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Tribolazioni 16 – Egocentrismo Cosmico

 

TRIBOLAZIONI 16

EGOCENTRISMO COSMICO

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Tribolazioni 16 - Egocentrismo Cosmico. -Immagine: © Naeblys - Fotolia.comPoi c’è “il genere umano” a cui tutto è sottomesso. Pensiamo che le mucche facciano il latte, i campi il grano e le galline le uova per darci la possibilità di fare i dolci: sappiamo che non è così ma siamo portati a pensarlo.

Secondo molte culture orientali la sofferenza dell’individuo si ridurrebbe grandemente se riuscisse a considerarsi parte di un tutto universale rinunciando alla propria centralità e unicità assoluta. Certamente l’egocentrismo e lo stesso egoismo hanno un ruolo positivo nell’evoluzione e sono dunque stati selezionati. Guardare il mondo da una sola prospettiva è più semplice ed efficace. Così come puntare ai propri interessi conduce, in genere, a realizzarli.

La cultura occidentale ha ipertrofizzato questo aspetto. Così  pensiamo di essere al centro dell’universo. Il decentramento da questa prospettiva non è facile. Quando i fatti ci ricordano improvvisamente e spesso duramente che l’universo non è al nostro servizio, oltre alla frustrazione di qualche scopo specifico c’è  la frustrazione di questo smisurato egocentrismo narcisista.

Esso può essere mitigato solo dallo sviluppo di una buona capacità metacognitiva (Flavell 1988; Semerari 1991, 1996, 1999). Che origina da una sicura relazione di attaccamento infantile ( Bowlby 1969, 1973, 1980; Fonagy 2001; Fonagy et al. 2002; Fonagy, Target 1996).

Al centro di tutto c’è “l’Io” punto di vista da cui è difficile distanziarsi Intorno all’Io, in cerchi concentrici, troviamo la nostra famiglia, la nostra cultura, il nostro tempo che diventano altrettanti standard normativi di ciò che è normale, buono e giusto.

Poi c’è “il genere umano” a cui tutto è sottomesso. Pensiamo che le mucche facciano il latte, i campi il grano e le galline le uova per darci la possibilità di fare i dolci: sappiamo che non è così ma siamo portati a pensarlo.

Poi c’è la terra, il nostro pianeta che, se non crediamo più essere il centro dell’universo ancora lo pensiamo, contro ogni logica, come l’unico in grado di ospitare la vita. Da qui a trasformare il wishfull thinking in onnipotenza il passo è breve: “se tutto è stato creato al mio servizio ciò che voglio può e deve accadere”.

Questa sorta di delirio di riferimento e di onnipotenza non sarebbe di per sé motivo di sofferenza se non fosse  che poi le cose non vanno realmente così. Ci rimaniamo doppiamente delusi a motivo delle irrealistiche e ingiustificate aspettative. La gente spesso tribola  dicendosi “non doveva capitare a me oppure a noi” o, più semplicemente, “non doveva capitare” ma non sa spiegare il perché di tale aspettativa magica. Sono arrabbiati con la sorte ritenendosi detentori di diritti inspiegabili che sembrano loro ingiustamente  lesi.

L’egocentrismo spinge a sentirsi soli ma anche unici e speciali. Ad esempio molti si chiedono. “Come è possibile che tutti per strada siano sereni e felici ed io invece porti dentro tanta sofferenza?

Naturalmente questo modo di sentirsi gli unici sofferenti è frutto di un errore di prospettiva. Ciascuno vede dal di dentro solo sé stesso, mentre degli altri  vede la preziosa confezione esterna, il fiocco arricciato e la carta sgargiante.

Le persone che si incontrano per strada non sputano fiamme, non si puntano la pistola carica alla tempia, non annodano la corda insaponata. Ma del loro animo che ne sappiamo? I pensieri non sono pesciolini guizzanti in una boccia di vetro, non si  vedono. L’anima non è trasparente. Tutti appaiono agli altri viandanti tranquilli e persino soddisfatti. Solo se si facesse un buchino in quelle splendide apparenze si vedrebbe cosa colerebbe fuori.

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LEGGI ANCHE:

SCOPI ESISTENZIALI – PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA – NARCISISMO

CONSULTA LA BIBLIOGRAFIA

 

Il Bacio? Ci aiuta a orientarci nella scelta del Partner – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il bacio aiuta nella selezione dei potenziali partner: il bacio infatti veicolando gusto e odore, ci fornisce indizi per una prima e inconsapevole valutazione di compatibilità biologica, genetica e dello stato generale di salute dell’altro.

Il bacio, come forma di effusione nelle relazioni sentimentali, è incredibilmente diffuso in varie forme e in quasi tutte le culture e società contemporanee; inoltre è stato osservato anche negli scimpanzé e nei bonobo, i primati nostri parenti più prossimi, anche se è meno intenso e meno frequente.

Secondo uno studio della Oxford University è grazie al bacio che riusciamo ad inquadrare un partner potenziale e, quando la relazione è già avviata, può addirittura aiutarci a trattenere il partner.

Per capire meglio la funzione del bacio nelle relazioni sentimentali, Rafael Wlodarski e Robin Dunbar hanno condotto un sondaggio online che ha coinvolto più di 900 adulti nel valutare l’importanza del baciare nelle relazioni a breve e a lungo termine.

Le principali teorie sul ruolo che il bacio svolge nei rapporti sentimentali sono tre: aiuta nella la valutazione della qualità genetica dei potenziali partners, serve ad aumentare l’eccitazione per avviare il rapporto sessuale e fa da collante nella relazione.

Lo scopo della ricerca condotta era proprio passare al vaglio queste tre teorie.

Le risposte al sondaggio indicano che le donne, nelle relazioni sentimentali, attribuiscono al bacio maggiore importanza degli uomini; inoltre uomini e donne che si considerano attraenti o tendono ad avere relazioni a breve termine e incontri sessuali casuali attribuiscono al bacio molta importanza. Tra i mammiferi, esseri umani compresi, le femmine devono investire (tra gravidanza e allattamento) più tempo degli uomini con la prole e studi precedenti hanno mostrato che le donne tendono ad essere più selettive degli uomini nella scelta del partner.

Questi dati, nel loro insieme, sostengono la teoria per la quale il bacio aiuta nella selezione dei potenziali partners: il bacio infatti veicolando gusto e odore, ci fornisce indizi per una prima e inconsapevole valutazione di compatibilità biologica, genetica e dello stato generale di salute dell’altro.

Scelta e corteggiamento negli esseri umani sono complessi, dice Dunbar, e passano attraverso diverse fasi di valutazione in cui ci chiediamo se andare più a fondo nella relazione; durante queste  fasi l’attrazione è sensibile al viso, al corpo, a codici sociali, fino ad arrivare al test del bacio che rappresenta già una fase più intima della valutazione.

Un altro dato significativo che emerge dalla ricerca è che l’importanza del bacio varia a seconda che le persone si trovino in relazioni a lungo o breve termine, in particolare le donne con relazioni a lungo termine lo hanno giudicato molto importante e questo suggerisce  che il bacio giochi un ruolo chiave come mediatore di affetto e attaccamento nelle relazioni stabili.

Nonostante il bacio aumenti l’eccitazione sessuale non sembra essere, invece, un elemento importante nello spiegare perchè ci baciamo nelle relazioni sentimentali.

Nelle relazioni a breve termine il bacio è stato considerato importante prima di un rapporto sessuale, meno durate e ancora meno dopo o in altri momenti. Nelle relazioni a lungo termine invece, dove il mantenimento del legame è un obiettivo fondamentale, il bacio era ugualmente importante prima del rapporto sessuale ma anche in situazioni non legate alla sessualità.
Ancora, baci frequenti, ma non rapporti sessuali più frequenti, erano legati a relazioni più soddisfacenti, anche quando questo non era preludio di un rapporto sessuale.

Per concludere un articolo apparso su Human Nature, in accordo con altri studi secondo i quali i cambiamento ormonali associati  al ciclo mestruale possono modificare le preferenze femminili per un potenziale compagno,  rivela che l’atteggiamento delle donne nei confronti del bacio romantico dipende dalla fase del ciclo mestruale in cui si trovano e dalla fase della relazione che stanno vivendo: il bacio è particolarmente valorizzato nelle fasi iniziali di una relazione e nella fase del ciclo in cui le probabilità di concepire sono maggiori.

Quando le probabilità di concepimento sono più alte le donne preferiscono uomini che mostrano segni di un buon corredo genetico: visi mascolini, simmetria facciale, dominanza sociale e compatibilità genetica; il bacio si rivela in questa fase un importante strumento di valutazione della qualità generica del partner.

LEGGI ANCHE:

SCELTA DEL PARTNER AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli sport di squadra #8: Il rapporto capitano-allenatore

Leadership negli Sport di Squadra #8:

Il rapporto capitano/allenatore

 

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli sport d squadra - parte 8. - Immagine: © frank peters - Fotolia.comIl rapporto tra allenatore e capitano e, cioè, tra leader istituzionale e leader intimo, risulta sempre essere un punto spinoso, la cui risoluzione può portare la squadra ad ottenere ottimi risultati e a lavorare compatta e unita per raggiungere il successo.

Se invece nasce un conflitto e una sfida aperta tra questi due ruoli chi ne risente sono tutti i membri del gruppo sia dal punto di vista prestazionale che da quello relazionale.

Secondo Mazzali [1995] il punto di vista, molto diverso, da cui allenatore e capitano osservano le relazioni interne alla squadra e le sue prestazioni, sono fonte di possibili malintesi nel momento in cui uno cerca di imporre le proprie idee all’altro. La visuale del capitano è interna e legata alla particolarità delle situazioni, quella dell’allenatore, al contrario è esterna e permetta un’analisi generale delle condizioni della squadra.

Risolvere questa relazione attraverso la supremazia di uno dei due leader non può che essere dannoso. Se soccombe il capitano, ne risentiranno tutti i giocatori che lo avevano eletto a quello status al fine di deresponsabilizzarsi. Nel momento in cui la sua posizione viene messa a rischio, tutta la stabilità e la sicurezza che il suo ruolo conferisce alla squadra inizia a perdersi. Se è l’allenatore ad uscirne sconfitto la leadership viene totalmente lasciata in mano ai suoi giocatori. Questa possibilità non è sicuramente più positiva della precedente. Senza la guida istituzionale, il capitano si trova in una posizione che non gli permette di fare delle valutazioni critiche e obiettive e non vi è più una figura forte in grado di sedare eventuali conflitti con gli outsider, i sindacalisti o con altri leader, i quali possono prendere tutta l’attenzione dei giocatori portando via impegno ed energie al raggiungimento degli obiettivi e alla prestazione. I risultati ottenuti in questo caso sono estremamente variabili e possono attraversare comunque periodi di successo, che non danno garanzie, però, sulla loro continuità futura.

Come si può risolvere questa situazione? La soluzione migliore proposta dall’autore è quella di costruire anche, e soprattutto, con il leader intimo un accordo che implichi l’investimento reciproco di fiducia l’uno nell’altro e che permetta di distinguere con chiarezza i diversi compiti e funzioni e di delineare i limiti del proprio campo d’azione.

Se quest’accordo viene sviluppato i risultati non solo eviteranno le dinamiche precedentemente esposte ma permetteranno anche di migliorare notevolmente sia la prestazione che la soddisfazione del gruppo. Questo perché i due ruoli risultano spesso complementari, dove uno non può carpire il problema o non può risolverlo direttamente, può farlo l’altro.

Per questo il buon allenatore sa farsi rispettare dal leader intimo, deve saper imporre la propria autorità, ma deve far di tutto perché il capitano lavori per la squadra dal momento che solitamente è sia uno dei giocatori più dotati, sia colui che gli altri atleti hanno designato come proprio punto di riferimento. Tutto ciò possibilmente evitando che si inneschino dei comportamenti di sfida tra loro.

 

LEGGI ANCHE:

PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI –  LEADERSHIP NELLO SPORT

 PSICOLOGIA DELLO SPORT

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dimmi come pensi e ti dirò che cervello usi!

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

“Top Brain, Bottom Brain: Surprising Insights Into How You Think”  questo è il titolo del nuovo libro di Stephen M. Kosslyn, professore a Harvard, e dello scrittore e sceneggiatore G. Wayne Miller.

Gli autori presentano una nuova teoria su come la predominanza del cervello non sia più destra o sinistra (emisferica)  ma coinvolga la parte alta e bassa del nostro cervello. Ci sono deiverse aree che entrano in sinergia dal basso o dall’alto dando origine a diversi modi di pensare, ad esempio l’utilizzo maggiore del cervello basso caratterizza uno stile più introverso, riflessivo; al contrario un uso esclusivo del cervello alto caratterizza una spiccata creatività.

Gli autori ne individuano 4:Dinamico , Riflessivo , Creativo ed Elastico.

Nonostante le grandi diversità dei 4 stili di ragionamento, nessuno è superiore all’altro, quindi non c’è necessità di nessuna “ginnastica” per migliorare il proprio modo di pensare/agire.  Gli autori per ogni tipo di pensiero ne sottolineano  le singole caratteristiche con  vantaggi e svantaggi  e ne delineano anche dei profili di personaggi famosi appunto per dimostrare quanto ogni stile di pensiero, quindi ogni interazione tra le diverse parti del nostro cervello, sia a sè e quanto potenziale è insito in ognuno di noi.
Sta a noi scegliere come sfruttarlo o come far pensare il nostro cervello al meglio.


Diventava importante evitare la distinzione destro/sinistro, analitico/intuitivo, logico/creativo. Volevamo analizzare in modo diverso come le diverse parti del cervello elaborano l’informazione. È sorta in me l’idea che il cervello, come un tutto, è un sistema integrato e dobbiamo considerare come le diverse parti interagiscono.

 

E tu di che cervello sei? Nuova teoria su come pensiamoConsigliato dalla Redazione

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche. Twitter: @stateofmindwj - State of Mind's Tweets Cover Image © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
Non più emisfero destro (creativo) e sinistro (logico): l’interazione sarebbe invece tra «basso» e «alto» (…)

 

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Le strategie di Coping e l’ottimismo – Psicologia

 

Le strategie di coping e l'ottimismo. -Immagine: © Rudie - Fotolia.comGli orientamenti più recenti considerano il coping come un processo che nasce da interazioni che superano o sfidano le risorse di un soggetto e che è formato da molteplici componenti, quali la valutazione cognitiva degli eventi, le reazioni di disagio, le risorse personali e sociali, etc.

La storia delle ricerche sul coping è contrassegnata dal continuo confrontarsi e alternarsi di due distinti approcci, uno che enfatizza il ruolo dei fattori disposizionali e l’altro che sottolinea invece il ruolo dei fattori situazionali.

Il coping, inteso come l’insieme di strategie mentali e comportamentali che sono messe in atto per fronteggiare una certa situazione, è stato tradizionalmente considerato come una caratteristica piuttosto stabile di personalità. In seguito le modalità di coping sono state analizzate come reazioni flessibili e mutevoli a sfide normative o a eventi di vita quotidiana stressanti.

Gli orientamenti più recenti considerano il coping come un processo che nasce da interazioni che superano o sfidano le risorse di un soggetto e che è formato da molteplici componenti, quali la valutazione cognitiva degli eventi, le reazioni di disagio, le risorse personali e sociali, etc.

Questi processi sono considerati ciclici e cumulativi, pertanto le diverse componenti si modellano reciprocamente nel tempo e gli esiti ottenuti di volta in volta influenzano il repertorio e le risorse di coping disponibili all’individuo per negoziare le successive interazioni e situazioni stressanti.

La prima generazione di ricercatori sul coping concentrò gli sforzi e gli interessi a identificare e studiare solo alcune risposte di coping di base, anche se potenzialmente ogni soggetto ha a disposizione un numero illimitato di strategie. In particolare furono identificate due dimensioni principali: le strategie centrate sul problema (problem-focused), quali ad esempio adoperarsi per modificare la situazione prevenendo o riducendo la fonte dello stress, e quelle centrate sulle emozioni (emotion-focused), volte a ridurre i disturbi affettivi e psicologici che accompagnano la percezione dello stress, come prendere le distanze dalla situazione, cercare un sostegno sociale. Un’ulteriore dimensione fu poi identificata, si tratta della strategia orientata all’evitamento (avoidance-oriented), che prevede comportamenti quali la fuga di fronte alla situazione stressante.

All’interno di questo quadro, una strategia di grande interesse riguarda il coping proattivo, attuato cioè prima di incontrare eventuali eventi stressanti.

Aspinwall e Taylor, nello specifico, hanno posto in evidenza che l’attuazione del coping proattivo ha importanti benefici per la persona, in quanto minimizza l’ammontare complessivo di stress che il soggetto potrebbe incontrare, aumenta il numero di opzioni possibili per affrontare una situazione e consente infine di preservare risorse personali, come tempo ed energia, agendo preventivamente.

Nonostante le controindicazioni che si possono verificare, per esempio l’evento stressante potrebbe anche non verificarsi mai, i vantaggi per chi mette in atto forme proattive di coping sono indubbiamente elevati. Il coping di tipo preventivo più efficace è sempre attivo, e può esprimersi sia con attività cognitive come la pianificazione, sia comportamentali, come l’intrapresa di un’iniziativa. Il grado in cui il coping proattivo può essere attuato è moderato dall’ambiente immediato e dal carico cognitivo che comporta, dall’esperienza passata e dalle opportunità avute in precedenza di esercitare l’abilità di questo tipo di coping. Questa prospettiva pone particolare attenzione sui due aspetti principali capaci di influenzare il coping e la gestione dell’attivazione emotiva.

Da un lato c’è il ruolo delle differenze individuali come l’ottimismo, la repressione o le credenze di controllo sugli eventi; dall’altro gli aspetti ambientali che rendono più o meno probabile l’apprendimento efficace e la realizzazione dei compiti proattivi, quali le risorse, le richieste e il carico cognitivo o il peso cronico. Ne emerge che quanto le persone imparano durante la gestione degli stress e come affrontano l’attivazione emozionale scaturita dalla percezione di un possibile evento negativo influenza le modalità con cui saranno affrontate le situazioni stressanti successive. Questa proposta di Aspinwall e Taylor punta inoltre a valorizzare il coping attivo. Infatti, mentre inizialmente il coping attivo era considerato positivo per gli eventi stressanti soggetti a cambiamento e il coping di evitamento era più utile nel caso di eventi incontrollabili, in realtà l’uso continuato di strategie di evitamento si rivela un fattore di rischio, in quanto non produce nuove informazioni sui problemi e compromette alcune risorse come il sostegno sociale.

Nell’ambito della psicologia del benessere, le strategie di coping messe in atto nell’affrontare gli eventi stressanti della vita quotidiana sono state approfondite con lo scopo di mettere in luce eventuali differenze tra ottimisti e pessimisti. In generale si potrebbe dire che l’esperienza affligge meno gli ottimisti rispetto ai pessimisti quando questi hanno a che fare con delle difficoltà nella loro vita.

Questo tipo di differenze non è solo dovuto al livello di ansia presente prima di incontrare una situazione stressante, bensì è principalmente dovuto alle diverse strategie che ottimisti e pessimisti mettono in atto nel far fronte agli eventi. Innanzitutto, le persone che hanno più fiducia nel futuro, come gli ottimisti, producono uno sforzo continuo, anche quando si trovano di fronte a gravi avversità. Viceversa, le persone più dubbiose e preoccupate nei confronti del futuro tendono a provare ad allontanare da sé o a evitare le avversità. In questo senso, i pessimisti tendono principalmente a compiere azioni che diano loro temporanee soluzioni o distrazioni, che in realtà non li aiutano a risolvere il problema. 

Sembrerebbe dunque che l’ottimismo porti a una più frequente focalizzazione sul problema, con un impegno prevalente di strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused.

Questa ipotesi, tuttavia, è stata confermata solo parzialmente sul piano empirico. Infatti, nonostante ci sia evidenza del fatto che i soggetti ottimisti ricorrano maggiormente a strategie problem-focused, in letteratura sono presenti anche ricerche che mettono in evidenza un’associazione tra ottimismo e strategie emotion-focused sia di segno positivo, sia di segno negativo.

Gli ottimisti dunque non solo usano strategie di coping centrate sul problema, ma anche differenti tecniche centrate sulle emozioni, inclusi gli sforzi per accettare la realtà di situazioni difficili e per metterle sotto la miglior luce possibile. Questo indica che gli ottimisti possono trarre dei vantaggi nel coping, rispetto ai pessimisti, anche nelle situazioni che non possono essere modificate.

Altri ricercatori hanno indagato le differenze nelle disposizioni in merito ai diversi stili di coping tra pessimisti e ottimisti. Come per gli stili situazionali, gli ottimisti mostrano una tendenza disposizionale alle risposte attive, al coping centrato sul problema e si dimostrano più portati alla pianificazione quando affrontano eventi stressanti. I pessimisti, invece, tendono maggiormente ad abbandonare l’obbiettivo che stavano perseguendo, con cui l’evento stressante interferisce.

Sebbene poi gli ottimisti si caratterizzino per la tendenza ad accettare la realtà, essi provano comunque a vedere il meglio anche nelle situazioni peggiori e a imparare sempre qualcosa anche dagli eventi stressanti. Al contrario, i pessimisti riportano la tendenza a rifiutare palesemente la situazione e ad abusare di sostanze: strategie che diminuiscono la loro consapevolezza del problema. Quindi, in termini generali, si può sostenere che gli ottimisti si caratterizzino principalmente per stili di coping attivi, laddove i pessimisti appaiono maggiormente evitanti.

Questi risultati sono stati anche confermati da una meta-analisi condotta da Nes e Segerstrom, la quale ha messo in evidenza come i soggetti ottimisti si distinguano dai pessimisti per l’impiego di modalità di regolazione attiva (approach coping), piuttosto che evitante (avoidance coping), differenza che si riscontra sia per le strategie problem-focused sia per quelle emotion-focused.

Altri studi hanno inoltre indagato il rapporto tra l’ottimismo e gli stili di coping in contesti specifici. Ad esempio, Strutton e Lumpkin hanno approfondito le loro ricerche nell’ambito lavorativo. Dai risultati da loro ottenuti è emerso che gli ottimisti sono soliti utilizzare strategie centrate sul problema, come la risoluzione diretta del problema, più dei pessimisti. Questi ultimi, ancora una volta, si sono invece caratterizzati per la messa in atto di strategie evitanti.

Tutti questi risultati sono in linea con il quadro concettuale dell’ottimismo disposizionale in cui le  aspettative positive portano a un maggiore coinvolgimento e a una maggiore persistenza nel raggiungimento dei propri obiettivi. Allo stesso modo, aspettative negative, come quelle dei pessimisti, conducono a un minore coinvolgimento e a una maggiore desistenza.

Queste associazioni emerse tra ottimismo e strategie di coping non sembrano essere dovute solo al modo in cui ottimisti e pessimisti valutano gli eventi. In questa ottica Chang ha recentemente esaminato l’impatto dell’ottimismo e delle valutazioni della situazione sulle strategie adottate nel fronteggiare uno stimolo stressante come un esame di ammissione a un corso. Nei casi da lui osservati, gli ottimisti non si distinguevano dai pessimisti nella valutazione primaria dell’evento, bensì nelle valutazioni secondarie. Gli ottimisti, cioè, percepivano l’esame come un evento maggiormente controllabile e i loro sforzi per tentare di fronteggiarlo risultavano più efficaci di quanto non fossero quelli dei pessimisti.

LEGGI ANCHE:

PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA STRESS – PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Scaramanzia & gesti superstiziosi: forma di evitamento?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Perché il rituale è stato efficace? Tutti i rituali superstiziosi condividono un ingrediente: implicano un’ azione di evitamento, cioè gesti che danno l’idea di allontanare qualcosa di cattivo da noi stessi.

La superstizione fa fare alla gente cose strane: toccare legno, o ferro, evitare gatti neri o scale aperte, e spesso anche chi razionalmente si rende conto che questi gesti non hanno davvero un effetto e un legame con il verificarsi o meno di certi eventi cede a piccoli rituali superstiziosi. Perchè? Perchè funziona!

Infatti “toccare ferro” anche se non ha un effetto sulla realtà che ci circonda, influisce sulle nostre convinzioni.

Pensare di essere fortunati, considerare, ad esempio, di non avere mai fatto un incidente, ci spinge inevitabilmente a considerare anche la sfortuna e l’eventualità che possa accadere e questo, inevitabilmente, ci fa entrare in uno stato di preoccupazione che certi gesti ci aiutano a placare.

In uno studio, che sarà pubblicato sul Journal of Experimental Psychology, i ricercatori hanno chiesto ad un gruppo di studenti universitari di dire ad alta voce “che sicuramente durante l’inverno non avrebbero fatto incidenti”; hanno poi confrontato le conseguenze psicologiche e comportamentali di questa “pericolosa” affermazione con quelle di un gruppo di controllo che non pronunciava la frase.

L’idea era quella che pronunciare la frase li avrebbe indotti in uno stato di superstiziosa preoccupazione, secondo il principio per cui vantarsi della fortuna attira la sfortuna. E così è stato, inoltre quando gli è stata data la possibilità di toccare il tavolo di legno davanti a loro, gli studenti che avevano pronunciato la frase, lo facevano con l’idea che questo esorcizzava la sfortuna che avevano attirato dichiarandosi immuni dalla possibilità di fare incidenti.

Perché il rituale è stato efficace? Tutti i rituali superstiziosi condividono un ingrediente: implicano un azione di evitamento, cioè gesti che danno l’idea di allontanare qualcosa di cattivo da noi stessi. I rituali aiutano a calmare la mente perché l’azione di evitamento in esso espressa probabilmente induce sentimenti, i pensieri e sensazioni che le persone normalmente sperimentano quando riescono ad allontanare qualcosa di sgradevole.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno chiesto a diverse persone di “toccare legno” con un gesto che implicava un’azione evitante, toccare il tavolo in alto con un gesto di allontanamento da sé stessi, o una che non implicasse un evitamento, cioè toccare il tavolo nella parte inferiore, verso sé stessi. Come previsto, il secondo gruppo, nonostante avesse avuto la possibilità di compiere un gesto scaramantico (toccare legno) non aveva avuto la sensazione che questo lo immunizzasse dalla sfortuna.

Successivamente i ricercatori hanno verificato se i gesti di evitamento avevano lo stesso effetto in situazioni non superstiziose. Invece di “toccare legno” dopo avere pronunciato la frase “sfortunata” i partecipanti del gruppo sperimentale dovevano tirare una palla, un’ azione  di evitamento ma non associata a un contesto superstizioso. Anche questo gesto ha avuto l’effetto di ridurre la preccupazione legata all’idea di avere attirato su di sé la sfortuna, e questo avveniva sia a nel gruppo sperimentale di chicago che in quello di singapore, cioè l’effetto era indipendente dalla cultura dei partecipanti.

Per concludere, se quasi ogni gesto può essere trasformato in un rito scaramantico, forse quelli che hanno più probabilità di essere usati sono quelli che riescono a farci sentire diversamente, e meglio.

LEGGI ANCHE:

EVITAMENTO

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Ritorna Psicologia Film Festival (PFF) di Torino: Sister, di Ursula Meyer

Ricomincia martedì 22 ottobre lo Psicologia Film Festival di Torino con la proiezione di Sister (2012). Sister 2012 - PFF

 


 

Sister (2012)

Recensione.Regia: Ursula Meier, Orso d’argento a BerlinoConsigliato dalla Redazione

Sister 2012 - PFF

Sister: “Il bambino abbandonato e la sua ferocia dolente”. Simon e Louise sono due personaggi tragici che vivono un mondo ai confini della strada, desolato e solitario, dove non c’è speranza di riscatto. (…)

Tratto da: State of Mind

 

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Musicoterapia: Cronaca di un’esperienza musicale inimmaginabile

 

…aprire le ali e come un gabbiano volare

nel cielo infinito senza più tornare

Il mondo è fuori, Solarium

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Inimmaginabile

A Villa Igea è stato presentato un CD contenente le canzoni nate nei laboratori di musicoterapia, dal titolo, appunto, Inimmaginabile.

Tutto ebbe inizio nel 2009 con il concorso musicale “Oltre il muro- Una canzone a trent’anni dalla Legge Basaglia”, organizzato insieme al Comune di Modena e dedicato alle canzoni che avessero come tema il disagio psichico.

Il concorso fu l’occasione per fare “uscire allo scoperto” gruppi musicali composti da utenti e operatori dell’Ospedale Privato Convenzionato Villa Igea di Modena, che utilizzavano lo scrivere canzoni come strumento riabilitativo, occasione per stare insieme in modo creativo e per esprimere con la musica quello che avevano dentro. Nel 2009 i primi gruppi a salire sul palco furono i Fermata Fornaci, formatisi al Day Hospital di Villa Igea, e i Darkiska (oggi diventati i Divo), nati presso la Semiresidenza psichiatrica Il Sole di Sassuolo. Da allora l’esperienza del songwriting riabilitativo è cresciuta anno dopo anno in senso quantitativo e qualitativo. Sono nati nuovi gruppi presso altre strutture come i Solarium, presso la Residenza a Trattamento Protratto Il Borgo, la Nespolo Band, presso l’omonima Residenza Psichiatrica per adolescenti, i Lunatici e i Sole Cantorum presso la Residenza La Luna e il Sole di Sassuolo.

InimmaginabileLa scorsa settimana il sogno è diventato realtà: a Villa Igea è stato presentato un CD contenente le canzoni nate negli anni nei laboratori di musicoterapia, dal titolo appunto “Inimmaginabile”. La presentazione del disco ha avuto luogo nel bel giardino della clinica, il luogo dove i pazienti solitamente passeggiano quando non ci sono attività nei reparti. La clinica è stata aperta a tutti per l’occasione ed è stato possibile visitare anche il Museo dell’albero della memoria, un singolare edifico costruito attorno a un albero, dove sorgeva la vecchia portineria.

Vi racconto qualcosa di più sui gruppi e sui loro coordinatori.

I Fermata Fornaci sono attualmente coordinati da Barbara Rosset, una cantautrice modenese che collabora con i Nomadi, per i quali ha scritto alcuni brani dell’ultimo disco. Barbara non aveva precedenti esperienze in ambito psichiatrico e all’inizio è stata affiancata dal sottoscritto nella conduzione del gruppo, insieme alle bravissime operatrici del DH. Con un grande talento compositivo e un entusiasmo contagioso, Barbara è stata determinante nella realizzazione del CD. Ha motivato benissimo il gruppo, ha insegnato esercizi di respirazione e tecniche vocali, ma soprattutto ha trasmesso il coraggio anche a chi non aveva mai cantato. Si è poi prodigata con musicisti professionisti per realizzare delle splendide basi, su cui il gruppo ha cantato in studio di registrazione. Barbara è la prova vivente di come una persona, anche priva di una formazione specifica, ma supportata da una buona equipe, possa trasmettere una passione a persone con gravi problemi psichiatrici, ottenendo risultati terapeutici importanti.

I gruppi della residenza e semiresidenza di Sassuolo sono coordinati da Tommy Togni, cantautore e attore modenese, autore del brano di successo di Irene Grandi “In vacanza da una vita“, altro grande artista prestato alla psichiatria. All’inizio ricordo che Tommy, anche lui alla prima esperienza nel mondo psichiatrico, era abbastanza spaventato all’idea di condurre un laboratorio di musica e teatro con pazienti psichiatrici. Sostenuto e guidato dall’equipe della psichiatra Lucia Zanni, ha fatto crescere ben tre band che scrivono canzoni e commedie teatrali, presentate a rassegne legate alla salute mentale (Settimana della Salute Mentale, Festival delle Abilità Differenti, Feste dell’Associazione Famigliari) e non (Settembre Formiginese). I brani composti dai gruppi di Sassuolo sono stati cantati e interpretati dagli utenti, accompagnati alla chitarra da Tommy.

L’ultimo arrivato nel fecondo laboratorio artistico di Villa Igea è il mio “socio” Cristian Grassilli, che è psicoterapeuta e musicoterapeuta, oltre ad essere ovviamente cantautore superbo (già autore, insieme al sottoscritto, per Francesco Guccini) e che ha dato vita alla Nespolo band e ai Solarium. Cristian ha registrato le basi musicali su cui hanno cantato i gruppi.

L’esperienza in studio di registrazione è stata esaltante per utenti e operatori, che hanno avuto occasione di scoprire un luogo nuovo in cui si sono trovati subito a proprio agio. E’ ormai assodato che quando i nostri pazienti si sperimentano in contesti lontani dai luoghi di cura e riabilitazione funzionino meglio, vincendo quella che Franco Basaglia chiamava “malattia da istituzionalizzazione” e mostrando parti di sè inaspettate e inimmaginabili.

Inimmaginabile La presentazione del CD è stata una vera festa, con centinaia di partecipanti. Sono venuti tanti gruppi di pazienti di altre strutture, accompagnati dagli operatori, insieme a famigliari, autorità locali, studenti e semplici curiosi. Quasi tutti gli utenti presenti sono transitati in passato da Villa Igea, come tappa del proprio percorso di cure. Alcuni nel frattempo sono guariti, altri hanno fatto passi avanti significativi, ed è stato bello riincontrarsi in un’occasione così positiva.

Il concerto è stato l’occasione anche per scoprire le qualità artistiche di alcuni operatori, come quelle di un nuovo medico del Day Hospital, che ha accompagnato magistralmente i Fermata Fornaci alle percussioni. L’impianto audio non era il massimo, ma “fortunatamente” la mattina stessa era stato ricoverato un fonico nel reparto dove lavoro, che, con grande disponibilità, si è messo al servizio dello show. Potere del rock and roll…

Le protagoniste assolute sono comunque state, come sempre, le canzoni, i cui testi, a tratti ironici a tratti struggenti, non hanno niente da invidiare alla migliore tradizione cantautorale italiana.

Tra i brani divertenti vale la pena citare una parodia de Il leone si è addormentato, che diventa Te un rimbambì, con protagonista lo strizzacervelli “Lo psichiatra si è addormentato, gli han dato lo Xanax, è un rimbabì, è un rimbambì…”.

Tra i pezzi poetici Vivere l’alba recita “scriverò le mie paure per dire ciò che ho dentro, a chi non vuol sapere se c’è il sole o pioggia intorno a sé”.

Per chi fosse interessato ad ascoltare l’intero CD, è disponibile gratuitamente contattando l’Ospedale Privato Villa Igea (www.villaigea.it).

 

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REPORT DEL CONGRESSO “QUALE MUSICOTERAPIA PER LA SALUTE MENTALE?”

 

Shocking Truth: le verità sulla Pornografia e le storie di Abuso

Shocking truth . - Immagine: ©chrisdorney-Fotolia.comShocking Truth (Verità sconvolgente) è un documentario della regista svedese Alexa Wolf sul mondo della pornografia  ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso.

Presentato al Parlamento svedese nel 2000 nell’ambito di un dibattito sulla libertà di espressione nella pornografia è quasi introvabile, ma ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso, che, nella sua espressione più estrema, viene paragonata a un luogo di abuso e tortura legalizzati, non poi così diversa da quella illegale e proibita degli snuff movies.

Shocking Lies: Sanningar om lögner och fördomar i porrdebatten (“Menzogne sconvolgenti: Verità, bugie e pregiudizi nei dibattiti sul porno“) è un’antologia, pubblicata a pochi mesi di distanza dal documentario, che raccoglie contributi sull’argomento di diversi giornalisti e persone legate al mondo del porno.

Isabelle Sorente, laureata in fisica all’école Polytechnique, romanziera e autrice di teatro, racconta, con un linguaggio forte, tanto quanto le immagini del film, le verità sconvolgenti che si celano dietro all’abile lavoro di montaggio dei filmati porno, in cui giovani donne si sottopongono a tour de force sessuali con centinaia di uomini in poche ore. Sanguinamenti, lesioni interne, gravi danni fisici permanenti, l’impossibilità di interrompere le riprese (interrotte, a volte, solo grazie all’arrivo della polizia) sono solo alcuni dei dettagli che vengono nascosti al pubblico in fase di montaggio; la Sorente va oltre, e si chiede chi siano queste donne e questi uomini, raccontandoci un universo disumanizzato in cui il piacere della sessualità è del tutto assente e la libertà di scelta una bugia sulla quale si erge l’intero sistema.

Il vero protagonista non è il piacere, ne l’erotismo, ma l’abuso, fisico, sessuale, psicologico, spesso subito nell’infanzia e nell’adolescenza, ripetutamente, fino a diventare l’unica realtà possibile, inevitabile, fino a sembrare addirittura desiderabile.

Alcune ricerche hanno dimostrato che il 75% delle prostitute sono state vittime, nella loro infanzia, di abusi sessuali.

La vergogna, l’umiliazione, il sentimento e la paura di non valere nulla, di non essere nulla se non una cosa da usare per dare piacere (piacere?) modellano il senso di identità di queste donne che, lungi dall’aver mai sperimentato una qualche forma di protezione, non possono far altro che rivivere all’infinito le violenze subite, raccontando a loro stesse che è proprio quello che desiderano e che hanno scelto liberamente di fare.

La denuncia della Sorente è sopratutto sociale, quella di un sistema (capitalista) in cui, in nome del libero mercato e della libertà di scelta e di espressione, queste vittime sono lasciate a sé stesse, libere (libere?) di verificare fino a che punto si può arrivare: dov’è il fondo? Fino a dove la violenza e l’annichilimento del sé possono arrivare? C’è un limite oltre al quale questo diventa insopportabile? La maggior parte delle attrici che arrivano alla zoofilia (rapporti sessuali con animali) si suicida, ci racconta la Sorente.

Si parla tanto di abuso e maltrattamento infantili e dei devastanti effetti di questo tipo di trauma sulla personalità adulta, ma quanto ci è possibile associare questo trauma alla sessualità della pornografia, della prostituzione o più in generale a una certa voracità sessuale cosi valorizzata nella nostra moderna e disinibita società?

La neuropsicofisiologia ci dice che la sessualità è un complesso evento psicofisico che non ha a che fare solo con il corpo ma che concerne le esperienze relazionali, la comunicazione intima, lo sviluppo affettivo e cognitivo, le memorie implicite (Imbasciati e Buizza 2012). La sessualità dunque è primariamente un’ emozione che ha carattere relazionale e che è correlata alle prime esperienze di attaccamento, in cui il corpo fa da mediatore con l’ambiente esterno.

Violenza fisica e sessuale, maltrattamenti, trascuratezza emotiva sono gli ingredienti che fanno da sfondo all’alessitimia post-traumatica che apre la strada alla sessualità compulsiva, in cui gli aspetti dolorosi dei traumi originari rimangono dissociati e l’atto sessuale stesso diviene il tentativo disperato di evitare un legame emotivo con la dolorosa realtà interna ed esterna (Craparo, 2013).

Se l’orrore dell’abuso infantile non può essere pensato, sentito, nominato, mentalizzato (Fonagy et al. 2002) condannando chi ne è vittima a un dolore somatopsichico soverchiante e alla messa in atto di condotte compulsive, forse il primo passo che possiamo compiere è proprio quello di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.

 

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 SESSO – SESSUALITA‘ – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE

ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA

MEMORIE TRAUMATICHE E MENTALIZZAZIONE (2013) – RECENSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Assisi 2013 – L’Acquafobia e Le Cognizioni Di Mantenimento

Barbara Postal

L’Acquafobia e Le Cognizioni Di Mantenimento

B. Postal, G. Caselli

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

 

Come viene definita l’acquafobia? L’acquafobia fa parte delle fobie specifiche del sottotipo “ambiente naturale”. Come tutte le fobie, la paura varia da persona a persona. L’acquafobia, anche nota con il nome di talassofobia, è la paura di immergersi in acqua ed è anche inquadrata come paura di nuotare. Nella ricerca qui rappresentata con acquafobia si intende la paura di nuotare da soli in acqua profonda.

Attraverso il portale online “Surveymonkey” si è approntato un questionario per misurare l’acquafobia e le cognizioni collegate. Il questionario è stato inviato a più di cento persone, con l’ipotesi di diagnosi di sofferenza da acquafobia.

Il questionario era composto dai seguenti elementi:

1) Il FSS-II i cui item includono situazioni ansiogene relative agli animali, situazioni sociali, lesioni e morte, oggetti, suoni e altre situazioni, come l’acquafobia. L’acquafobia viene colta con 3 item: item 25 (“nuotare da soli”), item 34 (“stare su una barca”) e item 46 (“acqua fonda”). Per la ricerca qui rappresentata si è tenuto conto solo degli item 25 e 46.

2) L’ACS misura le credenze sugli stati emotivi. Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala a)la paura dalla paura.

3) Il FDS-R è un questionario “self-report” il quale dà accesso alle credenze dell’intolleranza alla frustrazione. Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala “intolleranza delle emozioni”.

4) L’ACQ aiuta a misurare meglio il controllo percepito sulle reazioni emozionali e sulle minacce esterne, che hanno una rilevanza diretta per i disturbi d’ansia; è composto da 30 item. 16 item misurano il fattore “eventi esterni” e 14 item il fattore “reazioni emozionali interne”.

5) Lo STAI le qui scale servono al rilevamento della paura come “stato” (“State- Anxiety”) e la paura come tratto (“Trait-Anxiety”). Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala che rileva la paura di “stato”. La domanda iniziale è stata modificata, così da riferirsi ai momenti nei quali la persona testata si trova nell’acqua profonda.

76 persone hanno risposto al questionario, delle quali 28 maschi e 48 femmine. Per l’analisi dei dati sono stati selezionati i soggetti che avevano risposto agli item 25 (“nuotare da soli”) e 46 (“acqua fonda”) del FSS-II con uno score superiore a 4. Trentacinque soggetti hanno fatto parte di questo gruppo (chiamato in seguito “gruppo acquafobia”).

Con l’ipotesi 1 si intendeva dimostrare che le persone affette da acquafobia sono più ansiose rispetto a quelle che non ne soffrono. Il “gruppo acquafobia” è stato confrontato con il resto del campione. Non si è usato il cut-off dello score totale del FSS-II (≤ 118 nelle donne e ≤ 93 negli uomini), ma sono state confrontate le medie. Così si è potuto osservare se il “gruppo acquafobia” avesse punteggi significativamente più alti del resto del campione. L’ipotesi è stata confermata. Il campione del “gruppo acquafobia” è stato confrontato con tutti i questionari usati nel questionario approntato.

Dalla “tabella 1” si nota che il “gruppo acquafobia” ha punteggi significativamente diversi in tutti i totali.

Controllando le medie, i punteggi del “gruppo acquafobia” sono più alti in tutti i questionari, tranne nelle scale “e” (controllo tramite episodi esterni) e “r” (controllo tramite reazioni interne) dell’ACQ, nel quale i punteggi sono più bassi.

Con l’ipotesi 3 si è inteso dimostrare che il “gruppo acquafobia” avesse uno score più alto nell’anxiety-scale dell’ACS, che significherebbe che queste persone hanno un’alta paura della paura. Anche questa ipotesi è stata confermata, così come le ipotesi 5 e 7 (tabella 2). Con l’ipotesi 5 si intendeva dimostrare la difficoltà nella gestione delle emozioni da parte delle persone affette da acquafobia.

Con l’ipotesi 7 si intendeva dimostrare che le persone del “gruppo acquafobia” manifestassero un’alta intensità della tensione, della preoccupazione, della nervosità, dell’irrequietezza interiore e della paura degli eventi futuri. Il “gruppo acquafobia” dimostra quest’alta intensità pensando a momenti nei quali si trova nell’acqua profonda.

L’ipotesi 8 chiede cosa predice di più la tensione provata nuotando nell’acqua profonda, così come misurata dallo STAI-X1. Si è verificata una regressione in tutti i punteggi e lo STAI-X1 come variabile dipendente. Confrontando questi valori al netto degli altri si nota quali siano i più forti predittori dello STAI-X1. Gli unici predittori significativi sono l’ACQ scala “e” e l’ACS anxiety-scale. Vale a dire che queste variabili predicono il livello di ansia provato nuotando in acqua profonda al netto delle altre dimensioni.

Con l’ipotesi 2 si intendeva dimostrare che persone affette da acquafobia soffrono anche di un’intensa paura dell’altezza. Per confermare quest’ipotesi sono stati individuati i soggetti che soffrono di paura dell’altezza (punteggi ≥ 4 nell’item 23 “l’alto”). Anche qui la differenza è significativa. Significa che persone affette da acquafobia tendono ad avere anche più paura dell’altezza. Nella tabella 3 si nota che l’indice di correlazione su tutto il campione è più alto con l’item 25 (“nuotare da soli”).

Con l’analisi dell’ipotesi 4 si è potuto dimostrare soltanto che il “gruppo acquafobia” avesse la credenza di comportarsi male o fare brutta figura nei momenti d’ansia. L’ipotesi che questo gruppo abbia la credenza di nutrire poca fiducia in se stessi, ovvero di essere in grado di controllare la propria paura, non è stata confermata.

Poiché si è potuta confermare solo in parte l’ipotesi 4, l’analisi sull’ipotesi 6 più dettagliata non si è potuta svolgere. Tuttavia il confronto tra i due gruppi con l’ACQ si nota nelle tabelle 1 e 2. In effetti, vi si può notare che il “gruppo acquafobia” ha una percezione di controllo più bassa in entrambe le scale dell’ACQ (scala “e” e scala “r”).

Questa ricerca rappresenta un primo tentativo di capire meglio questa fobia specifica chiamata “aquafobia”. In parte si è riusciti a raggiungere questo obiettivo, c’è però ancora spazio per allargare questa ricerca.

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ASSISI FORUM SULLA FORMAZIONE IN PSICOTERAPIA – ANSIA – PAURA

Genetica e soddisfazione coniugale

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori della University of California Berkeley e della Northwestern University  hanno scoperto una correlazione significativa tra la variante di un gene, l’allele 5 – HTTLPR, e la soddisfazione coniugale.

Una vita di coppia carica di emozioni negative e di poche positive sembrerebbe il requisito fondamentale dell’insoddisfazione coniugale, ma non per tutti è così; alcune persone infatti sono meno sensibili di altre al clima emotivo di coppia, positivo o negativo che sia, e la loro soddisfazione in coppia sembra non essere particolarmente influenzata né dalla positività né dalla negatività delle emozioni sperimentate. Perchè?

I ricercatori della University of California Berkeley e della Northwestern University hanno cercato di rispondere a questa domanda e hanno scoperto una correlazione significativa tra la variante di un gene, l’allele 5 – HTTLPR, e la soddisfazione coniugale.

Tutti gli esseri umani ereditano una copia di questa variante da ciascun genitore ed è la lunghezza dell’allele ad essere associata a una maggiore o minore soddisfazione coniugale.  Lo studio longitudinale ha monitorato oltre 150 coppie sposate da più di 20 anni: i ricercatori hanno osservato sia i genotipi che l’interazione tra i partners, ogni 5 anni. I risultati indicano che gli individui con due alleli corti del gene riferivano maggiori emozioni negative e insoddisfazione (rabbia,  disprezzo, e maggiore infelicità in presenza di emozioni positive) in relazione alla vita di coppia, rispetto a quelli con uno o due alleli lunghi che erano, invece, molto meno sensibili al clima emotivo dei loro matrimoni.

Inoltre la correlazione tra geni, emozioni e soddisfazione coniugale è stata particolarmente pronunciata negli adulti più anziani: durante l’infanzia e la vecchiaia infatti siamo più sensibili alle influenze genetiche. 

I  risultati, specificano i ricercatori, non indicano che i coniugi con diverse varianti di 5 – HTTLPR sono incompatibili, ma suggeriscono che quelli con due alleli corti hanno maggiori probabilità di prosperare in un buon rapporto e soffrire in uno cattivo.

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AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIGENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

La donna perfetta (The Stepford Wives) – Cinema & Psicoterapia #11

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #11

La donna perfetta (The Stepford Wives) (2004)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

La donna perfetta (The Stepford Wives) (2004). -Immagine: Locandina

Un perfezionista pensa di meritare attenzione e amore solo se è perfetto e per questo controlla che tutto lo sia, teme che l’errore possa portare a sminuire i risultati fissati ed è molto esigente con se stesso e con gli altri. È critico se gli standard non sono raggiunti e, se vengono raggiunti pensa, spesso, che il compito era troppo facile. 

Info:

È un film diretto da Frank Oz, interpretato da Nicole Kidman, Glenn Close, Christopher Walken, Matthew Broderick. USA 2004. Commedia. Il film è tratto dal romanzo La fabbrica delle mogli di Ira Levin.

Trama: 

Joanna, manager televisiva, viene licenziata, si deprime e quando esce dalla clinica in cui si è curata il marito Walter le comunica che si è anch’egli licenziato dalla televisione dove entrambi lavoravano e di voler salvare il loro matrimonio in crisi.

Si trasferiscono a Stepford, una cittadina in cui le mogli sono perfette: belle, casalinghe ineccepibili, fanno “sesso alla grande e con i loro mariti!”. I due protagonisti scopriranno che tutte le donne sono state trasformate in robot. L’artefice di tutto è  Claire, chirurgo neurologico di fama mondiale che, tornata a casa dopo l’ennesima giornata di lavoro, uccide il marito e la sua amante, e decide di creare Stepford.

Motivi di interesse:

Cara mi lucideresti le scarpe per domani? Certamente! Scusa, hai cucinato quel manicaretto che mi fa impazzire? È quasi pronto. Io esco con gli amici, ci vediamo dopo. Divertiti!

Un sogno? No, Stepford.

Il film propone un mondo perfetto dove tutti sono come gli altri vogliono. La compiacenza e l’accondiscendenza caratterizzano l’atteggiamento di queste mogli perfette che stupiscono per la loro abnegazione verso i mariti. Joanna chiede se i robot sanno anche dire “ti amo, ma con sentimento”. La donna perfetta è quello che si può considerare un vero e proprio attacco ad un modello culturale che ha nella televisione il mezzo di diffusione più importante. In questo senso è interessante un dialogo tra due protagonisti:

Tutte le donne di questa città sono perfette e sensuali gatte morte, tutti gli uomini degli sfigati bavosi. 

Non è una cosa un po’ strana? 

Non per me. 

Perché no? 

Lavoro in televisione”.

Il perfezionismo è un costrutto implicato nei disturbi del comportamento alimentare, ma anche nei disturbi d’ansia e nella depressione.

Un perfezionista pensa di meritare attenzione e amore solo se è perfetto e per questo controlla che tutto lo sia, teme che l’errore possa portare a sminuire i risultati fissati ed è molto esigente con se stesso e con gli altri. È critico se gli standard non sono raggiunti e, se vengono raggiunti pensa, spesso, che il compito era troppo facile. 

A Stepford tutti hanno ciò che vogliono, l’apparenza copre il non essere, un mondo artificiale e privo di umanità, dove si ricostruiscono donne e uomini per soddisfare il proprio desiderio di avere ciò che si sogna. La perfezione, però, non esiste e la spirale fatta di aspettative frustrate e di persone che non fanno e non dicono mai ciò che vorresti, riappare immancabilmente. Alla resa dei conti, quando nemmeno il telecomando per le mogli funziona più, Joanna svela di non essere mai diventata un robot e che Walter la stava aiutando a porre fine a quell’incubo.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film offre importanti spunti di lettura e di discussione su alcuni processi e costrutti implicati in alcuni disturbi d’ansia, nei disturbi del comportamento alimentare e nella depressione: perfezionismo, bisogno di controllo, autostima, atteggiamento compiacente, separazione e individuazione, autonomia e indipendenza.

 

Trailer

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PERFEZIONISMOANSIADEPRESSIONE DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE -ED

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 3

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 3

Prime interazioni e analisi del movimento nel caso di L.

LEGGI: PARTE 1PARTE 2

 

Il gemello sacrificato - parte 3. - Immagine: © andreyfire - Fotolia.comDal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – Il lavoro dei Danzamovimento terapeuti per un’analisi delle prime interazioni e del movimento del bambino.

Quando lo vedo arrivare nel corridoio accompagnato dal papà e quando in palestra mi sta di fronte rigido e chiuso nella sua giacca a vento, noto che l’effort1 del peso2 non è mai interamente attivato, e prevale in sua sostituzione il flusso di tensione muscolare3 tenuto ad alta intensità4. Mentre sta in piedi, con le braccia lungo il corpo, studiandomi e raccontandomi le sue fantasie, L. congela il movimento e il respiro, e mantiene un flusso di forma5 chiuso e ristretto.

Secondo Judith Kestenberg il flusso di forma chiuso ha a che fare con un disagio nei confronti dell’ambiente circostante, il quale non favorisce la motivazione a gettare un ponte fra sé e il mondo. Osservo che, qualunque cosa faccia, manca in L. la connessione col centro del corpo, e, ancor prima, col respiro6, che non può sostenere le altre azioni. Il flusso di tensione muscolare tenuto non gli permette di allargare la forma del corpo, come se creasse una vera e propria seconda pelle (Bick 1968). Ciò suggerisce la mancanza di un oggetto interno contenitivo e l’ ansia per non potersi lasciare andare all’aiuto e alla disponibilità emotiva degli altri.

Un obiettivo di lavoro nella prima fase della terapia riguarda la costruzione di una relazione che diventi una pelle mentale per L., che gli permetta di interiorizzare il nostro appuntamento come uno spazio-tempo in cui poter stare in presenza di un adulto interessato e partecipe, che riconosca e contenga la sua parte deprivata, facendogli sentire accolta la totalità del suo essere.

Questo tipo di relazione permette una regressione terapeutica (Winnicott, Kohut), che favorisce la sperimentazione di oggetti Sé empatici, riducendo nel paziente la scissione verticale che lo divide fra aspetti di grandiosità e sensazioni di vuoto e inibizione, in modo da integrarli nella totalità del Sé.

Inoltre, salta subito all’occhio uno scarso utilizzo della cinesfera7: L. è spesso confinato nel suo spazio intimo8, da cui a volte esce improvvisamente per mimare calci e pugni allo specchio indirizzati a “rivali”, o per ripropormi le coreografie dei suoi eroi del wrestling. Quando si dedica a tali movimenti di apertura, predomina il pre-effort9 della repentinità10: in quella situazione il corpo “si scompone”, per cui, invece che sferrare calci e pugni come vorrebbe, gli arti “esplodono” fuori dalla cinesfera intima, perdendo ogni coordinazione.

Gli manca quindi una vera e propria gestualità direzionale11 che parta dal centro del corpo e vada verso l’esterno; non è in grado di attivare efficacemente la connessione nucleo-distale12. Nei suoi gesti e movimenti non riesce a esprimere l’intenzionalità di andare verso lo spazio, gli oggetti e le persone per prendere o raggiungere ciò che desidera.

Judith Kestenberg (Kestenberg 1975) descrive il neonato come impegnato, nei primi mesi, a formare un suo guscio di tensione muscolare esterna per sentire nel corpo la differenziazione dalla madre; in questa condizione, il piccolo, intento ad acquisire il controllo sul restringersi e l’espandersi, sul mantenere una tensione corporea costante e sul riadattarla nei suoi spostamenti, crea una prima relazione direzionale quando comincia ad afferrare gli oggetti.

II desiderio di prendere oggetti distanti lo spinge fuori dal centro del corpo, verso lo spazio, per raggiungerli.

Sebbene abbia constatato l’incompleta attivazione dell’effort del peso, scorgo in questa sua posizione eretta, stazionaria, rigida, un tentativo di mantenimento dell’atteggiamento corporeo tipico del bambino nella fase anale dello sviluppo psicosessuale (Kestenberg 1975). In questa fase l’attenzione del bambino è molto concentrata sulla parte inferiore del corpo, perchè deve imparare a stare in piedi; l’esplorazione e il mantenimento della posizione eretta dà al piccolo la sensazione di essere “tutto di un pezzo”, un solido muro verticale che si oppone alla gravità. In effetti L. raramente cammina per la stanza, più che altro sta fermo o al massimo passa il peso da un piede all’altro, o fa pochi passi avanti e indietro o lateralmente, esibendo ritmi ora anali lottanti, ora genitali interni13; in tutto ciò le braccia sono sempre piegate strette vicine al busto, o, più spesso, lungo il corpo, ciondoloni.

Nell’intento di accogliere il bambino e di farlo sentire visto e sostenuto, in un primo momento sono ricorsa, nel modo di stare in piedi o seduta, di muovermi, di parlare, di ascoltarlo, soprattutto al rispecchiamento e alla sintonizzazione sui ritmi, le intensità e le forme del corpo di L.14. Ad esempio: durante i suoi racconti fantastici mi mettevo di fianco a lui e ne imitavo il ritmo con cui passava il peso da un piede all’altro; oppure stavo seduta di fronte a lui raggomitolata, anche io in un flusso di forma chiuso, dondolandomi al ritmo dei suoi spostamenti di peso. A volte gli proponevo attività ispirate alle arti marziali, modulando il movimento e suggerendo la sperimentazione di una maggiore pienezza dei movimenti del calcio e del pugno da lui ricercati.

Tutte le volte che lo rispecchiavo con troppa precisione, o quando gli proponevo di muoverci insieme, cioè di “negoziare” i suoi movimenti coi miei, cadeva nel flusso neutro15, deanimandosi come una bambola di pezza, con lo sguardo perso nello spazio remoto16. Nei bruschi cambiamenti degli attributi del flusso di tensione17 ora descritti, ho potuto vedere come, nel corpo, L. esprimesse uno scollegamento fra l’immagine irrealistica e fantastica di sé e il reale vissuto corporeo. L., infatti, sentiva l’impulso di passare bruscamente dallo stato di ritiro e chiusura descritto, ad azioni che avrebbero richiesto l’attivazione della connessione corporea omolaterale e controlaterale18, necessaria per sferrare un pugno o un calcio efficaci e credibili. Lo scomporsi del suo movimento quando tentava un aggancio “reale” agli spericolati atti che mi descriveva, non davano la sensazione di un movimento espressivo e compiuto, diretto a un fine, come avviene quando gli effort descritti da Laban si esplicano nella loro pienezza. L’uso frequente del pre-effort della repentinità, legato ad azioni che si svolgono prevalentemente su un piano sagittale19, indica, secondo Kestenberg, uno stato di allerta permanente, un essere pronti all’attacco e alla fuga come difesa controfobica20.

Il non avere raggiunto la capacità di usare effort pieni denotava una scarsa padronanza degli schemi di movimento che permettono di affrontare la vita quotidiana; il wrestler alle prese con le sue micidiali coreografie lottanti, il karateka che esegue (termine) i suoi kata con efficacia e convinzione di combattente, erano solo ideali per L., che sferrava calci e pugni davvero poco realistici.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2

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LA SINGOLARITA’ COME MATRICE DI DIFFERENZE: TEORIA DEL BIG BANG E FUNZIONE RELAZIONALE DEL SINTOMO

 

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NOTE

1Nella LMA il termine effort indica la manifestazione dinamica nel movimento, originata da un impulso interno e visibile all’esterno in rapporto alla forza di gravità (peso) e alla gestione attiva dello spazio e del tempo.

2Riporto la chiara spiegazione di Katya Bloom: <<L’ effort del peso, designato come forte o leggero, riguarda la sensazione fisica del corpo stesso e la sensibilità tattile. Rendendo conscio questo aspetto dell’esperienza, secondo Laban, sviluppiamo una intenzione con cui operare, fare qualcosa col corpo. (…) L’elemento del peso, quindi, è legato al senso di efficacia e di attività, alla capacità di esercitare un impatto, oltre che di essere in-formati. Un senso di presenza tridimensionale ci mette a disposizione un luogo a partire dal quale provare sensazioni, vedere o pensare.>>(Bloom 2006, p. 37).

3<<L’elemento del flusso (libero o tenuto/legato) riguarda il controllo o la libertà dei sentimenti che si esprimono nel movimento. Quando ci sono carenze nell’ambiente primario, o quando il bebé è estremamente sensibile ai fattori di disturbo affettivo, le sue reazioni possono essere caratterizzate da un flusso legato. Intendo con questo le strategie per la regolazione e il controllo degli affetti di fronte a sentimenti arcaici che chiamano in causa il terrore dell’estinzione. (…) Naturalmente questi sentimenti primitivi che ho ricondotto all’elemento del flusso non sono circoscritti alla prima infanzia. Le carenze dell’ambiente originario lasciano in qualche misura l’impronta sull’esperienza successiva di tutti noi, ma se son state gravi e durature avranno probabilità molto maggiori di essere riattivate in momenti di stress e di trauma durante tutto il corso della vita.>> (Bloom 2006, pp. 91, 92).

4Il flusso tenuto di tensione muscolare è legato secondo la LMA e il KMP alla relativa libertà o restrizione del flusso del respiro e dell’energia, della forza vitale del corpo; ha a che fare col controllo muscolare dei confini del corpo, dei sentimenti, del vissuto corporeo e delle emozioni. In questa modalità non si esprime né si riceve un messaggio affettivo, ma si comunica all’altro di non avvicinarsi, rinunciando così a entrare in contatto (Govoni 2012).

5Nel KMP il flusso di forma è il fattore di base del movimento, è <<la forma del corpo che cambia e si muove adattandosi, sia rispetto a se stessi, che all’ambiente esterno>>. La respirazione polmonare è anche il primo movimento verso la relazione con l’ambiente esterno, e plasma uno spazio interno tridimensionale. Il neonato dapprima apre e chiude la propria forma corporea per respirare e per assecondare le sensazioni interne e raggiungere uno stato di comfort. L’esperienza del flusso della forma nutrita dal respiro, crea una prima connessione con la differenziazione del sé dalla madre: così il bambino sperimenta l’allargamento e il restringimento della forma corporea anche in relazione allo spazio che lo accoglie, facendo una prima esperienza dei propri confini. Il neonato sostenuto dall’abbraccio della mamma, cede il suo peso e si aggiusta nella forma. La madre cerca di sintonizzarsi con il respiro e con il peso del bambino dando origine così ad un legame e ad un rapporto di fiducia.

6Bartenieff/Hackney descrivono il respiro come il fattore-base del movimento, il primo atto con cui nasciamo alla vita: il respiro è cellulare e polmonare fa sì che sperimentiamo il senso di pieno e vuoto, e una forma primaria di tridimensionalità; è la percezione di base per la fiducia nell’esserci.

7Nella LMA la cinesfera è lo spazio che circonda il corpo, direttamente raggiungibile dal soggetto, in cui vengono descritti i tracciati di movimento in dimensioni, piani, diagonali, in relazione al centro di gravità del corpo.

8Nella LMA è l’area della cinesfera più contigua al centro del corpo.

9 Secondo Judith Kestenberg gli effort di Laban hanno nello sviluppo una funzione adattativa, vengono usati per cooperare col mondo esterno; i precursori degli effort, o pre-effort sono invece collegati al flusso di tensione e sono i principali mezzi motori dei meccanismi di apprendimento e difesa; mediano fra l’Es e l’Io. Si veda R. M. Govoni, Danza: linguaggio poetico del corpo e strumento di cura, pagg. 71, 72.

10Nel KMP il pre-effort della repentinità corrisponde a uno stato di all’erta, ha a che fare con difese di tipo attacco-fuga, del “buttarsi” a fare qualcosa, degli acting-out, e si esplica principalmente nel piano sagittale (salto, corsa, pugno, calcio, strisciare…); a questo pre-effort è collegato il processo cognitivo dell’apprendimento tramite intuizione.

11Nel KMP la gestualità direzionale è quella che si dirige dal centro del corpo al suo esterno, direzionata verso qualcosa, per entrarvi in relazione. I movimenti direzionali possono essere spoke-like (a una dimensione, dritti), ark-like (a due dimensioni, curvi, ad arco) e carving (scolpire lo spazio, tridimensionali).

12Nello studio sulle connessioni corporee Bartenieff/Hackney, la connessione nucleo-distale (o irradiazione ombelicale) comprende lo sviluppo del sostegno del nucL. interno del respiro e dei muscoli/ossa interne del corpo in relazione con il movimento di ciascun arto verso l’ambiente.

13Nel KMP i ritmi del flusso di tensione muscolare denotano il flusso continuo fra tensione e rilassamento dei muscoli Essi si organizzano il modo in cui l’essere umano organizza i suoi impulsi energetici, che si manifestano attraverso variazioni toniche. <<Questi ritmi si definiscono come combinazioni di ritmi più semplici essenziali, sia per certi tipi di compiti sia per funzioni fisiche elementari. Ritmi specifici si associano alle seguenti azioni: 1) succhiare, mordere, 2) tendere, torcere, 3) correre, fermarsi, 4) ondeggiare, oscillare, 5) saltare, balzare. (…) Ciascuno di questi ritmi può essere classificato anche secondo le corrispondenti fasi e zone libidiche. Così: 1) succhiare e mordere sono attività della fase orale, 2) tendere e torcere appartengono alla fase anale, 3) correre e fermarsi alla fase uretrale, 4) ondeggiare, oscillare alla fase genitale interna, 5) saltare e balzare alla fase genitale esterna. Va distinta anche una versione libidica o sadica nei modelli di movimento di ciascuna fase, che connota una maggiore o minore quantità di sforzo, oppure, in termini più soggettivi, una qualità più indulgente (indulging) o combattiva (fighting) del movimento.>> (La Barre 2001, p. 39).

14Stern sottolinea il vincolo fra la sintonizzazione affettiva e la percezione dell’altrui movimento attraverso gli affetti vitali; ciò corrisponde alle qualità che i Danzamovimento Terapeuti osservano attraverso il flusso di forma, ritmi di del flusso di tensione muscolare e gli attributi del flusso di tensione del KMP e tramite gli Effort nella LMA: <<Nel lavoro di Danza Movimento Terapia si perfeziona la tecnica del rispecchiamento attraverso la possibilità di sintonizzarsi al flusso di tensione e al flusso di forma del movimento del paziente.>> (Govoni 2010, Kestenberg 1990).

15Il flusso neutro o deanimato è un flusso che impiega livelli minimi di tensione muscolare (Govoni 2012).

16Nella LMA è lo spazio al di fuori della cinesfera, cioè non direttamente raggiungibile dal corpo.

17Nel KMP gli attributi del flusso di tensione sono la parte “affettiva” del flusso di tensione, derivano da bisogni biologici e psichici e organizzano la loro regolazione affettiva, cioè l’espressione dei sentimenti e le reazioni emotive alla sicurezza e al pericolo.

18La Hackney descrive la cross-lateral connectivity come il movimento controlaterale del corpo connesso al centro del corpo stesso, che impegna le catene muscolari che vanno dai piedi al pavimento pelvico e dalla spina dorsale alla connessione scapola/braccio/mano, fino alla testa. Hackney descrive come nel bambino, l’imparare a usare questa connessione sia successiva al saper padroneggiare la connessione omolaterale, che organizza il corpo in una parte che mantiene la stabilità, mentre l’altra si muove e lavora, è legata alla funzioni laterali del cervello e alla chiarezza di pensiero (Hackney, 1998, pp. 177 et segg.).

19Il piano sagittale nella LMA indica i movimenti che spostano il corpo avanti e indietro in relazione al suo centro.

20Si veda anche nota 8.

Lei dice che è solo un amico? La voce può smascherare un tradimento.

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli uomini e le donne alterano la loro voce quando parlano con gli amanti anziché con un amico. Tali variazioni possono potenzialmente essere utilizzati per rilevare l’infedeltà.

Una nuova ricerca dalla Albright College del professore associato di psicologia Susan Hughes  ha evidenziato che gli uomini e le donne alterano la loro voce quando parlano con gli amanti anziché con un amico, e che tali variazioni possono potenzialmente essere utilizzati per rilevare l’infedeltà. 

Un esperto di psicologia evolutiva e di percezione della voce ha preso in esame le differenze tra campioni vocali dirette verso un amico ed un amante.  Lo studio è stato condotto insieme a  Jack LaFayette direttore della ricerca a Albright e Sally D. Farley, ex assistente  di psicologia alla Albright, che ora insegna all’Università di Baltimora.

Lo studio ha esaminato come le persone modificano l’intonazione e la modulazione del tono di voce quando sono impegnati in una breve conversazione telefonica con un partner romantico rispetto ad un amico dello stesso sesso. I ricercatori hanno reclutato 24 persone che erano state precedentemente  in luna di miele, invitandoli a telefonare al loro partner cosi ad un caro amico dello stesso sesso, ed entrambi i casi impegnarsi in una conversazione parlando del più e del meno.

Gli studiosi hanno poi mostrato le registrazioni a 80 valutatori indipendenti che giudicavano i campioni in base a questi parametri: la sensualità, la piacevolezza, ed il grado di interesse romantico. I valutatori sono stati esposti a queste registrazione per un tempo di massimo due secondi e sono riusciti perfettamente a identificare in maniera accurata se il parlante ha parlato con un amico o con un amante. I ricercatori ipotizzano che le persone alterano il tono di voce per comunicare il loro stato di relazione. Infatti i campioni vocali  diretti verso partner romantici sono stati classificati più piacevoli a differenza di quelli diretti verso gli amici dello stesso sesso.

Inoltre lo studio ha eseguito un analisi dello spettrogramma, ovvero la rappresentazione grafica dell’intensità di un suono in funzione al tempo e alla frequenza; ed è emerso che le donne utilizzano un tono di voce basso mentre gli uomini un tono alto ma entrambi cercano di imitare il tono di voce   del partner quando sono impegnati in una conversazione telefonica romantica.

Questo effetto potrebbe dipendere dal bisogno di appartenenza e di intimità ma anche una modalità per comunicare affetto e di connessione relazionale.

LEGGI ANCHE:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIVOCE & COMUNICAZIONE PARAVERBALEGENDER STUDIES

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Chi di pubblicità ferisce, di Popcorn perisce… PsicoEconomia

 

 

Si sa che la pubblicità subliminale ed il product placement all’interno di film e trasmissioni televisive funzionano, eccome! La Rayban ancora ringrazia il film Top Gun che l’ha salvata dal fallimento facendo schizzare le vendite dei suoi occhiali alle stelle e anche gli  spot televisivi influenzano i nostri comportamenti di consumo.
Come possiamo quindi difendere il nostro portafogli dall’effetto degli spot che ci spingono a comprare, comprare, comprare?! Un recente studio tedesco ha scoperto che sgranocchiare popcorn al cinema durante la pubblicità interferisce con quei meccanismi psicologici di esposizione al brand che portano lo spettatore a sviluppare un atteggiamento positivo verso la marca, riducendo così la probabilità di affiliazione al prodotto.
Insomma, meglio un attentato alla dieta che al portafogli… o forse no!?
Questo meccanismo che è stato indagato per via sperimentale viene battezzato “oral interference“, messo in atto appunto con l’ingestione di popcorn o la masticazione di chewing gum, mentre al gruppo di controllo veniva somministrata solamente una compressa di zucchero.
Lo studio è dell’Università di Colonia di cui riportiamo l’abstract:

Popcorn in the cinema: Oral interference sabotages advertising effects

Sascha Topolinski, Sandy Lindner, Anna Freudenberg

 

Abstract

One important psychological mechanism of advertising is mere exposure inducing positive attitudes towards brands. Recent basic research has shown that the underlying mechanism of mere exposure for words, in turn, is the training of subvocal pronunciation, which can be obstructed by oral motor-interference. Commercials for foreign brands were shown in cinema sessions while participants either ate popcorn, chewed gum (oral interference) or consumed a single sugar cube (control). Brand choice and brand attitudes were assessed one week later. While control participants more likely spent money (Experiment 1, N = 188) and exhibited higher preference and physiological responses (Experiment 2, N = 96) for advertised than for novel brands, participants who had consumed popcorn or gum during commercials showed no advertising effects. It is concluded that advertising might be futile under ecological situations involving oral interference, such as snacking or talking, which ironically is often the case. FULL ARTICLE

 

Popcorn in the Cinema: Oral Interference sabotages advertising EffectsConsigliato dalla Redazione

Popcorn e pubblicità al Cinema
Advertising uses repetition to increase consumers’ preference for brands. Initially, novel brands gain in popularity due to repetition, which increases the likelihood that consumers later buy the brands. Particularly for novel brands, excessive exposure and repetition is necessary to establish the b… (…)

Tratto da:

 

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