansia sociale e a prenderne distanza. La CBT usava un repertorio di tecniche, quali esperimenti comportamentali e rescripting immaginativo.

Il clinico che è interessato per motivi politici ed economici a mostrare che un approccio è superiore all’altro tenderà a leggere i risultati di studi come questo in termini: questo trattamento è superiore e va proposto o imposto sugli altri.

Il clinico interessato a comprendere la psicopatologia e a smantellare la psicoterapia scoprendone gli ingredienti efficaci può imparare da studi del genere e da questo dibattito che esiste un repertorio di tecniche adatto a trattare aspetti diversi alla sorgente dello stesso problema. Diventa un clinico con più frecce al proprio arco, capace di intervenire con più strumenti tecnici dopo un’adeguata case-formulation.

LEGGI LA RISPOSTA DI LUCIO SIBILIA A QUESTO ARTICOLO

LEGGI ANCHE:

ANSIA SOCIALE 

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

BIBLIOGRAFIA:

AUTORE DELL’ARTICOLO:

Giancarlo Dimaggio – Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma.

Alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche – Assisi 2013

Assisi 2013

La relazione tra alessitimia e dissociazione nelle Crisi Psicogene Non-Epilettiche

Andrea Poli 1, 2, Cristina Meoni 1, Claudio Bartolozzi 3, Giancarlo Muscas 4† & Ferdinando Galassi 5

1Scuola Cognitiva di Firenze, via delle Porte Nuove, 10, Firenze; 2Istituto di Neuroscienze, CNR, via Moruzzi, 1, Pisa; 3AOU Careggi, Dipartimento di Fisiopatologia Clinica, Reparto di Genetica Medica, Firenze; 4AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Neurologia, Firenze; 5AOU Careggi, Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Reparto di Psichiatria, Firenze.

INTRODUZIONE:

E’ ormai noto che i pazienti con PNES (Psychogenic Non-Epileptic Seizures) mostrino un’esperienza emotiva più intensa (Roberts et al., 2012) e che un estremo arousal emozionale possa risultare in un fallimento integrativo della memoria (van der Kolk, 2006), ma non vi sono ancora evidenze definitive sulla relazione tra dissociazione ed alessitimia in questi pazienti. (Myers et al., 2013; Schacter & LaFrance, 2010).

La ricerca si propone di verificare le seguenti ipotesi: 1) la predisposizione alla dissociazione è un fattore predittivo per lo sviluppo di PNES; 2) l’alessitimia è mediatore degli effetti della dissociazione sulle probabilità di sviluppare PNES.    

14 pazienti con PNES, 13 pazienti con PNES in comorbidità con epilessia (PNES+EP), 9 pazienti con EP (tutti selezionati con monitoraggio video-EEG) e 16 controlli sani (HC, Healthy controls) hanno compilato i seguenti strumenti: DES-II, TAS-20, BDI-II, STAI-S e STAI-T.

Dai modelli di regressione logistica risulta che solo le sottoscale EOT (della TAS-20) ed Abs (della DES-II) sono in grado di predire in maniera significativa l’appartenenza al gruppo PNES. Dall’analisi di mediazione/moderazione risulta che la sottoscala Abs è in grado di predire l’appartenenza al gruppo PNES, ma non al gruppo PNES + EP, ed sil suo effetto è pienamente mediato (full mediation) da EOT.

La predisposizione ad uno stile dissociativo di gestione emotiva è un fattore predisponente allo sviluppo di PNES e il suo effetto si concretizza in uno stile di pensiero prevalentemente orientato all’esterno.

 

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DISSOCIAZIONE PRESENTAZIONI

Il trauma e il corpo. (2012) – Recensione dell’edizione italiana

Tutti gli articoli sul V Forum sulla Formazione in Psicoterapia di Assisi 2013

 

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) – Recensione

 

Recensione del Film:

La vita di Adele – Palma d’oro a Cannes 2013

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I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I, I follow you, dark boom honey 

I, I follow, I follow you deep sea baby, I follow you 

I, I follow, I follow you dark boom honey 

I follow you ..

(da “I follow rivers”, di Likke Li)

 

La vita di adele di abdellatif kechiche. -Immagine: Locandina

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La semplicità e leggerezza della musica che accompagna Adele verso la pienezza dei suoi sentimenti descrive in modo perfetto quell’attimo, quella luce che vediamo all’improvviso accendersi nel suo volto durante la festa del suo 18esimo compleanno.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013) è un affresco coloratissimo di umanità, di sguardi, di volti ed emozioni che difficilmente si trovano così ben rappresentate e con la delicatezza mostrata dal regista. Adele è un’adolescente, tormentata lettrice di romanzi, affamata di vita, curiosa e solida nelle sue certezze e nei valori che la accompagnano: le piacciono gli spaghetti al ragù che cucina il papà e da grande vuole fare la maestra, per restituire al mondo quello che le è stato insegnato.

La storia d’amore con Emma arriverà come arriva ogni storia d’amore a 17 anni: improvvisa, dirompente e accesa da un forte desiderio di perdersi nell’altro, di sentire l’altro vicino con il corpo e con la mente, in modo totale e assoluto. 

Emma è una studentessa di belle arti, dai capelli blu, trasgressiva e pienamente consapevole della sua sessualità. Entra in scena come una guida adulta per Adele, ma a poco a poco trova in lei una musa, trae forza e passione dalla spontaneità con cui Adele si tuffa nella vita.

Attraverso lo sguardo di Emma, Adele inizia allora a conoscersi, a scoprire il suo corpo e la sua sessualità e a costruire una lenta ma necessaria frattura tra il suo mondo prima e dopo l’incontro con lei. Si alternano sul volto di Adele, sempre in primo piano e sempre generoso nell’esprimere emozioni, paura ed eccitamento, tormento e spensieratezza in una danza che descrive la lenta esplorazione dei suoi sentimenti e bisogni più profondi.

La vita di Adele non è un film sull’omosessualità. 

Il film non sembra voler portare avanti un tema culturale e politico di lotta all’omofobia, va molto oltre.

La normalità della scelta di un amore omosessuale è un dato assodato, non più neanche in discussione. L’omofobia compare solo un attimo negli insulti degli adolescenti compagni di classe di Adele, e neppure tutti. Viene presto liquidata come una reazione dovuta all’immaturità, al facile giudizio. Null’altro.

La centralità è piuttosto sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalle certezze familiari alla costruzione della propria autonomia e legittima libertà di individuo. 

La storia di Adele è la storia di chiunque si sia innamorato a 17 anni e abbia lottato per affermare il suo sentimento, forte e impossibile da lasciare inascoltato.

Il bisogno di capire cosa vuol dire “che manca qualcosa al cuore” – domanda con cui si avvia il film in un’appassionata lezione dell’insegnante del liceo di Adele – è un bisogno che diventa quasi fisiologico, che guiderà tutte le scelte di Adele da lì in poi. Proprio come la fame, il sonno. Semplicemente una necessità.

Il film assume dunque le caratteristiche di un romanzo di formazione, piuttosto che di una storia d’amore.

Permette di spiare la sua protagonista da una prospettiva vicinissima, di coglierne dubbi e incertezze, di seguirla per tutti i 179 minuti della pellicola, mentre esplora il mondo altro da casa sua. 

Quell’ “impressione di fare finta su tutto” è la scintilla che avvia la sua ricerca: la sensazione di non avere un’identità stabile, di non essere completa passeranno da lacrime amare ed esplosioni di gioia, ma nel vestito blu in cui si muove nel secondo ed ultimo capitolo del film possiamo vederla finalmente autentica e completa.

Pronta a continuare la sua corsa, a soffrire e a crescere ancora.

 

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ADOLESCENTILGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDERCINEMA – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

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La madre-drago delle pazienti anoressiche – Disturbi alimentari

Di Paola Alessandra Consoli

“’E’ difficile mettere in discussione la relazione con una madre di vetro,

 fragile e infantile, incapace a sua volta di avere una propria autonomia, 

una madre che pensa potrebbe spezzarsi qualora venisse disattesa, 

delusa e abbandonata”

Fabiola De Clercq, Donne invisibili. 1995. 

 

La madre-drago delle pazienti anoressiche - Disturbi alimentari. -Immagine: © olly - Fotolia.comLa madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico.

La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Il disturbo alimentare è un evento che colpisce l’individuo e il suo nucleo familiare, come un trauma, una violenza inaspettata, che coglie impreparati e provoca dolore, impotenza, ansia, rabbia.

I problemi che interessano la figlia o la sorella anoressica (in 9 casi su 10 la paziente è una donna) sono così evidenti e drammatici da rendere impossibile la negazione. Il dimagrimento, i disturbi psico-fisici, il rischio di morte devono essere affrontati ad ogni costo e, possibilmente, accettati.

L’accettazione implica però una presa di responsabilità, soprattutto da parte dei genitori, che costituiscono, involontariamente, la principale causa eziologica della malattia anoressica.

Quando è evidente che i tentativi di far mangiare la figlia non sono sufficienti, quando si scopre che non esistono farmaci per “far tornare l’appetito” (la prima facile spiegazione che si dà una famiglia), allora diviene necessario capire cosa porta una ragazza al desiderio di scomparire, cosa nasconde la magrezza. Ed è in questo momento che la famiglia si scopre falsamente perfetta e la madre fa i conti con il suo essere un Drago per la figlia.

Si scopre ancora, paradossalmente, che la “non fame” alimentare dell’anoressica nasconde un’immensa fame d’amore: verso il padre, poco o nulla presente o, al contrario, portatore di un abuso materiale, mentale o fantasticato, o verso la madre che nutre meccanicamente e senza amore con un cibo materiale, freddo, elargito per dovere che sostituisce con gli alimenti la presenza fisica e psichica che non è capace di dare (Recalcati, 1997).

La madre-coccodrillo di Recalcati o la madre-drago di Dillon Weston non ha mai preso in considerazione la possibilità di ricercare una propria felicità che non sia solo narcisistica o la possibilità che la figlia abbia un’esistenza diversa da sé, separata e separabile, anzi ne fa un suo prolungamento fisico e psichico. La figlia diviene una realizzazione idealizzante di sé, destinata a salvarla dalla frustrazione e dalla solitudine; è costretta a vivere esperienze destinate ad un adulto, ad una madre che non è stata capace di contenerle, elaborarle, delimitarle (Marinelli, 2004).

Tutti i desideri di nutrimento tipici dell’individuo (alimentari, sessuali, affettivi) sono, per l’anoressica, esperienze di perdita, rinuncia, confusione e orrore.

Il suo bisogno di essere riempita, amata, fecondata, dall’amore materno e dal piacere del padre, dall’esperienza della propria efficacia e coesione, è andato distrutto o è stato sostituito dalla difesa compiacente, dalla rinuncia di sé per fare spazio alla madre e alla vita di quest’ultima.

L’anoressica arriva a negare i suoi bisogni per non sentire la dipendenza, vivendo la tragica esperienza di una lotta continua tra bisogno della madre e necessità di separazione dalla madre, per una fisiologica separazione/individuazione, resa più difficile da una madre che non accoglie ma respinge, non abbraccia ma divora. La dipendenza dal materno diviene un incollamento alla madre, l’identificazione non è simbolica, non c’è separazione (quindi non ci sarà identificazione), ma è un voler diventare come la madre (Marinelli, 2004).

L’anoressia è quindi una manovra di separazione dalla madre, che invade ed impedisce la costruzione di se stessa. La malattia della figlia apre un vuoto, anzi è un vuoto che delimita la distanza tra i desideri e le aspettative materne e le rinnovate aspettative della figlia.

Scomparire, ridursi, paradossalmente, è necessario per comparire, per farsi vedere come Altro dalla madre. Il sintomo anoressico è il primo annuncio di un sistema familiare patologico, finalmente alla luce, che si mantiene in equilibrio su una falsa normalità che l’erompere del sintomo manda in frantumi (Dillon Weston, 2005).

Il rapporto del soggetto con il cibo non riguarda solo il bisogno fisiologico della fame, ma è lo strumento con cui intessiamo relazioni familiari, sociali e relazionali (cuciniamo come ci hanno insegnato, in contesti definiti dalla nostra cultura, per condividere momenti intimi con gli altri).

Il rapporto con il cibo è il rapporto con l’altro, è un messaggio, uno scambio, un dono ricevuto o rivolto all’altro, è il primo dono di una madre alla propria figlia appena nata.

Fino allo svezzamento, madre e figlia sono uno stesso corpo, dipendono l’una dall’altra perché anche una madre smette di essere solo figlia al momento del parto.

Lo svezzamento è una separazione necessaria all’individuazione come altro dalla madre. Lacan parla di “complesso di svezzamento”, cioè la forma arcaica di imago materna che fonda i sentimenti più antichi che legano l’individuo alla famiglia; è un processo costituito da due elementi diversi:

– la fissazione di una tappa dello sviluppo psichico,

– la ripetizione del complesso, cioè un’attività che si realizza in modo inadeguato quando si presenta un certo tipo di esperienza.

Mentre l’allattamento è una relazione biologica e istintuale, lo svezzamento non è frutto dell’istinto, ma dei fattori culturali. Ogni madre, pur con le indicazioni della cultura, può agire in autonomia, e darà allo svezzamento un significato personalissimo, lasciando la sua impronta eterna nello psichismo materno e filiale. Per questo motivo, lo svezzamento può rappresentare un trauma ed essere causa di diversi effetti patologici: anoressia, tossicomania per via orale, nevrosi gastriche.

Quando lo svezzamento non avviene in maniera corretta, madre e figlia divengono due parti dello stesso corpo; la dipendenza che si instaura soffoca in un abbraccio mortale la figlia che vorrebbe avere un ruolo e una funzione diversa da quella impostale dalla madre (Onnis, 2005).

Quest’ultima ha il compito di passare il testimone alla figlia che deve affrontare autonomamente le proprie esperienze. Una donna che cerca o confonde la sua identità nel solo statuto di madre ha il terrore di perdere la propria bambina che sta diventando donna, perché con lei perderebbe lo scopo della propria esistenza: essere donna ed essere madre sono due aspetti del sé che possono convivere senza sacrificare il primo al momento del parto.

La figlia, a sua volta, per non deludere la madre, sceglie per sé un corpo anoressico, sempre più piccolo per somigliare alla bambina che è stata. La scomparsa delle mestruazioni è vissuta come una conquista perché riesce a riportare indietro il tempo, lì dove l’ansia e la rabbia materna sono iniziate. Questa difficoltà di confronto con il materno è vissuta in maniera tragica, il passaggio dal corpo di bambina al corpo di donna, in qualche caso, non è vissuto come una transizione ad una nuova fase della vita, ma come una perdita della vita stessa (Selvaggi, 2005).

L’anoressica è allora la protettrice di una falsa e precaria unità familiare: fermando ad ogni costo la sua crescita e la separazione dalla famiglia (da cui anzi diventa anche più dipendente per i problemi di salute che accompagnano l’anoressia), l’angoscia di separazione dalla madre (e talvolta anche dal padre) trova consolazione e congela la famiglia in un “tempo sospeso” (Ferro et al., 1992).

L’illusione di riuscire a sospendere la transizione adolescenziale è una credibile risposta alle difficoltà della famiglia a compiere il passaggio da una fase all’altra del ciclo vitale della figlia, in stretta adesione ad un mito di rigida unità familiare che non si può trasgredire e che blocca la famiglia in un eterno presente senza futuro. La ragazza anoressica vive il duplice ruolo di difendere questo mito rimanendo con le fattezze di una bambina, che segue “vincoli invisibili di lealtà” per regredire e proteggere la famiglia e, al tempo stesso, trasgredire questo mito, perché il suo digiuno ostinato spezza traumaticamente la tranquillità familiare (Onnis, 2005).

Molto spesso queste angosce di separazione percorrono almeno tre generazioni perché anche la madre della paziente anoressica è stata, a sua volta, paladina di unità familiare per contrastare costruzioni difensive del nucleo di appartenenza, dove il lutto, la malattia, la separazione richiamano il tema della perdita che incombe su queste famiglie.

Il paziente anoressico è quindi il messaggero di un gruppo primario che funziona in assunto di base di dipendenza: “da un lato c’è una persona i cui bisogni non hanno potuto trovare riconoscimento da parte delle figure primarie, con particolare riferimento all’investimento precoce del corpo sessuato come elemento capace di generare conflitti generazionali; dall’altra, un gruppo famiglia che teme il confronto con le emozioni connesse alla novità, all’eccitazione e all’aggressività e si rifiuta di elaborarle, le nega e le isola; un gruppo incastrato […] nel tentativo di mantenere una posizione al di qua del lutto e della separazione” (Selvaggi, 2005).

La paziente anoressica arriva ad odiare il suo corpo, dannoso per la famiglia che ama, perché è un corpo sessuato che suscita repulsioni e conflitti con le figure di accudimento.

Recalcati parla di una “repulsione per il vuoto” che caratterizza i pazienti anoressici che cercano di “sfuggire all’ossessione della pienezza che affolla le loro menti” (Dillon Weston, 2005).

Ricercare avidamente il vuoto assoluto è una sorta di denuncia per una ragazza anoressica che non vuole riempire la sua solitudine illimitata con il cibo offerto dalla madre: bisogno di amore, esperienze, libertà e fiducia al posto del cibo (Recalcati, 1997).

Winnicott parla di “vuoto controllato” con il quale si cerca di affrontare il “terrore del vuoto”. Questo vuoto controllato può essere anche una difesa da una madre divoratrice, vuota a sua volta, che vuole alimentarsi con le risorse della figlia, con la sua giovinezza, con la sua fame di esperienze e di vita. Una madre che chiede alla figlia di colmare il suo stesso vuoto, proietta in lei i suoi bisogni, la sua impossibilità a reagire, diviene a sua volta una bambina che cerca nella figlia la madre contenitore che non ha avuto (Winnicott, 1985).

L’anoressica, figlia di una madre Drago che vuole divorarla, non può far altro che ridurre il proprio corpo, renderlo solo ossa dure, impenetrabili e inaccessibili. Solo così potrà salvarsi dalla madre divoratrice (Recalcati, 1997).

Invece, la figlia di una madre sufficientemente buona, utilizzando l’holding materno e la rêverie percepirà la situazione di calma necessaria per lo sviluppo del proprio Sé, per il riempimento del proprio vuoto, diverso da quello materno, entrambi vivi, due contenitori con contenuti diversi, come diverse sono le due individualità. Questa madre porta dentro di sé e vive nella realtà, un rapporto sufficientemente strutturato e positivo con il maschile, senza inibizioni e conflitti corporei e lo trasmetterà alla figlia, concedendole, come un dono, oltre che un diritto, “il passaggio da una corporeità infantile e relazionale ad una corporeità sensuale e progressivamente adulta” (Manzoni, 2010).

Una ragazza che in famiglia non ha la possibilità di vivere esperienze di oggetto-Sé rispecchianti e validanti, che non si sente accettata, confermata, che sente invece di dover compiere riparazioni di sé per essere presentabile e accolta dagli altri, bloccherà il progetto nucleare del Sé,  sostituendolo con uno compiacente alle aspettative materne (Di Luzio, 2010).

L’anoressica utilizza il corpo per narrare le carenze empatiche della madre, per manifestare la propria sofferenza, ma al tempo stesso per dimostrare la padronanza del proprio corpo, che la Madre Drago vorrebbe plasmare a suo piacere: un corpo che contiene le sane pulsioni adolescenziali, che però devono essere messe a tacere in una continua dolorosa danza che va dal soddisfare la madre al soddisfare se stessa. Il corpo diviene la raffigurazione di oggetti interni inconsci, e gli attacchi e i rifiuti sono diretti sempre ai propri oggetti interni, soprattutto la madre (Gabrielli, Nanni, 2010).

Attraverso l’identificazione primaria, il corpo anoressico è il corpo della madre cattiva e minacciosa, quindi i suoi stimoli e i suoi bisogni alimentari, seppure avvertiti, devono essere ignorati, un sentimento che la Selvini Palazzoli definisce come “diffidenza cenestetica”, una difesa dell’Io dominata dal rinnegamento del corpo e del cibo-corpo (Selvini Palazzoli, 1965).

Secondo Jung, l’archetipo della Madre Drago è il “simbolo della madre bisognosa che non può permettere ai figli di andarsene, perché ha bisogno di loro per la sua stessa sopravvivenza psichica”; è una Madre Terribile che divora i figli prima che riescano a reclamare un diritto alla separatezza (Dillon Weston, 2005).

L’anoressia è quindi un meccanismo di difesa dalla Madre Drago che non potrà più divorare la figlia (che ri-diventata bambina potrà nuovamente essere accudita come tale, reiterando la non-indipendenza tra i due corpi), ma anche un mezzo per difendere la madre reale dalla Madre Drago interiorizzata: una figlia divorata dalla madre e verso cui prova una divorante rabbia orale e che esprime, attraverso l’anoressia, una forma simbolica della stessa rabbia.

Il vuoto anoressico appartiene alla paziente ma anche al suo gruppo familiare, che manca dell’ossigeno psichico che mantiene vivo il sé. Questo impoverimento emotivo risale alle generazioni precedenti, è intessuto da regole segrete che legano i familiari con legami asfissianti e patologici (Dillon Weston, 2005).

La conquista dell’Io è un percorso lungo e difficile che segna la nascita dell’Eroe, capace di fare esperienza dell’archetipo della Grande Madre, di coglierne gli aspetti fecondi e benefici e di sfuggire ai suoi aspetti castranti. L’Eroe viene alla luce da una coscienza arricchita dei propri desideri, che ha saputo accogliere ed elaborare i propri contenuti inconsci, senza il timore di essere divorato o di divorare a sua volta. E’ finalmente possibile vivere un’esistenza meno pesante, meno opprimente, il vuoto anoressico può essere riempito di vita, di amore, di cibo.

 LEGGI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – EDANORESSIA NERVOSA – ANPSICOANALISIPSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE FAMIGLIAGRAVIDANZA & GENITORIALITA’

Maternità conflittuale: un percorso nella cura dei disturbi alimentari – Di Sabba Orefice

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 17 – Perseguire o desiderare – Rubrica di Psicologia

Il progetto CARE per ridurre lo stress degli insegnanti

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Se è vero che l’apprendimento non è trasmissivo ma si gioca nella relazione esperto-novizio, lo stress e burn-out degli insegnanti è un tema caldo (al di là del benessere dei singoli)  in relazione all’impatto che questo può avere rispetto alla loro efficacia educativa con gli allievi.

Il progetto CARE è un progetto newyorkese gestito da ricercatori della Penn State University e dal Garrison Institute di New York specificamente studiato con la finalità di ridurre lo stress – e di conseguenze migliorare le performance – degli insegnanti.  

Il progetto combina interventi di skills training emotivo e di  mindfulness per fornire agli insegnanti strumenti utili per regolare efficacemente le emozioni nel contesto della relazione di apprendimento con gli allievi – anche pensando a situazioni relazionali difficili in classe con gli studenti.

Il programma ha previsto 30 ore di training nell’arco di 4-6 settimane nonché sedute di coaching telefonico. 53 insegnanti sono stati arruolati nel progetto e randomicamente assegnati al gruppo CARE oppure a una condizione di controllo.

Rispetto al gruppo di controllo, gli insegnanti che hanno partecipato al training CARE avrebbero riportato miglioramenti in termini di benessere e riduzione del burn-out, nonchè una percezione di maggiore efficacia nella gestione degli studenti e della classe.

Secondo i ricercatori il punto di forza del progetto risiederebbe proprio nella specificità e tailorizzazione del training rispetto alle specifiche esigenze degli insegnanti in termini di situazioni che con un grado di regolarità si presentano come cronicamente stressanti e difficili da gestire anche dal punto di vista emotivo.

LEGGI:

MINDFULNESS – STRESS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli Sport di Squadra Pt.9 – Professionisti e Giovanili

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #9:

I leader nei professionisti e i leader nelle squadre giovanili

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli Sport di Squadra #9- professionisti e giovanili. -Immagine: © lilufoto - Fotolia.comL’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Fino ad ora l’attenzione è stata posta sulle funzioni e sulle caratteristiche dei leader nello sport professionistico. Esistono importanti differenze, sia per il leader istituzionale che per quello intimo, se l’ambito sportivo considerato è quello giovanile.

Per l’allenatore le condizioni in cui lavora e i compiti che deve svolgere, come evidenzia Mazzali[1995], risultano ben diversi. Questo avviene perché, di per sé, le due tipologie di società (professionista e giovanile) hanno obiettivi diversi in partenza.

In particolare le società professionistiche devono far crescere talenti e ottenere risultati per motivi principalmente economici, mentre lo sport giovanile si deve porre finalità sociali ed educative.

Per questo motivo anche il ruolo dell’allenatore-leader cambia (fermo restando che, secondo l’autore, un buon allenatore sa ottenere risultati a entrambi i livelli), perché diverse sono le richieste.

L’allenatore della squadra professionista deve “fare punti” basandosi sulla legge secondo la quale “il fine giustifica i mezzi” e cercando di farla coniugare con il rispetto per la personalità dei giocatori.Egli ricerca risultati nell’immediata prestazione dei suoi atleti e accetta, perché anche queste sono “regole del gioco”, di dover essere (ovviamente entro certi limiti) “egoista e spietato” [Mazzali, 1995].

Al contrario chi allena una squadra il giovanile non deve concentrarsi su alcuna classifica ma deve possedere le qualità per ottenere buoni atleti, per questo i risultati e le soddisfazioni non vengono nell’immediato ma nel futuro dei componenti della squadra.

Può valere quindi la metafora di Mazzali per cui l’allenatore professionista raccoglie, l’allenatore del settore giovanile semina e il buon allenatore sa fare entrambe le cose. Ciononostante esistono tecnici puri, che non hanno le capacità per far crescere il talento di un giocatore e ottengono risultati solo se si trovano in una realtà sportiva dove questo è già stato fatto emergere, e allenatori insegnanti, a cui manca la spregiudicatezza per raccogliere i frutti del loro lavoro positivo.

Per quanto riguarda il capitano, nel momento in cui si prende in considerazione l’ambito giovanile il discorso cambia notevolmente. Anche nelle squadre di giovani può esistere e costituirsi la figura di un leader intimo il quale però deve mantenersi, sia per esperienza e sia per conoscenza della materia, completamente subordinato all’allenatore. Questa condizione, che lo rende un leader limitato all’ambito socio-relazionale, risulta essere un beneficio sia per lui che per gli altri membri della squadra.

Se non viene contrastato, anche rigidamente, un eventuale suo dominio sulla squadra può provocare in lui un senso di sopravvalutazione che rischierebbe di fare perdere al giovane condottiero l’umiltà necessaria per conoscere i propri limiti, per riconoscere l’autorità dell’allenatore e, quindi, per poter migliorare sé stesso, crescendo [Mazzali, 1995].

Allo stesso modo gli altri giocatori crescerebbero come atleti senza abituarsi a prendere i propri rischi e le proprie responsabilità, abituati ad appoggiarsi in ogni momento di difficoltà della prestazione a qualcuno ritenuto più esperto o più abile.

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA DELLO SPORT –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Interview with Sananda Maitreya – Music and Psychology

Il Dr. Gaspare Palmieri intervista:

Sananda Maitreya

 

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Sananda . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_17

  1. Hello Sananda Maitreya! The music that you are playing recently, the Post Millennium Rock (PMR) has in my opinion the taste of freedom and joyful creativity. Can you tell us a little more about the process of composing your recent songs?

Thank you for your interest. Mind you, my initial reaction upon hearing of your request was, “Oh my God, they know I’m insane!” Then again, now that the cat is out of the bag, we may begin. Mind you as well, I do not feel lonely as an insane person these days. Thankfully, the waiting room is full of us, more than ever before! As it pertains to my ‘process’, since childhood I have heard music and words in my head. Most of the time, it simply comes out of nowhere EXACTLY as it happens to you, that you are sitting on the bog, and all of a sudden comes the idea you were looking for. They come as ideas, but as musical and lyrical ideas. Usually, it happens that I get what is called the ‘Hook’ and ‘Chorus’, the main lyrical thrust, and whatever the main riff that the guitar or bass will employ. I can also tell by listening to it unfold, whether it will be a guitar or keyboard driven piece of music. And the rhythm is a given, it comes with the idea. For me, it has always seemed as were I simply no more than one of music’s messengers. I am a Mailman, I deliver her mail. For this reason, many writers are often seen as ‘mystical’, because in fact they ARE aware of a process occurring between what we perceive as the veil between the worlds. And whether or not it be reduced to a mere biochemical process, it is still no less a wonder to behold from one’s emotional perspective. To state, I have never really felt that I ‘write’ the songs, as much as I listen to what is presented to my moments, and capitalize by finishing it with what simple arranging skills the many years have allowed me to learn. At best, I Co- Write with my limited perception of spirit and the muses sent to look after wandering creative fools like me. The music is a container for all emotional content. PMR was coming out of a period of great brooding, and using music to express sorrow and pain is one of the reasons we need the music. Though now is a time for less brooding and more celebrating. WE MADE IT! YES TO MORE JOY, PLEASE! We will take more joy if we can get it. We are not prejudiced against joy.

  1. Your musical style has changed in the years, but your incredible voice is a sort of bridge between your old identity and Sananda. An individual’s emotional response to life experience can affect the qualities of their voice. Do you think that your voice has changed through the years?

You are threatening to actually seduce me with credible questions, dear Sir! Listen, it is simple. The human body is an electro-magnetic antenna, both sending and receiving information in the form of electrical data. The Voice is the amplifier AND the filter in such a way as to quite accurately measure the human’s state of mind and physical alignment. And as a filter, it also stores information (experience) that then filters again through the amplification responsibilities of the voice. To wit, the voice is a barometer of the state of consciousness it is in contact with and through. It is capable of both clearing and retaining vast reserves of information. And the THROAT and LUNGS are vehicles of the Voice. I sing like an antenna with a will towards a mood and a tone. Otherwise, I am ONLY there as a singer to LISTEN to what is being sung, NOT to sing it. At this point, I do not sing songs. I let the SONGS SING ME, because I am there anyway and what else do I have to do, but show up and be ready to be sung. It is par for the green, that as singers get older, they realize that they can get away with singing much less, and getting more out of it. Yet, this is something that I learned conclusively, studying two of my great masters: Miles Davis and Frank Sinatra. And if my musical style has changed, it is as much as anything, because we were given the space for it to GROW, for what is change but growth?

  1. I have read that your music has been used as therapy in a brain Trauma Center in Tokyo. Can you tell us something more about that? How did the doctors use your music?

I found out through a friend in Japan that I met as a physical therapist. I once needed help with a hamstring and found this wonderful doctor who told me about the use of my music in trauma therapy at the time. I found it very interesting that particularly, he said that the ‘NEITHER FISH NOR FLESH’ project was seen as quite conducive in stabilizing severe trauma. Considering how much brain damage I myself had to go through because of Sony records response to the project, it was weirdly gratifying as well as ironic. I were also told that the song, ‘SHE KISSED ME’, woke people up out of mind coma type situations. Look, music was made to soothe the savage breast. It is what it is SUPPOSED to do. And we are always most grateful and humbled to be a part of ANYONE’S healing experience ANYWHERE. And neither are we prejudiced against getting your mind back together, which is what healing is. And I could go on writing for days on end, of the music, that over the long years have wrested, rested, and saved my soul!

  1. The beneficial effects of music on the brain are well known and studied. Can you tell us an episode (ore more than one) in your life where music has helped you really much?

Indeed, my good man! Exhibit Number 1, upon hearing for the first time the Beatles’ ‘SHE LOVES YOU’, my soul was confirmed. I can remember hearing ‘A HARD DAY’S NIGHT’ and seeing my future. The same happened when I first heard the COASTERS’ ‘POISON IVY’, and then it faded to dark for a while, while I was going through the religious indoctrination of my early youth. Later, STEVIE WONDER, opened my mind to more miracles, The JACKSON 5 were a major part. And the lessons of James Brown were relentless. Gospel and Country music gave me a lot, as did the blues but my heart, quite against all social conventions of conformity, has always been more about Rock, Pop and their wider possibilities. My mixed race aspect gives me a sense of entitlement that I have legitimate access to all that my bloodlines contain and not just that which, in its limits, makes others feel more comfortable about things remaining in their place. I have always adored and idolized the ‘FUCK YOU’ element of Rock. And I Love playing with the fires given to me. I love mixing the music’s of the Africans and the Vikings and kicking some ass into gear. Who feels it does, and who doesn’t can just bring the beer! And finally, I can remember once going through a severe depression and kept looking each day for reasons to continue my journey through this labyrinth of hell. I found myself going into my TV room and putting on a disc of (yes again!), the Beatles, in the film ‘HELP’, performing ‘YOU’RE GOING TO LOSE THAT GIRL’. And over a period of perhaps a very long weekend, I might have rewound and listened to it for over a hundred times, as if I knew that it were the medicine my heart needed to take. And I knew that as Master Poet Robert Frost wrote, I had MILES TO GO BEFORE I SLEEP. Something about the Beatles music touches into the deepest crevices of my life, along with a few others, their music is meat to my bones.

  1. If you were a music therapist with the possibility to work with people with emotional or psychological disorders (anxiety and depression), how would you use the music as a treatment? What kind of music? Would you just make them listen or also try to play instrument or compose songs together?

 

 ALL MUSIC FITS. For exercise, which is the cheapest and most valuable long term form of therapy, ANYTHING THAT MOVES THAT ASS! Go for it and have it! For relaxation, naturally, sounds close to nature are the best. The electronic music is better for the cerebral cortex as it relates to neurological function and the easing of muscle tension. For matters of stress related to the stomach, the lower strings like cello and violas are wonderful. BASS heavy music is good for releasing the tensions held in the lower body, REGGAE in particular is good for this. The Violins help relax mental anxiety and is helpful in bringing the mental and the emotional bodies together. The Flutes encourage mild out of body experiences, such as ‘Letting the mind go’, while the Woodwinds in general are very good for the toning and maintenance of the physical body as it relates to the emotional body. Saxophones encourage active introspection, and TRUMPETS, WAKE YOU UP, and get the body moving in alignment with the WILL. Though my favorite, is the KAZOO, which was made to keep your penis ready! (laugh) And yet, nothing beats the natural sounds of NATURE, her blowing winds, her rushing waters, her rustling leaves. And I swear, that the sound of a Chorus of CRICKETS, may be the most healing of them all.

  1. Which do you think is the role of art and music in mental health and in keeping a psychological balance?

I think the role of art, IN ANY FORM, music or otherwise, is essential to the overall top maintenance of the human machine. Listen, let’s be clear, what I suffered clearly in the past, and still have to deal with the ramifications of, is P.T.S.D. I had to come to terms with this fact and deal with it accordingly, though without the Psychotropics. NOT because I am a moralist, but because I haven’t found any real cool ones yet! I am not against drugs. I am against drugs that don’t work for me, which seems fair enough. I have been advised over the years by many, to begin painting. I never understood why, I cannot draw worth a penny. Yet, this meant that my mind was still limited to the concept of what art was, is and can be. I took up painting after all. I am not great, but I do have something, and the following of it down the rabbit hole, will only take me through the journey needed to rescue whatever it is that the painting lends itself to. The bottom line is, I really LIKE creating and am grateful to be in a position to indulge it. I have come to conclude that, if I speak the truth before God and mammon, MOST OF OUR EDUCATION IS SHIT. We can remember a bunch of facts at any time, but youth should largely consist of PLAY, CREATIVE EXERCISE, and the MUTUAL SOLVING OF PROBLEMS. If we really want the brighter future our hopes promise, we would do well to RELEASE our children from the BURDEN of our education, let them reinvent it, and get on with it. You can learn Arithmetic online. SCHOOL is about navigating and negotiating SOCIAL INTERACTION. And should be overall about FUN. They will, like us, be miserable older bastards soon enough.

  1. Do you believe in musical education for children? How would it be in your opinion the ideal good musical education?

 I believe in teaching music to children yes! But according to their interest. For one, that may mean learning the tuba (poor thing), for another, it may mean listening to the tuba and being content. It gives to all, according to their need. Children naturally gravitate towards the making of music, WE CALL IT NOISE! To them, it is something divine happening.

  1. I am interested in the change of your identity and your name. Why did you choose Sananda Maitreya as a new name? Has it some religious meaning?

I am certain that it DOES have religious meaning as much as it may imply other things. But I do not look for religious meaning, I look for what makes sense. SANANDA came first, After requesting help, through a series of about 3 dreams that I can still recall, as a walking in a forest clearing with friends I knew in the dream to be Angels. And from the woods, I would keep hearing a name called out, which was ‘Sananda’. After the last dream, it dawned on me that THIS WAS MY NAME, WOW, THANK YOU, COOL! Turns out anyway, that Sananda is primarily a GIRL’S NAME IN INDIA, so maybe the dream was also a practical joke played on my desire to change. Like having a sex change without having to touch your nuts! For me, it kills two ducks, I love the ladies and I like the name Sananda. It is just close enough to BANANA, but you don’t have to peel it or watch it turn brown and spotty. As for MAITREYA, after about 3 years of being Sananda, I realized that this was a real new life and spirit and not just a ‘patched up’ one, and that a last name might be useful. During that time, I was reading a friend of mine, J. KRISHNAMURTI, and heard him speak often of his guardian Angel, or spiritual teacher, Maitreya. Krishnamurti’s life experience I could very much relate to, as he had denounced the path set out for him and went his own way so on his recommendation, so to speak, I felt comfortable taking it. In truth, it was all quite familiar to me anyway. Much prior to that, there had ensued a very uncomfortable tug of war over my previous identity. As if, once branded, twice shy. My last identity and its name, no longer belonged to me, and that was made rapaciously clear by the industry and the state. Tug of war lasting too long? LET GO OF THE ROPE. I did, and the rest is a bunch of footnotes. So what’s in a name? Someone else’s money.

  1. I can imagine that changing identity has not been easy from a psychological point of view. Can you tell us if you had to face any difficulties? Did you feel confused at some point or instead relieved?

 It may be assumed that we had a choice, but we didn’t. Me and my band of merry mental men had to abandon ship before the whole thing burned. Has it been difficult? At times enormously so, but at least I am blessed to know what my meditation is. It is mainly when going through small manic episodes that it may effect me. It is no secret that most of us creative types are Manic-Depressive. Though apparently science has verified that the chemical process of Manic-Depression is vital in producing the brainwaves necessary for sparks of inspiration.

I would also imagine that I have worked through some mild Bi-Polar issues, though the greater surprise would be growing up in our culture WITHOUT sustaining Bi-Polar tendencies. And yet again, all of this is but another fancy way of describing what are basically just ANGER and old survival issues. There are of course, as you know, many diseases connected to our anger. My family, my experience, music, art, writing, good food and drink and marijuana have helped me tremendously deal with the wounds I sustained during my time in the culture wars. And at this point, as it concerns ALL OF US, there is no greater battle going on, than for the control of our minds, individually and collectively. I have also learned that ANGER, harnessed is a wonderful servant and motivator. Our processes have value, and our patience with them is vital. And the idea of schizophrenia is interesting because I think we are all attended by a few personalities, mainly what the ancients would regard as our ancestors. The classical Greeks were certain that who can manage his ‘DAEMONS’ could rule the world. Their belief was that our Daemons are there to motivate and inspire. I put mine to work, they are quite valuable and are willing to work for less than the minimum wage. This is why I had to leave America, because with my symptoms and past, they would have me on “OBAMACARE” and underneath an asylum, as the great BO DIDDLEY said, SO DEEP, THEY WOULD HAVE TO PUMP AIR INTO IT. Only the Holy Spirit and what remained of my small wits protected me. And so as not to contradict, bear in mind that my belief in the Holy Spirit is NOT religious, but PRACTICAL.

  1. The choice of changing your name was to give a clear message to your fans and to the music system or it was something you felt inside more deeply?

I am not a martyr to sacrifice myself totally without at least seeing what gain there might be therein for me. I AM WILLING TO DIE IN THE FIRES OF THE PHOENIX, but only if I know that when I rise from the ashes, something is there that I can claim. And if it were about sending a message, then the message was meant for me. But what can be gleaned from my experience is this, THERE IS LIFE AFTER CORPORATE DEATH! Naturally I could not have pulled this off had I not felt it body and soul. I regard my living with a bit more respect than to gamble it on superficial means. And whether we change our names or not, METAMORPHOSIS is real. As the grand master Sam Cooke sang, A CHANGE IS GONNA COME. And notice that I was simply a part of the zeitgeist, because since, many others, as well as companies and nations have changed their names also. I was merely rolling with the flow of the parade!

I thank you for your regard for my work. My mind is a bit mashed up at times, due to the scars of the past, but the good Lord has taught me how to get around that, and use it to my advantage. “We could never manage to get Humpty-Dumpty back into an egg shape, but boy does he make for one hell of a lamp shade!” Bless you and ROCK ON!

Thank you for your time and for your insight!

Thank you again Dr. Palmieri for the opportunity to express these things.

My highest regards to your family and worthy colleagues.

 

 

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LEGGI ANCHE:

MUSICAMUSICOTERAPIAARTE – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

IL MIO PSICOTERAPEUTA SUONA IL ROCK

 

BIBLIOGRAFIA:

A BREVE VERRA’ PUBBLICATA L’INTERVISTA A SANANDA MAITREYA IN ITALIANO

Sananda Maitreya . Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_3

Sananda Maitreya . - Immagine: Sananda_Maitreya_RTZ_7

Validazione della scala di valutazione del benessere (SVB)- ASSISI 2013

 

 

Assisi 2013

VALIDAZIONE DELLA SCALA DI VALUTAZIONE DEL BENESSERE (SVB)

M. Paparusso, M.  Amabili, G. Ceci, L. Cognigni, F. Felicetti, L. Silvetrini, M. Torrieri, L. Troiani

(Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto)

INTRODUZIONE:

Il benessere è un processo che si sviluppa temporalmente attraverso determinazioni del possibile all’interno del contesto in cui si agisce. Queste determinazioni sono scelte orientate sulla base di scopi-valori che guidano i piani di vita.

La Scala di Valutazione del benessere (SVB) è stata messa a punto da Lorenzini e Scarinci nel 2013 sulla base dei recenti sviluppi della ricerca psicologica e delle neuroscienze. 

Obiettivo di questo studio è stato quello di fornire una descrizione dei dati statistici, ottenuti attraverso la somministrazione della versione definitiva dello strumento, in merito ad affidabilità e validità. 

A questo scopo il questionario, per verificare la validità convergente e discriminante, è stato messo a confronto con il Psychological Well- being Scales (PWB, Riff e Keyes, 1995) e con la Symptom Checklist-90 (SCL-90 Derogatis et al.1994).

 

 

LEGGI:

SCOPI ESISTENZIALI – PRESENTAZIONI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 Articolo di presentazione di una nuova ricerca: La Scala di Valutazione del Benessere (SVB)

Curare la depressione post-partum tramite trattamento online

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un gruppo di ricercatori inglesi (University of Exeter) ha indagato l’attuabilità del trattamento online (Internet-based Behavioural Action – BA) nella cura della depressione post-partum.

L’idea si sviluppa all’interno di un panorama internazionale caratterizzato da numerosi casi di depressione materna, che risultano spesso non trattati, sia per reali difficoltà personali sia per pregiudizi nei confronti di questi trattamenti.

Gli interventi psicologici della depressione post-partum sono determinanti per la qualità della vita delle mamme e delle loro famiglie. Il trattamento online si presenta come intervento alternativo da affiancare a quelli utilizzati abitualmente, anche per ovviare ai limiti dei trattamenti face-to-face, come la rigidità nei tempi e negli appuntamenti, i costi, l’assenza di anonimato.

Il trattamento psicologico online (BA) rappresenta un approccio comportamentale funzionale a problemi depressivi delle neomamme. I ricercatori reclutarono 249 mamme attraverso il forum online Netmums.com. Ad ognuna di loro venne chiesto, prima, di compilare un modulo online e poi di rispondere telefonicamente a delle domande tese ad indagare il loro umore. Tra queste, 83 mamme soddisfarono i criteri per la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore e vennero casualmente affidate a due gruppi. Uno ricevette un trattamento usuale, l’altro fu sottoposto al trattamento online, costituito da 5 moduli standard e due a scelta tra i 6 proposti. Per esempio, c’erano moduli su “essere una buona madre”, “cambiare i ruoli e la relazione”, “il sonno” e “la comunicazione”.

Ogni modulo includeva esercizi interattivi ed esempi dettagliati, tra cui una chat di gruppo. Il gruppo era, inoltre, supportato da una serie di telefonate da parte di operatori psicologici. I risultati mostrano l’efficacia del trattamento psicologico online nella cura della depressione, dell’ansia e nel migliorare le difficoltà lavorative e sociali.

Dopo sei mesi dal trattamento, si rilevarono effetti positivi sulla depressione. Il trattamento online sembra, quindi, possedere una buona efficacia nel risolvere problematiche depressive nelle neomamme, grazie anche alla sua facilità d’accesso. Il suo uso parallelo a trattamenti psicoterapeutici abituali potrebbe essere utile per la cura di questi disturbi. La praticità dello strumento può servire, inoltre, per tutte quelle mamme che necessitano di una maggiore flessibilità nel trattamento.

 

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GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – DEPRESSIONE – TECNOLOGIA & PSICOLOGIA

I DISTURBI DEL SONNO E LE RELAZIONI CON LA DEPRESSIONE

 

BIBLIOGRAFIA

Il Cognitivismo Postrazionalista in Italia: Intervista con Maurizio Dodet

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI 

State of Mind intervista:

Maurizio Dodet

Psichiatra Psicoterapeuta, co-fondatore del Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista di Roma.

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Maurizio Dodet, Psichiatra e Psicoterapeuta, fondatore del Laboratorio di Psicologia Cognitiva Postrazionalista di Roma. L’intervista si è svolta presso lo studio del Dott. Dodet, a Roma. 
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia. 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

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