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Sport di squadra e sport individuali: quali differenze? – Psicologia

Sara Di Michele

 

 

Sport di squadra e sport individuali- quali differenze?. -Immagine: © pushnovaliudmyla - Fotolia.comGli sport di squadra sono in sintonia con la forma mentis dei soggetti con basso bisogno di chiusura cognitiva più di quanto avvenga con gli sport individuali.

Tutte le discipline sportive si possono suddividere in individuali o di squadra.

Nel caso di sport individuali, l’atleta agisce da solo, come per esempio nell’atletica leggera, nel tennis; nel secondo caso, l’atleta è membro di un gruppo.

Ovviamente si tratta di una distinzione che viene fatta solo a livello agonistico, perché anche negli sport individuali, gli allenamenti sono sempre svolti in gruppo o con altri. Non bisogna inoltre dimenticare che le discipline individuali prevedono comunque delle competizioni a squadre, basti pensare alla staffetta a squadre nell’atletica leggera, o nel nuoto, o al doppio tennis. Le azioni degli atleti della stessa squadra sono indipendenti, e ognuno gareggia singolarmente, ma i risultati individuali convergono in una valutazione collettiva della squadra.

In pratica, aderire ad uno sport individuale significa assumersi la piena responsabilità del proprio risultato, anche se questo farà parte di una valutazione collettiva.

Come definisce Mantovan (1994) una distinzione netta fra sport individuali e di gruppo va operata soprattutto nella dimensione agonistica;  negli sport  individuali, il soggetto compete da solo, in quelli di squadra il soggetto fa parte di un team e la responsabilità della prestazione è condivisa.

Esistono anche altri aspetti che definiscono la differenza tra gli sport.

Tassi (1993) distingue:

Quindi, come si vede dal grafico gli sport fianco a fianco possono essere a loro volta suddivisi in differiti e paralleli, mentre quelli faccia a faccia possono essere suddivisi in mediati o di contatto.

Sempre Tassi (1993) divide gli sport in gioco e disciplina. La disciplina include attività motorie da eseguire in modo molto preciso, in base a schemi rigidamente predefiniti, come nel lavoro del ginnasta. Altri sport valorizzano l’acquisizione di schemi motori giocosi e richiedono di svolgere compiti che prevedono delle variazioni, come per esempio nel calcio, dove l’obiettivo resta comunque fare goal, anche se gli schemi per raggiungere tale obiettivo possono variare, e cambiare di volta in volta in base alle caratteristiche degli avversari, e delle stretegie di gioco adottate.

Sempre secondo lo stesso autore gli sport di squadra tendono a valorizzare la dimensione di gioco e quelli individuali la dimensione di disciplina. Infatti, negli sport di squadra gli atleti sono predisposti a ridefinire continuamente lo schema di gioco, l’azione dei compagni, e le loro prestazioni. 

Il bisogno di chiusura cognitiva è stato postulato da Kruglanski (1989) all’interno della sua Teoria dell’Epistemologia Ingenua, e si riferisce al desiderio dell’individuo di ottenere una risposta certa ad un quesito/problema e all’avversione per l’ambiguità. Si tratta di un bisogno di chiusura non specifico,  la tendenza di cercare e difendere una qualsiasi risposta certa.

Il bisogno di chiusura aumenta perché sono percepiti benefici derivanti da esso (Webster, Krunglanski, 1994).

In altri termini, il bisogno di chiusura va individuato in un continuum che va da un estremo caratterizzato da impazienza cognitiva, impulsività, tendenza a prendere decisioni non giustificate, rigidità di pensiero e riluttanza a considerare soluzioni alternative ad un altro caratterizzato da esperienza soggettiva di incertezza, indisponibilità ad impegnarsi esplicitando un’opinione definitiva, sospensione di giudizio, frequente proposta di soluzioni alternative (Pierro et al.,1995).

Per misurare la dimensione  del bisogno di chiusura cognitiva Webster e Kruglanski (1994) costruiscono una scala  Need for Closure Scale composta da 42 item.

Nel 1998, la stessa scala verrà utilizzata in Italia, per la prima ricerca in ambito sportivo.

Merlo (1998) parte dall’ipotesi dell’esistenza di una relazione tra alto bisogno di chiusura cognitiva e pratica di sport individuali, e basso bisogno di chiusura cognitiva e sport di squadra. Somministra la Need for Closure Scale a 100 adolescenti tra i 14 e i 18 anni.

Gli sport individuali scelti sono stati l’atletica leggera, il nuoto e lo sci, gli sport di squadra pallacanestro e pallavolo.

I risultati, in effetti, rispondevano alla linea di ipotesi di partenza, per cui gli atleti che praticano sport individuali presentano un bisogno di chiusura cognitiva più alto rispetto a chi pratica discipline di squadra.

Lo sport che ha riportato il maggior punteggio di chiusura cognitiva è stato il nuoto, e quello che ha riportato il punteggio più basso è stata la pallacanestro.

I risultati suggeriscono che gli sport di squadra sono in sintonia con la forma mentis dei soggetti con basso bisogno di chiusura cognitiva più di quanto avvenga con gli sport individuali.

Una variabile da valutare, sarà certamente anche l’età degli atleti ai quali è stato somministrato il test. Infatti, in quanto adolescenti, attraversano un periodo di incertezza e transizione, che può ripercuotersi sul bisogno di chiusura cognitiva.

In conclusione, gli sport di squadra e individuali si diversificano in base alle modalità di apprendimento e di approccio mentale necessari per praticarli.

A lungo termine gli effetti delle pratiche sportive saranno diversi: collaborazione, senso di appartenenza, senso del gruppo e spirito di competizione saranno accresciuti in uno sport di squadra.

Al contrario, il senso di responsabilità, la disciplina, la competizione con se stessi e i propri limiti, saranno accresciuti negli sport individuali.

Sarebbe bene che si riuscisse a scegliere uno sport liberi di seguire la propria attitudine, per poter sviluppare un approccio mentale corrispondente alla propria indole, e non un approccio mentale che cerca di forzare e modificare la propria natura.

LEGGI:

ATTIVITA’ FISICA PSICOLOGIA DELLO SPORT

La Leadership negli Sport di Squadra – Psicologia dello Sport – Monografia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Giovannini, D., Savoia, L. (2012). Psicologia dello sport, Roma.Carocci Editore.
  • Mantovani, B.(1994). Azione gesto sport, Milano. Edi-Ermes Scuola.
  • Merlo, C. (1998) Sport agonistico e bisogno di chiusura cognitiva. Uno studio su adolescenti e allenatori nella pratica sportiva individuale e di squadra (tesi di laurea), Facoltà di Sociologia, Università degli Studi di Trento, Trento.
  • Tassi, F. (1993) Scegli il tuo sport. Strumenti psicologici per capire gli sport, per rispondere ai problemi di chi si avvicina allo sport, Firenze. Universale Sansoni.
  • Webster, D., Kruglanski,A.W. (1994) Individual Difference in Need for Cognitive Closure, in a Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 261-271

Il trauma e il corpo. (2012) – Recensione dell’edizione italiana

Il trauma e il corpo.

Manuale di psicoterapia sensomotoria

Di Pat Ogden, Kekuni Minton, Claire Pain

(2012)

Recensione dell’edizione italiana

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Il trauma e il corpo.  Manuale di psicoterapia sensomotoria. -Immagine: copertina

Il corpo ha un ruolo centrale nella creazione di emozioni e significati. Conoscere e sperimentare azioni fisiche aiuta a trasformare il modo in cui i pazienti organizzano le esperienze traumatiche passate nei loro corpi e nelle loro vite. Integrare questo tipo di interventi bottom-up con i più classici approcci top-down rappresenta secondo la proposta degli autori un valido aiuto nel trattamento di pazienti la cui drammatica esperienza corporea impedisce di riflettere su temi tipicamente mentali. 

Tutti mi dicono che è passato e io lo so che è passato, ma il mio corpo mi dice una cosa diversa”: così una paziente qualche tempo fa mi ha brillantemente descritto il suo rivissuto traumatico.

Che è un rivissuto, appunto, non semplicemente un ricordo. Questa è l’essenza del disturbo da stress post-traumatico: il passato è presente. Si ripresenta sotto forma di attivazione corporea disregolata, di reazioni corporee ed emotive fisse ed automatiche a stimoli che di per sé non sarebbero minacciosi, di memorie intrusive non integrate oltre che di convinzioni negative su se stessi e sul mondo che compromettono a più livelli le vite di questi pazienti.

Focalizzare l’attenzione sugli aspetti cognitivi ed emotivi legati al trauma è certamente importante, ma l’esperienza di molti terapeuti che si occupano di questo tipo di pazienti rivela che non è sufficiente. L’evidenza clinica e la sempre più solida ricerca in psicotraumatologia pongono l’accento sulla necessità di occuparsi più direttamente del corpo e di trattare le conseguenze somatiche di traumi.

Purtroppo in occidente gli approcci terapeutici che prendono in considerazione il lavoro con sensazioni e movimenti sono pochi, frammentati e al di fuori dai classici circuiti formativi sia in medicina sia in psicologia.

La terapia sensomotoria proposta da Pat Odgen e dal suo gruppo rappresenta un’interessante eccezione a questo stato di cose e negli ultimi anni si sta diffondendo anche nel nostro Paese, come testimonia l’uscita, finalmente, dell’edizione italiana del manuale “Il trauma e il corpo” di P. Ogden, K. Minton e C. Pain.

Il volume rappresenta un utilissimo e scientificamente fondato vademecum per il clinico sia per comprendere la natura dei sintomi e le difficoltà relazionali insite nel lavoro con i pazienti che provengono da storie traumatiche sia, di conseguenza, per impostarne il trattamento.

Nella prima parte dedicata alla teoria gli autori esplorano, a partire dalle intuizioni di Janet (1925) fino ai più recenti contributi delle neuroscienze, i meccanismi alla base del disturbo da stress post-traumatico delineando così i fondamenti del trattamento terapeutico, poi approfondito negli ultimi capitoli.

Chiunque abbia esperienza nel lavoro con questi pazienti conosce bene la frustrazione dello scontrarsi con la loro impetuosa esperienza corporea che interferisce pesantemente con il lavoro sulle emozioni e sui significati, impedendo al paziente di riflettere su ricordi, dinamiche interpersonali e sugli altri contenuti critici. 

L’arousal cronicamente disregolato alla radice dei sintomi post-traumatici rende impossibile assimilare l’esperienza all’interno di una narrazione di vita coerente e integrata. Il trauma, infatti, distrugge la regolazione fisiologica ed emotiva causando profondi effetti negativi sull’elaborazione di informazione: in condizioni normali i 3 livelli di elaborazione delle informazioni (cognitivo, emotivo e sensomotorio) sono mutualmente dipendenti e intrecciati funzionando come un tutto integrato. Pensieri, emozioni e corpo si modellano a vicenda.

Il trauma compromette questa integrazione e l’intensità delle emozioni e delle reazioni fisiologiche ostacola l’elaborazione dall’alto verso il basso, dai centri “alti” della corteccia (elaborazione cognitiva) verso le emozioni e le sensazioni, così che questi pazienti sentono troppo (iperarousal) o troppo poco (ipoarousal).  

La teoria polivagale di Porges (2001) viene descritta e chiamata in causa per spiegare come questa drammatica disregolazione neurovegetativa sia una conseguenza diretta della cronica attivazione del sistema di difesa come effetto di traumi cumulativi. 

Il sistema neurovegetativo è formato da sottosistemi che si attivano in maniera gerarchica di fronte alle sfide ambientali. Il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago, quello evolutivamente più recente e sofisticato, regola l’impegno sociale e favorisce un arousal ottimale, entro la “finestra di tolleranza”. Il sistema simpatico, evolutivamente più primitivo e meno flessibile, regola le riposte difensive di mobilizzazione, permettendo l’attivarsi delle reazioni di attacco e fuga, innalzando il livello di arousal globale per massimizzare le possibilità di sopravvivenza di fronte ad un pericolo. Il ramo parasimpatico dorsale del nervo vago si attiva come ultima linea difensiva “di riserva” se le due precedenti falliscono: riduce drasticamente l’arousal sino allo svenimento o “finta morte” e consente l’immobilizzazione ai fini della sopravvivenza.

Questa condizione è molto diversa dal freezing, l’immobilità vigile e pronta all’azione che appare nell’istante in cui si percepisce la minaccia e si valuta quale difesa potrebbe essere più efficace, che è invece determinato dall’attivazione simultanea del sistema simpatico e di quello parasimpatico.

La finta morte rappresenta l’estrema via di salvezza che viene attivata in maniera assolutamente involontaria, al di fuori di ogni controllo corticale, in presenza di una minaccia contro la quale le due precedenti risposte difensive falliscono. I predatori solitamente preferiscono prede vive e tendono a ignorare quelle che sembrano morte (potrebbero essere morte di malattia e molti predatori non hanno un buon sistema immunitario), per cui l’evoluzione ci ha dotati di questa estrema risorsa.

Si pensi ad esempio alle molte testimonianze di vittime di stupri che riferiscono l’impossibilità assoluta di muoversi e di chiamare aiuto durante la violenza: in questo caso l’aggressore viene percepito come un predatore e, falliti i tentativi di negoziazione (sistema di impegno sociale mediato dal parasimpatico ventrale vagale) ed essendo impossibile la fuga o il contrattacco si innesca l’ultima ed estrema difesa possibile, il distacco dall’esperienza. Spesso le vittime riferiscono, infatti, di non aver percepito dolore, ma la perdita di ogni controllo sul corpo e sui movimenti, come se non appartenesse più a loro, come se si vedessero dal di fuori. E’ l’esperienza dissociativa peritraumatica.

Il quadro si aggrava in presenza di un trauma infantile ripetuto, quando si va incontro al cronico fallimento del sistema di impegno sociale e del sistema di attaccamento nell’ottenere sicurezza e protezione, per cui il sistema simpatico e quello dorsale vagale restano sempre altamente attivati, innalzando ed abbassando l’arousal oltre i limiti superiori ed inferiori della finestra di tolleranza.

Il sistema di impegno sociale smette di funzionare, riducendo le capacità di stabilire relazioni adeguate e si abbassano le soglie di reazioni ad agenti stressanti. Quando gli stati di iper o ipoarousal diventano così estremi e duraturi i processi di elaborazione dell’informazione che normalmente sono integrati possono diventare cronicamente dissociati. Le memorie traumatiche restano come congelate al di fuori della possibilità di integrazione e riemergono sotto forma di sensazioni corporee, postura, movimenti e immagini intrusive quando l’arousal si alza o si abbassa al di fuori delle soglie di tolleranza.

La persona resta come divisa in due aspetti: quello che le permette di andare avanti nella quotidianità evitando i ricordi traumatici e quello che comprende tali ricordi e innesca azioni difensive automatiche contro la minaccia. 

Naturalmente in tutto questo panorama un ruolo di fondamentale importanza è rivestito anche dal sistema di attaccamento. L’iniziale sintonizzazione fra madre e bambino è corporea ed avviene attraverso reciproche interazioni sensomotorie. La madre regola l’arousal del bambino e lo aiuta a rimanere in uno stato ottimale, ponendo così le basi per le successive capacità di autoregolazione del bambino. Un attaccamento insicuro, ed in particolare l’attaccamento disorganizzato, si evidenzia anche  nel corpo, nei movimenti non integrati e non armonici, nella difficoltà di utilizzare le capacità di autoregolazione e/o le capacità di regolazione interattiva dell’arousal.

Esperienze di abuso all’interno della relazione di attaccamento conducono ad un arousal cronicamente accresciuto o all’alternanza di stati di iper e ipoarousal, mentre esperienze di abbandono portando ad un appiattimento affettivo dovuto al cronico abbassamento dell’arousal.

L’iperattivazione cronica del sistema di difesa che si verifica nel caso di esperienze infantili traumatiche fa sì che esso domini sugli altri sistemi d’azione (come la socialità, l’esplorazione, il gioco, ecc) innescando tendenze automatiche all’azione che perdurano per tutta la vita e possono dunque risultare maladattive in situazioni diverse da quelle (minacciose) che le hanno inizialmente elicitate.

La persona si ritrova così a vivere una profonda dissociazione strutturale: sulla scia del trauma una parte di sé resta bloccata sulla difesa dal pericolo, mentre un’altra parte di sé con vari gradi di difficoltà cerca di vivere la quotidianità e di attendere ai compiti degli altri sistemi d’azione (accudimento, sessualità, gioco, esplorazione, socialità..). 

Quando uno stimolo interno (una sensazione o un’emozione) o esterno (qualche elemento del contesto o il comportamento di un’altra persona) ricorda la situazione traumatica il sistema di difesa si attiva prepotentemente e interrompe ogni altra attività in corso. La persona in quel momento non è più in grado di continuare le attività quotidiane e si ritrova in balia di un’attivazione neurovegetativa estrema e non regolata. Il corpo si blocca, si tende per fuggire, attaccare o si accascia su se stesso. In queste condizioni non c’è alcuna possibilità di avere accesso a una qualche riflessione.

Includere il corpo nel lavoro di elaborazione con i traumi permette un accesso privilegiato a dimensioni che, per effetto del trauma stesso, non sono collegate e integrate con il resto dell’esperienza. Lavorare direttamente con le sensazioni e i movimenti permette di agire direttamente sui sintomi e promuovere in seconda battuta un cambiamento anche nelle emozioni, nei pensieri, nelle credenze e nelle capacità relazionali.

Il terapeuta sensomotorio osserva con un atteggiamento “mindful”, curioso e non giudicante tutto quello che accade nel qui ed ora delle seduta al corpo del paziente. I punti centrali dell’esplorazione in terapia sono le sensazioni corporee e i movimenti che emergono in seduta, le reazioni emotive attuali, i pensieri e le immagini legate al trauma, per affrontare in maniera diretta gli effetti dell’esperienza traumatica sul corpo e sull’apprendimento procedurale. Tutto ciò richiede l’utilizzo integrato di interventi top-down e bottom-up, avendo come punto di accesso privilegiato il corpo. 

L’attenzione non è focalizzata sulla storia narrata, ma sull’esperienza interna del paziente mentre ne parla e per il modo in cui ne parla.

Obiettivo iniziale è che il paziente diventi curioso rispetto alle sue tendenze all’azione attuali, imparando lentamente la differenza fra vivere un’esperienza ed esplorare il modo in cui viene gestita. L’uso della consapevolezza aumenta l’attivazione di aree cerebrali associate ad affettività positiva e della corteccia prefrontale, favorendo un primo processo di integrazione.

E’ importante, nella relazione terapeutica, fare molta attenzione sia ai bisogni di sicurezza sia a quelli di esplorazione dei pazienti, aiutandoli a sperimentare entrambi sempre restando all’interno della finestra di tolleranza.

La relazione terapeutica è una grande occasione per sperimentare un attaccamento sicuro, ma l’attivazione dell’attaccamento porta con sé i mostri dei traumi relazionali passati ed è di fondamentale importanza gestire le reazioni transferali e controtransferali, osservando le tendenze somatiche e le dinamiche relazionali e aiutando il paziente a discriminare la relazione terapeutica da quelle passate.

Dato che, come già sosteneva Janet, la traumatizzazione è il fallimento delle capacità integrative, obiettivo del trattamento secondo gli autori del manuale è espandere la capacità integrativa del paziente, operazione che richiede sia la differenziazione sia il collegamento delle diverse componenti dell’esperienza interna e degli eventi esterni. La realtà interna ed esterna attuale deve essere differenziata dalle esperienze passate. La consapevolezza del paziente viene orientata alle posture ed ai movimenti appropriati per il contesto attuale, evidenziando quali invece riflettono tendenze somatiche maladattive che affondano le loro radici nel passato.

Coerentemente con le linee guida generali del trattamento del trauma gli autori individuano 3 fasi del percorso terapeutico: la stabilizzazione dei sintomi, il trattamento delle memorie traumatiche e l’integrazione.

Mantenendo il corpo come interlocutore privilegiato la terapia nella prima fase si occupa di promuovere la capacità di autoregolazione del paziente, imparando a riconoscere i segnali iniziali di iper e ipoarousal ed a mantenere l’attivazione entro la finestra di tolleranza usando le risorse somatiche. In questo lavoro il paziente impara anche ad ampliare i confini della propria finestra di tolleranza, in modo da poter poi sostenere il successivo lavoro con le memorie traumatiche. 

In questa seconda fase vengono affrontati i frammenti mnestici non integrati attingendo alle risorse e alle capacità di regolazione promosse nella fase precedente. Vengono individuate e attuate le difese mobilitanti tronche (di attacco o fuga), che non hanno potuto essere portate a compimento durante l’esperienza traumatica a causa della sua natura soverchiante e che sono rimaste nel corpo come gesti accennati e bloccati. Questi “atti di trionfo” danno un nuovo senso di controllo nel ricordo dell’evento traumatico e consentono di ridurre le emozioni di vergogna e impotenza. Le tendenze all’azione difensive maladattive possono così essere trasformate in azioni più adeguate al nuovo contesto.

Nella terza fase le risorse mobilitate nel lavoro precedente vengono utilizzate per affrontare aree di vita fino a quel momento trascurate e per partecipare pienamente al gioco, al lavoro ed alle relazioni interpersonali. Le reazioni difensive vengono integrate con gli altri sistemi di azione, creando la possibilità di mettere in atto reazioni consone alle diverse sfide della vita quotidiana, tollerando emozioni positive e negative sempre più intense e sviluppando un nuovo senso di sé più flessibile.

Non tutti i pazienti saranno in grado di percorrere tutte e tre le fasi del trattamento: per quelli con maggiori problemi di instabilità è possibile che il lavoro fermi alla prima fase.

In questo percorso l’esperienza corporea diventa la via principale per l’intervento terapeutico. Affrontando direttamente il corpo è possibile trattare le tendenze all’azione automatiche e involontarie che caratterizzano le abituali reazioni collegate al trauma e i sintomi somatoformi così  frequenti nei soggetti traumatizzati. L’elaborazione emotiva e quella cognitiva non sono escluse da questo processo, anzi, per la guarigione dal trauma è fondamentale l’integrazione di tutti e 3 i livelli di elaborazione dell’informazione (cognitiva, emotiva e sensomotoria), dato che ogni esperienza che noi facciamo li influenza tutti.

La particolarità della terapia sensomotoria, ben illustrata in questo manuale, è il canale di accesso a questa elaborazione: gli interventi fisici forniscono ai pazienti risorse somatiche e abilità per affrontare le reazioni neurovegetative disturbanti così tipiche del trauma. Da questa riorganizzazione somatica emergono poi l’espressione emotiva e l’attribuzione di significato.

Il corpo ha un ruolo centrale nella creazione di emozioni e significati. Conoscere e sperimentare azioni fisiche aiuta a trasformare il modo in cui i pazienti organizzano le esperienze traumatiche passate nei loro corpi e nelle loro vite. Integrare questo tipo di interventi bottom-up con i più classici approcci top-down rappresenta secondo la proposta degli autori un valido aiuto nel trattamento di pazienti la cui drammatica esperienza corporea impedisce di riflettere su temi tipicamente mentali. 

Questo volume, la cui edizione italiana tanto stavamo aspettando, rappresenta un’ottima guida per questo approccio, incorporando contributi della terapia psicodinamica, della terapia cognitivo-comportamentale, delle neuroscienze, della teoria dell’attaccamento e degli studi sulla dissociazione.

LEGGI:

DISSOCIAZIONE TRAUMA-ESPERIENZE TRAUMATICHE PSICOTERAPIA SENSOMOTORIAATTACCAMENTODISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS – PTSD – 

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ARTICOLO CONSIGLIATO:

Seminario di Pat Ogden #2: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le abilità matematiche dei neonati

Santina Leonardi

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La conoscenza numerica e le abilità matematiche si basano sia su processi preverbali (sistemi di base della conoscenza numerica presenti fin dalle prime fasi dello sviluppo del neonato) sia su processi verbali (che il bambino sviluppa con il linguaggio e l’apprendimento scolastico).

Il neonato fin dai primi mesi dimostra di possedere un sistema di individuazione degli oggetti basato su principi spazio-temporali (es. coesione, continuità, contatto) che gli consente di quantificare piccole numerosità in modo implicito. Gli studi su neonati dimostrano infatti che già a 5 mesi i bambini sono in grado di eseguire implicitamente addizioni e sottrazioni di 2 o 3 oggetti.

Un altro processo presente fin dalla nascita è il cosiddetto Sistema di Ampiezza Analogica. E’ un sistema numerico approssimato (SNA) grazie al quale il bambino si dimostra in grado di stimare la grandezza di un insieme numeroso di elementi e di mettere a confronto insiemi numericamente diversi (quale fra due insiemi di punti è più grande o più piccolo?). Tale sistema infatti consente una rappresentazione approssimata (astratta – perché non è confinata alla sola modalità visiva – ma imprecisa – perché fallisce quando la numerosità è bassa) dei valori cardinali di grandi insiemi e permette al neonato di discriminare grandi numerosità purché abbiano un rapporto numerico di almeno 1 a 2. Tale capacità migliora con lo sviluppo del bebè: a 6 mesi può discriminare numerosità con un rapporto 1 a 2 ma solo a 10 mesi discrimina anche quelle con rapporto 2 a 3

Adulti e bambini, ma anche molte specie animali, condividono questo SNA. E’ nella sola specie umana, però, che a questa rappresentazione grossolana della numerosità si sovrappone un sistema numerico simbolico e un processo di conteggio verbale che consente di abbracciare i concetti di frazione, radice quadrata, numeri negativi e numeri complessi, e spingersi così ben oltre il senso intuitivo di numero fornito dai due sistemi innati di conoscenza numerica.

Diverse evidenze sperimentali indicano che questo SNA costituisce una base cognitiva su cui poggiano le successive capacità matematiche di alto livello. Sulla scorta di tali evidenze i ricercatori Joonkoo Park ed Elizabeth M. Brannon hanno voluto indagare se un training finalizzato al miglioramento delle competenze specifiche del SNA (migliorare le capacità di sommare o sottrarre visivamente grandi quantità di pallini senza poterli contare) si potesse tradurre in un miglioramento delle capacità di calcolo matematico. Verificare questa ipotesi è importante non solo perché fornisce ulteriore sostegno all’ipotesi di SNA come avente un ruolo fondamentale nello sviluppo delle competenze matematiche complesse, ma anche perché può avere implicazioni pratiche a livello dei possibili interventi finalizzati al miglioramento delle abilità matematiche dei nostri figli.

I risultati ottenuti da questi ricercatori non solo dimostrano la correlazione fra SNA e abilità matematiche adulte ma forniscono la prima diretta evidenza che il SNA può incidere in modo determinante sulle abilità simbolico-matematiche.

Una possibile spiegazione alla base di questi risultati può essere quella che un ripetuto addestramento delle abilità aritmetiche non simboliche (come quello testato dai due ricercatori) può portare un miglioramento dell’attenzione visiva o della memoria di lavoro spaziale, entrambi substrati cognitivi critici per le abilità simbolico-matematiche.

Questo dimostrato legame fra le abilità numeriche approssimate e le capacità matematiche di alto livello suggeriscono che è possibile sviluppare le competenze numeriche dei bambini ancor prima che inizino un apprendimento formale dei numeri e della matematica, semplicemente promuovendo le loro capacità di discriminare visivamente insiemi di piccoli oggetti (caramelle, pezzi del Lego, palline di Didò) aventi diversa numerosità.

 

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BAMBINI – APPRENDIMENTO – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

UN NUOVO SERIOUS GAME PER L’APPRENDIMENTO DI ABILITA’ MATEMATICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 5

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 5

 

DANZAMOVIMENTO TERAPIA:

 La rabbia e il cambiamento

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

Dal gemello sacrificato alla rinascita della individualità - parte 5. - Immagine: © fasphotographic - Fotolia.comIl gemello “sacrificato”: un giorno, L. incontra in corridoio un bambino disabile; esprime rabbia e rifiuto per il timore di essere assimilato a quel bambino, in cui si vede rispecchiate alcune delle sue fragilità e probabilmente la sua parte “difettosa” e di conseguenza rifiutata.

L. si rispecchia in quel bambino che ha evidenti difficoltà e mi chiede molte informazioni su di lui, che cosa faccia insieme a me, se siano le stesse cose che fa lui: mi esprime a parole il suo timore di “non essere normale” come quel bambino e contemporaneamente se ne distacca prendendolo in giro.

Esprime rabbia e rifiuto per il timore di essere assimilato a quel bambino, in cui si vede rispecchiate alcune delle sue fragilità e probabilmente la sua parte “difettosa” e di conseguenza rifiutata. In questo incontro L., disperato, attacca direttamente l’ambiente, calcia gli oggetti nella stanza, ma in particolare esprime la sua rabbia saltando a pie’ pari sulla faccia di un bambolotto.

Questa rabbia distruttiva, da me attesa, è funzionale all’affermazione di sé (Winnicott), alla separazione da un vissuto materno che lo identificava nelle sue fragilità. Infatti la qualità di movimento è cambiata, L. decisamente sta mettendo in scena azioni che finalmente sono francamente e totalmente lottanti. Quando salta sul bambolotto il peso è attivo e i salti sono intensi ed efficaci nella loro intenzionalità, il corpo si raccoglie per prendere lo slancio e si spinge verso l’alto, chiudendosi nel salto, e poi si riallunga verso il basso, tornando a terra, atterrando sul bambolotto, per poi ricominciare, in una attivazione piena della connessione corporea parte superiore-parte inferiore1. E’ tutto preso a tenere la verticalità, mentre sta affermando qualcosa di sé che non riesce ad esprimere a parole: la dimensione verticale, in cui la forma del corpo si allunga verso l’alto e si accorcia verso il basso, è propria del bambino nella Fase Anale (Kestenberg), in cui è l’effort del peso a dare una forma di base per la presentazione e la rappresentazione di Sé e degli oggetti, ed è attinente all’intenzione e all’affermazione di sé. Accolgo questa grande distruttività di L., e, quando vedo che è molto in affanno e che il movimento inizia a perdere efficacia, lo fermo con un abbraccio.

Possiamo vedere questa aggressività come una espressione della volontà di autoaffermazione di L.. Secondo Winnicott il comportamento aggressivo spinge ad un movimento esplorativo, che conduce al rapporto con gli oggetti; essa è legata all’acquisizione del senso di permanenza dell’oggetto, e al servizio positivo della costituzione dell’oggetto reale come altro-da-Sé. Grazie a queste esperienze, il bambino evolve il suo rapportarsi al mondo, dal relazionarsi all’Oggetto (esperienza soggettiva, in cui l’oggetto è sotto il controllo onnipotente del bambino), all’usare l’Oggetto (l’oggetto fa parte di una realtà esterna). Così gli oggetti possono essere aggrediti e distrutti senza pericolo per la loro sopravvivenza (realmente o in fantasia: odiati, ripudiati, attaccati) perchè reali, e diventare reali perchè distrutti/distruggibili (Winnicott 1969). Come accade al bambino che impara a tenersi in piedi, presentandosi al mondo nella dimensione verticale, L. ha avuto un comportamento oppositivo e imperioso, è uscito dalla dimensione soggettiva, ed ha espresso rabbia e aggressività, attraverso le quali ha tentato di definirsi e affermare il suo essere attraverso gesti e pensieri autonomi.

Negli incontri successivi, L. mi chiede di eseguire insieme a lui alcuni origami che aveva trovato in un libro, mentre lui mi leggeva le istruzioni, poichè teme di non capire le indicazioni. E’ in realtà una composizione abbastanza semplice, ma lui fatica a capire come la carta vada ripiegata. E’ la prima volta che L. mi descrive e mi mostra in maniera aperta e diretta una sua fragilità, servendosi finalmente e consapevolmente di me per le mie caratteristiche reali di adulta che può guidarlo, indirizzarlo, rassicurarlo. Per qualche incontro, L. è intento a sperimentare attraverso la realizzazione degli origami, il senso di esitazione che è il pre-effort integrativo della repentinità precedentemente espressa, legato al processo cognitivo della gradualità di apprendimento. Non è chiaramente abituato a questo genere di movimento, e per la prima volta mi chiede aiuto, gli mostro come si fa ad attivare il peso delle dita e delle mani per piegare la carta, come dare un focus, come usare il tempo continuo, nello spazio sagittale, attivando il pre-effort del channeling, e il corrispondente processo cognitivo della concentrazione2. L. sta dunque sperimentando nuove modalità di apprendimento e di approccio alla realtà. Probabilmente questo lavoro gli è servito anche per unire nella sua esperienza ciò che accadeva nella stanza della terapia con ciò che avveniva a casa e a scuola. Mi racconta, infatti, che in quel periodo le maestre hanno deciso di fargli usare la calcolatrice nei compiti di matematica, per permettergli di concentrarsi sul ragionamento e sul processo logico, e non sull’esecuzione del calcolo, che lo mandava in ansia e in blocco. Il mostrarmi e il nominarmi la sua fragilità, l’ho letto come segno dello sforzo che L. stava compiendo per integrare i vissuti della sua difficile e problematica quotidianità, e la ricerca di autoaffermazione, pienezza e individuazione espressa nella stanza della terapia.

Cambia anche il gioco dei calci al pallone: L. ha ancora voglia di approfondire l’attivazione del peso e della sagittalità, e mi chiede di aiutarlo a costruire un’alta torre di elementi della psicomotricità e la butta giù calciandole la palla contro. Ora L. è preciso e forte nei tiri, capace di movimenti tridimensionali, ed esprime una aperta e rivelata intenzionalità degli effort, che rende il suo movimento efficace. La grande novità è che insieme studiamo modi, angolazioni, punti deboli nella torre che ci permettano di buttarla giù.

Compare parallelamente anche il tema del “salto all’ostacolo”: mi chiede come può allenarsi nei salti e gli propongo di scavalcare saltando il grande cilindro nero della psicomotricità. Accetta di buon grado, e noto che, nella soddisfazione di saltare a piè pari il cilindro, L. esprime il bisogno di sperimentarsi ancora un po’ nella dimensione verticale, che si attiva pienamente nella connessione sopra-sotto, e nella connessione controlaterale, che gli fa raggiungere una tridimensionalità di movimento che gli dà un senso di efficacia atletica. E’ finalmente pronto per un ritmo di flusso di tensione muscolare che da uretrale (rincorsa a piccoli passi), diventa genitale esterno (grande balzo per superare il cilindrone).

Questa fase si riferisce alla avvenuta separazione-individuazione da un femminile non nutritivo e fonte di disperazione e frustrazione. L’alternare l’esperienza del calcio e del salto gli permette di sperimentare e consolidare la verticalità autoaffermativa, la sagittalità esplorativa dell’ambiente, la tridimensionalità del gesto atletico completo ed efficace. Il sostegno ricevuto inizialmente, l’esperienza di distruttività-sopravvivenza dell’Oggetto Sé, fatta nella “seduta decisiva”, l’accompagnamento e lo sviluppo simbolico e cinetico delle sue possibilità di agire sulla realtà, lo aveva proiettato in una nuova fase. In questi salti intravedo l’espressione di una seconda nascita di un “venire alla luce” di L., in cui la scissione fra corpo e mente, fra Sé grandioso e Sé deprivato è ricomposta e L. si riconosce in quello che fa, e si propone per quel che è. L. ha stabilito un contatto col mondo reale, della relazione con oggetti oggettuali (Winnicott) e con le concrete caratteristiche che essi presentano. L. ora può usare il suo corpo nella pienezza e metterlo in gioco interamente: grazie a una migliore gestione del peso e delle connessioni corporee, la parte inferiore del corpo è più stabile e consente che le braccia e le mani vengano via via sempre più utilizzate, nell’esplorazione della verticalità, fino ad arrivare alla verticale e alla camminata sulle mani.

Quando vuole riposarsi dai grandi salti, dopo alcuni minuti di respiro profondo, propone una variante di gioco col cilindro: prova a camminarvi e a gattonarvi sopra standovi in equilibrio mentre lo fa rotolare per tutta la stanza. Qui prevale la ricerca di un movimento piccolo, di equilibrio, mi sembra che s’approfondisca così il ritmo uretrale, con una attivazione delle connessioni omolaterali e una forte impronta nel cercare di tenersi in equilibrio nei piccoli spostamenti sagittali in avanti e aggiustamenti indietro, ma anche una ricerca di tempo sempre più prolungato, sia nello stare in equilibrio che nello spostarsi in avanti col cilindro.

In questo gioco io lo seguo e lo assisto, gli porgo la mia mano, dove poggia la sua, sto attenta che non cada, e gli dò consigli su come giocare in sicurezza a questa “prova da circo”. Ammiro poi sinceramente -e glielo faccio presente- la sua abilità di “saltimbanco”, poiché rivela doti atletiche e acrobatiche non comuni, in cui sembra mi sembra in grado di coordinarsi e anche di sapere come cadere. Noto che sa anche raccogliere le mie raccomandazioni e limitarsi, quando intravede rischi nella gestione del cilindro. L. accetta di buon grado consigli e suggerimenti, in un’ottica dialettica, per cui se non è d’accordo con qualcosa che gli dico mi argomenta il perchè.

Giunto all’età puberale, L. cerca un aggancio anche fuori dalla stanza della terapia col suo lato lottante, vitale e maschile: ha in suo nonno e in suo zio un riferimento con le figure maschili delle sue stirpi familiari e desidera calcarne le orme. Infatti ora si prende sul serio come karateka, e ha l’obiettivo di diventare cintura nera con dan come lo zio, forse di diventare insegnante, e ha richiesto di iniziare a studiare batteria, come aveva fatto il nonno. Con la psicologa abbiamo fortemente sostenuto questo aggancio al maschile, sollecitando il papà a coinvolgere L. in attività di tempo libero che entrambi apprezzano.

Parallelamente L. ha iniziato le scuole medie: con la psicologa abbiamo lavorato col gruppo operativo degli insegnanti di L., per fortuna molto sensibili e attenti, invitandoli a sostenere il ragazzo. L. ha iniziato sotto i migliori auspici, impegnandosi, non scoraggiandosi più se non capiva. Gli insegnanti raccontano che in più momenti è anche stato anche in grado di controllare l’ansia che lo coglieva duranti i compiti in classe, grazie al loro atteggiamento rassicurante che lo sosteneva a portare a termine il compito in questione. L. accetta la sfida di impegnarsi fino in fondo e riesce a ottenere discreti risultati scolastici, ma soprattutto una maggiore serenità. La madre è commossa e rinfrancata da questi cambiamenti di L., e non manca di esprimere la sua gratitudine, i suoi sensi di colpa sono un po’ rientrati, e la sua ferita narcisistica non è più così profonda.

Nel lavoro con me, svoltosi per altri sei mesi, L. cercherà forme sempre più tridimensionali e complete di movimento. E’ felice di mostrarmi i suoi enormi progressi nelle forme del karate, eseguendo per me kata, salti, calci e pugni molto efficaci, invitandomi a assistere alle gare. Ormai può modulare consapevolmente e genuinamente l’espressività del movimento, agire affettivamente e cognitivamente in relazioni di attaccamento più maturo e consono alla sua età.

L’ampliamento e l’integrazione delle capacità motorie ha coinciso con la trasformazione della propria immagine e ha modificato la relazione con la realtà: L. aveva preso contatto con le sue parti maschili e contemporaneamente aveva riconosciuto e integrato nella sua storia le proprie parti più deboli e passive: aveva dismesso la maschera di grandiose fantasie, e ammesso le sue difficoltà, chiedendo aiuto e affidandosi alla terapeuta e alle altre figure di riferimento.

1Questa connessione corporea costruisce messa a terra, forza, intenzione attraverso la spinta verso il suolo. Sviluppa la capacità di risalire dalla spinta a terra per dirigersi verso lo spazio e di tirarsi su senza perdere la connessione col nucL. del corpo. E’ in relazione con la costruzione di un senso personale di potere.

2Il channeling è il precursore dello spazio diretto. Su questo pre-effort si basa la difesa dell’isolamento, di ritirarsi e chiudersi agli stimoli esterni, ma anche la capacità di isolarsi per potersi concentrare. Si serve della continuità come attributo del flusso di tensione.

LEGGI ANCHE:

BAMBINIATTACCAMENTO – ATTACHMENTGRAVIDANZA E GENITORIALITA’

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BIBLIOGRAFIA:

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I Love Shopping (2009) – Cinema & Psicoterapia #12

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #12

I Love Shopping (Confessions of a Shopaholic). (2009)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

I Love Shopping (2009). -Immagine: LocandinaNell’atto di acquistare, Rebecca cerca un senso di sicurezza per com­battere la sua bassa autostima, ma una volta effettuato l’acquisto il senso di colpa e la tristezza incrementano la necessità di curare il malessere con la ripetizione dell’attività, alimentando il circolo vizioso.

Info:

Un film di P.J. Hogan, con Isla Fisher, Hugh Dancy, Joan Cusack, John Goodman, John Lithgow. Commedia. USA 2009. Tratto dal romanzo di Sophie Kinsella.

Trama:

Rebecca Bloomwood ha vissuto un’infanzia con una madre trascu­rante che le dedicava poco tempo e la vestiva in saldo. È diventata una giornalista di una rivista finanziaria, ma aspira a un magazine di moda. Vive e lavora a Londra dove si trova coinvolta in una serie di disavven­ture economiche e sentimentali, in gran parte create o alimentate dalla sua ossessione per gli acquisti.

Motivi di interesse:

I temi dello shopping compulsivo vengono rappresentati e spiegati superficialmente associandoli ad un’infanzia caratterizzata da una figu­ra d’attaccamento poco accudente e per lo più assente. La noia e l’in­soddisfazione fanno parte della vita di questa compratrice compulsiva e bugiarda recidiva, che si trascina un irrefrenabile desiderio d’acquisto, soprattutto di capi costosi.

Sullo sfondo, la storia d’amore della giornalista con il capo redattore ma la vera relazione è quella di Rebecca con i suoi shops. Nel film l’ana­lisi dei temi problematici è approssimativa e l’evoluzione della storia in senso positivo non trova una spiegazione plausibile.

La protagonista comunque presenta tutti i criteri diagnostici del dis­turbo:

  • comportamenti, preoccupazioni o impulsi a comprare non adattivi;
  • la preoccupazione, l’impulso o l’atto di comprare causano stress marcato, fanno consumare tempo, interferiscono significativamente con il funzionamento sociale e lavorativo o determinano problemi economici;
  • gli acquisti eccessivi non si verificano esclusivamente durante i perio­di di ipomania o di mania.

Nell’atto di acquistare, Rebecca cerca un senso di sicurezza per com­battere la sua bassa autostima, ma una volta effettuato l’acquisto il senso di colpa e la tristezza incrementano la necessità di curare il malessere con la ripetizione dell’attività, alimentando il circolo vizioso.

Indicazioni per l’utilizzo

Il film può fornire delle tracce per intervenire sui fattori di manteni­mento del comportamento e per lavorare con il paziente sull’immagine di sé, l’autovalutazione, le modalità di coping dello stress e delle emo­zioni negative.

Trailer:

 

 

LEGGI ANCHE:

SHOPPING COMPULSIVO – IMPULSIVITA’ – DIPENDENZE

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Siamo ciò che mangiamo: il triptofano e la fiducia.

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Si potrebbe citare una nota affermazione: siamo ciò che mangiamo. E una nuova ricerca può aiutare a comprendere meglio cosa significa.

Lorenza Colzato e colleghi (Universities of Leiden and Münster) hanno indagato il legame tra il costrutto di “fiducia reciproca” e il neurotrasmettitore della serotonina, sulla scia di precedenti studi che evidenziarono come la serotonina giochi un ruolo cruciale nel promuovere comportamenti cooperativi (mutual cooperation). Il concetto di “fiducia reciproca” risulta un elemento essenziale all’interno delle relazioni sociali ed è un importante determinante della capacità di cooperazione.

Nello studio in esame, i ricercatori valutarono se il triptofano (TRP), precursore della serotonina, abbia un ruolo nel promuovere comportamenti di fiducia, attraverso la somministrazione di quantità aggiuntive di questa sostanza ad una bevanda.

L’aggiunta di TRP incrementa i livelli di triptofano nel plasma, che rappresenta un metodo per influenzare la sintesi di serotonina. Il campione sperimentale era composto da 40 soggetti estratti dalla popolazione normale (4 maschi/36 femmine; età media=19,4) ai quali venne chiesto di valutare il proprio umore attraverso una scala di valutazione con punteggio da -4 a 4 (Pleasure X Arousal Grid). Furono poi registrati il battito cardiaco e la pressione sanguigna sistolica e diastolica. 20 soggetti furono sottoposti ad una dose orale di TRP e 20 ad una soluzione placebo disciolta in un succo d’arancia, a cui seguì un ulteriore misurazione dell’umore, battito cardiaco e pressione sanguigna.

Successivamente, tutti i partecipanti furono sottoposti ad un gioco di fiducia (trust game), che valuta quanto una persona (trustor) si fidi di un’altra (trustee), attraverso l’ammontare di denaro trasferito dalla prima alla seconda. Al trustor venne consegnata una banconota da 5 € e fu lasciato libero di scegliere quanti soldi dare al trustee; il trustor poteva ricevere poi altri soldi solo se il trustee gli avesse restituito indietro abbastanza denaro. L’ammontare di denaro trasferito dal primo al secondo era un indicatore della fiducia reciproca.

 Alla fine del gioco vennero nuovamente misurati l’umore e gli indicatori della pressione sanguigna e del battito cardiaco. Come da precedenti studi, solo il battito cardiaco diminuì dopo la somministrazione di triptofano, a differenza dell’umore e della pressione sanguigna che non subirono cambiamenti.

I risultati mostrarono che le persone sottoposte ad una somministrazione di triptofano diedero più denaro al trustee rispetto a quelli trattati con sostanza placebo.

In linea con pregresse scoperte, la ricerca mostra come il triptofano, agendo sulla sintesi della serotonina, sia in grado di promuovere uno stato mentale positivo che influisce sul modo di pensare e di vedere noi stessi e il mondo ed agisca positivamente sulla capacità di fidarsi e cooperare con gli altri.

 

LEGGI ANCHE:

RAPPORTI INTERPERSONALI ALIMENTAZIONE – PSICOLOGIA SOCIALE

ORARI DEI PASTI E SALUTE MENTALE DEGLI ADOLESCENTI

 

BIBLIOGRAFIA

 

L’influenza sociale al ristorante: le nostre scelte dal menu dipendono dai nostri commensali

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio dell’Università dell’Illinois, condotto dalla Dott.ssa Brenna Ellison mette in luce il peso della peer pressure (influenza sociale) nelle scelte fatte al ristorante.

Contrariamente a quanto si possa credere in termini di bisogno di differenziarsi e di scelte personali, i dati raccolti sperimentalmente dimostrano una forte tendenza alla gregarietà nella scelta del cibo dal menu, al ristorante. Per esempio nello studio sperimentale condotto nell’arco di 3 mesi, i gruppi di persone sedute al tavolo insieme hanno mostrato una chiara tendenza ad uniformarsi nelle scelte degli altri riguardo al livello di calorie del proprio pasto (nel disegno sperimentale le calorie venivano esplicitamente messe in risalto nel menu a fianco di ogni singolo piatto).
Un altro dato interessante è che quando nei gruppi di controllo la scelta individuale dal menu era svolta in maniera segreta (meglio dire non pubblica), non si riscontrava l’allineamento della scelta dal menu, almeno non in maniera statisticamente rilevante.
Se così stanno le cose, al ristorante ricordatevi di ordinare sempre per primi, è l’unico modo per essere sicuri di mangiare veramente quello che desiderate!

“The big takeaway from this research is that people were happier if they were making similar choices to those sitting around them,” Ellison said. “If my peers are ordering higher-calorie items or spending more money, then I am also happier, or at least less unhappy, if I order higher-calorie foods and spend more money.

“The most interesting thing we found was that no matter how someone felt about the category originally, even if it was initially a source of unhappiness, such as the items in the salad category, this unhappiness was offset when others had ordered within the same category,” Ellison said. “Given this finding, we thought it would almost be better to nudge people toward healthier friends than healthier foods.”

One piece of information that wasn’t included in the data is who ordered first at each table. Ellison said she wants to have this piece of information the next time she runs a similar experiment.  “Previous studies have shown that if you don’t have to order audibly, everyone just gets what they want without any peer pressure involved,” she said. “Research suggests that you should always order first because the first person is the only one who truly gets what they want.”

 

Peer pressure can influence food choices at restaurants | ACES News :: College of ACES, University of IllinoisConsigliato dalla Redazione

L’influenza sociale al ristorante: le nostre scelte dal menu dipendono dai nostri commensali
URBANA, Ill. – If you want to eat healthier when dining out, research recommends surrounding yourself with friends who make healthy food choices.  A University of Illinois study showed that when groups of people eat together at a restaurant at which they must state their food choice aloud, they tend… (…)

Tratto da: College of ACES

 

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Schema corporeo o Immagine corporea? Tra psicologia e neuropsicologia

 Paola Alessandra Consoli

“Ogniqualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti.

Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede,

uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente»

(William James, The Principles of Psychology, 1890)

 

Schema corporeo o immagine corporea?. - Immagine: © longquattro - Fotolia.comPsicologia e neuropsicologia hanno tentato di spiegare le possibili correlazioni fra la percezione reale del corpo e l’immagine mentale che abbiamo di esso.

Quando parliamo di rappresentazione del corpo, ci riferiamo a due costrutti: l’immagine corporea, argomento di discussione psicologica e lo schema corporeo, che interessa maggiormente la neuropsicologia.

Fino a pochi anni fa, esisteva un’enorme confusione concettuale fra questi due costrutti. Uno stesso autore poteva parlare di rappresentazione corporea utilizzando termini intercambiabili. L’Autore a cui mi riferisco è Schilder, la cui opera “Immagine di sé e schema corporeo” (1935) è la prima e più completa opera in merito a questo argomento. Schilder ha avviato questo dibattito, ha chiarito qualche interrogativo, ma, al tempo steso, ha aperto una ricerca decennale, non ancora del tutto soddisfatta, in merito alla rappresentazione corporea.

Come si è giunti al concetto di “schema corporeo”? Perché il termine “immagine corporea” si riferisce alla sola patologia psichica o psichiatrica? Quali sono i punti di sovrapposizione?

Il concetto di schema corporeo nasce agli inizi del XX secolo, ma una primissima elaborazione teorica sulla rappresentazione mentale del nostro corpo si può far risalire alla seconda metà del XIX secolo nella ricerca fisiologica e neurologica dell’epoca.

Il primo ad utilizzare il termine “schema corporeo” fu Bonnier, nel 1905, distinguendo il senso dello spazio e l’orientamento soggettivo rispetto al mondo esterno. Il criterio topologico di Bonnier ci consente di occupare un luogo nello spazio (solo nostro), all’interno del quale sappiamo orientarci e localizziamo le diverse parti del corpo. Egli definisce “aschematia” l’alterazione di tale rappresentazione topografica e spaziale e individua nell’attività vestibolare il contributo principale ad essa.

Schilder, nella sua opera più famosa, definisce l’immagine del corpo umano come “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi” oppure “lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea”.

Schilder è uno psicologo, si occupa poco della localizzazione dello schema corporeo, anzi accetta le ipotesi dei suoi predecessori, quali Pick o Anton e Babinski e per questo viene attaccato dalla neuropsicologia, seppure preso molto in considerazione per le sue teorie “ponte” fra la psicologia tradizionale e la moderna neuropsicologia. Nello stesso Autore convivono tre pensieri: quello dello sviluppo libidico, da cui dipenderebbe uno schema corporeo che si struttura e destruttura all’infinito, quello sociologico, secondo cui la rappresentazione corporea non è altro che la somma delle immagini corporee della comunità, da cui dipenderebbe il nostro modo di rapportarci con il nostro corpo e con gli altri e quello neuropsicologico, un maldestro ma interessante tentativo di spiegare i disturbi dello schema corporeo, che interessano soprattutto il lato sinistro del corpo, per una dominanza o preferenza del lato destro che, essendo più forte, sarebbe meno esposto a questi disturbi.

Schilder fu un autore molto apprezzato, ma l’errore che il mondo scientifico non gli ha perdonato è quello di aver utilizzato i termini “schema corporeo e immagine corporea” come se si trattasse dello stesso costrutto, mentre oggi sappiamo che lo schema corporeo è inconsapevole, mentre l’immagine corporea è presente alla coscienza.

Merleau-Ponty (1945), invece, oppone un “corpo-oggetto” ad un “corpo-me” assimilato al pensiero cosciente: conosciamo il nostro corpo attraverso le rappresentazioni mentali che ci facciamo di esso. Il soggetto è fatto di corpo e lo schema corporeo è un modo di esprimere che “il mio corpo è al mondo”, che funziona nel mondo come il cuore nell’organismo, e l’uomo è coscientemente in possesso dei suoi organi di cui conosce ogni posizione e orientamento. Lo stare al mondo ha una dimensione temporale: il presente è ciò che il soggetto vede (e vive) nel momento attuale, il passato è ciò che torna per confrontarsi con il presente e il futuro è la percezione di ciò che sarà.

Per questo motivo, la spiegazione dell’Autore riguardo l’arto fantasma sarebbe quella di “un vecchio presente che non si decide a diventare passato” una definizione interessante per chi desiderava una spiegazione esclusivamente psicoanalitica ai disturbi della rappresentazione corporea, ma che certamente non poteva soddisfare i neuropsicologi.

La svolta in campo neuropsicologico si ha con Critchley (1953) e la sua opera The Parietal Lobes, la prima descrizione dettagliata dei disturbi dello schema corporeo quali l’anosognosia, la negligenza spaziale unilaterale, il terzo arto fantasma.

La ricerca moderna nasce solo nel secondo dopoguerra, grazie all’utilizzo dei metodi di indagine anatomofunzionale. Le ricerche localizzarono lo schema corporeo nel lobo parietale destro e attribuirono a questa localizzazione la maggior parte dei disturbi della rappresentazione corporea.

La differenza consiste nel verificarsi, nelle lesioni emisferiche destre, di disturbi sensitivo-sensoriali e visuo-spaziali che producono una difettosa integrazione dei distretti corporei e degli stimoli provenienti dall’emisoma sinistro; invece, nelle lesioni emisferiche sinistre, i disturbi dell’orientamento corporeo sono aggravati spesso da sindromi agnosiche, per l’interessamento lesionale dei centri del linguaggio.

Lo schema corporeo può essere localizzato nella corteccia parietale destra, che comprende le aree 5, 7, 39 e 40 di Broadman. Le circonvoluzioni pre e postrolandica sono caratterizzate da somatotopia, cioè a definite zone del corpo corrispondono aree specifiche della corteccia cerebrale, così come rappresentato nell’Homunculus di Penfield.

I concetti di schema corporeo e di immagine corporea condividono la possibilità di rappresentare la totalità e la complessità del corpo umano. Mentre il primo è un articolato schema percettivo legato al processo di localizzazione spaziale compiuto dal sistema nervoso, la seconda include le componenti soggettivo-cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee. Essendo oggettivo il primo e soggettivo il secondo costrutto, divennero, rispettivamente, interesse della neuropsicologia e della psicologia.

L’immagine corporea riguarda la situazione emotiva, i ricordi, le motivazioni e i propositi d’azione dell’individuo; non è statica, ma si modifica continuamente per merito delle esperienze personali. Approfondire questo concetto richiederebbe di abbandonare lo studio della struttura cerebrale dedicata allo schema corporeo e analizzare l’energia libidica, la relazione oggettuale madre-bambino o gli eventi emozionali che tanta importanza assumono nell’esistenza di un individuo.

 Sebbene la rappresentazione del corpo sia di interesse psicologico quanto neuropsicologico, non si potranno mai discriminare i disturbi che colpiscono esclusivamente l’immagine corporea, da quelli che colpiscono lo schema corporeo. Possiamo ipotizzare un continuum dove collocare, ai due estremi, diagnosi solo psicologiche o solo neuropsicologiche e immaginare, lungo di esso, diversi casi intermedi.

Un disturbo che si colloca in posizione centrale tra quelli specifici dello schema corporeo e quelli dell’immagine corporea è il “disturbo da dismorfismo corporeo” (BDD), caratterizzato dalla preoccupazione per un difetto del proprio aspetto corporeo, della forma o di alcune caratteristiche. Pur essendo considerato un disturbo psicopatologico, perché condivide la sua neurochimica con il disturbo ossessivo-compulsivo e l’ansia sociale, ha notevoli correlazioni con i disturbi dello schema corporeo: i circuiti neuronali coinvolti con il BDD sono la corteccia occipito-temporale (per l’immagine generale del corpo) e le regioni fronto-striatale e temporale-parietale per i giudizi sulla forma e bellezza del viso.

Un altro esempio, descritto da Oliverio Ferraris (2011) tratta il caso di un bambino di 3 anni, non mancino, che improvvisamente manifesta una difficoltà nel movimento del braccio destro, che gli impedisce l’uso corretto delle posate e degli oggetti di uso comune e la produzione di un disegno disordinato e spezzettato. La remissione spontanea del disturbo avviene durante una vacanza lontano da casa, all’età di 14 anni e fa ipotizzare ai medici che lo hanno in cura che il disturbo dello schema corporeo, resistente a qualsiasi trattamento, compreso quello dello psicomotricista, si sia risolto perché il ragazzo, durante la pubertà ha chiarito i suoi contrasti inconsci con quel braccio “nemico” che da bambino aveva usato per picchiare la sorella e che la lontananza dalla famiglia l’abbia, in qualche modo, guarito e reso più indipendente dalla sua immagine corporea infantile per fargli assumere quella di un giovane proiettato nel futuro e capace di “perdonare” il suo corpo. Questo è un esempio evidente di come schema e immagine corporea siano, sebbene distinti, anche molto continui.

Possiamo adesso chiederci se la rappresentazione corporea sia innata o acquisita. Alcuni autori ipotizzavano un percorso dettato dal patrimonio genetico, secondo cui le tappe dell’acquisizione della rappresentazione corporea sono predeterminate alla nascita e lo schema corporeo è il risultato dell’interazione della genetica con l’ambiente e l’oggetto, mentre altri autori invece ipotizzavano un esclusivo intervento dell’ambiente. Al primo gruppo appartiene Piaget (1928) con le ben note fasi dello sviluppo infantile, che egli adattò per spiegare la rappresentazione corporea. Al secondo gruppo, appartengono gli psicoanalitici classici, a partire da Freud (1922), che sostiene che l’Io deriva da sensazioni corporee e il rapporto dell’individuo con il proprio corpo, che si realizza tenacemente in ogni momento, riassume in sé la propria storia, riattiva angosce e conflitti del passato che si materializzano in contesti nuovi. Winnicott (1970) con i termini holding e handling materna affermò l’importanza relazionale madre-bambino nella costruzione della membrana-frontiera che separa l’Io dal non-Io. Secondo Winnicott l’assenza o la perdita di questa membrana provocherebbe l’abolizione delle frontiere del corpo e la frantumazione dell’Io, quindi della rappresentazione corporea.

Infine Le Boulch (1975) descrisse 4 fasi di sviluppo dello schema corporeo: corpo subito, corpo vissuto, corpo percepito, corpo rappresentato.

Una minuziosa comprensione della rappresentazione del nostro corpo non è del tutto raggiunta, ma vi è ancora un lungo tratto da percorrere. Per lungo tempo, la confusione terminologica tra schema corporeo e immagine corporea non ha aiutato gli specialisti in materia di anosognosia per l’emiplegia, arto fantasma, disturbi dell’alimentazione o altre sindromi che colpiscono l’integrità della rappresentazione del corpo.

Non possiamo escludere che vi siano aree del cervello non ancora del tutto esplorate che promettono nuove e più ricche potenzialità e solo quando conosceremo il contributo di ogni più piccola area cerebrale potremo dire di possedere una completa consapevolezza corporea.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La percezione della Bellezza altrui e il Principio di Contrasto.

Barbara Cicconi, Katiuscia Morelli

 

 

 

Il Principio di contrasto nella percezione della bellezza altrui. -Immagine: © julien tromeur - Fotolia.comIl principio del contrasto: quando i mass-media trasformano il principe in rospo.

Le attrattive fisiche dei nostri partner, reali o potenziali, spesso ci soddisfano meno per via del bombardamento di modelli di bellezza imposti dai media.

Il principio del contrasto (Cialdini R. B., 1995) è un principio che opera nell’ambito della percezione umana. Esso origina nello studio sulla differenze percettive che noi esseri umani avvertiamo fra due stimoli presentati in successione. In breve il principio afferma che, in presenza di due stimoli che si succedono, se il secondo differisce abbastanza dal primo, noi tendiamo a vederlo diverso dal primo in misura maggiore di quanto lo sia realmente. Ad es. se solleviamo prima un oggetto leggero e poi uno pesante, quest’ultimo ci sembrerà più pesante di quanto ci sembrerebbe se l’avessimo sollevato per primo.

Il principio del contrasto è saldamente validato nel campo della psicofisica (Benson P.L., Karabenic S. A., Lerner R. M., 1976) e opera per tutti i tipi di percezione, non solo per il peso: infatti, se ad una festa stiamo intrattenendoci con una bella donna e poi ne sopraggiunge un’altra che presenta caratteristiche fisiche tanto discrepanti dalla prima e quindi dai nostri canoni di bellezza,  quest’ultima ci sembrerà con buona probabilità meno attraente di quello che è in realtà. Oppure, che accade quando un commerciante ci presenta un prodotto di buona qualità con un prezzo più basso rispetto al primo che abbiamo valutato?

Recenti ricerche in questo ambito, sono state condotte presso l’ università dell’Arizona (Cialdini R. B., Baer N. e Lueth N., 2012). In particolare, in uno di questi esperimenti, studenti e studentesse universitari dovevano valutare e quindi assegnare un punteggio, osservando una fotografia, all’aspetto fisico di un soggetto di sesso opposto: i giudizi risultavano più sfavorevoli se prima i partecipanti all’esperimento avevano sfogliato le pagine pubblicitarie di un rotocalco.

Riprendendo i risultati di questa ricerca, il nostro esperimento (Cicconi B., Morelli K., 2013) si è proposto di indagare l’eventuale peso del “principio del contrasto” nella percezione della bellezza altrui in adolescenza, fase dello sviluppo ritenuta più vulnerabile rispetto all’ attribuzione di giudizio estetico verso se stessi e verso gli altri. Hanno preso parte all’esperimento 314 soggetti bilanciati per sesso, di età compresa tra 14 e 20 anni  (di cui 248 soggetti sperimentali e 66 di controllo).

Ai partecipanti è stata mostrata una foto di una persona le cui caratteristiche estetiche rispondevano a canoni di bellezza della popolazione media, di genere opposto a quello del soggetto. Le foto (una per il gruppo dei maschi, una per quello delle femmine) sono state selezionate da una giuria composta da cinque insegnanti di discipline artistiche e due psicologi che ne hanno scelte due, raffiguranti volti di un ragazzo e di una ragazza presi dalla vita comune, che rispondevano a canoni di valutazione media (giudizio medio di 6/10).

Dunque veniva chiesto ai partecipanti al gruppo sperimentale di attribuire un giudizio soggettivo sulla bellezza dell’individuo presentato in foto su una scala da 0 a 10 (prima valutazione). A questo punto, venivano mostrate 10 foto di volti di modelli/e  tratte dai rotocalchi di moda. Infine veniva richiesto un nuovo giudizio sullo stesso soggetto mostrato inizialmente (seconda valutazione).

Il gruppo di controllo, invece, ha effettuato le due valutazioni della stessa foto-target di “bellezza media” mostrata al gruppo sperimentale, intervallate da alcuni minuti in cui ai partecipanti venivano poste domande generiche.

In accordo con i dati precedenti, l’ipotesi era che per il “principio del contrasto” la seconda valutazione dello stesso soggetto target fosse significativamente inferiore alla prima.

Le analisi statistiche hanno confermato l’intervento del principio del contrasto. Infatti circa il 59% dei soggetti ha espresso un secondo giudizio differente dal primo: la maggioranza dei soggetti (n.126) ha attribuito un punteggio più basso nella seconda valutazione, 98 ragazzi non hanno variato il proprio punteggio, mentre la minoranza (n.19) ha dato un valore maggiore durante la seconda somministrazione.

Non sono emersi risultati significativi rispetto alla relazione tra sesso e variazione nel giudizio, non evidenziando differenze degne di nota.

Invece è stato possibile notare una relazione tra età e variazione di giudizio: il gruppo di ragazzi di 16 anni ha mostrato dei cambiamenti più importanti nelle due valutazioni (seguiti dal gruppo dei 17 anni), mentre il gruppo che ha attribuito punteggi meno discrepanti nelle due valutazioni è quello dei 20 anni. Un dato che confermerebbe come vi sia una percezione particolarmente sensibile e vulnerabile nell’età adolescenziale più giovane, in accordo con la letteratura esistente (Guidano V., 1988; Marcelli D., Bracconier A., 1985; Cheetham A, Allen NB, Whittle S, et al. 2012).

Infine, il confronto tra il gruppo di controllo e quello sperimentale permetterebbe di asserire che la differenza nelle due valutazioni non sia dovuta al caso quanto piuttosto alla presentazione di immagini distrattorie tra la prima e la seconda esposizione della figura target.

Queste conclusioni ci portano a riflettere su come le attrattive fisiche dei nostri partner, reali o potenziali, spesso ci soddisfino meno per via del bombardamento di modelli di bellezza imposti dai media e che gli adolescenti più giovani (più influenzati rispetto ai ventenni) siano, più o meno consapevolmente, fedeli “fruitori” di tali messaggi.

Si ringrazia per la collaborazione nella realizzazione dell’esperimento la classe 5 C anno scolastico 2012-2013 dell’Istituto Alberghiero “Einaudi” di Porto Sant’Elpidio (FM) e in particolare: Luna Cococcioni, Benito Centanni, Marta Costantini, Andrea Palazzo, Angela Pastanella e Fabio Alesiani.

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ADOLESCENTI – PSICOLOGIA SOCIALE

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BIBLIOGRAFIA:

 

ADHD: la luce solare come fattore protettivo?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studiosi hanno raccolto e analizzato molteplici data-set provenienti da Stati Uniti e altri nove paesi e hanno scoperto una correlazione tra l’intensità solare e la prevalenza dell’ADHD: regioni e paesi con una più elevata intensità di sole avrebbero una minore prevalenza di ADHD, come se la luce solare potesse svolgere il ruolo di fattore protettivo per l’insorgenza della patologia.

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività è tra i distrubi più comuni nei bambini ed è caratterizzato da una difficoltà a focalizzare l’attenzione, dall’iperattività e condotte impulsive. Molti pazienti riportano anche difficoltà nel sonno, al punto che in alcuni contesti vengono attuati interventi cronobiologici –inclusa light therapy- mirati a ristabilire i normali ritmi circadiani.

La prevalenza mondiale dell’ADHD si aggira in un range di 5-7% ma un nuovo studio appena pubblicato su Biological Psychiatry pone in evidenza differenze regionali specifiche.

 

Gli studiosi hanno raccolto e analizzato molteplici data-set provenienti da Stati Uniti e da altri nove paesi e hanno scoperto una correlazione tra l’intensità solare e la prevalenza dell’ADHD: regioni e paesi con una più elevata intensità di sole avrebbero una minore prevalenza di ADHD, come se la luce solare potesse svolgere il ruolo di fattore protettivo per l’insorgenza della patologia.

Indagando lo stesso tema in relazione ad altri disturbi, come la depressione maggiore o l’autismo, in realtà non sono state riscontrate correlazioni significative: questo a d indicare la specificità della correlazione tra intensità della luce solare e ADHD. Gli autori si domandano quindi :”I climi più miti e soleggiati riducono la gravità o la prevalenza dell’ADHD? E se si, come? Secondo quale meccanismo?

Ulteriori studi sono necessari in tale direzione, primi tra tutti studi che possano replicare tali risultati. E chiaramente attenzione, si parla di correlazione e non di relazione causale tra la variabile metereologica e quella psicopatologica.

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BAMBINI DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E DELL’IPERATTIVITA’ – ADHD

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: intervista con Francesco Mancini

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI 

State of Mind intervista:

Francesco Mancini

Direttore delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC

Giovanni Maria Ruggiero intervista per State of Mind Francesco Mancini, direttore delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC. L’intervista ha avuto luogo ad Assisi, durante il V Forum sulla Formazione in Psicoterapia. Questa è la prima di un ciclo di interviste che State of Mind farà ai grandi clinici italiani, per realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia. 

 

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Dismorfismo Muscolare – Insoddisfazione per l’immagine corporea – Assisi 2013

Assisi 2013

Insoddisfazione per l’immagine corporea e fitness in un campione di soggetti di sesso maschile

A.Mercantelli, A. Cicciarelli, C. Ziella, C. Fabbri, E. Moretti, L. Pagnanelli, S. Taddei, C. La Mela

 

INTRODUZIONE:

Il Dismorfismo Muscolare (Choi et al. 2002) è una condizione di sofferenza psicologica caratterizzata da una insoddisfazione patologica circa la propria muscolosità, anche in presenza di ipertrofia muscolare (Pope et al. 1997, 2005). Tale preoccupazione patologica si realizza in un costante tentativo di aumentare la massa muscolare attraverso l’esercizio fisico (sollevamento pesi), adozione di comportamenti alimentari disfunzionali (diete ricche di proteine ​​e strategie contro l’incremento del grasso corporeo), uso di integratori alimentari o steroidi anabolizzanti (Hildebrandt et al. 2006).

Scopi del presente studio sono stati quelli di:

–  valutare la presenza della condizione di rischio per disturbi alimentari in soggetti maschi che svolgono attività di potenziamento muscolare in palestra;

–  valutare se coloro che presentano maggiore muscolosità, abbiano anche una maggiore insoddisfazione per l’immagine corporea;

–  valutare se nel campione oggetto d’indagine si riscontrano comportamenti e caratteristiche che la letteratura riporta come tipici dei soggetti affetti da Dimorfismo muscolare.

Dai risultati del nostro studio si evince quindi che la maggior presenza di muscolosità sia legata ad una maggiore insoddisfazione per l’immagine corporea, al desiderio di divenire più muscoloso, al bisogno di controllare la dimensione dei propri muscoli, alla adozione di una alimentazione specifica più integratori, ad uno stato d’animo ansioso nel caso di mancato allenamento, ad una compromissione socio-lavorativa (aspetti di Dismorfismo Muscolare), mentre non si evidenziano positività per i Disturbi Alimentari (EDRC<70°Percentile).

 

VAI ALLA PAGINA DI ASSISI 2013 (V Forum sulla Formazione in Psicoterapia)

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BIBLIOGRAFIA:

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – Conclusioni – PARTE 5

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

– PARTE 5-

Conclusioni

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

Genesi-e-risoluzione-attaccamento-Conclusioni-Parte5. - Immagine: ©-Maksim-Bukovski-Fotolia.comWinnicott nel 1956 definì la “preoccupazione materna primaria“, quale capacità di sentire empaticamente ciò di cui il bambino ha bisogno e di attaccamento come un istinto biologicamente stabile che si attiva e si evolve.

Da allora le evoluzioni e le applicazioni della teoria dell’attaccamento sono state tante e vanno dagli studi sulla continuità dei modelli di attaccamento dall’infanzia all’età adulta, alla relazione tra attaccamento e psicopatologia, dalle ricerche su attaccamento e relazioni di coppia, fino agli studi sulle basi neuroscientifiche dell’attaccamento, per citarne alcune. Molte di esse hanno individuato una forte relazione causale tra stile di attaccamento e comportamento adottato nei rapporti interpersonali.
Il presente articolo si ascrive all’interno di quest’ambito di ricerca ponendo particolare attenzione alla relazione tra stile relazionale ed emotività considerata nel duplice aspetto: capacità di esprimere consapevolmente le proprie emozioni piacevoli, e capacità di gestire le emozioni che producono stati di disagio e insofferenza.

Dall’analisi dei dati, che ha permesso di verificare l’ipotesi di partenza, si evince che le persone con un legame di attaccamento sicuro sono più capaci di regolare la propria esperienza emotiva rispetto ai soggetti con un pattern di attaccamento di tipo evitante ed ambivalente, i quali appaiono più carenti nell’autoefficacia percepita nella gestione e nell’espressione di detta esperienza.

Possiamo dunque concludere che, se la capacità di gestire le emozioni non è innata, può essere ampiamente recuperata, in molti casi, grazie a relazioni significative, divenute centrali nel processo di crescita e di strutturazione della personalità.

Giunti a questo punto, conveniamo che in senso operativo e preventivo – a partire dalla scuola – possiamo fare tanto come adulti attenti al mondo emotivo dei giovani?

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

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ATTACCAMENTO RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE 4

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

-PARTE 4-

Attaccamento e gestione delle esperienze emotive
Una ricerca

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

 

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno infantile PARTE-4. -Immagine: © Svetlana Fedoseeva - Fotolia.comI soggetti con un legame di attaccamento sicuro sono più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente?

Ipotesi di ricerca

Il presente studio intende verificare se i soggetti con un legame di attaccamento sicuro siano più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente, ovvero in che misura  lo stile relazionale di un individuo incida nella gestione delle esperienze emotive.

Campione

Complessivamente il campione è composto da 100 studenti di cui 54 femmine e 46 maschi, iscritti a diverse facoltà universitarie. I questionari sono stati somministrati collettivamente nelle aule delle varie facoltà durante le pause di lezione.

Strumenti  utilizzati

Lo studio è stato condotto  impiegando i seguenti strumenti:

L’Adult Attachment Styles (AAS), (Hazan e Shaver, 1987).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative  (AP_ EN), (Caprara, 2000).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive  (AP_ EP), (Caprara, 2000).

L’Adult Attachment Styles è uno strumento self-report di tipo categoriale messo a punto da Hazan e Shaver (1987) al fine di valutare le differenze individuali nello stile di attaccamento negli adulti. L’assunto di questi autori è che il legame che si sviluppa tra persone adulte nell’ambito delle relazioni di coppia sia mediato dallo stesso sistema motivazionale che regola il legame emozionale che si instaura tra il bambino e i suoi caregivers.

Essi hanno pertanto trasferito allo studio delle relazioni adulte di coppia la classificazione degli stili di attaccamento proposta da Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (1978) nei loro studi sull’età infantile condotti con la procedura della Strange Situation (Agostoni, 2007).

Il questionario è composto da tre brevi autodescrizioni, ciascuna delle quali corrisponde ad uno specifico stile di attaccamento (ansioso/ambivalente, evitante e sicuro). Il soggetto è invitato a concentrare la propria attenzione sulle relazioni amorose più importanti che ha avuto nel corso della sua vita, e in particolare sulle emozioni sperimentate all’interno del rapporto, sulla fiducia/sfiducia riposta nell’altro, sulla vicinanza emotiva e sulla fine della relazione.

Il soggetto è quindi chiamato a scegliere, tra le autodescrizioni proposte, quella che egli ritiene più rappresentativa dei suoi sentimenti all’interno di tali relazioni. Si tratta, in pratica, di una procedura di somministrazione “a scelta forzata”, nella quale i diversi stili di attaccamento sono trattati come categorie discrete e mutualmente escludentesi (Agostoni, 2007).

La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative (AP_ EN), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di regolare adeguatamente situazioni di ansia, disagio, insofferenza e irritazione (ad es. “Superare la frustrazione se gli altri non ti apprezzano come vorresti”). Ciascun item (otto in tutto) si presenta come brevi proposizioni le quali testimoniano singole abilità nel riconoscimento e nella regolazione delle emozioni.

I ragazzi e le ragazze coinvolti nella ricerca sono chiamati ad indicare se e in quale misura si ritengono capaci in quella abilità. Le possibilità di risposta variano da 1 a 5, dove 1 equivale a per nulla capace e 5 a del tutto capace.

La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive (AP_ EP), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di  esprimere le emozioni positive. Composta da sette items, il soggetto deve valutare il grado in cui ritiene di essere capace di manifestare la propria felicità o soddisfazione per obiettivi personali o per successi raggiunti da persone care. La scala, prevede cinque posizioni che vanno dal – per nulla capace – al – del tutto capace- tra cui a titolo d’esempio la proposizione: “Esprimere la tua felicità quando ti succede qualcosa di bello”.

Analisi dei dati

L’analisi percentuale delle risposte all’ Adult Attachment Styles, riporta che il 51% del campione tende verso una modalità relazionale di tipo sicuro, il 23% di tipo insicuro ed il restante 26% di tipo ambivalente.

Nella tabella 1.1 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 1.1 GENESI ATTACCAMENTO

Nella tabella 1.2 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 2.2 GENESI E ATTACCAMENO

Dall’analisi della Varianza sono emerse differenze significative nella gestione delle emozioni negative e nell’espressione di quelle positive ascrivibili allo stile relazionale.

Relativamente alla gestione delle emozioni negative, i soggetti con uno stile relazionale di tipo sicuro risultano più capaci di superare la frustrazione se gli altri non li apprezzano,  riescono ad evitare di scoraggiarsi di fronte alle avversità e sanno mantenersi calmi in situazioni di stress.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano poco capaci di superare la rabbia se sono stati rifiutati, non riescono ad evitare di arrabbiarsi quando percepiscono che gli altri si comportano male con loro e provano un senso di scoraggiamento di fronte alle avversità ed in seguito a pesanti critiche.

Per quanto concerne l’autoefficacia percepita nell’espressione delle emozioni positive, si può sostenere che i soggetti con attaccamento sicuro sono più capaci di esprimere la propria felicità, di gioire dei propri successi, e di rallegrarsi del successo di una persona amica rispetto a chi ha uno stile relazionale di tipo insicuro o ambivalente.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano i meno capaci di divertirsi in compagnia di amici, di entusiasmarsi quando ascoltano musica che gli piace.

I risultati dei test illustrano come la capacità di regolare le emozioni sia positive che negative dei soggetti con stile relazionale di tipo insicuro-evitante si colloca a metà tra quella di chi ha un pattern di attaccamento sicuro e quella di chi ha uno stile relazionale ambivalente. Per entrambe le scale non sono emerse differenze significative ascrivibili al genere.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Ansia e panico durante le immersioni subacquee: conseguenze e prevenzione

Immersioni subacquee: uno studio del 1995 Anxiety and panic in recreational scuba divers ha dimostrato che oltre la metà dei sub ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico.

Sara Di Michele

 

Immersione subacquea: aspetti psicologici ed evoluzione nel tempo

Il subacqueo fino agli anni 70 era, nella maggior parte dei casi, una persona con spiccate caratteristiche di individualismo, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello sportivo. La struttura di personalità era più simile a quella dell’alpinista, dello scalatore o del paracadutista nel senso di atleti che cercano di migliorare le proprie capacità, di riuscire a superare i propri limiti e che cercano la solitudine, quasi la condizione ascetica.

Le rivoluzionarie innovazioni tecnologiche hanno profondamente modificato l’immersione subacquea consentendo praticamente a tutte le persone – compresi i portatori di handicap – di poter effettuare delle piacevoli immersioni ricreative.

L’immersione subacquea (diving) può essere vista come una risposta alle esigenze dell’inconscio tanto individuale che collettivo di recuperare quel rapporto primordiale presente sia nel ritorno alla condizione intrauterina, dove la vita si svolge nell’acqua, sia nelle profondità del mare dove vivono i pesci, nostri lontanissimi antenati. Il momento più significativo dell’attività subacquea corrisponde, però, al momento in cui viene attraversata quella linea che segna il confine tra l’aria atmosferica e l’acqua, che vuol dire di fatto varcare una linea reale, unica, diversa da qualsiasi altro confine di tipo metaforico tra dimensione reale e virtuale o tra somatico e psichico. Confine che segna la separazione tra due mondi: quello terrestre e quello sottomarino.

Uno degli aspetti più affascinanti dell’ immersione subacquea è l’isolamento: il subacqueo (diver) è tagliato completamente fuori dal mondo esterno, la comunicazione subacquea è molto limitata e parallelamente si incrementa la consapevolezza del subacqueo che il proprio benessere fisico è completamente nelle sue mani.

Negli anni anche la personalità di chi si approccia a al diving è cambiata: se prima erano personalità tese all’isolamento, oggi ci si approccia a tale attività per cercare un’attività ludica nella quale ricrearsi, incontrare nuova gente e sentirsi parte di un gruppo (Capodieci, 2006). Negli ultimi anni la maggiore richiesta di corsi e di immersioni subacquee ha provocato un’immediata risposta di interesse economico, rilasciando brevetti con estrema facilità.

Bisogna però ricordare che il diving è un’attività sportiva che ci mette a confronto con un ambiente a noi non naturale, al quale il corpo deve comunque adattarsi, ad un’attrezzatura che bisogna saper armeggiare, al mare, che è un elemento imprevedibile con il quale bisogna approcciarsi nella maniera più prudente e rispettosa possibile, affinché non si tramuti in una brutta esperienza. A questo proposito sarebbe meglio adottare misure preventive per evitare spiacevoli incidenti nelle immersioni.

 

Ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Uno studio del 1995, Anxiety and panic in recreational scuba divers ha rilevato come oltre la metà dei sub che praticano immersioni sportive ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico. Statistiche del DAN e dell’Università del Rhode Island sostengono che il panico è stato responsabile del 20-30% degli incidenti mortali in immersione ed è tra le prime cause di morte nelle attività subacquee. In una situazione di panico, il subacqueo (o diver) riesce a concepire un solo obiettivo nella propria mente: raggiungere la superficie il più rapidamente possibile; in questo modo dimentica di respirare normalmente, con il risultato di una possibile embolia gassosa arteriosa. 

 

Caratteristiche dell’ ansia nelle immersioni subacquee

Secondo Zeidner le principali caratteristiche dell’ansia durante un immersione sono:

A. L’individuo percepisce la propria situazione come minacciosa, difficile o impegnativa.
B. L’individuo considera la sua capacità di far fronte a questa situazione come insufficiente.
C. L’individuo si concentra sulle conseguenze negative che conseguiranno al suo fallimento (di risolvere i problemi), piuttosto che concentrarsi sul trovare delle possibili soluzioni alle sue difficoltà.

I sintomi fisici dell’ansia possono variare dalla sudorazione delle mani e la tachicardia delle forme medie fino all’agitazione psicomotoria, alla paralisi emotiva o allo scatenarsi di un attacco di panico o di una reazione fobica.

 

Il senso evolutivo dell’ansia e gli incidenti subacquei

L’ansia ha una funzionalità ben precisa : è un allarme ad una minaccia, un allontanamento da una situazione non confortevole, ha un valore di sopravvivenza e la fuga ne è la risposta comportamentale più tipica. Alcuni studi hanno evidenziato che un livello medio di ansia garantisce una prestazione ottimale in certe situazioni perché provoca a volte un aumento della motivazione a concentrarsi sulle proprie finalità. Un eccessivo stato d’ansietà invece può condurre a quella dimensione cognitiva e percettiva ridotta, nella quale la concentrazione e l’attenzione del subacqueo si colloca verso altri timori facendogli perdere il controllo della situazione.

Come ritiene Cattel (si veda pubblicazione di Lingiardi, 2010) “la personalità è ciò che permette di predire quello che una persona farà in una data situazione“, e a questo proposito nel 1995 a Toulouse è stata svolta una ricerca per misurare l’ansia come tratto caratteriale della personalità dell’individuo, quella che diventa la sua capacità di risposta a una situazione di stress. Lo studio ha rivelato che la maggior parte degli incidenti subacquei avviene nelle persone che hanno riportato sulla Scala dell’Ansia di Cattel, i risultati più elevati.

 

Prevenzione di ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Nell’ambiente subacqueo è molto difficile ricondurre la causa di un incidente all’ansia perché l’individuo avrà difficoltà ad ammetterlo e ad esplicitarlo. Esistono diverse tecniche di visualizzazione e di rilassamento per gestire l’ansia nelle situazioni di stress. Sarebbe quindi opportuno pensare di iniziare i corsi di immersione con queste tecniche, non solo per insegnare all’individuo come gestire l’ansia sott’acqua, in situazioni di stress, ma anche per rendere esplicito, che momenti di paura e tensione durante un’immersione, possono essere normali, accolti ed esplicitati.

Incentivando la prevenzione di ansia e attacchi di panico nel diving, il mare può restare un amico, nel quale ci si tuffa quando ci si sente pronti, quando ci si sente sereni, ed evitare che diventi un nemico solo perché noi stessi siamo non abbiamo ascoltato il nostro corpo o siamo stati superbi. Ci vogliono umiltà, e una grande consapevolezza, per dire:

“mi tuffo la prossima volta, oggi non me la sento!”, e questo potrebbe almeno evitare la metà degli incidenti in immersione.

Politica & Psicologia: essere estremisti aumenta il senso di superiorità?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Politica & Psicologia: Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle proprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Gli estremisti dei due poli dello spettro politico presentano un medesimo fenomeno psicologico: entrambi i gruppi hanno la tendenza a ritenere le loro opinioni superiori rispetto a quelle degli altri, con la credenza che il loro punto di vista sia l’unico “corretto”; e tale sensazione di superiorità emerge in relazione a specifiche questioni politiche. 

Secondo una ricerca recentemente pubblicata su Psychological Science invece le persone con atteggiamenti più moderati sarebbero più obiettive.

I ricercatori hanno chiesto a più di 500 partecipanti di completare diversi questionari che affrontavano diversi punti di vista su alcune tematiche politiche controverse tra cui per esempio sanità, immigrazione, aborto, aiuti statali, tasse, etc.

Ai partecipanti è stato poi chiesto di indicare quanto fossero corrette le loro opinioni rispetto a quelle degli altri su una scala Likert che variava da “non più corretto di altri punti di vista” a “totalmente corretto — il mio punto di vista è l’unico corretto”.

Ecco quanto emerge dai risultati: sono i conservatori e i liberali più estremisti che considerano le loro idee superiori a quelle degli altri, ma non in generale.

Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle prioprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Quindi  secondo lo studio la polarizzazione di opinioni sarebbe bipartisan ma estremista e oltretutto ciascuno sui “propri” temi.

LEGGI:

PSICOLOGIA SOCIALEBIAS -EURISTICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Le parole che non riesco a dire. Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

Le parole che non riesco a dire

Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

a cura di Sara Boggio e Associazione Culturale Mondi Possibili

Venerdì 15 NOVEMBRE 2013

h. 21.00 – Circolo dei Lettori Via Bogino 9 – Torino

INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI
PRENOTAZIONI: info.mondipossi[email protected]

Presentazione del libro

Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori)

Intervengono:
Gianluca Nicoletti, autore del libro, scrittore e giornalista Valerio Berruti, artista
Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista

393 2423585 – [email protected]

SCARICA IL COMUNICATO STAMPA (PDF)
SCARICA LA BROCHURE (PDF)

Venerdì 15 novembre 2013 alle h. 21.00, presso il Circolo dei Lettori, in via Bogino 9 a Torino, avrà luogo la presentazione del libro Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori) di Gianluca Nicoletti.
Vincitore del Premio Estense 2013, il libro racconta la vita dell’autore con il figlio adolescente Tommy, autistico, svelando senza filtri tutti gli aspetti di una quotidianità complessa ma speciale, come il rapporto che li unisce.

Gianluca Nicoletti, editorialista per La Stampa e conduttore di Melog su Radio24, dialogherà con Valerio Berruti, artista italiano di fama internazionale, noto per le sue immagini essenziali, che affrontano con leggerezza ed eleganza i temi degli affetti familiari e dell’infanzia.

Modererà l’incontro Gian Luca Favetto, scrittore, giornalista, critico cinematografico e drammaturgo, conduttore radiofonico per RadioRai.

L’incontro è un preziosa occasione per affrontare un tema che coinvolge oltre 400.000 famiglie italiane, ma che deve essere portato all’attenzione di tutti. A tale scopo, scrive l’autore, “è necessario che si inizi a raccontare l’autismo usando lo strumento dello stupore”, ed è per questo che a dialogare con lui sarà un artista, ad ampliare ulteriormente la dinamica di scambio e confronto che è di vitale importanza per rompere il silenzio, uscire dall’isolamento, individuare nuovi percorsi.

L’appuntamento si configura come anteprima di Le parole che non riesco a dire, rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo a cura di Sara Boggio e dell’associazione culturale Mondi Possibili.
La rassegna avrà luogo ad aprile 2014 presso il Circolo dei Lettori e vedrà coinvolti familiari di ragazzi autistici che, dalla loro personale esperienza con i disturbi dello spettro autistico, hanno ricavato racconti, romanzi, fumetti o film – avvalendosi dell’espressione artistica per trasformare le difficoltà in bellezza, il disagio in risorsa e l’isolamento in condivisione.

Il percorso proposto si snoda infatti lungo il duplice ma complementare versante della patologia e della creatività, perché l’isolamento e le difficoltà del quotidiano, tradotte in racconto, possono diventare una fucina di spunti, intuizioni, idee e proposte – come dimostrano le opere degli autori coinvolti nella rassegna, che posseggono tutta la forza necessaria a spostare il limite, dimostrando che il passaggio dal silenzio alle parole ai fatti non è un’utopia, ma una possibilità concreta, oltre che un’urgente necessità.

L’appuntamento è a ingresso libero fino a esaurimento posti.

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Ufficio Stampa
Mondi Possibili
Daniela Sciangula
393 2423585 [email protected] www.mondipossibili.net

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Media partner:

www.stateofmind.it

ARTICOLI SU: AUTISMO – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

 

Ospiti della serata:

Gianluca Nicoletti (Perugia, 1954 – vive e lavora a Roma) Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo.

La sua collaborazione con la Rai inizia nel 1983.
Capostruttura alla Divisione Radiofonia per il settore dedicato all’innovazione, ha diretto la start up per il primo portale Internet dinamico della Rai.
Su Radio2 ha condotto 3131, Qui lo dico e qui lo nego, Vipera e, per undici anni, Golem: idoli e televisioni, pluripremiato programma dedicato all’attualità e al mondo dei media.
Nel 2005 approda a Radio24, dove è autore e conduttore di Melog 2.0, oltre ad aver ideato i programmi Corpi, Il volto e l’anima, La guardiana del faro.
Nell’ottobre 2012 viene insignito del premio Cuffie D’Oro Lelio Luttazzi nella categoria “One Man One Voice” con la seguente motivazione: “È una delle voci più conosciute tra gli intellettuali italiani. Vanta il piacevole dono dell’imprevedibilità e dell’uso sapiente della parola. Fine scrittore, critico televisivo e fustigatore di costumi, Gianluca rappresenta un’eccellenza della radio italiana”.
Ha collaborato con vari programmi televisivi, per la Rai e Mediaset: Uno più uno, Mediamente, Telesogni di notte, La parte dell’occhio, in onda su Rai 1, Raccolta differenziata su Rai 2, Niente da perdere su Rai 3, Matrix su Canale 5 e Jekyll su Italia 1.
Tra i libri pubblicati Ectoplasmi. Esistere nell’aldilà catodico: il potere medianico della televisione (Baskerville, Bologna 1994), Amen (Mondadori, Milano 1999), Le vostre miserie, il mio splendore. La discesa nella seconda vita dell’avatar bitser Scarfiotti (Mondadori, Milano 2007), Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali (Sironi, Milano 2009), Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, Milano 2013).

Valerio Berruti (Alba, CN, 1977 – Vive e lavora ad Alba) Artista

Laureato in Critica dell’Arte al DAMS di Torino.
Nel 2005 viene selezionato dall’International Studio and curatorial Program di New York come unico artista italiano.
Nel 2008 inaugura a Seoul la personale Magnificat, presso la Keumsan Gallery, oltre a partecipare alla XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e alla collettiva Detour, presso il Centre Pompidou di Parigi.
Nel 2009 è il più giovane artista scelto da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli per il

Padiglione Italia della 53a Biennale di Venezia, dove presenta La figlia di Isacco, video-animazione con colonna sonora composta per l’occasione da Paolo Conte (tutti i disegni e lo spartito originale sono pubblicati da Damiani Editore nell’omonimo volume).

Nello stesso anno realizza la copertina dell’album di Lucio Dalla Angoli nel cielo con il lavoro I can fly.
Nel 2011 viene selezionato dalla Nirox Foundation per una residenza a Johannesburg e inaugura le personali Too much light not to believe in light presso il City Museum di Belgrado, Maddalena, presso il Salon Blanco di L’Havana, e Kizuna, presso il Pola Museum di Tokyo, in cui viene esposto un video con le musiche appositamente realizzate da Ryuichi Sakamoto.

Dalla collaborazione tra Berruti e Sakamoto è nato un progetto per aiutare le vittime del terremoto in Giappone a cui ora si sono aggiunti i compositori Alva Noto e David Sylvan.
Nel 2012 vince il Premio Luci d’Artista a Torino.

Gian Luca Favetto (Torino, 1957 – vive e lavora a Torino)

Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo, drammaturgo, critico cinematografico.

Autore di numerosi romanzi e raccolte di racconti, con Marcos y Marcos ha pubblicato Chiunque va a piedi è sospetto (1992) e Tommaso Torelli, inseguitore (1994). A undici metri dalla fine (2002), Se vedi il futuro digli di non venire (2004), Italia, provincia del Giro (2006) e La vita non fa rumore (2008) sono editi da Mondadori. Nel 2009 è uscito per Verdenero-Edizioni Ambiente il romanzo Le stanze di Mogador’ e nel 2010 il racconto Diventare pioggia (Manni).

Per il teatro ha curato la drammaturgia di Operette morali’ (Gruppo della Rocca, 1986), Canto per Torino (con la regia di Gabriele Vacis, 1995), Passaggi (Teatro dell’Angolo, 1996), Nel catalogo figurate come uomini (Gruppo della Rocca, 1997), Aspettando – Suite per Godot (Gruppo della Rocca, 1998) e Camminanti (1998). Nel 2006 ha realizzato il progetto Interferenze fra la città e gli uomini, spettacolo che intreccia il linguaggio letterario e teatrale a quello del web.

Ha pubblicato cinque raccolte di poesia: La collina delle streghe (Italscambi, 1980), Il buio e la memoria (Italscambi, 1982), L’ultima meraviglia (Genesi, 1990), Il versante accogliente dell’ombra (Marcos y Marcos, 1996), Mappamondi e corsari (Interlinea, 2009).

Scrive su La repubblica e Diario. Per RadioRai ha condotto 7 gradi longitudine Est, 3131 e Trame.

L’organizzazione:

Sara Boggio (Castellamonte, TO, 1978 – vive e lavora a Torino)
Traduttrice, curatrice e critico free-lance.
Laureata in Lettere e in Pittura, ha lavorato come writer, redattrice e traduttrice per numerose case editrici, in Italia e in Australia, dedicando i primi anni di attività alla critica letteraria e alla storia della lingua. È stata tutor di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Torino e ha curato, insieme al Circolo dei Lettori e alla Scuola Holden, una rassegna di incontri dedicati alla graphic novel che ha coinvolto i più prestigiosi autori del settore, da Craig Thompson a Lorenzo Mattotti. Per la galleria In Arco di Torino ha realizzato percorsi espositivi dedicati al disegno e alla pittura con i lavori di Daniele Galliano, Raymond Pettibon, Jim Shaw, Marcel Dzama, Ann Craven e Kathe Burkhart. Attualmente collabora con la start up Maieutical Labs su un progetto di e- learning multimediale per la storia dell’arte. Le sue ultime traduzioni per la critica d’arte, editi da Ponte Alle Grazie e dalla Rivista di Estetica dell’Università di Torino, rappresentano la prima versione italiana del discorso critico di Huang Zhuan, direttore del Contemporary Art Terminal di Shenzen, sull’artista cinese Wang Guangyi. I suoi contributi critici sono stati pubblicati da Italian Poetry Review, Rizzoli, Skira.

Mondi Possibili

www.mondipossibili.net

È un’associazione culturale torinese nata con l’intento di promuovere progetti artistici e culturali a sfondo sociale. La finalità delle iniziative curate da Mondi Possibili è quella di veicolare, attraverso l’arte e la cultura, contenuti di rilevanza etica, in grado di restituire forza, valore e dignità alle realtà più trascurate del tessuto sociale, nella convinzione che il linguaggio artistico, la creatività e le espressioni culturali siano strumenti fondamentali per accrescere il senso di appartenenza alla propria comunità, tutelare i diritti di chi non ha voce, favorire l’integrazione e la condivisione di valori comuni.

Mondi Possibili si avvale del supporto di diverse professionalità esperte nei vari settori della programmazione culturale, dalla comunicazione alla produzione video.

Daniela Sciangula (Borgomanero, NO, 1976 – vive e lavora a Torino), co-curatrice di Le parole che non riesco a dire, è socia fondatrice di Mondi Possibili.
Laureata in Scienze della Comunicazione e Master in Comunicazione Web, ha esperienza pluriennale nella progettazione e promozione di iniziative culturali, festival, mostre, reading e conferenze, organizzate in collaborazione con varie realtà associative del territorio piemontese e sempre focalizzate sulle tematiche sociali. Responsabile della comunicazione per il Teatro Giulia di Barolo di Torino, dalla fine del 2010 collabora con l’Associazione Il Contesto Onlus per Dentro e Fuori, il blog dei detenuti della casa circondariale di Torino. Nel 2011 ha co-organizzato la mostra Cultura+legalità=libertà – l’arte contro le mafie, che ha ottenuto la medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

 

 

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia: uno studio correlazionale

C.Frau1,2, M.Giovini1, E.Muntoni2, C.Sodde2
1 Studi Cognitivi, Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Modena, 2 Centro di Salute Mentale, ASL Sanluri

 

La sintomatologia dissociativa e’ la piu’ frequente dopo ansia e depressione. Quando un qualsiasi disturbo elencato nel DSM-IV e’ complicato da sintomi dissociativi, la risposta a qualsiasi trattamento disponibile e’ meno soddisfacente. Data l’importanza di trattare la dissociazione per un buon esito terapeutico, diventa altrettanto importante comprenderne la relazione con le altre variabili, inserirla nel quadro di personalita’ psicopatologica e definirne l’eziologia.

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GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

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