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Amore e Familiarità: una questione di Attaccamento

Amore e familiarità . - Immagini: © Maksim Samasiuk - Fotolia.comL’amore, spettacolo affettivo di particolare bellezza, si manifesta in tutte le sue espressioni più sublimi verso una persona, scelta accuratamente.

Quando si prova l’ebrezza dell’amore si ha voglia di trascorrere del tempo con la persona (effetto mantenimento del contatto), ci si rivolge all’altro per condividere o risolvere un problema (effetto rifugio sicuro), si può contare sull’altro (effetto base sicura), si prova nostalgia quando si è lontani (effetto ansia da separazione) e si vorrebbe trascorrere insieme quel tempo.

Dunque, scegliere una persona con cui condividere tutte queste cose è impresa ardua, ma spesse volte la scelta avviene senza pensarci troppo su, ovvero in maniera automatica. Sì, automatica! Ci attrae qualcosa nell’altro che riconosciamo come noto, al punto da considerarlo familiare.

Scegliamo qualcuno che somigli ai nostri fratelli o a persone vicino a noi (effetto familiarità), molto simile per gusti, costumi e cultura, (effetto somiglianza). Oppure si preferisce una persona perché molto accorta ai nostri bisogni e sentimenti (effetto sensibilità). Insomma, la scelta è fatta di istinto, di pancia, e la pancia sceglie su basi non puramente oggettive.

Cosa ci muove verso l’altro a noi sconosciuto?

Quello che ci attrae è sempre un aspetto di familiarità, qualcosa che fa risuonare in noi una simpatia per la persona individuata. Questa alchimia si esplica anche nella modalità di manifestare il tipo di legame che si crea. A livello fisico ci sono delle cose che ci attraggono dell’altro, che richiamano alla memoria qualcosa che ci fa sentire a casa. Questo inganno attira l’attenzione nei confronti di un viso piuttosto che un altro, una sorta di sezione aurea.

Quindi, una volta individuato il nostro altro/familiare facciamo il primo passo, ovvero il corteggiamento: voce dolce postura equivoca, bella presenza, che presto cede il posto all’innamoramento, fase in cui si vuole condividere con l’altro tutto, anche la vicinanza fisica, la passione, l’idillio. Infine, si passa all’amore vero e proprio ovvero intimità, complicità, progettualità, e in questa fase il legame di attaccamento si è consolidato, di conseguenza si attua una interdipendenza emozionale e la base sicura. Solitamente si tende a riproporre nella coppia il tipo di attaccamento avuto con i genitori, e avendo scelto una persona affine alle proprie attitudini e facile che questa cosa possa accadere.

Insomma, se si dovesse avere un attaccamento sicuro, si ha una ottima intimità e affinità, ci si sente a proprio agio mostrandosi realmente per quelli che si è.

Al contrario se l’attaccamento fosse ambivalente si potrebbe avere un amore maniacale, nevrotico, eterno innamoramento contrapposto alla perdita di amore allo stesso tempo e bassa fiducia in se stessi. Con un attaccamento evitante i due membri della coppia evitano accuratamente il coinvolgimento affettivo, per questo il legame è definito circospetto.

Comunque, qualsiasi tipo di legame si possa manifestare nella coppia la cosa importante e vivere quell’amore e di quell’amore, perchè solo vivendolo si può capire se porta in sè il segreto magico dell’eternità.

 

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Giorgio Gaber e Sandro Luporini: la lezione psicologica

Un’idea, un concetto, un’idea 

finché resta un’idea è soltanto un’astrazione 

se potessi mangiare un’idea 

avrei fatto la mia rivoluzione. 

Un’idea, Giorgio Gaber, 1972

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini- La lezione psicologica. -Immagine: www.sandroluporini.it Giorgio Gaber e Sandro Luporini: L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta.

L’idea di scrivere questo articolo è maturata leggendo il bel libro di Sandro Luporini Vi racconto Gaber (2013). Sandro Luporini è un pittore viareggino, coautore di tutti gli spettacoli teatrali e delle canzoni più evocative di Gaber. Dopo la scomparsa del grande cantautore milanese (nel 2003) ha condotto una vita abbastanza ritirata dal punto di vista mediatico e questo libro è la testimonianza che molti attendevano di un lavoro creativo straordinario che è durato più di trent’anni.

Quando iniziò a lavorare con Luporini, Giorgio Gaber era già un cantante affermato, con una fama nazionalpopolare. L’incontro tra i due sancì un cambio di rotta nella carriera del cantautore, che da allora in poi privilegiò i teatri come luogo di scambio con il pubblico, dando vita a una nuova forma di spettacolo, costituita da canzoni e monologhi, che ha preso il nome di teatro canzone.

Il teatro permetteva di creare una dimensione artistica più intima, dove il pubblico risultava maggiormente coinvolto e in grado di recepire i messaggi e le emozioni degli spettacoli. Della vecchia produzione musicale, caratterizzata da testi spesso leggeri, restava solo un ingrediente che ha sempre contraddistinto il cantautore: l’ironia. Le tematiche affrontate diventarono invece via via più profonde e complesse, seguendo uno straordinario processo di maturazione artistica e personale, in cui Luporini ebbe sicuramente un ruolo fondamentale.

Anche prima di leggere il libro, avevo sentito parlare della loro affascinante modalità compositiva: Gaber e Luporini si trovavano ogni estate in Versilia e trascorrevano un mese intero a parlare liberamente dell’attualità dell’Italia e del mondo, dell’uomo e delle sue contraddizioni, dei libri letti e di tutto ciò che poteva stimolare la loro curiosità. Spesso venivano coinvolti nelle discussioni altri amici fidati o alcuni intellettuali di passaggio (o in pellegrinaggio). Da questi brain storming nascevano i monologhi e le canzoni per gli spettacoli, caratterizzati da una forte impronta umanistica.

L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta. D’altra parte come diceva l’illustre paziente Alda Merini (2008) “Rendere interessante un malato ai suoi stessi occhi è una cosa davvero importante, è il cominciamento della sua guarigione.

L’intento della coppia Gaber-Luporini andava sicuramente oltre il semplice intrattenimento, in quanto è noto che l’arte, quando è arte vera, cerca di rivelare l’essenza delle cose, di trovare un orizzonte di significato, un senso da contrapporre alla realtà caotica e incoerente in cui viviamo.

L’atteggiamento con cui i due hanno indagato l’uomo ricorda più un osservatore della psiche e del comportamento, forse un filosofo (a questo riguardo non negarono di aver preso ispirazione per alcuni testi dai filosofi esistenzialisti), che un semplice artista. “Abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio, non abbiamo fatto altro che porci delle domande senza alcuna pretesa di risposta” racconta Luporini. Questo atteggiamento socratico, il rifuggire da concetti assolutistici, fino a relativizzare anche il bene e il male ricorda il lavoro di uno psicoterapeuta, che Vittorio Guidano (1988) definiva “perturbatore strategicamente orientato.

D’altra parte, in scena l’artista si analizzava, si interrogava ponendosi delle domande, promuovendo un’identificazione proiettiva collettiva. Non usava modalità persuasive, ma invitava indirettamente il pubblico ad un’autoanalisi. Negli spettacoli di Gaber era impossibile distogliere lo sguardo e si era costretti a guardare dentro di sé. L’obiettivo era uscire dalla sala con meno certezze e l’effetto destabilizzante veniva addolcito dall’uso dell’ironia, che come diceva Gaber “permette di giocare seriamente e fare cose serie giocando”, arrivando ad ironizzare anche sulla sofferenza.

Lo psicoterapeuta Amedeo Pingitore (2013) ha scritto un bel libro in cui delinea un interessante profilo psicologico di Gaber come artista, mettendolo a confronto con altri grandi perturbatori come Pier Paolo Pasolini, con cui condivideva la capacità di sfuggire dai recinti ideologici, o come il pittore Edvard Munch, per la capacità di rappresentare la precarietà dell’esistenza umana.

I numerosi spettacoli teatrali scritti dalla coppia e i dischi di canzoni registrate in studio abbondano di spunti di riflessione psicologica. Vediamo qualche esempio.

Dialogo tra un impiegato e un non so (1972), uno dei primi spettacoli, contiene la canzone Un’idea, che pone l’accento sulla distanza tra pensiero e sentimento, sulla mancanza di sintonia tra corpo e mente e sulla perdita di naturalità che ne consegue. Tanti disagi esistenziali e disturbi psicosomatici hanno alla base questo tipo di conflitto ed il lavoro terapeutico in questi casi è di integrazione delle varie parti (Semerari, 1999).

E’ nello spettacolo successivo, Far finta di essere sani (1973), che la coppia esplora maggiormente gli scenari della psiche, influenzata dalla lettura de L’io diviso (1969) dello psichiatra scozzese Ronald Leing, considerato uno dei principali rappresentanti del movimento antipsichiatrico, che affermava “che un gran numero di “guarigioni” di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l’altro, ha deciso di ricominciare a fare finta di essere sano”.

Nello spettacolo troviamo ad esempio la canzone Un’emozione, in cui viene trattato il conflitto tra razionalità e istintività, con un appello alla “dolce prudenza”, come meccanismo di difesa e di evitamento emotivo.

Quello che perde i pezzi è invece la storia di un individuo iper-razionale che si dimentica del corpo, fino a perderne delle parti, con conseguente esilaranti. Ancora la mancanza di sintonia tra corpo e mente.

L’impotenza è un brano che si sofferma nuovamente sulla ricerca di equilibrio tra fisicità e pensiero con l’esortazione a “imparare a sentire il presente in un tempo così provvisorio” e rapido come il nostro, in sintonia con le moderne teorie di mindfullness.

L’elastico è una canzone sulla schizofrenia, dove l’immagine dell’elastico che si spezza rappresenta l’angoscia di frammentazione della crisi psicotica, con quel “Me fuori di me” a evidenziare la perdita dei confini come ci viene descritta classicamente dalla letteratura (Gabbard, 2002).

La canzone Il narciso sottolinea in modo impietoso le modalità relazionali della persona affetta da personalità narcisistica, dove l’altro viene usato in modo strumentale, come un oggetto (“perché io, con una donna, mi scopo”).

La libertà, forse uno dei brani più noti, contiene la citatissima frase “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”, che sottolinea come nel conflitto tra individualità e il bisogno di appartenenza vince quest’ultima. Questo tema verrà poi ripreso nella Canzone dell’appartenenza (2001) che recita “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. Sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”. Il concetto di appartenenza riveste una certa importanza nell’ambito della maturazione dell’individuo.

La capacità di percepire un sentimento d’appartenenza ad un gruppo sociale è infatti una delle funzioni basiche della personalità normale. Si può sentire di appartenere alla famiglia, a un gruppo di amici o di lavoro, a una squadra sportiva o altro, con un conseguente senso di completezza e vivacità interiore. L’analisi di trascritti di sedute di pazienti con Disturbo Narcisistico ed Evitante di Personalità ha suggerito che, almeno in questi disturbi, l’esperienza di non appartenenza sia pervasiva e influenzi il quadro psicopatologico (Dimaggio, Procacci, Semerari, 1999).

Lo spettacolo Polli da allevamento (1978) contiene il monologo Il suicidio, che tratta l’argomento in modo ironico concludendo saggiamente che “ c’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte”.

Nel brano Quando è moda è moda emerge come il confondersi con gli altri attraverso le mode, ci permetta di evitare l’angoscia che può derivare dal definire la nostra identità, con il rischio di non essere accettati.

Anni affollati (1981) include il brano Il dilemma, che racconta la storia di una coppia che crede al rapporto come qualcosa di autentico per cui valga la pena lottare, senza accettare compromessi, essendo addirittura pronti a morire per esso.

Io se fossi Gaber (1985) contiene invece la canzone Ipotesi per una Maria che recita “perché per credere all’amore davvero bisogna spesso andarsene lontano e ridere di noi come da un aeroplano”, descrivendo l’ambivalenza di certe donne divise tra il bisogno di starti accanto e la consapevolezza di riuscire a esistere solo come persone libere. Questo tipo di conflitto si trova tipicamente nelle organizzazioni di personalità di tipo fobico (Guidano, 1988).

Vale la pena inoltre soffermarsi sugli ultimi due dischi registrati in studio da Gaber: La mia generazione ha perso (2001) e Io non  mi sento italiano (2003). Sono due lavori bellissimi, ma intrisi di pessimismo e disillusione. Rappresentano la testimonianza di come Gaber e Luporini abbiano assistito all’appassirsi dei sogni di cambiamento degli anni settanta, siano stati testimoni appassionati di tante battaglie sociali che aspiravano alla conquista di nuova morale, ma alla fine si siano arresi alla delusione di fronte a un mondo sempre più individualista e spoglio di valori. 

Ci sono alcuni capolavori di “psicologia musicata” come I mostri che abbiamo dentro, che descrive le istanze psichiche pulsionali e istintuali (“silenziosi e insinuanti sono il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”), che ricordano molto l’Es freudiano (Freud, 1985). L’uomo è destinato a vivere nel conflitto tra le aspirazioni di altruismo e di solidarietà e questi mostri atavici che ci spingono all’odio, alla violenza e all’egoismo.

Sì può descrive uno spaccato spietato e lucidissimo delle libertà del nostro tempo (Si può fare i giovani a sessant’anni…Si può trasgredire qualsiasi mito…), che possono paradossalmente portare  all’ossimoro della “libertà obbligatoria”, dove “Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale”. L’obeso racconta l’uomo moderno, ingordo di cibo, idee, esperienze, che viene stigmatizzato con la splendida metafora “l’obeso è l’infinito di un leopardi americano”.

Ancora in tema di ideali e disillusione Qualcuno era comunista descrive “una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita”, ma “senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici”. La metafora dei “gabbiani ipotetici” è a mio avviso potentissima e contiene tutta la tensione tra un io ideale e un io reale.

Quando sarò capace di amare accenna al superamento del complesso di Edipo freudiano   (“non avrò bisogno di assassinare in segreto mio padre, né di far l’amore con mia madre in sogno”), come indice di crescita e maturazione da un “uomo bambino” a un individuo adulto.

Non insegnate ai bambini è un piccolo trattato di pedagogia, in cui il cantautore consiglia ai genitori di “coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore il resto è niente”, piuttosto che cercare di trasmettere ai figli norme morali, pensieri, ideali sociali.

La rabbia e l’amarezza verso questo mondo da alcuni è stato etichettato come disfattismo. Potrebbe anche essere, ma credo che gli italiani abbiano un grande debito di riconoscenza verso Gaber e Luporini, per le perturbazioni emotive e per i tanti utilissimi dubbi suscitati. O no?

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ARTE MUSICA LETTERATURA

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BIBLIOGRAFIA:

 

L’efficacia della CBT in pazienti con patologie mediche

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un altro trial clinico multicentrico che porta risultati incoraggianti  per le terapie cognitivo-comportamentali è stato pubblicato pochi giorni fa sulla rivista The Lancet, tra gli autori Paul Salkovskis.

Questa volta oggetto di indagine è l’efficacia della CBT sull’ansia connessa allo stato di salute in pazienti con problematiche somatiche in trattamento presso ambulatori di cardiologia, gastroenterologia e simili.

Tra i criteri di inclusione vi è l’età compresa tra i 16—75 anni ed  elevati livelli di ansia connessa allo stato di salute.

Nello studio 444 pazienti con diagnosi di ansia eccessiva connessa allo stato di salute (i pazienti effettivamente coinvolti nello studio sono stati reclutati a partire da uno screening su circa 28.000 pazienti delle cliniche) sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni: sottoporsi a un protocollo breve di psicoterapia cognitivo-comportamentale oppure un trattamento standard ambulatoriale per patologie mediche senza alcun intervento psicologico.

Il protocollo di trattamento di CBT breve comprendeva dalle cinque alle dieci sedute di terapia cognitivo-comportamentale gestita da psicoterapeuti, mentre il gruppo di controllo ha ricevuto un trattamento standard previsto dalla clinica – che dal punto di vista psicologico prevedeva generiche rassicurazioni da parte dei medici.

Dopo un anno di trattamento dai dati emerge che, rispetto ai controlli, i pazienti sottoposti a CBT presentano un significativo miglioramento nella sintomatologia ansiosa, variabile di outcome misurata mediante lo strumento Health Anxiety Inventory a un anno dal termine del trattamento.

Simili differenze significative sono state riscontrate sia a sei mesi che a due anni dal termine del trattamento, senza rovinosi effetti nemmeno in termini di aumento di costi sanitari.

Lo dice The lancet: “It (CBT) deserves wider application in medical care” [“(La psicoterpaia cognitivo-comportamentale) merita una più ampia applicazione nell’ambito dell’assistenza medica”]. Lo studio è registrato sul sito controlled-trials.com.

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PSICOTERAPIA COGNITIVA ANSIAACCETTAZIONE DELLA MALATTIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mind wandering: i pensieri inutili che ci rendono intelligenti!

Mind wandering. I pensieri inutili ci rendono intelligenti . - Immagine: ©-Konstantin-Yuganov-Fotolia.comUn’idea nuova e curiosa sviluppata da un gruppo di ricercatori della New York University guidati dal Prof. Kaufman che ha pubblicato un’appassionata review sul mind wandering e sul suo ruolo nel determinare l’intelligenza umana.

Che l’intelligenza umana non potesse ridursi alla mera valutazione psicometrica, è cosa condivisa da molti. Ma immaginare che quando la nostra mente vagabonda lontano dalla realtà stia lavorando alla soluzione di problemi molto rilevanti per la nostra vita… questo sì, è rivoluzionario!

Molte sono le ricerche condotte sul mind wandering , o daydream, dai primi lavori di Singer (1964) ad oggi, ma tuttora l’attività mentale più frequente nell’uomo (si stima circa il 50% delle ore di veglia!) sfugge a qualunque definitiva interpretazione: a cosa ci serve sognare ad occhi aperti mentre lavoriamo? O ripensare al nostro capo, mentre leggiamo un libro? O trovarci a passeggiare in montagna, mentre facciamo la spesa? Perché tutte queste energie apparentemente finalizzate a nulla?

A queste domande sembra rispondere La Teoria dell’Intelligenza Personale di Kaufman e collaboratori, secondo i quali l’intelligenza sarebbe il risultato della dinamica interazione tra impegno e abilità innate, osservata in un periodo di tempo prolungato, finalizzata al raggiungimento di obiettivi personali importanti (Kaufman, 2013).

Non si parte da un compito cognitivo con degli obiettivi prestabiliti da un educatore o da uno psicologo sperimentale, ma dall’idea di valutare una performance cognitiva considerando se l’individuo si sia ingaggiato nel compito mantenendo l’attenzione ai propri obiettivi personali. Le abilità da misurare dovrebbero essere dunque sia le risorse cognitive “volontarie” (attenzione focalizzata e sostenuta, memoria di lavoro, accuratezza, velocità,..), sia quelle “spontanee” (intuizione, emozioni, apprendimenti impliciti, utilizzo spontaneo di memoria episodica,..). E’ l’insieme di TUTTE queste capacità cognitive a determinare l’intelligenza umana! Un notevole cambio di paradigma.

In questa cornice, il vagabondare della mente – considerato altrimenti un’attività altamente fallimentare e costosa dal punto di vista delle sole performance cognitive, poiché portatrice di pochi o nessun beneficio nell’immediato (Mooneyham and Schooler, 2013) – potrebbe assumere un ruolo centrale e molto costruttivo nella soluzione di problemi che non hanno a che fare con il qui ed ora, ma che riguardano obiettivi personali e di vita a lungo termine.

Una spiegazione neuroscientifica ci viene da una recentissima pubblicazione di Kam et al. (2013). L’Executive Attention Network (EAN), rete neurale attribuita a compiti classicamente cognitivi, e il Default Mode Network (DMN), generalmente attivo durante periodi di riposo o liberi da compiti specifici, possono secondo i risultati della ricerca, trovarsi a lavorare insieme anche durante episodi di mind wandering. Le risorse attentive non sarebbero dunque affatto assenti nel daydreaming, ma piuttosto sembrerebbero attive e capaci di orientarsi all’interno, ad elaborare un “treno di pensieri” in cui ci troviamo immersi pur senza un motivo apparente. In discussione dunque il tradizionale punto di vista secondo il quel la EAN sia attivata dalla sola presenza di stimoli esterni, seguendo un processo attentivo sempre volontario e consapevole.

Non poco lavoro attende i ricercatori che vorranno raccogliere la sfida di Kaufman, mentre per noi restano alcune buone notizie. In questa ottica, infatti, comportamenti apparentemente “non intelligenti” come rileggere tre volte una riga senza comprendere cosa c’è scritto, bloccarsi a riflettere proprio mentre si sta raccontando una storia, arrivare a casa senza aver comprato le uova per le quali si era usciti apposta … potrebbero non essere così sciocchi.

Nonostante la loro dubbia utilità nel presente, potrebbero infatti essere il segnale che la nostra mente sta lavorando alla soluzione di problemi ben più importanti della cena da mettere in tavola!

 LEGGI LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA DI: DEFAULT MODE NETWORK (DMN)

EXECUTIVE ATTENTION NETWORK (EAN)

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BIBLIOGRAFIA:

 

Default Mode Network (DMN) – Connettività funzionale intrinseca

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataDefault Mode Network: si tratta di una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive” (connettività funzionale intrinseca).

 

Viene invece dis-attivata quando al cervello è richiesto di svolgere compiti che richiedono un’attenzione focalizzata (vedi anche: Executive Attention Network – EAN).

 

Le abilità cognitive legate all’attivazione di quest’area riguardano: capacità di accedere ai ricordi della propria vita (memoria episodica autobiografica), di riflettere sui propri e altrui stati mentali, di riconoscere stimoli familiari e non, e di provare emozioni in relazione a situazioni sociali che riguardano noi stessi o gli altri, di valutare le reazioni proprie e degli altri in alcune situazioni emotive.

Default Mode Network

Le strutture corticali e sottocorticali che fanno parte di questa rete possono in parte variare da individuo ad individuo, ma in generale sono riconducibili ad alcune aree principali: ippocampo, giro para-ippocampale, corteccia prefrontale mediale, regioni temporali laterali e temporo-parietali, cortecce posteriori mediali (corteccia cingolata posteriore e precuneo).

Le differenze individuali nella connettività tra queste aree è stata associata a sintomi psicopatologici in pazienti con disturbi mentali, quali schizofrenia, depressione, autismo e ADHD.

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

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MIND WANDERING: I PENSIERI INUTILI CI RENDONO INTELLIGENTI!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Executive Attention Network (EAN)

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataExecutive Attention Network: si tratta di una rete neurale, distribuita in diverse aree cerebrali, in grado di attivarsi quando ci troviamo a svolgere compiti che richiedono un’attenzione volontaria e focalizzata.

 

Le capacità cognitive controllate da questa rete sono quelle riconducibili alle funzioni esecutive: linguaggio (lettura e comprensione), memoria di lavoro, abilità visuo-spaziali, organizzazione delle azioni e abilità di decision making.

 

Gli studi neuropsicologici ci permettono oggi di ricostruire, a partire da studi su pazienti con lesioni cerebrali specifiche, le strutture cerebrali che sottendono queste funzioni, definite funzioni esecutive.

Executive Attention Network

La rete neurale comprende diverse aree cerebrali corticali e sottocorticali, tra loro interconnesse:

 

Corteccia pre-frontale laterale e anteriore, corteccia prefrontale dorso laterale, corteccia prefrontale mediale e giro del cingolo, corteccia parietale inferiore e superiore; inoltre fanno parte della EAN tutte le connessioni presenti nelle aree associative, che collegano queste aree cerebrali tra loro e con alcune strutture sottocorticali (amigdala).

 

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NEUROSCIENZELINGUAGGIO E COMUNICAZIONENEUROPSICOLOGIA

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BIBLIOGRAFIA:

  • Barbey,A.K.,Colon,R.,Solomon,J., Krueger,F.,Forbes,C.,andGraf- man, J.(2012). Anintegrativearchi- tecture for general intelligenc eand executive functio nrevealed by lesion mapping. Brain 135, 1154–1164.doi: 10.1093/brain/aws021

L’effetto della ruminazione sul craving nel consumo problematico di alcool – Assisi 2013

 

Assisi 2013

“L’EFFETTO DELLA RUMINAZIONE SUL CRAVING NEL CONSUMO PROBLEMATICO DI ALCOOL: UN DISEGNO SPERIMENTALE”

Querci S. 1, Gemelli A. 1, Caselli G. 1, Canfora F. 1, Lugli A. M. 1, Ruggiero G. M. 1, Sassaroli S. 1, 

Annovi C. 2, Watkins E. 3, Rebecchi D. 4

1 Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Studi Cognitivi
2 Servizio Dipendenze Patologiche, Dipartimento Salute Mentale, Azienda USL Modena
3 School of Psychology, University of Exeter, Exeter, UK
4 Servizio di Psicologia Clinica, Dipartimento di Salute Mentale, Azienda USL, Modena

 

INTRODUZIONE:

Una serie di studi ha mostrato il ruolo centrale della ruminazione mentale nel mantenimento dei disturbi da abuso di alcool e nel rischio di ricaduta anche dopo un trattamento che non interveniva su questa variabile.

Lo scopo dello studio era esplorare l’impatto del craving sulla ruminazione in tre popolazioni: nei soggetti con problemi alcol-correlati, nei problem drinkers e nei social drinkers.

I partecipanti dei tre gruppi sono stati randomizzati in due compiti d’induzione di uno stile di pensiero: distrazione e ruminazione. Il craving è stato misurato prima e dopo la condizione sperimentale e successivamente alla resting phase.

I risultati hanno dimostrato che la ruminazione, rispetto alla distrazione, ha un effetto significativo nell’incrementare il craving nei pazienti con diagnosi di disturbo di dipendenza da alcol ma non nei bevitori problematici e nei bevitori scoiali. Tale effetto si manteneva anche a seguito della resting phase.

La ruminazione ha un impatto diretto sul craving in una popolazione di soggetti con dipendenza da alcol.

 

 

ARTICOLI SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE – CRAVING

ALCOOL

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

Intervento multimodale sulle problematiche in classe – Assisi 2013

 

Assisi 2013

Efficacia di un intervento multimodale sulle problematiche comportamentali nel gruppo classe

Danila Luzi, Lucia Epifani, Francesca Tesei, Simona Tripaldi, Marika Ferri 

(Studi Cognitivi e Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto)

 

 

INTRODUZIONE:

Lo studio  che abbiamo effettuato analizza gli effetti di un intervento multimodale a scuola rivolto al gruppo classe. Sono stati valutati un totale di 40 allievi suddivisi in due gruppi: uno sperimentale a cui era rivolto l’intervento ed uno di controllo.

I risultati hanno confermato le ipotesi iniziali ovvero un incremento delle abilità empatiche con conseguente atteggiamento più collaborativo e prosociale a seguito dell’intervento multimodale all’interno del gruppo sperimentale. 

Inoltre è stato rilevato un aumento del benessere percepito all’interno della classe sia da parte degli allievi che da parte degli insegnanti.

 

 

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EMPATIABAMBINI & ADOLESCENTI

TUTTE LE PRESENTAZIONI

 

 

The Big Bang Theory – Analisi psicologica di Sheldon e compagni

 

The-big-bang-theory . - Immagine 504e274b02733The big bang theory è una sitcom nata in America nel 2007, in Italia arriva nel 2008, e racconta la vita di quattro scienziati.

Quattro personalità con tratti patologici e una riabilitatrice sociale: un profilo psicologico dei personaggi di una sitcom.

Howard Wolowitz, Raj Koothrappali, Leonard Hofstadter e Sheldon Cooper operano in quattro campi diversi: ingegneria aerospaziale, astrofisica, fisica sperimentale e fisica teorica. La loro amicizia si fonda su due aspetti principali: grande intelligenza e completa inadeguatezza nelle relazioni sociali.

La loro quotidianità viene stravolta quando arriva una nuova vicina di casa, Penny, una ragazza che sogna di diventare attrice e dalla vita sociale “movimentata”.

Oltre ad essere una simpatica commedia, ha anche un interessante risvolto psicologico rappresentato dalle personalità dei quattro protagonisti maschili. Come tratto comune i ragazzi hanno la difficoltà di instaurare rapporti interpersonali soddisfacenti, caratteristica che si struttura in personalità diverse. Abbiamo l’ossessivo-compulsivo a tratti narcisista, Sheldon, che si trova spesso “incastrato” in routine, faticose per lui e soprattutto per i suoi amici: guardare la televisione mentre fa colazione sempre con lo stesso cibo alla stessa ora e seduto nello stesso punto del divano. Segue pedissequamente le regole sociali insegnate dalla madre, ad esempio offrire una bevanda calda a chi sta male. Interessante è lo smarrimento, espresso benissimo dall’attore, che colpisce Sheldon quando, per un motivo qualsiasi, non riesce a portare termine una delle sue routine. Tale smarrimento è dovuto all’incapacità di trovare un’alternativa e Sheldon si trova come in un video bloccato in pausa. Viene descritto molto bene il contrasto tra l’impareggiabile problem solving in abito scientifico e l’assenza di strategie alternative in ambito sociale: nella fisica teorica Sheldon riesce a controllare tutto, anche le variabili, ma nella vita sociale questo è impossibile e Sheldon ci prova, a volte con successo ma nella maggior parte dei casi fallendo, usando regole sociali rigide e inflessibili. Il vantaggio per lui è forse la completa mancanza di empatia e di lettura delle proprie emozioni, questo gli consente di sopravvivere ai fallimenti, senza essere oppresso dal senso colpa di aver recato un danno agli altri. Ma nello stesso tempo gli impedisce di “leggere tra le righe” a tal punto da non riuscire, in molti casi, a capire il sarcasmo e l’ironia.

Come scienziato Sheldon è un narcisista incallito: intollerante alle critiche e con un elevato senso di grandiosità. Questo aspetto, che spesso può scatenare emozioni di intolleranza, viene mitigato dall’inettitudine che rende il personaggio insicuro e indifeso.

Leonard Hofstadter presenta tratti legati al disturbo d’ansia. Risulta essere il personaggio che meglio si adatta alle situazioni: sembra fare propri gli scopi degli altri (accetta sempre tutto immediatamente, solo dopo aver accettato mostra un atteggiamento critico). Questo potrebbe far pensare ad una personalità dipendente che ha difficoltà nel capire quali siano i propri scopi. Leonard, a differenza di Sheldon, ha infatti grandi capacità di empatia e adatta il proprio comportamento a quello che pensa vogliano gli altri da lui. Vive con Sheldon e accetta tutte le sue bizzarrie e le regole stravaganti (come il contratto tra coinquilini). In linea con una personalità dipendente, si sintonizza sulle esigenze ed aspettative degli altri, provocando una soddisfazione narcisistica. Sarà forse per questo motivo che è il migliore amico di Sheldon?!

Poi c’è Raj Koothrappali, affetto da mutismo selettivo: è incapace di parlare con le donne. Fobia per le donne che impara a gestire con l’uso di alcool, che lo trasforma in un seduttore affascinante. Quadro adattabile a una personalità evitante, che supera la paura del giudizio con l’uso di sostanze entrando in uno stato di rivalsa narcisistica, come se fosse padrone di sé e della situazione, con il risultato di sembrare ancora più ridicolo e inadeguato. Fa riflettere sul fatto che l’alcool non funziona granché, e sarebbe più funzionale un’altra soluzione.

Howard Wolowitz tenta di essere seducente e provocante, tenta di usare l’aspetto fisico per attirare l’attenzione delle donne che incontra. I suoi, però, rimangono tentativi per numerose puntate fino a quando finalmente qualcosa cambia. La sua crescita è, infatti, contraddistinta dal passaggio da un rapporto simbiotico con una madre autoritaria, ad una vita di coppia con una compagna autoritaria tanto quanto, se non di più, della madre. Queste caratteristiche potrebbero nascondere una personalità istrionica.

E infine abbiamo Penny, che con molta pazienza si prende cura di Sheldon, esorta Raj nell’affrontare la sua fobia, trova una compagna per Howard e si innamora del preoccupato Leonard. La sua funzione riabilitatrice consiste nel mostrare ai quattro ragazzi il “come si fa” nelle relazioni sociali. E con il procedere delle serie, sembra che i quattro scienziati imparino qualcosa e si applichino per il cambiamento.

L’utilità di guardare The big bang theory?! Consente di osservare le difficoltà legate alle differenti personalità, che nel telefilm vengono descritte come “stranezze” che limitano la quotidianità dei personaggi, ma che li rendono anche unici e amabili.

Stimola il pensiero critico rispetto a queste “stranezze” e nello stesso tempo le esorcizza: in fin dei conti i personaggi saranno patologici ma ci piacciono e ci divertono!

Si può instaurare nello spettatore un processo di problem solving che parte dal riconoscere nella propria vita quotidiana le stranezze viste in tv, fino a stimolare la ricerca di soluzioni utili, soprattutto comportamentali.

In fondo forse ciascuno di noi può imparare qualcosa da Penny!

 

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Il contatto oculare rende più resistenti alla persuasione

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il contatto oculare prolungato può rendere gli altri più resistenti alle nostre finalità persuasive, specialmente se partono da un punto di vista differente e sono già in disaccordo con noi.

Tenere fisso il contatto oculare è considerato dal senso comune una delle modalità non verbali più efficaci per persuadere l’altro.

Ma una nuova ricerca della University of British Columbia dimostra che in realtà il contatto visivo prolungato può rendere gli altri più resistenti alle nostre finalità persuasive, specialmente se partono da un punto di vista differente e sono già in disaccordo con noi.

Sembrerebbe che il mantenere fisso lo sguardo – o più tecnicamente il contatto oculare diretto- renderebbe gli interlocutori già scettici ancora meno propensi a cambiare il loro punto di vista.

Per indagare gli effetti del contatto oculare nell’ambito della persuasione i ricercatori hanno utilizzato lo strumento dell’eye-tracking e hanno scoperto che i soggetti che fissavano più a lungo negli occhi l’interlocutore con minor probabilità venivano persuasi da quest’ultimo riguardo alcune controverse tematiche.

Anche un secondo esperimento ha confermato questo trend di risultati: i soggetti cui veniva chiesto di fissare a lungo negli occhi l’interlocutore mostravano un minore grado di cambiamento di atteggiamento rispetto a coloro ai quali veniva richiesto di fissare per pari tempo la bocca dell’altro.

Quindi il contatto oculare può avere specifici effetti pragmatici e veicolare significati differenti in funzione del contesto: se nell’ambito di relazioni amicali può essere un indizio di connessione e fiducia, in altre condizioni relazionali può essere più facilmente associato con dinamiche di dominanza. 

Future ricerche dello stesso gruppo indagheranno la correlazione tra il mantenimento del contatto oculare in contesti persuasivi e l’insorgenza di specifici pattern di attivazione cerebrale e fisiologica,  cosi come il rilascio di ormoni dello stress in relazione a tentativi di persuasione.

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Spiare gli ex su Facebook. La tendenza al Controllo e le conseguenze

 

 

Facebook spiare ex - Immagine: © Victor Katikov - Fotolia.comFacebook, con oltre 900 milioni di utenti attivi , è il più popolare social network al mondo.

Tutti hanno un profilo su faccialibro, ottima copertina pubblicitaria e vetrina di cose pubbliche e private. Ma cosa ci spinge ad utilizzare Facebook?

Tendenzialmente, serve per tenersi in contatto con amici e conoscenti, nuovi e vecchi, e per sbirciare tra le loro cose. E se tra gli “amici”  fossero presenti fidanzati attuali e pregressi? Beh, in quel caso comincia lo spionaggio! Effettivamente, chi non ha mai controllato cosa faceva un ex su faccialibro?

Forse, a tutti è capitato di farlo, anche più di una volta! E, dopo averlo fatto, ci siamo, indignati, dispiaciuti, incuriositi, arrabbiati, entrati in competizione con eventuali nuove fiamme.

 

Facebook è uno strumento ottimo per venire in possesso di notizie, visto l’accesso alle informazioni altrui in maniera anonima, ma pericoloso, perchè continuando a controllare incessante l’ennesimo post dell’ex non ci concediamo la possibilità di operare un taglio netto con il passato.

Così, ogni giorno siamo lì a controllare e ricontrollare, magari nella vaga e flebile speranza possa esserci qualcosa che rimanda approssimativamente alla nostra persona, o in relazione all’idilliaco rapporto ormai finito. Ed ecco che le speranze continuano a essere vive e l’emozione continua a crescere e il ricordo non muore. Si vive nell’attesa, ma di cosa? Di qualcosa non meglio definito ed è proprio la mancanza di definizione che spinge al controllo.

Questa forma di controllo, compulsivo, determina una forte intrusione relazionale che aumenta  l’angoscia dopo la rottura e prolunga lo struggimento per l’ex partner.

Per esempio , guardando delle foto è possibile rinvigorire il desiderio per l’ex partner, e la voglia di rivivere sensazioni e momenti trascorsi insieme. Ahimè, non sempre va così bene, quando compaiono foto con nuovi partner, le emozioni negative prendono il soppravvento e ci troviamo coinvolti in un vortice melanconico-competitivo avente come conseguenza una tendenza accresciuta verso il controllo della bacheca dell’ex.

Quindi, in qualche modo si ottiene un blocco relazionale e si rimane fissi al momento della rottura del rapporto e la nostalgia e il desiderio per la persona non sono vividi ricordi, ma diventano l’emozione corrente dominate della giornata.  Tutto questo è acuito quando si ha una scarsa possibilità di accesso alle informazioni, perchè meno cose sono note più si diventa famelici di informazioni, e si è li a pendere dalle labbra dell’ultima notifica che ci si appresta a leggere repentinamente.

Ad ogni modo, meno informazioni si riescono ad attingere online, più la curiosità aumenta, più il controllo prende il sopravvento e ci troviamo ancora una vota di fronte al nostro computer sperando di trovare, non si sa cosa, nelle pagine di amici di amici.

Ma, audite audite madame e messeri, se si mantenesse in qualche modo una sorta di amicizia facebookiana è stato dimostrato che dopo il primo impatto emotivo, determinato dall’esposizione alle emozioni che derivano dal venire a conoscenza di cose non sempre piacevoli, l’intensità del sentimento diminuisce e le informazioni pubblicate in bacheca non sono considerate più così intrusive, una sorta di esposizione graduale all’evento/persona traumatico.
Al contrario, ex partner con i quali non si è più in contatto possono rimanere avvolti in alone di mistero che porta all’auto-alimentazione del circolo vizioso del controllo.

Di fatto, guarire da una perdita è un processo lungo e doloroso fatto di recupero ed elaborazione di emozioni negative da integrare in maniera narrativa alla storia personale vissuta con questa persona.

Così, rimanendo amici di Facebook è possibile beneficiare del processo di recupero della rottura e delle emozioni negative derivanti e pian piano elaborarle per poi crescere in relazioni diverse .
In definitiva, tenere sotto controllo qualcuno tramite Facebook non porta a dei benefici, come erroneamente si pensa, pensieri fallaci derivanti da un errato problem solving, ma costituisce il problema stesso che prende il posto del problema reale, ovvero la fine della relazione.

Facebook, controindicazioni: usare a piccole dosi!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 4

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 4

 

DANZAMOVIMENTO TERAPIA:

Il difficile contatto: Controtransfert somatico e Movimento Autentico

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Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità - PARTE 4. -Immagine:© adimas - Fotolia.com Il pallone mi era sembrato un materiale perfetto per sperimentare sia col calcio che col lancio a mano l’effort del peso nella verticalità, che assolve al compito di raggiungere ciò che il bambino, secondo la Kestenberg, sperimenta nella Fase Anale, e cioè una forma di base per la presentazione e rappresentazione di Sé e degli oggetti, favorendo l’intenzionalità e l’autoaffermazione.

Riprendiamo la narrazione dell’esperienza di danza movimento terapia con L. Dopo i primi incontri di osservazione e di tentativi di interazione, ho avuto difficoltà a rimanere in contatto con L.. Nell’ascoltare i racconti del bambino, nel tentare una reciprocità di relazione verbale e di movimento non mi sentivo realmente vista da lui, sebbene mi tenesse sott’occhio in continuazione. Ero irretita in un vissuto di noia, sonnolenza, mi distraevo durante i suoi racconti; non riuscivo a trovare un modo di interagire con lui quando gli stavo di fianco mentre, improvvisamente, si dedicava a qualche minuto di movimenti “esplosivi” allo specchio.

Niente sembrava fare presa su di lui, il suo presentarsi come il “bambino non reattivo” descritto dalla mamma e dalla psicologa mi aveva catturata in un generale senso di impotenza, disattivazione e demotivazione, in cui anche i miei movimenti rispecchianti erano totalmente svuotati e inefficaci. Ho potuto diventare cosciente dei fenomeni controtransferali in corso, distinguendo ed esaminando le mie  reazioni oggettive nei confronti del paziente.

I segnali controtransferali somatici mi avvertivano che ero entrata nell’area di collusione con le difese del bambino, paralizzandomi, poichè avvertivo come fra noi non ci fosse un vero confronto, non mi vedesse come persona: io ero per L. un oggetto cui aderire adesivamente con lo sguardo per dare rifugio e protezione al suo Sé grandioso/deprivato.

Heinz Kohut descrive come nella forma di transfert fusionale arcaico (“Tu ed io siamo una sola cosa, quest’unità è dotata di ogni perfezione”) si riattivi il Sé grandioso del paziente, ed era ciò che gratificava L. durante i nostri incontri. Ma tutto ciò poteva avvenire a patto che L. ed io non stessimo troppo vicini fisicamente, o che io non prendessi iniziative. Se mi avvicinavo o se gli facevo proposte interattive, il bambino mi vedeva come il genitore imprevedibile e distante, portatore di esperienze frustranti e intrusive, da cui doveva difendersi, e si deanimava.

Oppure non accettava i miei tentativi di provare a rendere efficaci i suoi movimenti “esplosivi”, per  mettere nel corpo la “forza grandiosa”; e così i suoi calci e pugni erano sferrati in aria, nella fantasia di abbattere l’immaginario nemico o avversario, da cui in realtà era abbattuto. Non mi sentivo mai sicura di stare facendo la cosa giusta per lui, e mi sentivo come una madre che non riesce a capire cosa stia succedendo al proprio bimbo, come doveva essersi sentita sua madre, dunque. Ero dunque inglobata e paralizzata in una riattualizzazione della relazione precoce fra L. e la sua mamma.

In una attività di MA svolta in quel periodo, entrai in contatto con le qualità di movimento con cui L. esprimeva da una parte la deprivazione relazionale ed emotiva, dall’altra il conseguente cristallizzarsi del ruolo di “sacrificato”. Erano le stesse qualità che L. tentava di esprimere immaginando di essere un eroe del wrestling: io dovevo portare L. a produrre gesti compiuti, con un inizio e una fine, e non lasciarlo solo a cercare un pallido e frustrante riflesso di questi gesti, perduto e irretito nel suo mondo immaginario, irreale. Al crocevia della pubertà, L. stava semplicemente cercando di emergere dal “mondo dell’ombra” in cui era stato relegato.

Considerando gli elementi di movimento su cui potevo sintonizzarmi per agire come Oggetto-Sé empatico, ho deciso di lavorare sugli elementi mancanti, in ombra, non integrati, ma fortemente desiderati da L., e impossibili da raggiungere da solo.

Ho cercato quindi materiali facilitatori per aiutare lui e me a rimanere in contatto con le qualità di movimento che stavamo cercando: i materiali avrebbero facilitato l’indirizzarsi e lo strutturarsi dell’azione corporea, favorito l’intenzionalità del movimento, creato sia un “pretesto” per esplorare nuovi movimenti, che una possibilità di raccontare se stessi col movimento.

Il pallone mi era sembrato un materiale perfetto per sperimentare sia col calcio che col lancio a mano l’effort del peso nella verticalità, che assolve al compito di raggiungere ciò che il bambino, secondo la Kestenberg, sperimenta nella Fase Anale, e cioè una forma di base per la presentazione e rappresentazione di Sé e degli oggetti, favorendo l’intenzionalità e l’ autoaffermazione.

Questi movimenti favoriscono altrettanto l’ efficacia per muoversi verso la dimensione sagittale, movimento descritto nel KMP come specifico della fase uretrale. In questa fase, il bambino sperimenta la mobilità nel camminare e nel correre nello spazio, nel fermarsi e nel ripartire e nell’ alternanza fra flusso libero e flusso tenuto, sente che il suo corpo è mobile ed elastico. La palla è un oggetto che può riportare alle caratteristiche dello sviluppo e della funzione materna di questo periodo: quella “mobilizzante”, che spinge il bambino a esplorare lo spazio, e quella “contenente” che ritorna a lui e da cui lui ritorna quando l’esplorazione è terminata.

Gli ho proposto di centrare un grande foglio che avevo attaccato al muro come bersaglio (attivazione dello spazio diretto), dove poter tirare successioni di cinque pallonate forti (attivazione del peso forte attivo), dopo di che respirare profondamente per ricaricarsi (connessione col flusso di forma).

L. si è interessato subito a questo gioco, e in esso ha sperimentato il piacere di calciare un pallone pesante e resistente, che richiede ai muscoli una forte attivazione e alla forma del corpo un grande adattamento. Sono emersi fin da subito i gesti direzionali di allungarsi verso lo spazio e poi tornare a chiudersi, allontanarsi e avvicinarsi, separarsi dall’oggetto e poi ritrovarlo, mantenendo un focus direzionale nello spazio e stabilità corporea.

Così L. si è allenato a sentire il  peso, alternando flusso libero e tenuto: gradualmente si è concentrato sul bersaglio da colpire e sul peso attivo da utilizzare nel calcio al pallone, per potere calciare da distanze sempre maggiori. Il bambino ha anche sperimentato l’allargamento e il  restringimento della propria forma corporea, ed è emersa dapprima la connessione omolaterale nella dimensione sagittale che gli permetteva di sperimentare la stabilità di una parte del corpo, mentre l’altra si muoveva in avanti, in una collaborazione degli opposti, e in una organizzazione chiara dei compiti di ciascuna parte del corpo, che dava efficacia al gesto; successivamente si è espressa in pienezza, nei calci più forti e angolati, in cui sfruttava tutto lo spazio della palestra, anche la connessione controlaterale  (Hackney 1999), grazie alla quale ho potuto vedere L. compiere movimenti tridimensionali, in grado di “scolpire” lo spazio.

Finalmente eravamo riusciti a interagire uscendo dal mondo della frustrazione e della fantasia e ad avviare una relazione portando una cosa molto semplice: un calcio a un pallone! Le fantasie di movimenti che esprimessero forza e potenza, finalmente si sono potute riversare nella realtà, e L. ha potuto avere al suo fianco un adulto che lo aiutava e lo incoraggiava in questa ricerca di autoaffermazione e di efficacia.

Ma, man mano che il gioco proseguiva nelle settimane, avvertivo sempre più chiaro in quei calci il “rumore di fondo” dell’aggressività. Attendevo dunque, fiduciosa, ma anche timorosa, i nuovi sviluppi del processo terapeutico.

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BIBLIOGRAFIA:

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Libertà di parola (2013), di Nigel Warburton – Recensione

Recensione del libro:

Libertà di parola

di Nigel Warburton

(2013)

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Libertà di parola . - Immagine @Forsthoff-B-927Libertà di parola: Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna

Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Non è forse questa espressione, attribuita a Voltaire, che più di ogni altra sublima la radice della libertà di parola? “Certamente”, potrebbe sostenersi in prima battuta. “Forse”, verrebbe da pensare riflettendoci qualche minuto in più. “No”, azzarderebbero alcuni.

E allora, cosa vuol dire in realtà libertà di parola? E quanto influiscono gli schemi individuali, sociali o la situazione politica?

Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna. L’autore traccia, così, una sorta di percorso a mezzo del quale disegna, ad uso e consumo del lettore, una tela sulla quale prendono forma, pagina dopo pagina, molteplici e talora contrastanti riflessioni. Riflessioni che accompagnano in un viaggio che muove i primi passi sul selciato di casi pratici, noti alla cronaca, ed assai discussi, vertenti proprio sul delicato tema della libertà di parola, intesa come ampia gamma di comunicazione, scritta, verbale, fotografica, o cinematografica.

Ebbene, Warburton – nel richiamare, con immediatezza espositiva, peculiari vicende – ci ammonisce della difficoltà di individuare le eccezioni alla rivendicazione della libertà di parola, che consentano di leggere il principio in maniera coerente ed estranea ad indesiderabili censure. Così, egli ricorda come in quante occasioni, nel più recente trascorso, scrittori, politici, registi, abbiano dovuto bilanciare tale libertà – lungi dal poterne individuare una zona franca, scevra da limiti e confini – con l’esigenza di garantire alla società la protezione di rilevanti fattori, quali la sicurezza nazionale, o il pregiudizio al minore. Bilanciare senza censurare, si intende. Ecco che l’autore ricorda come il giornale Index on Censorship, per anni abbia relazionato di scrittori imprigionati, torturati o uccisi per aver espresso le loro idee.

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E ancora, si apre lo scenario sul memorabile verdetto emesso dal giudice Oliver Wendell Holmes Jr nella decisione “Schenck vs United States”, quando sostenne che la libertà di parola non includesse la libertà di urlare “Al fuoco!” in un teatro affollato. Il filosofo si sofferma, poi, sul caso del libro “Hit Man: A Technical Manual for Indipendent Contract Killers”, che – scritto come lavoro di finzione teso a fornire indicazioni sul come uccidere e disfarsi dei corpi – monopolizzò l’attenzione pubblica quando un certo Horn, seguendo le istruzioni contenute nell’opera, assunse un killer per uccidere l’ex moglie, il figlio e la sua infermiera, ed incassarne così l’assicurazione.

Ricordando, poi, la questione degli incriminati passaggi contenuti nel noto romanzo “I versi satanici” di Rushdie, lo studioso – nel secondo capitolo – ci introduce nel dibattito filosofico dominato dal “Saggio sulla libertà” di John Stuart Mill, a difesa della tolleranza di un vastissimo ambito di espressioni individuali, fermo il rispetto del cosiddetto “principio del danno”, ovvero della preservazione della libertà d’espressione, contenibile nei soli limiti della possibilità di arrecare pregiudizio ad altri soggetti.

E se la discussione di Mill – sostiene Warburton – “getta comunque luce sul problema della negazione dell’Olocausto” – tale caso, focalizzato sui fatti e dunque sulla circostanza che affermazioni specifiche potessero o meno essere veritiere, differisce nettamente da altre questioni. Si pensi alla prima messa in scena della commedia “Behzti” (disonore) interrotta da manifestanti sikh, che la reputarono offensiva. Di qui, lo scrittore torna sulla querelle inerente l’efficacia offensiva della parola, accendendo i riflettori sui limiti da porsi a detta libertà, nell’ipotesi in cui ne possa discendere un’offesa a terzi. Il riferimento, in particolare, è alla sensibilità religiosa. Il filosofo, in sintesi, si chiede se possa imbavagliarsi la parola a fronte del pregiudizio arrecato, o arrecabile, a questo o a quel credente.

Si percorrono – nel terzo capitolo – le vie della legge sulla blasfemia, della proposta legislativa avanzata da Tony Blair nel 2005 sulla proibizione dell’incitazione all’odio religioso, sul tragico omicidio del regista Theo van Gogh, ucciso da un uomo che appuntò sul petto della vittima una lettera che citava il Corano. L’opera si adagia, poi, sulla problematica sfida alla liberta d’espressione: la pornografia.

L’autore – richiamando il pensiero di Schauer, che la inquadra come mero ausilio sessuale, e non come vera e propria comunicazione – giunge a chiedersi se, assicurata l’assenza di lesioni a terzi, ed escluso il danno psicofisico per gli stessi attori che partecipano alla realizzazione delle scene, la si dovrebbe tollerale o meno. Pornografia messa in connessione, di seguito, con l’arte.

Interessante, sul punto, l’annotazione del processo “Lady Chatterley”, teso a stabilire se potesse consentirsi la pubblicazione del romanzo, o se, invece, dovesse propendersene per il veto alla stampa, alla luce dell’Obscene Publications Act.

Scorrendo oltre, la penna del Warburton si adagia sulle potenzialità legate all’avvento delle nuove tecnologie e del particolare sistema di interazione attraverso la chat room, o gli incontri virtuali. Ecco che lo scrittore, legandosi al pensiero di Richard Posner, elenca i pericoli, da questi individuati, e connessi all’uso di Internet (anonimato, mancanza di controllo di qualità, enorme pubblico potenziale, la comunicazione tra persone antisociali).

Non da ultimo, esamina le problematiche legate al web, ed agli ulteriori limiti alla libertà di parola imposti dalla legislazione sul copyright. Inciso nella mente del lettore, lo si deve ammettere, è il rilievo conclusivo per cui – se è vero che Internet “democraticizza la comunicazione” – allora nel futuro che ci apprestiamo a percorrere, la tolleranza della libertà di parola potrà inquadrarsi (più che come decisione di principio), quale mero “risultato della difficoltà pratica di ridurre al silenzio così tante voci espresse in così tanti modi intorno ai principali media”.

Si chiude, così, con un marcato input ad una coerente riflessione sugli odierni mutamenti, la pregiata opera di Warburton.

 

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SULL’INGIUSTIZIA DI AMARTYA SEN (2013) – RECENSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Rimuginio e Ruminazione nella Sindrome Fibromialgica – Assisi 2013

 

Assisi 2013

LA SINDROME FIBROMIALGICA:

IL RUOLO DEL RIMUGINIO E DELLA RUMINAZIONE RABBIOSA

Ricci A. 1, Bonini S. 1, Continanza M.1, Turano M.T.2, Puliti E.1,2, Finocchietti A.1,3

 1 Scuola Cognitiva Firenze; 2 Centro Cognitivismo Clinico Firenze; 3 Studi Cognitivi Milano.

Introduzione

La Fibromialgia è una malattia reumatica caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico cronico

ed esteso a tutte le aree del corpo, dalla presenza di aree dolorabili alla digitopressione senza però presentare alterazioni rilevabili con esami di laboratorio. A livello clinico, inoltre, il dolore sembra essere associato ad una complessa sintomatologia extra-scheletrica che varia da caso a caso. Nell’ultimo decennio vari studi, partendo dal modello biopsicosociale, si sono focalizzati sull’analisi dei fattori psicologici coinvolti nell’insorgenza ed evoluzione della SF dimostrando l’esistenza di una comorbilità con i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore.

Inoltre da un nostro precedente studio è stato possibile osservare, rispetto ad un campione di soggetti sani, un diverso profilo psicologico nei soggetti fibromialgici in relazione all’ansia e alle

variabili cognitive di controllo e rimuginio.

 

Obiettivo

Lo scopo del presente lavoro è stato quello di esplorare la differenza tra un gruppo di soggetti affetti da Sindrome Fibromialgica, un gruppo con altre patologie di dolore cronico (osteoporosi e artrosi) e un gruppo di soggetti sani rispetto alle variabili  ansia e depressione.

Inoltre si è indagata la differenza tra i tre gruppi relativamente ai processi cognitivi di rimuginio ansioso e ruminazione rabbiosa.

 

Metodo

A 30 soggetti con diagnosi di Fibromialgia (SF), con età media pari a 53,79 anni, a 30 soggetti con un’altra tipologia di dolore cronico (osteoporosi e artrosi) (DC), di età media pari a 61,63 anni, e a 30 soggetti sani (SANI), di età media pari a 56,29 anni, è stata somministrata una batteria di test composta da:

– Questionario anamnestico

– State-Trait Anxiety Inventory STAI – Y

– Penn State Worry Questionnaire PSWQ

– Anger Rumination Scale  ARS

– Beck Depression Inventory BDI-I

Successivamente dai dati ricavati sono state calcolate le differenze tra i tre gruppi rispetto a tutte le variabili considerate.

 

Analisi dei dati

E’ stata condotta una Analisi della varianza (ANOVA) separatamente per ciascuna variabile considerata attraverso la quale è stata verificata una differenza significativa tra i gruppi in tutti i test: STAI di stato (F=62.5; p<0.001); STAI di tratto (F=51.7; p<0.001); PSWQ (F=69.9; p<0.001); ARS (F=66.5; p<0.001); BDI (F=707.2; p<0.001).

Nei test STAI di stato, STAI di tratto, PSWQ e ARS, SF differisce sia dal DC (p<0.001) che dai SANI (p<0.001), presentando livelli più alti di ansia di stato e di tratto, rimuginio ansioso e ruminazione rabbiosa; DC e SANI non differiscono significativamente.

Nel test BDI, ciascun gruppo differisce significativamente dall’altro (p<0.001); SF presenta livelli di depressione più alti rispetto ai SANI, ma non al DC; il DC presenta un livello di depressione più alto sia rispetto ai SF che ai SANI.

 

Conclusione

In accordo con la letteratura, il gruppo SF presenta livelli più alti alla variabile ansia rispetto al gruppo DC e ai SANI e alla variabile depressione, rispetto al solo gruppo SANI. In riferimento a quest’ultima variabile, il gruppo DC presenta livelli più alti sia rispetto al gruppo SF che ai SANI: dato interessante che necessita di ulteriori approfondimenti.

Lo studio evidenzia un risultato nuovo, non presente ad oggi in letteratura: i pazienti fibromialgici mostrano, infatti, livelli più alti alle variabili rimuginio ansioso e ruminazione rabbiosa rispetto agli altri due gruppi. I dati relativi al rimuginio ansioso sono in linea con quanto emerso nel nostro precedente studio, mentre risulta essere del tutto innovativo il dato relativo alla ruminazione rabbiosa.

Questi risultati hanno permesso di aggiungere ulteriori caratteristiche al profilo psicologico del paziente fibromialgico e potrebbero avere importanti implicazioni nel trattamento della Sindrome Fibromialgica attraverso protocolli mirati di CBT.

ll presente studio si sta attualmente sviluppando attraverso l’analisi correlazionale di tutte le variabili oggetto della ricerca.

 

Riferimenti Bibliografici

Baldetti & Bartolozzi, 2012; Bonini et al.; 2012, Ghisi et al.; 2006, Pedrabissi & Santinello, 1989; Sanavio et al.,1997; Sarzi–Puttini, 2003; Sarzi-Puttini & Cazzola, 2009; Sassaroli, Lorenzini & Ruggiero,2006

 

ARTICOLI SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

 

Bias Egocentrico Emotivo: quale area cerebrale è coinvolta? – Neuroscienze

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Bias egocentrico emotivo: Quando siamo tristi ci sembra che il mondo pianga con noi, quando siamo contenti invece tutto splende e anche gli altri ci sembrano felici.

Si pensa che questo noto meccanismo di proiezione delle proprie emozioni sugli altri possa essere alla base della capacità di interpretare e rapportarsi agli altri.

In alcune circostanze, tuttavia, questo egocentrismo emotivo – un errore chiamato bias egocentrico emotivo, EEB –  può indurci ad errori grossolani.
Giorgia Silani , neuroscienziato presso la SISSA , in collaborazione con un gruppo internazionale di ricercatori ha identificato un’area del cervello coinvolta in questo processo.

I ricercatori hanno misurato la probabilità dei soggetti di sbagliare valutazione, poi, grazie alla risonanza magnetica funzionale, hanno identificato una zona cerebrale che si attivava quando i soggetti commettevano errori: il giro sopramarginale destro.

In una  terza fase dell’esperimento i ricercatori hanno cercato di “sabotare” l’attività cerebrale di questa zona, disattivando temporaneamente l’attività nervosa in quest’area con la stimolazione magnetica transcranica. Quando l’area cerebrale era disattivata i soggetti commettevano significativamente più errori della media, confermando il ruolo fondamentale di questa area cerebrale nel processo.

“I risultati del nostro studio,” spiega la Silani “mostrano per la prima volta i marcatori fisiologici dei meccanismi sociali altamente adattabili, come ad esempio la capacità di sopprimere i nostri stati emotivi per permetterci di valutare correttamente quelli degli altri. La ricerca ci permetterà di capire come queste abilità si sviluppano e decadono nel tempo e come possiamo incrementarle.

LEGGI:

BIAS – EURISTICHE NEUROPSICOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Italy in a Day – Documentario Collettivo di Salvatores, girato da voi.

Italy in a day

Un Social Documentary (Crowd-sourced movie)

Diretto da Gabriele Salvatores

Sabato 26 ottobre 2013 è stato scelto come il giorno di Italy In A Day, progetto cinematografico documentario ricalcato sull’originale Life In A Day su progetto di Ridley Scott, circolato su Youtube nel 2010, definito il primo social movie

Italy in a Day - Progetto di social documentary a cura di Gabriele Salvatores - Immagine: © 2013 Costanza Prinetti
Illustrazione: Costanza Prinetti

LEGGI LA RECENSIONE DI LIFE IN A DAY (2010) DI RIDLEY SCOTT

Da qualche anno, più precisamente dalla comparsa degli amati e vituperati social network, i nostri autoscatti, le foto con gli amici, i nostri pranzi e le nostre cene, i nostri video più o meno divertenti sono finiti su bacheche di Facebook o circuiti di Instagramers, giusto per citare due dei social più famosi; gli autoscatti delle nostre gambe nude e abbronzate in riva al mare sono state protagoniste dell’estate 2013 con la serie “Wurstel che pubblicano le foto della propria vacanza”, ripresa da più testate giornalistiche. E l’autoscatto non si chiama più autoscatto, già: ora si dice selfie.

Tutti questi frammenti visivi delle nostre vite, però, circolano ancora separati, in chiave autoreferenziale: sono simili a parole solitarie che non riescono a formare un vero e proprio discorso leggibile. In poche parole, non raccontano una storia. Sono accenni, semmai.

Per questa valanga di immagini c’è adesso l’occasione di inserirsi in un nuovo canale più collettivo, più “partecipativo”. Sabato 26 ottobre 2013 è stato scelto come il giorno di Italy In A Day, progetto cinematografico documentario ricalcato sull’originale Life In A Day su progetto di Ridley Scott, circolato su Youtube nel 2010, definito il primo social movie.

Prodotto da Indiana Production e da Rai Cinema con Gabriele Salvatores alla regia, Italy In A Day sabato prossimo darà la possibilità di mostrare a tutti, e non solo agli “amici di bacheca”, la nostra quotidianità: che si tratti di portare a spasso il cane, accogliere in aeroporto un gruppo di ceramisti tedeschi o affrontare un’operazione chirurgica; la prima colazione in famiglia, i capricci del figlio, la macchina che si è rotta, la spesa al supermercato dell’ultimo minuto; la telefonata via Skype a un amico lontano, il cinema del sabato sera o la nascita di un figlio… niente è banale, tutto è ben accolto.

I filmati verranno in seguito selezionati e montati per creare l’affresco di un giorno in Italia. Vedere cosa la gente avrà scelto di riprendere potrà farci intuire, forse, una sorta di possibile “psiche” (o zeitgeist) nazionale al di sopra di politica, religione e credo?

 

Per chi volesse partecipare, tutte le informazioni sono disponibili sul sito www.italyinaday.rai.it

 

LEGGI ANCHE: Life in a day: un Poema Audiovisivo 2.0

ARTICOLI SU: CINEMA

CINEMA & PSICOTERAPIA

Màt 2013: la Settimana della Salute Mentale – Modena

Renata Bedini, Associazione Insieme a Noi

 Màt 2013

La Settimana della salute Mentale a Modena

 

Si è apertaMàt 2013 - Settimana della salute Mentale venerdì 18 ottobre la terza edizione della Settimana della Salute Mentale a Modena, una sperimentazione di divulgazione scientifica e partecipazione pubblica nata dalla collaborazione tra il locale Dipartimento di Salute Mentale e le associazioni del territorio.

Il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche Fabrizio Starace e i Presidenti delle associazioni di utenti e familiari Paola Relandini e Tilde Arcaleni hanno presentato stamane 10 ottobre un programma ricco di iniziative artistiche e culturali, di approfondimento scientifico e di dibattito.

Sempre più nutrito e variegato il gruppo di ospiti nazionali e internazionali che accompagna la manifestazione. Si va da Shekhar Saxena, Direttore della divisione Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Peppe Dell’Acqua, successore ed erede di Franco Basaglia nell’impegno per l’umanizzazione dei luoghi di cura della sofferenza psichica. Passando per il Vice Ministro Maria Cecilia Guerra e il Senatore Nerina Dirindin, note per il grande impegno profuso per la modernizzazione e l’equità nelle politiche di welfare. Da David Shiers, esperto britannico di politiche sanitarie, allo scrittore Ugo Cornia, che si cimenterà in un dialogo letterario con la follia. Passando per Sergio Zavoli e Massimo Cirri, due generazioni di grandi giornalisti a confronto, fino ad arrivare a Bobo Rondelli, cantautore livornese noto al pubblico per le sua ballate intrise di ironia e impegno civile.

Il filo conduttore degli eventi della settimana sarà quello della “guarigione possibile”, un tema scelto per dare speranza a chi soffre un disagio psichico oppure vive in famiglia l’esperienza della malattia di un proprio caro. Un’esperienza largamente diffusa, come dimostrano i dati recentemente divulgati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo le stime scientifiche, una persona su tre vive un periodo di disagio psichico nell’arco della propria esistenza. Il confronto con i dati raccolti dall’OMS negli anni precedenti dimostra inoltre che è in corso una crescita delle richieste di intervento psichiatrico, da ricollegare alle crescenti condizioni di stress provocate dalla crisi economica in atto.

Si è scelto allora proprio il tema della guarigione possibile per mantenere vive le ragioni di un argomentato ottimismo. I dati in raccolti dal Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Modena dimostrano che negli ultimi anni stanno crescendo in qualità e in quantità le “buone prassi” all’interno dei servizi della Provincia. La maggiore attenzione alle evidenze scientifiche, la costante collaborazione e la verifica dei risultati svolte con i rappresentanti degli utenti e dei familiari, stanno accrescendo l’efficacia degli interventi e, di conseguenza, aumentando la credibilità del servizio pubblico. L’abbattimento degli episodi di “contenzione” purtroppo ancora tristemente diffusi fino a qualche anno fa, dimostra il “cambio di rotta” dei servizi di salute mentale, ormai orientati verso la promozione dei diritti e delle capacità personali, che, se protette e coltivate, resistono anche al sopraggiungere del disturbo più severo.

La relazione annuale presentata dal Dipartimento indica sempre più chiaramente il cambiamento complessivo che sta interessando la cultura dei servizi: superato l’ultimo pregiudizio della “inguaribilità”, nessun cittadino può più essere condannato a perdere il proprio ruolo e i propri diritti in conseguenza di una diagnosi psichiatrica. Ma questo, come sottolinea il Direttore Starace, solo a patto che alla tutela della salute mentale siano affidate risorse in misura congrua e razionale. Proprio nel momento in cui la cittadinanza è più esposta ai rischi di una crisi che ha gravi ripercussioni sulla salute mentale, la collettività e i suoi organi di governo hanno il compito di rafforzare le reti di difesa. In primo luogo aumentando la spesa sociale, in secondo luogo riconvertendo la spesa oggi destinata ai ricoveri ospedalieri, spesso svilenti e dannosi per chi li subisce, in interventi professionali rivolti alla crescita della sensibilità, della consapevolezza e della capacità di accogliere e superare il disagio.

La settimana della Salute Mentale lancia allora un messaggio alla cittadinanza: è necessario “riprendersi la salute”, cioè ripensare alla propria condizione di benessere psicofisico e soprattutto riprendere in mano i servizi pubblici: controllare, valutare, esprimere bisogni, proporre idee e soluzioni.

E proprio questo è stato lo spirito che ha orientato la costruzione di questo programma denso di iniziative: da Febbraio a Settembre sono giunte più di 90 proposte da soggetti interessati del mondo dell’associazionismo, della cooperazione sociale, delle amministrazioni pubbliche, della scuola, dell’università, del volontariato, delle associazioni di categoria, delle associazioni professionali e del mondo imprenditoriale. Dopo 3 assemblee pubbliche e aperte alla cittadinanza, ciascuna con una presenza di circa 80 partecipanti, e un percorso di elaborazione partecipata durato 8 mesi, sono stati definiti più di 80 eventi, che coinvolgono più di 150 enti tra promotori e collaboratori, distribuiti in 50 sedi in 15 Comuni della Provincia. 16 presentazioni di libri, 10 spettacoli teatrali, 8 proiezioni di film, 5 spettacoli musicali, per finire con 3 gruppi di automutuo aiuto “aperti” su problemi specifici come l’abuso di sostanze, un’assoluta novità nel panorama modenese. Innumerevoli i temi toccati: dalla lotta alle mafie, alle nuove dipendenze, agli interventi precoci sul disagio giovanile, dalle politiche sanitarie al ruolo dell’associazionismo, dall’inclusione degli studenti disabili a scuola alle migrazioni, dall’autismo alla scrittura autobiografica, dalla contenzione meccanica al superamento degli Opg, dal rapporto con i Mass Media alle riflessioni di Franca Ongaro Basaglia.

70 sono gli ospiti tra i relatori, provenienti da tutta Italia e rappresentanti di vari territori, esperienze umane e formazioni professionali. Oltre alle associazioni, ai comitati, ai movimenti di cittadini e alle rappresentanze di familiari e utenti, i dibattiti saranno condotti e partecipati da rappresentanti delle professioni mediche, sanitarie, tecniche, accompagnati da psicologi, sociologi, antropologi, pedagogisti, giornalisti, giuristi, giovani ricercatori, sindacalisti, scrittori, esperti di politiche pubbliche, amministratori e rappresentanti delle istituzioni.

Come nella famosa canzone di De Andrè, “dietro ogni matto c’è un villaggio”, dietro Màt può ormai sentirsi rappresentata tutta la comunità modenese, ma questa volta non in una dinamica di esclusione, come era quella narrata dal cantautore genovese, ma orgogliosa di prendere parte a un progetto collettivo di inclusione e costruzione collettiva di benessere.

 

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Màt 2012 – La Settimana della Salute Mentale a Modena

Giornata Mondiale della salute Mentale

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mental health action plan 2013-2020. I.Mental health. 2.Mental disorders – prevention and control. 3.Mental health services. 4.Health planning. I.World Health Organization ISBN 978 92 4 150602 1 (NLM classification: WM 101)
  • Organizzazione Mondiale della Sanità – Website: www.who.int

 

L’autocaratterizzazione degli allievi prima e dopo la formazione in psicoterapia – Assisi 2013

Assisi 2013

L’autocaratterizzazione degli allievi prima e dopo la formazione in psicoterapia

Aprile C., Del Ponte H., Di Bari S., Formiconi C.,

Galassi F. R., Ialenti V., Lambertucci L.

(Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto)

 

INTRODUZIONE:

La ricerca consiste in uno studio longitudinale che confronta le autocaratterizzazioni di 20 allievi di una scuola di specializzazione in psicoterapia, all’inizio e al termine del percorso formativo, con quelle di un gruppo di controllo che non svolge nel medesimo arco temporale alcuna formazione. L’obiettivo è verificare se la formazione comporterà negli studenti della scuola un processo evolutivo di assimilazione e accomodamento. Vengono presentati i risultati preliminari. I risultati definitivi si avranno nel 2015 al termine del training di formazione. Le autocaratterizzazioni sono state valutate con l’analisi del contenuto. E’ stato adottato un protocollo che definisce le procedure seguite, il manuale dei codici interpretativi e la griglia di codifica. Un gruppo di ricercatori è stato addestrato e formato e opportune modalità di controllo e rotazione hanno consentito di confrontare e omogeneizzare la codifica delle categorie d’analisi.

HA PRESENTATO IL LAVORO: Dott.ssa Laura Lambertucci

 

 

 

 

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