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Terapia Metacognitiva: Adrian Wells al Congresso Nazionale di Rimini

DETTAGLI EVENTO: Metacognizione e Intervento Clinico – Congresso Nazionale – Rimini 2013

Congresso nazionale Rimini 2013 Metacognizione e intervento clinico Il primo congresso nazionale sulla Metacognizione, dedicato al confronto tra i diversi modelli teorici che trattano l’argomento, si è concluso con la lettura magistrale di Adrian Wells, noto autore della Terapia Metacognitiva (MCT).

L’intervento ha anticipato i contenuti delle due giornate successive, interamente dedicate al workshop sul suo modello (Wells, 2011).

Adrian Wells ha aperto il workshop con il concetto di “disturbo” secondo la MCT.

La nostra mente produce in maniera automatica circa 3.000 pensieri al giorno, di qualsiasi natura. Un pensiero arriva spontaneamente e va via velocemente, lasciando spazio in maniera naturale a quello successivo.. e così il susseguirsi di pensieri dà vita ad un flusso di coscienza armonico e sano

Patologia”, è quando l’attenzione si blocca su uno di questi pensieri e arresta il “flusso”, dirigendo tutte le energie solo su uno di questi, dal quale poi originano una serie di interrogativi finalizzati ad un’indagine accorta e minuziosa di quel pensiero “minaccioso”.

E a questo punto il Prof. Wells introduce la definizione di Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS), responsabile dello sviluppo di disturbi di natura psicologica.

La CAS è costituita da:

1-         Orientamento dell’attenzione verso stimoli minacciosi (pensiero negativo e elementi dell’ambiente che confermano quel pensiero)

2-         Sensazione soggettiva di perdita di controllo e altre convinzioni positive e/o negative sul proprio funzionamento cognitivo

3-         Strategie di coping cognitive e comportamentali in risposta al pensiero negativo (rimuginio, ruminazione, soppressione dei pensieri …)

Iniziano i filmati e le esercitazioni sulle tecniche del colloquio del terapeuta MCT a confronto con quello CBT.  Il Professore  consegna una vignetta: il paziente fobico sociale con il pensiero negativo “Sono Noioso”.  I terapeuti si confrontano in role-playing e le differenze tra le 2 tecniche sono subito visibili:

 

Per il terapeuta MCT il contenuto del pensiero non è importante, non lo indaga cercando di disconfermarlo, ma invita il paziente a concentrarsi sul suo stile di pensiero, sulla sua utilità e sui suoi svantaggi. Addirittura in alcuni casi, continuare a rimanere concentrati in seduta sull’evento problematico, sul pensiero “minaccioso” potrebbe essere controproducente in ottica MCT perché potrebbe continuare a favorire i contenuti emotivi negativi indotti da quei pensieri, invece di ridurli insegnando al paziente modalità più funzionali.

A questo punto il Prof. Wells introduce le tecniche di intervento della MCT che sono sostanzialmente di 2 tipi:

1-         Esperienziali, finalizzate a far esperire direttamente al paziente nuove forme di pensiero più funzionali. Tra queste vediamo il Training Attentivo, la Detached Mindfullness, le Associazioni Libere

2-        Basate sulle informazioni, finalizzate alla modifica delle credenze metacognitive positive e negative che rinforzano e regolano l’utilizzo di stili di pensiero maladattivi.

Il workshop si conclude con la presentazione dei dati di efficacia del modello, ad oggi studiato su diversi disturbi di Asse I, ma il Prof. Wells sembra molto ottimista rispetto ad ampliarlo anche per quelli di Asse II.  Per il momento non aggiunge dettagli e non presenta dati a riguardo, ma ci informa di un trial clinico in corso in Norvegia, condotto su pazienti Borderline (Nordahl et al. 2013).

Il modello di Wells sembra convincente e ben studiato, ma un quesito rimane inesplorato. Perché il paziente sceglie proprio 1 di quei 3.000 pensieri che scorrono nella nostra mente? Perché l’attenzione si arresta su uno di quelli e la CAS si sviluppa proprio intorno a quello? Lo stile di pensiero disfunzionale del paziente è riferito solo ad un pensiero negativo (che lui stesso sceglie) mentre gli altri invece passano in maniera neutra..

Per il terapeuta MCT capire il significato che il paziente attribuisce a quel pensiero non sembra essere utile.

L’aula ascolta attenta, ma un po’ dubbiosa. Tanti chiarimenti vengono richiesti e la difficoltà maggiore dei terapeuti sembra proprio quella di cambiare lo stile di ragionamento che si ha in seduta con il paziente. Non si indagano più i contenuti dei pensieri, ma ci si concentra sulla forma del pensiero, promuovendo il cambiamento non attraverso l’insegnamento di un’abilità deficitaria, ma attraverso l’esperienza di nuovi stili di pensiero più funzionali.

Il cambiamento di prospettiva non sembra semplice neanche per i terapeuti più esperti…

Insomma sembra quasi che un training attentivo che ci alleni a spostare l’attenzione dai contenuti dei pensieri del paziente al suo stile di pensiero serva anche a noi terapeuti ancora “troppo” focalizzati sui significati!

Salutiamo Adrian Wells che con fermezza e rigore ha risposto instancabilmente ai molteplici, e a tratti un po’ provocatori, commenti dell’uditorio italiano.

 LEGGI ANCHE:

METACOGNIZIONE E INTERVENTO CLINICO – CONGRESSO NAZIONALE RIMINI 2013

METACOGNIZIONE – TERAPIA METACOGNITIVA – COLLOQUIO PSICOLOGICO – CREDENZE – BELIEFS

ARTICOLO CONSIGLIATO:

LE MOLTE ANIME DELLA METACOGNIZIONE: REPORT DAL CONGRESSO NAZIONALE DI RIMINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Nordahl HM. (2013) Principles and effects of metacognitive therapy in patients with borderline personality disorders. Second International conference of metacognitive therapy – Manchester 2013, April 24-26
  • Wells A. (2011) Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. Ed. it. a cura di: Gabriele Melli. 2012 Eclipsi Editore

Report dal convegno – La grave obesità: dal corpo alla mente

Report dal convegno:

La grave obesità: dal corpo alla mente

Aspetti clinici psicopatologici e approcci terapeutici integrati in equipe multidisciplinareReport dal convegno:  La grave obesità:dal corpo alla mente - LOCANDINA

Ciò che si riscontra nel soggetto obeso è una scarsa conoscenza del proprio vissuto emotivo, una forte insoddisfazione per il proprio corpo associata a senso di inadeguatezza, sensibilità al giudizio e alle critiche e tendenza ad attribuire alla mancanza di volontà i numerosi fallimenti dietologici affrontati nel corso della vita.

Quando si parla di obesità si fa riferimento ad una patologia cronica che ha grande incidenza sulla qualità della vità delle persone.

E’ un fenomeno la cui etiopatogenesi è complessa e per la quale ad oggi non è stata ancora indiviuta una strategia unidirezionale efficace nel lungo termine. E’ un fenomeno in continua crescita e, da stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è emerso che l’eccesso ponderale sia, attualmente, il quinto dei fattori di rischio per i decessi che si verificano in tutto il mondo.

A questo si aggiungono i dati di impatto sui costi della salute pubblica; in italia risulta infatti che il 6,7% della spesa sanitaria pubblica  è volto alla problematica dell’obesità. Dal 1980 ad oggi la popolazione che soffre di Obesità risulta essere raddopiata, 1,5 miliardi le persone che, a livello mondiale, sono in sovrappeso di cui 300 milioni i soggeti di sesso maschile e 200 milioni quelli di sesso femminile (OMS).  Ma se guardiamo alle stime fatte per il futuro ci troviamo di fronte ad una previsione tutt’altro che rosea, dai calcoli dell’OMS emerge infatti che entro il 2015 circa 2,5 miliardi di adulti saranno in sovrappeso e 700 milioni obesi.

Un altro importantissimo dato che costituisce un campanello d’allarme riguarda la continua crescita della popolazione infantile in sovrappeso. In particolare nei paesi occidentali l’obesità infantile rappresenta un problema in rapido aumento con notevoli costi a livello sociale e sanitario. Dati provenienti dal Ministero della Salute stimano che in Italia 1 milione e 100 mila bambini, di età compresa tra i 6 e gli 11 anni,  si trovano in una situazione di eccesso ponderale. Più di un bambino su tre ha un peso maggiore di quello ideale per la sua età, ed in particolare il 12% dei bambini risulta essere obeso mentre il 24% è in sovrappeso.

Le percentuali più elevate di obesità infantile si riscontrano nelle regioni del centro sud, è inoltre emerso che le maggiori difficoltà economiche così come una scolarità inferiore delle figura materna siano positivamente correlati con il sovrappeso infantile. Una scorretta educazione alimentare associata ad inattività fisica e comportamenti sedentari favoriscono il rischio di sovrappeso nei bambini. La letteratura scientifica conferma l’allarme che l’eccesso ponderale infatile suscita evdidenziando l’esistenza di una relazione positiva e consolidata fra sovrappeso in età infantile e obesità in età adulta (Sandhu et al., 2006; Dietz et al., 1998). Questo significa,nel lungo termine, che il giovane in sovrappeso ha maggiore probabilità di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o valori elevati di colesterolo nel sangue (ipercolesterolemia).

L’obesità e le patologie obesità correlate sono responsabili del 2-8% dei costi sanitari e del 10-13% dei decessi in diverse parti  della Regione Europea (Rapporto OMS 2012); su base annuale assorbono il 44% di risorse in più dei malati con peso normale  (Seidell 1998). Da qui l’importanza non solo di combattere questo fenomeno ma anche di prevenirlo fornendo al soggetto gli strumenti per affontare una sana alimentazione, associata ad una corretta attività fisica e soprattuto gli strumenti per conoscere il proprio mondo emotivo e psichico.

Nonostante l’obesità sia classificata tra le problematiche in area endorcino metabolica molti soggetti obesi mostrano una vera e propria dipendenza da cibo, fattore che assieme alla lunga durata e alle notevoli complicanze la accomuna al disturbo dell’alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder) classificato fra i disturbi psichici nel DSM-V. Il BED è caratterizzato dall’introdurre all’interno del proprio corpo una quantità di cibo nettamente superiore rispetto a quella che un soggetto che non ne soffre riuscirebbe a fare. 

Questo comportamento è accompagnato da un sensazione di perdita di controllo, il soggetto mangia molto più velocemente del normale e continua finchè non prova una sensazione di disagio legata alla pienezza, non è capace di riconoscere dal punto di vista fisico gli stimoli legati alla fame e per tanto tenderà a mangiare anche quando il corpo non lo richiede.

A questi aspetti comportamentali è legato un vissuto emotivo di forte imbarazzo che spinge la persona a mangiare di nascosto quando gli altri non possono vedere, il soggetto prova disgusto per se stesso, cui si associa un forte stato di tristezza, depressione e senso di colpa. Questi aspetti emotivi sono spesso riscontrabili nei soggetti affetti da obesità.

Ansia e depressione sono fattori spesso presenti in questi soggetti, difficile è stabilire se siano una fattore predisponente allo sviluppo del disturbo o viceversa conseguente. Ciò che si riscontra nel soggetto obeso è una scarsa conoscenza del proprio vissuto emotivo, una forte insoddisfazione per il proprio corpo associata a senso di inadeguatezza, sensibilità al giudizio e alle critiche e tendenza ad attribuire alla mancanza di volontà i numerosi fallimenti dietologici affrontati nel corso della vita. La persona è come se fosse scissa in due, da una parte il corpo e dall’altra il Sé. Corpo che rappresenta anche il mezzo attraverso il quale il soggetto si presenta, e che differisce notevolmente dall’ideale offerto dalla società odierna, implicito in questo è il vissuto di fallimento.

Con questa sofferenza interna che accompagna il soggetto per lungo tempo è chiaro il bisogno di un intervento multidisciplinare per la cura dell’obesità. Associare alle figure medico internistiche e agli esperti di scienze dell’alimentazione una figura che si occupi della valutazione, e del trammento della sfera psicologica dell’indivuo si dimostra quanto mai fondamentale.

Lavorare sulla motivazione, sul senso di inefficacia, sulle emozioni che non vengono lette ma scambiate spesso per fame, affrontare il tema del “piacere” del cibo, piacere demonizzato e incomunicabile vissuto come causa del fallimento che il proprio corpo riveste agli occhi della società, si rivela utile per il processo di cura.

Il fenomeno del drop-out che si verifica durante questi percorsi risente spesso della relazione che si va instaurando con le figure professionali di riferimento. Il soggetto che soffre di obesità si mostra spesso come compiacente nei confronti della figura medica o psicologica e porta anche in questa relazione la spada di damocle del fallimento e del senso di colpa, è per tanto fondamentale parlare non solo del percorso terapeutico ma anche della relazione terapeutica.

Uno degli interventi di cura per l’obesità è rappresentato dall’Intervento con la I mauiscola ossia l’intervento di chirurgia bariatrica. Risulta l’unico intervento attualmente capace di detreminare una perdita di peso significativa nel lungo termine. Tuttavia dobbiamo tenere in considerazione che molto spesso il cibo ha rappresenato per la persona la soluzione ad uno stato di sofferenza, soluzione applicata ripetutamente nel tempo e divenuta parte integrante del proprio vissuto, l’intervento chirurgico può rappresentare una soluzione ma solo se accompagnato dalla determinazione e dalla certezza di voler cambiare totalmente la propria vita ed il proprio modo di affrontarla.

Ritorna di nuovo la necessità di collaborare con un esperto del mondo psichico e del vissuto del paziente che valuti l’idoneità per l’intervento. Affinchè infatti si possa procedere con la chirurgia bariatrica è necessario fare una valutazione psicologica del paziente dalla quale non emergano disordini psicotici, depressione e  disturbi di personalità, fattori che insieme ad altri non consentono l’avvio dell’intervento.

Va tuttavia sottolineato che fra i soggetti  che hanno affrontato un intervento di chirurgia bariatrica una percentuale che va dal 10 al 50% soffre di BED e per tanto dopo l’intervento tende a ripresentarsi l’attegiamento che li ha accompagnati fino al giorno dell’intervento. Da qui l’importanza di un follow-up non solo dietetico ma psicologico che accompagni il paziente e gli dia gli strumenti per consolidare un modo differente e corretto per affrontare questo nuovo percorso di vita.

 LEGGI ANCHE:

ALIMENTAZIONEDISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (ED) BINGE EATING DISORDER (BED)

CONGRESSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Un nuovo Serious Game per l’apprendimento di abilità matematiche

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una piattaforma di apprendimento ludico digitale si propone di aiutare i ragazzi a scoprire il valore intrinseco e  divertente di fare matematica.

Un nuovo progetto presso la Florida State University College of Education ha come obiettivo la creazione di quello si può definire un Serious Game, ovvero un gioco digitale con la finalità  “seria” didattica di  facilitare l’apprendimento della geometria e di altre abilità matematiche.

In particolare gli studenti  “giocatori” avranno il compito di ricostruire un villaggio virtuale distrutto a seguito ad un terremoto, prendendo spunto dal già esistente videogame Lego Minecraft (avente però quest’ultimo pure finalità ludiche di intrattenimento). Impegnati nelle attività di gioco, gli utenti saranno parimenti chiamati a considerare i principi architettonici di simmetria ed equilibrio, fare scelte artistiche sul colore, monitorare budget e spese.

Il gioco sarà rivolto agli studenti delle scuole medie, con una trama coinvolgente e sarà altamente personalizzabile: i giocatori potranno scegliere a loro preferenza di ricostruire virtualmente le città di tutto il mondo.

Ma i ricercatori sottolineano che divertirsi non significa nascondere ai giocatori che stanno imparando, esplicitando la vera finalità didattica educativa insita nell’esperienza di gioco.

Questa piattaforma di apprendimento ludico digitale si propone infatti di aiutare i ragazzi a scoprire il valore intrinseco e  divertente di “fare matematica” contestualmente e non soltanto di sentirla spiegare alla lavagna.

Il processo di progettazione, realizzazione e testing del Serious Game si articolerà su tre anni (fine prevista per luglio 2016): al termine del progetto il gioco Earthquake Rebuild sarà una piattaforma open source, disponibile gratuitamente per chiunque voglia giocare per apprendere.

 

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TECNOLOGIA & PSICOLOGIAPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA  – APPRENDIMENTO

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I SERIOUS GAMES COME MOTORE PER MODIFICARE LE RELAZIONI UMANE

Trattare l’ ansia infantile con il computer: si può!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Mind Wandering: nuove prospettive al di là dell’attenzione esecutiva: l’Intelligenza Personale

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Un interessante articolo che guarda da una diversa prospettiva al mind wandering e al default mode network.
Non tutto il nostro fantasticare e girovagare con la mente fuori contesto viene per nuocere! anzi…

Some recent studies (Baird et al., 2011, 2012; Smallwood et al., 2011b; Immordino-Yang etal., 2012) have provided glimpses of how mind wandering or “constructive, internal reflection” (Immordino-Yangetal.,2012) might benefit the individual, but we are just beginning to scratch the surface. To gain a fuller understanding of the benefits of positive constructive daydreaming we need to apply tools and metrics (as in Klinger et al., 1980; Hoelscher et al., 1981; Nikles et al., 1998; Cox and Klinger, 2011; Klinger and Cox, 2011) that enable us identify the personally meaningful goals, aspirations, and dreams of individuals and determine how mind wandering supports or undermines those goals. Given the highly personal nature of mind wandering, we need a new focus and new metrics.

 

Mind Wandering: A New Personal Intelligence Perspective | Beautiful Minds, Scientific American Blog NetworkConsigliato dalla Redazione

mind wandering
Once accused of being absent-minded, the founder of American Psychology, William James, quipped that he was really just present-minded to his own thoughts.Most recent studies depict … (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Articoli sul Mind Wandering
Vagare con la mente e comportamenti sociali – PARTECIPA ALLA RICERCA
Una ricerca indaga la percezione di come la mente vaga, la tendenza al ritiro sociale ed evitare i contesti sociali nella vita quotidiana dei giovani adulti
Il ruolo difensivo delle fantasie e la relazione tra il narcisismo e il maladaptive daydreaming
Come la narcisistica tendenza alla fantasia può sfociare nel disturbo da fantasia compulsiva all’aumentare del sentimento di vergogna
Maladaptive daydreaming: sognare comuplsivamente ad occhi aperti
Sognare compulsivamente ad occhi aperti: il maladaptive daydreaming, un disturbo poco conosciuto – PARTECIPA ALLA RICERCA
Il maladaptive daydreaming porta gli individui a creare fantasie complesse che arrivano a interferire con la vita della persona - PARTECIPA ALLA RICERCA
Immaginazione come cura le risposte di Neuroscienze e Psicoanalisi
L’immaginazione come cura. Le risposte delle Neuroscienze e della Psicoanalisi
L’immaginazione è un’attività del pensiero che produce scenari distanti o comunque diversi dal qui ed ora e può divenire un utile strumento in psicoterapia
Mind wandering e creativita un possibile legame tra i due processi
Mind wandering: vagabondare con la mente rende più creativi?
Il mind wandering e il pensiero creativo sembrano essere accomunati dello sfruttare la capacità di immaginare attraverso il cosiddetto occhio della mente
Musica: legame con emozioni e mind wandering - Psicologia
“Aspetta.. ho preso le cuffie?”: musica, emozioni e mente che vaga
Nonostante le numerose informazioni su quanto la musica moduli l’attività di strutture cerebrali coinvolte nelle emozioni, il meccanismo non è ancora noto
Mind wandering: il legame con rimuginio, attenzione e sonno REM
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Mind wandering e ippocampo danneggiato le scoperte di C. McCormick
Mind wandering nelle persone con ippocampo danneggiato
Il team di ricerca guidato da C. McCormick ha cercato di capire se e come sia possibile, per le persone con ippocampo danneggiato, il mind wandering.
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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Psicologia: Cosa farei se vincessi alla lotteria? Tutti almeno una volta se lo sono chiesti: la ricerca dice che dovremmo sognare ad occhi aperti più spesso
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Mind wandering: i pensieri inutili che ci rendono intelligenti!
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Uno studio di Neuroimaging funzionale per indagare le differenze di genere (in stato di mind wandering) in risposta al pianto dei neonati. #Neuroscienze
Fantasticare ad occhi aperti..che stress!
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Fantasticare: attività piacevole e comune; si fantastica su persone, eventi e situazioni; ma l'eccesso nel fantasticare genera conseguenze molto negative
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Mindfulness e Memoria di Lavoro
Mindfulness: Secondo una nuova ricerca la memoria di lavoro può funzionare meglio a seguito di un training di mindfulness.
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Mind Wandering: come si misurano i processi cognitivi?
Come l’attenzione viene rapita e trascinata verso stimoli interni e scollegati dal contesto percepito in quel momento? il mind wandering.
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Terapia d’urto – Cinema & Psicoterapia #10

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #10

Terapia d’urto (2003)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Terapia d'urto - Cinema & Psicoterapia #10Spesso i soggetti che hanno difficoltà ad esprimersi in maniera chiara e definita accumulano rabbia e oscillano tra passività e aggressività. 

Info

Un film di Peter Segal. Interpretato da Jack Nicholson, Adam Sandler, Marisa Tomei. Usa 2003. Commedia.

Trama 

David Buznik è una persona timida, insicura e spesso gli altri lo mettono in imbarazzo, si approfittano di lui, lo deridono. Durante un volo aereo s’imbatte in uno stravagante passeggero che gli ha fregato il posto e lo esaspera al punto da creare una rissa. Dave subisce un processo ed è condannato come persona impulsiva e rabbiosa. Per caso, leggendo un libro, scopre che il passeggero che lo affiancava in aereo è uno psichiatra conosciutissimo, Buddy Rydell. Il giudice lo condanna ad un anno di prigione commutata con un periodo di cure e sarà proprio Buddy che si prenderà l’impegno di riabilitare il condannato. Dave è costretto a sottoporsi ad una terapia comportamentale, condotta con metodi non proprio canonici, per migliorare l’autocontrollo. Il bisogno di cure lo porterà ad una spirale incredibile che si concluderà con una terapia di 30 giorni, 24 ore su 24 a fianco del Dr. Buddy Rydell. 

Motivi di interesse 

Dave Buznik è un timido, succube di tutte le persone che incontra. Non riesce nemmeno a far valere i suoi diritti. In aereo, oltre a perdere il suo posto, non riesce a farsi ascoltare dalle hostess. Eppure finisce in tribunale accusato di aggressione ed il giudice gli commina venti sedute di terapia, per il controllo della rabbia, da seguire con lo psichiatra Buddy Rydell.

Una personalità anassertiva che diviene suo malgrado aggressiva senza risolvere i problemi di gestione della rabbia. Spesso i soggetti che hanno difficoltà ad esprimersi in maniera chiara e definita cumulano rabbia e oscillano tra passività e aggressività. 

Il suo terapeuta utilizza metodi estremi che comunque danno dei risultati. Tecniche di rilassamento improbabili in mezzo al traffico della grande metropoli, esposizioni forzate che consentono a Dave di scoprirsi capace di raggiungere i suoi obiettivi, di far valere i suoi diritti, di esporre i suoi bisogni e le sue esigenze. Alla fine Dave riuscirà a ribellarsi ai metodi provocatori del suo terapeuta, ma resta il dubbio se avesse veramente bisogno di una cura per la rabbia, o se sia stato l’incontro con l’eccentrico dr. Buddy Rydell a scompensare una personalità timida e introversa che non avvertiva prima la pur minima egodistonia.

Indicazioni per l’utilizzo 

La relazione tra paziente e terapeuta nel film assume contorni farseschi, ma può essere un utile riferimento per discuterne con il paziente e con gli allievi di una scuola di formazione. Inoltre alcune tecniche di esposizione o di rilassamento possono, anche se esposte con modalità parodiate, fornire una base di confronto con il paziente.

Trailer

 

 

Si segnala anche:

¥ Emotivi anonimi (Les émotifs anonymes). Un film di Jean Pierre Ameris. Interpretato da Benoit Poelvoord, Isabelle Carrè, Lorella Cravotta. Francia, Belgio, 2010. Commedia.

LEGGI ANCHE: 

RECENSIONI – CINEMA  COMPORTAMENTISMO

 

BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE I

Alessandra Cocchi.

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE I

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità - PARTE I. -Immagine: © Ilike - Fotolia.comL. non aveva potuto sperimentare la pienezza e completezza impersonata da Apollo e Artemide: il suo farsi carico, rivestendo il ruolo del gemello “sacrificato”, delle sofferenze narcisistiche della mamma non gli aveva permesso di interiorizzare la parte maschile, solare, attiva, guerriera, né di integrarla con le sue parti più delicate, sensibili ombrose.

In questo scritto analizzerò la specificità della DMT – Danza Movimento Terapia- nel processo di crescita e consapevolezza di un bambino che viveva in famiglia il ruolo di gemello “sacrificato”.

Il ruolo di gemello “debole”, “in ombra”, “sacrificato” all’interno della famiglia con figli gemelli, è da sempre presente in molte culture, ed è stato analizzato dal punto di vista sociologico, antropologico, psicologico: esso ha alluso ad uno stato di possibile, probabile conflitto (Girard, 1972), dovuto alla presenza contemporanea di due esseri  molto somiglianti, che hanno bisogni e desideri simili e spesso contemporanei.

La competitività per lo spazio esistenziale è un fattore presente nelle coppie gemellari già dalla vita uterina. Tale concorrenza perdura dopo la nascita, poiché è difficile che i gemelli trovino possibilità per soddisfare bisogni a volte sono identici e che spesso insorgono nello stesso momento; la competizione fra gemelli, così, può essere favorita dai genitori.

Le originarie asimmetrie fisiche e comportamentali sfociano nell’assunzione di ruoli complementari: un individuo tende ad essere più attivo, l’altro più passivo, uno dominante, l’altro dominato. Ed è così che, da una differenza reale, i genitori possono indurre una “specializzazione” della personalità dei gemelli e una cristallizzazione dei ruoli (Valente Torre 2001).

Più si sviluppano ruoli complementari, più la separazione/individuazione sarà difficile, perché questa comporta la perdita di una parte esistenzialmente indispensabile. Allora le potenzialità psichiche si sviluppano nei due in modo complementare, ma riduttivo: per non perdere il senso di appartenenza alla coppia gemellare,  che si è basato e costruito su ruoli complementari, vi è un blocco della spinta evolutiva, una limitazione della volontà esplorativa delle specifiche possibilità esistenziali di ciascun gemello.

I gemelli sono quindi nella condizione unica di dover dividere la figura di attaccamento con un altro, però, hanno nel co-gemello un altro da sé su cui fare affidamento, e quindi la loro separazione/individuazione viene rallentata dal cosiddetto effetto coppia (Zazzo 1987).

Secondo Sandbank  l’effetto coppia favorirebbe nei gemelli lo svilupparsi di competenze specifiche, ma complementari, che rafforzano e mantengono il bisogno di unione e dipendenza, poiché ognuno ha bisogno dell’altro per completarsi (Sandbank 1988).

Lo psicologo francese René Zazzo (Zazzo 1987) sottolinea poi come nel periodo perinatale si definisca il triangolo relazionale tra la madre ed i gemelli, che fortifica il legame tra i figli a scapito di quello tra mamma e bambini. I gemelli sperimentano da subito come il rapporto con la madre sia meno intenso di quello fra di loro: essi vivono momenti di frustrazione, poiché la madre deve dividere le sue attenzioni e le sue cure, ed entrano allora in competizione per ottenere un rapporto privilegiato con la madre (Agnev, Klein, Ganon 2006).

La madre, se fatica a fare fronte alla difficoltà della situazione triadica, può tentare di ricostruire la diade madre-bambino comportandosi con i gemelli come se fossero un’unità (Barbieri, Fischetti 1997), oppure può incoraggiare il passaggio da una situazione di triade ad una a quattro, in cui viene stabilito un rapporto privilegiato tra la madre ed uno dei gemelli e il padre e l’altro gemello (Sandbank 1988).

E’ proprio ciò che era accaduto nella famiglia di L., gemello “sacrificato” da me seguito per due anni e mezzo (dall’età di 10 anni ai 12) presso la NPIA di un comune emiliano.

Il bambino aveva una diagnosi di inibizione intellettiva causata da depressione. Tuttavia presentava anche fortissime tematiche narcisistiche, che si esprimevano in fantasie di leadership e di grandezza, dal momento che L. cercava di corrispondere alle aspettative della madre.

Invece L., fin da piccolissimo, era risultato ben diverso dalle fantasie che la madre si era fatta durante la gravidanza, rivelandosi, sin dai primi mesi, più lento, passivo e debole fisicamente rispetto alla gemella. L. aveva deluso le aspettative della madre: ella non si sentiva in grado di accudire un bambino che riteneva poco reattivo alle sue sollecitazioni e viveva come un fallimento il temperamento timido e a suo avviso poco vitale del figlio.

Così, i genitori si erano “spartiti” le cure dei bambini: alla madre la gemellina solare e vitale, corrispondente alla sua idea di “figlia buona”, al padre il timido, passivo, silenzioso L.. Il bambino aveva, quindi, sperimentato un rifiuto da parte della madre, una netta divisione della coppia gemellare e un posto più in ombra nelle relazioni familiari, rispetto alla gemella. L’originaria difficoltà della coppia “madre-bambino” ad adattarsi alle caratteristiche portate reciprocamente nella relazione, aveva nel tempo causato un irrigidimento del ruolo di “gemello in ombra” che L. aveva in famiglia: la coppia gemellare era stata divisa precocemente in due, i ruoli nella coppia gemellare si erano polarizzati e cristallizzati.

L. aveva subito un rifiuto dalla mamma e una separazione precoce dalla gemella; a causa di ciò, si era poi trovato in un ruolo che negli anni gli è stato riconfermato in famiglia, a scuola, nel gruppo dei pari. Ora, vicino all’età puberale, avvertiva l’incompletezza, la divisione, la mancanza della sua altra parte: avrebbe voluto stare alla pari con la gemella, ma non aveva strumenti per farlo, cercava disperatamente un aggancio col suo lato vitale e assertivo.

Pensando a L. e la sua famiglia, mi è tornato alla mente il mito greco di Apollo e Artemide, dèi gemelli che incarnano il concetto della necessaria e auspicabile coesistenza di qualità diverse o opposte. Apollo e Artemide riassumono, ciascuno nella propria figura, ruoli e compiti tradizionalmente sia maschili che femminili, sia attivi che contemplativi. Apollo e Artemide rappresentano, sia come coppia, che come singoli, la ricomposizione dell’intero, ma anche il lato scisso, in ombra, che viene alla luce e dà completezza all’essere umano: l’androgino, l’attivo, il guerriero nella donna, il femmineo, il meditativo, lo spirituale nell’uomo.

L., invece, non aveva potuto sperimentare la pienezza e completezza impersonata da Apollo e Artemide: il suo farsi carico, rivestendo il ruolo del gemello “sacrificato”, delle sofferenze narcisistiche della mamma non gli aveva permesso di interiorizzare la parte maschile, solare, attiva, guerriera, né di integrarla con le sue parti più delicate, sensibili ombrose.

I genitori, rinforzando il sistema relazionale della coppia, avevano ostacolato un adeguato processo di separazione, necessario affinché ciascun gemello potesse organizzare una propria identità ed una propria autonomia, slegata dal ruolo gemellare. Il bambino provava a dedicarsi alle arti marziali, alla batteria, nel tentativo di rendere noto e di integrare in sé il suo lato forte, vitale, assertivo, e di mettersi alla pari, nella considerazione genitoriale, con la solare e energica gemellina, ritrovando al contempo, il legame perduto con lei. Ma L. era incapace di trovare in sé le risorse, non riusciva a trovare la giusta via per riemergere, riaffiorare dall’ombra né in famiglia, né a scuole, né nel gruppo dei pari.

In tali condizioni è arrivato a me: chiuso nel suo mondo, fantasticando di impersonare ruoli forti e attivi. Nel corpo manifestava una grande rigidità e una scarsa coordinazione: ciò non gli permetteva di muoversi, di pensare, di relazionarsi in modo efficace, espressivo, comunicativo, intenzionale, causandogli grande frustrazione.

Il bambino era infatti ritirato in un mondo di fantasie grandiose e irrealistiche, che lo proteggeva dalle continue frustrazioni, impedendogli di ancorarsi alla sua realtà: in questo mondo fantastico immaginava di ricoprire ruoli di leader, cosa impossibile per lui nella realtà, compiendo imprese pericolose e spettacolari, a capo della banda di amici.

Per inquadrare il caso di L., prenderò spunti dalla teoria dello sviluppo di Stern, Winnicott, e dalla psicopatologia del Sé secondo Kohut. Questi autori si soffermano sulla sofferenza psichica dovuta alla inadeguata costituzione di strutture mentali, di un non corretto sviluppo della coesione del Sé, a causa di trauma cumulativo dovuto all’insufficienza prolungata delle figure di accudimento.

Secondo questi autori, l’origine della psicopatologia risiede nella rigidità di adattamento reciproco della diade madre-bambino alla relazione, o in una sintonizzazione selettiva della madre (Stern 1975), che accetta e rinforza solo alcune esperienze del bambino, oppure nella mancata o imperfetta empatia genitoriale  (Kohut 1971) verso l’originaria unità psicosomatica del bambino.

In tali evenienze le azioni del bambino non vengono colte e valorizzate: il piccolo deve sottomettersi alle sollecitazioni e alle aspettative altrui, a scapito della presa di contatto coi propri bisogni e gesti spontanei (Stern 1985).

Avviene dunque una atrofizzazione del vero Sé, che coincide col gesto spontaneo, col  sentimento di essere reali e creativi, e lo sviluppo del Falso Sé, difesa compiacente di fronte a un ambiente che non si adatta in maniera appropriata ai suoi bisogni (Winnicott 1960), non permettendogli di interagire genuinamente con la realtà.

Winnicott e Kohut teorizzano analogamente che il procedere dello sviluppo è legato alla capacità della madre di disilludere il bambino gradualmente circa la sua originaria dimensione narcisistica di onnipotenza. Il bambino che soffre un trauma narcisistico (rifiuto, abbandono, prolungata disconferma o carenza della funzione empatica genitoriale), è costretto a subire esperienze eccessivamente frustranti; dunque egli non può sviluppare una struttura del Sé consolidata e rimane ancorato alla primitiva esperienza dell’onnipotente Sé grandioso (Kohut 1971).

Così il bambino si trincera in un sentimento di sé grandioso e onnipotente, essendo dipendente da un riconoscimento della propria immagine grandiosa e corre il rischio di frammentazione quando ciò non accada. Di conseguenza si creerà una scissione verticale del Sé (Kohut 1971), in cui coesistono grandiosità esibita e totale insicurezza e vulnerabilità all’interno dell’individuo.

Il duro lavoro che L. ed io abbiamo svolto per due anni e mezzo si è svolto attraverso i principi e gli strumenti della Danza Movimento Terapia. La DMT si è rivelata un intervento utile e specifico, un paio di occhiali diversi per guardare L., nell’esplorare le fasi precoci dello sviluppo del Sé e della sua relazione primaria.

Utilizzando l’attenzione corporea, strumento basilare del setting di DMT, si accede a sentimenti e vissuti appartenenti al periodo pre-verbale dello sviluppo, ai quali non è mai stato permesso di esprimersi.

Nel prossimo articolo prenderemo in considerazionegli strumenti metodologici della DMT.

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Ossitocina come regolatore di comportamenti sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una recente review condotta dal team della University of Massachusetts Medical School guidato dal Dr David Cochran, l’ ormone ossitocina potrebbe essere utile nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli che comportano la compromissione del funzionamento sociale come l’autismo e la schizofrenia.

L’ossitocina è un ormone neuropeptide che, noto per il suo ruolo nel promuovere il flusso del latte materno durante la gravidanza, sembra anche svolgere un’importante funzione nel regolare i comportamenti sociali. La review, pubblicata sull’ Harvard Review of Psychiatry, segnala prove del coinvolgimento dell’ossitocina nel decision-making sociale, nella valutazione e risposta a stimoli sociali, nella mediazione delle interazioni sociali e nella formazione di memorie sociali negli esseri umani.

Sulla base di questi dati i ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che l’ossitocina possa essere un fattore comune in alcuni disturbi psichiatrici. 

Alcuni studi hanno riportato una “disfunzione nel processo dell’ossitocina” nei bambini con disturbi autistici. Ci sono anche prove che i geni che influenzano l’ossitocina, ad esempio il gene del recettore dell’ossitocina, OXTR – possono essere coinvolti nello sviluppo dei disturbi dello spettro autistico.

Sulla base di prove iniziali, l’ossitocina potrebbe un giorno “essere un agente di trattamento utile per migliorare alcuni aspetti della cognizione sociale e per ridurre i comportamenti ripetitivi” in pazienti con disturbi dello spettro autistico, anche se gli studi sono solo nelle prime fasi di valutazione dell’efficacia clinica. Gli autori discutono un caso di significative riduzioni di gravità dell’autismo con l’ossitocina, e l’unico studio controllato di trattamento con ossitocina a lungo termine ha mostrato un miglioramento nell’identificazione delle emozioni e della qualità della vita.

Studi sul rapporto tra ossitocina e schizofrenia hanno prodotto risultati contrastanti: le associazioni con geni legati all’ossitocina non appaiono così forti come per l’autismo. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che l’ossitocina potrebbe essere un trattamento utile per i pazienti affetti da schizofrenia, in alcuni trial sperimentali infatti ci sono stati effetti incoraggianti sulla gravità della schizofrenia e sulla cognizione sociale.

Poiché l’ossitocina è coinvolta nelle risposte allo stress, è stato anche studiato il suo potenziale ruolo nei disturbi dell’umore e disturbi d’ansia. Ad esempio, ci sono prove che l’ossitocina può essere coinvolta nelle risposte positive alla terapia elettroconvulsiva per la depressione grave.

Anche se finora ci sono poche prove che l’ossitocina sia un trattamento utile per l’ansia e la depressione. Lo stesso vale per i primi studi sull’ossitocina per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo di personalità borderline.

In conclusione “l‘evidenza suggerisce un ruolo dell’ossitocina nella fisiopatologia di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli caratterizzati da menomazioni nel funzionamento sociale” scrive Cochran. “Tuttavia, la natura preliminare dei dati attualmente disponibili preclude una chiara comprensione della natura esatta di questo ruolo“.

Così, nonostante alcuni risultati promettenti, è troppo presto per concludere che l’ossitocina è un trattamento utile per l’autismo, la schizofrenia, o qualsiasi altro disturbo psichiatrico. 

Nel frattempo, i ricercatori continueranno nei loro tentativi per chiarire il ruolo dell’ossitocina nei disturbi psichiatrici e gli effetti dei trattamenti con questo ormone.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze e Pornografia: le scansioni cerebrali di come si modifica il cervello

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Dr. Valerie Voon, neuropsichiatra e ricercatrice alla Cambridge University ha svolto uno studio di neuroimaging che mostra come il cervello delle persone che si dichiarano dipendenti dalla pornografia (porn-addiction) presenti gli stessi cambiamenti di chi è dipendente dall’eroina: con forti modifiche nelle aree relative al circuito della ricompensa.
Quello che differenzia la dipendenza da pornografia da alte forme di addiction sembra posizionarsi su un piano qualitativo oltre che quantitativo: non solo “ne voglio di più” tipico dell’escalation da assuefazione ma anche una radicale modifica dei gusti sessuali, che spesso si accompagna col deterioramento delle relazioni affettive.

The most obvious change in porn is how sex is so laced with aggression and sadomasochism. As tolerance to sexual excitement develops, it no longer satisfies; only by releasing a second drive, the aggressive drive, can the addict be excited. And so – for people psychologically predisposed – there are scenes of angry sex, men ejaculating insultingly on women’s faces, angry anal penetration, etc. Porn sites are also filled with the complexes Freud described: “Milf” (“mothers I’d like to fuck”) sites show us the Oedipus complex is alive; spanking sites sexualise a childhood trauma; and many other oral and anal fixations. All these features indicate that porn’s dirty little secret is that what distinguishes “adult sites” is how “infantile,” they are, in terms of how much power they derive from our infantile complexes and forms of sexuality and aggression. Porn doesn’t “cause” these complexes, but it can strengthen them, by wiring them into the reward system.

Brain scans of porn addicts: what’s wrong with this picture?Consigliato dalla Redazione

Norman Doidge: Scan images show that watching online ‘adult’ sites can alter our grey matter, which may lead to a change in sexual tastes (…)

Tratto da: the Guardian

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

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Come pietra paziente – Recensione – Cinema & Psicologia

Recensione

“Come pietra paziente”

(2013)

 

Come pietra pazienteCome pietra paziente”, film afghano del 2013, è una sorprendente opera dal carattere intimista che tratta con delicatezza e poesia le sofferenze di una donna prigioniera del rapporto col marito e della condizione femminile in cui è cresciuta.

Quando l’uomo in seguito ad uno scontro armato entra in coma e non è più in grado di rispondere agli stimoli esterni, la moglie se ne prende cura fra difficoltà crescenti legate allo stato di guerra del Paese; gradualmente questo accudimento si trasforma in una confessione da cui emerge la reale natura del loro legame, fondato esclusivamente sul possesso maschile.

In parallelo si delinea la figura di un giovane guerrigliero che entra nella vita della donna ottenendo col denaro le sue prestazioni sessuali ma insieme ponendola a contatto con emozioni mai provate prima, la sensazione di essere trattata con timidezza e rispetto, la possibilità di scambiarsi un sentimento anziché subire i soprusi di un compagno che vive per la guerra.

La pietra paziente, nella tradizione popolare afghana, è una pietra cui si possono raccontare le proprie sofferenze, le proprie difficoltà, una sorta di confessore silenzioso che non potendo rispondere offre la libertà di scavare a fondo dentro se stessi, senza timore di essere giudicati o di mostrare parti di sé inaccettabili. La pietra si carica con le rivelazioni che riceve e alla fine si sgretola, concludendo simbolicamente il percorso di autosvelamento di chi si è affidato ad essa.

 

In mezzo alle bombe e a pericoli sempre maggiori la protagonista del film compie un autentico cammino di liberazione dalla schiavitù psicologica, confessa al marito di aver sempre disprezzato la sua prepotenza e si riprende i desideri di una donna, insieme alle passioni che aveva dovuto reprimere per non subire le conseguenze sociali di una ribellione alla figura maschile; “Come pietra paziente” è un viaggio negli abusi culturali che privano la donna della sua dignità, della libertà di scelta, della facoltà di sperimentare la dimensione autentica e consapevole della propria femminilità.

E’ un film denuncia che non cade in proclami retorici, non vuole istruire lo spettatore sul tema affrontato ma si limita a mostrarglielo senza forzature, così che ognuno possa elaborare un punto di vista autonomo.

Il senso di ingiustizia profonda, il degrado culturale di un ambiente che affida a pochi uomini e alla guerra la dimostrazione di un valore intoccabile, fanno da sfondo ad un’emancipazione che integra, si direbbe in termini cognitivisti, due rappresentazioni opposte e conflittuali: da un lato la donna sente di essere vicina al marito non solo per un vincolo imposto ma anche come risultato di un legame affettivo, dall’altro ha sempre più chiara la percezione di cosa le è stato impedito di essere in nome di un potere superiore che ha stabilito la sua appartenenza all’autorità maschile.

L’immagine di sé risvegliata, lo slancio di vivere una sessualità finalmente condivisa, l’esempio di una zia che è riuscita a sottrarsi al ruolo di oggetto passivo compongono un quadro in cui la pietra umana paziente ascolta rivelazioni sempre più inconciliabili con la realtà vissuta fino ad allora: i figli della coppia sono di un altro uomo – il marito era sterile ma l’assenza di figli sarebbe stata imputata alla moglie e con gravi conseguenze, perciò si era reso necessario provvedere clandestinamente alla risoluzione del problema – e ogni pensiero della donna è ormai lontano dalle costrizioni del passato.

La pietra è destinata a spezzarsi per originare forse un’esistenza libera, e spezzandosi porterà con sé ciò che ha ascoltato: dire di più priverebbe lo spettatore del piacere di un finale estremamente significativo. “Come pietra paziente” è un film dal buon ritmo, prende l’attenzione e la conduce nei sentieri di un’esperienza interiore di grande intensità.

Insegna senza averne l’intento e senza giudicare, l’esito più felice per un’opera di questo genere.

 

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Memorie Traumatiche e Mentalizzazione (2013) – Recensione

 Recensione del libro:

Memorie traumatiche e mentalizzazione.

Teoria, ricerca e clinica

(2013)

di V. Caretti, G. Craparo e A. Schimmenti

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

Memorie traumatiche e mentalizzazione.Teoria, ricerca e clinica (2013)di V. Caretti, G. Craparo e A. SchimmentiUn attaccamento traumatico, infatti, produce un indebolimento, un difetto di maturazione di aree dell’emisfero destro coinvolte nella regolazione affettiva. La dissociazione patologica riflette dunque una disintegrazione cronica del cervello destro, che perde le sua capacità di individuare e modulare emozioni insostenibili.

Che cos’è il trauma psichico?

In che modo le esperienze precoci condizionano il modo in cui un evento potenzialmente traumatico viene poi effettivamente vissuto?

Quali sono le conseguenze del trauma sul cervello e sui processi mentali?

Come si articola il trattamento di pazienti traumatizzati?

Queste sono solo alcune fra le domande a cui il recente libro a cura di Caretti, Craparo e Schimmenti cerca di dare risposta.

Le interazioni precoci con le figure di attaccamento plasmano le capacità di regolazione affettiva del bambino e di conseguenza il modo in cui egli riesce a far fronte a momenti di difficoltà. 

Non è scontato che un evento, per quanto drammatico, produca un’esperienza traumatica.

Il trauma psichico si definisce proprio dal suo effetto soggettivo. Due elementi sembrano concorrere nel determinare l’esito traumatico di un evento: da un lato il vivere un’esperienza che produce un’attivazione emotiva caotica e destabilizzante che la mente non è in grado di regolare, dall’altro la perdita totale di speranza che si possa ricevere protezione o rassicurazione da parte di un’altra persona.

In tale situazione la continuità del Sé viene pesantemente minata. I diversi stati del Sé, che in condizioni normali comunicano costantemente in uno scambio dialettico, si strutturano separatamente nelle rispettive rigide verità e realtà.

La dissociazione, da normale processo mentale, diventa una difesa rigida fino a trasformarsi in una struttura mentale centrale volta a impedire il ritorno della disregolazione e destabilizzazione. 

Il pensiero di Bromberg relativo al trauma, qui brevemente accennato, influenza e permea il lavoro degli autori di questo volume. I diversi contributi, infatti, mettono in luce vari aspetti del rapporto fra trauma e dissociazione e come questo influenzi fortemente il lavoro clinico con pazienti che provengono da esperienze traumatiche.

Il testo è suddiviso in 3 parti: la prima, dedicata agli approfondimenti teorici, esplora gli effetti negativi del trauma sullo sviluppo cognitivo, affettivo, rappresentazionale e relazionale; nella seconda vengono presentate, all’interno di dettagliati inquadramenti teorici che ben definiscono le specifiche aree di indagine, alcune ricerche che indagano gli esiti di storie di sviluppo ed esperienze traumatiche e mettono in evidenza il ruolo cruciale delle interazioni precoci madre-bambino sul successivo sviluppo e benessere psichico; la terza parte, dedicata alla clinica, mette il luce difficoltà e specificità del lavoro terapeutico con pazienti affetti da sindromi post-traumatiche, sottolineando in particolare l’importanza del lavoro sul corpo e col corpo, e dell’incremento delle capacità di regolazione emotiva e di mentalizzazione.

Nei vari contributi particolare spazio viene dato al concetto di trauma evolutivo: le relazioni con le figure di attaccamento sono determinanti per lo sviluppo del Sé e della capacità di regolazione emotiva. Maltrattamenti e abusi all’interno delle relazioni primarie hanno pertanto conseguenze gravissime sullo sviluppo psicologico e fisico del bambino.

In accordo con il concetto di “trauma complesso” di van der Kolk, Schimmenti nel suo capitolo sottolinea la necessità di andare oltre il costrutto di disturbo da stress post-traumatico presente nel DSM-IV-TR, per considerare esperienze traumatiche sia forme evidenti come abusi e maltrattamenti, sia forme più sottili come la trascuratezza emotiva. Il fallimento della relazione del bambino con la figura di attaccamento tende a generare modelli operativi interni insicuri o francamente disorganizzati.

Nel bambino si struttura un nucleo di emozioni dolorose non pensabili né elaborabili legate alla relazione con il genitore che vengono così dissociate. Si genera paura della stessa vita mentale, con effetti devastanti sull’identità, sulla coesione del Sé, sulla capacità di identificare e modulare le emozioni e sulle capacità metacognitive.

Tutto ciò rende il bambino (e poi l’adulto) più vulnerabile a successivi eventi stressanti e potenzialmente traumatici, mancando degli strumenti necessari per farvi fronte.

Il capitolo di Schore analizza il contributo delle neuroscienze a sostegno dell’ipotesi di Kohut per cui il trauma precoce determina un arresto evolutivo.

Un attaccamento traumatico, infatti, produce un indebolimento, un difetto di maturazione di aree dell’emisfero destro coinvolte nella regolazione affettiva. La dissociazione patologica riflette dunque una disintegrazione cronica del cervello destro, che perde le sua capacità di individuare e modulare emozioni insostenibili.

Il lavoro di Liotti e Monticelli, all’interno di una cornice epistemologica evoluzionista, evidenzia il ruolo dell’attivazione del sistema di difesa e del sistema di attaccamento nelle esperienze traumatiche. Gli autori mostrano come quasi tutti i sintomi del disturbo da stress post-traumatico siano riconducibili all’attivazione del sistema di difesa e alle sue 4 risposte fondamentali (fight/flight/freezing/faint).

Nella genesi dei sintomi dissociativi un ruolo particolare sembra essere svolto dall’attaccamento disorganizzato: il caregiver in questo caso è simultaneamente fonte di pericolo e protezione, generando nel bambino una “paura senza sbocco” e facilitando una risposta dissociativa ai traumi.

Altro concetto cardine dell’intero volume è quello di mentalizzazione, approfondito nel capitolo di Allen e ben illustrato nella sezione dedicata alla clinica. Esperienze di relazioni primarie traumatiche hanno un effetto negativo sullo sviluppo della capacità di mentalizzare del bambino, intesa come capacità di percepire e interpretare il comportamento, proprio e altrui, come connesso a stati mentali intenzionali. E’ la capacità di pensare se stessi e gli altri come dotati di una mente e si sviluppa nelle interazioni fra il bambino e le sue figure di attaccamento. La mancanza di sintonizzazione emotiva del caregiver con gli stati emotivi del bambino non solo genera in lui un profondo senso di dolore e solitudine, ma ostacola lo sviluppo di quelle capacità di mentalizzazione che gli consentirebbero di leggere e regolare quelle difficili emozioni.

In questo senso il mentalizzare svolge un importante ruolo anche nella trasmissione intergenerazionale del tipo di attaccamento: genitori che provengono da storie di attaccamento sicuro sono più predisposti a mentalizzare nelle interazioni con i loro figli, che a loro volta sviluppano più facilmente un attaccamento sicuro e di conseguenza buone capacità di mentalizzazione.

Queste riflessioni contengono indicazioni importanti per il trattamento di pazienti provenienti da storie di sviluppo traumatiche.

Il trauma è una ferita che ha profondi effetti sulla mente, sul corpo e sulle relazioni interpersonali. 

Il trattamento pertanto deve essere focalizzato su questi tre aspetti fondamentali, avendo cura di bilanciare elaborazione e contenimento e di mantenere l’attivazione emotiva e fisiologica ai margini della “finestra di tolleranza”, come ben argomenta Pat Ogden nel suo capitolo sulla terapia sensomotoria. Troppa attivazione impedisce l’elaborazione e riattualizza il trauma nella relazione terapeutica, troppa sicurezza impedisce il cambiamento perché non consente di sperimentare la possibilità di regolare l’attivazione.

Pur nella specificità dei singoli contributi, gli autori dei diversi capitoli convergono nel delineare modelli di trattamento delle sindromi traumatiche pensati in modo da incrementare la mentalizzazione, sviluppare la capacità di identificare, esplorare e regolare le emozioni, lavorare sugli stati mentali dolorosi attuali e favorire l’integrazione fra mente e corpo che il trauma sembra aver compromesso.

A causa dell’uso patologico della dissociazione, infatti, i contenuti emotivi vengono vissuti unicamente a livello somatico, non pensati e non elaborati, aumentando anche il rischio di sviluppare una sintomatologia organica. Prestare ascolto alla narrativa somatica, agli indicatori fisici visibili consente un accesso privilegiato e diretto al “Sé implicito”. 

Aiutare i pazienti a diventare consapevoli delle proprie risposte fisiologiche, delle emozioni e delle convinzioni associate all’esperienza traumatica è il delicato e fondamentale compito del terapeuta.

Quanto più il mentalizzare è stato ostacolato dall’esperienza traumatica (e dunque quanto più sono attivate emozioni intense e disregolate associate alla reazione di difesa) tanto più è necessario focalizzare l’intervento terapeutico sul ripristino di questa capacità.

Alcuni capitoli esplorano, attraverso la presentazione di casi ed esemplificazioni cliniche, specifici aspetti del funzionamento e della difficile relazione con questi pazienti, come le fantasie di vendetta, il transfert erotico, la dipendenza sessuale, la disperazione nella sua funzione adattiva di fronte al fallimento delle strategie di attaccamento e la vulnerabilità psicosomatica.

Negli ultimi anni il trauma e le dinamiche interpersonali ad esso correlate si sono imposti all’attenzione di ricercatori e clinici che sempre di più. Questo volume rappresenta certamente un importante contribuito alla letteratura sul trauma, sia per le riflessioni teoriche sia per gli interessanti spunti clinici.

Per chi, come me e molti altri clinici, sempre di più si trova a confrontarsi con storie di sviluppo traumatiche è ogni giorno più evidente il fondamentale ruolo della regolazione affettiva, del corpo (il corpo del paziente così come il corpo del terapeuta) e della mentalizzazione nel lavoro clinico.

Come mette in luce Allen nel suo capitolo, un trattamento basato sulla metacognizione è l’approccio terapeutico meno originale di sempre: la comprensione degli stati mentali propri ed altrui è intrinseca a ogni forma di terapia. D’altra parte è proprio questo lavoro ordinario la parte più importante e difficile con questi pazienti che hanno perso (o mai acquisito pienamente) questa ordinaria capacità.

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Gli uomini dal viso largo inducono gli altri a comportamenti egoistici

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori della University of California hanno preso spunto da due studi precedenti, secondo i quali gli uomini con visi più larghi tendono a portare più successo finanziario alle imprese e sono più propensi a mentire e imbrogliare. Lo scopo della loro ricerca era comprendere meglio la relazione tra larghezza del viso e comportamenti egoistici, cioè come questi due elementi si influenzino a livello sociale.

I ricercatori californiani hanno condotto una serie di quattro studi, che hanno coinvolto tra i 131 e i 201 partecipanti ciascuno.

Nel primo studio i ricercatori hanno trovato un legame tra il rapporto di larghezza e lunghezza del viso (fWHR ) e l’egoismo.

I partecipanti sono stati invitati a svolgere un “compito di allocazione delle risorse” immaginando di dover fare scelte economiche nel loro proprio interesse e in quello di un partner anonimo e che il partner avrebbero fatto lo stesso.

I risultati indicano che gli uomini con fWHR superiori si comportavano più egoisticamente quando dovevano dividere le risorse tra se stessi e il partner anonimo.

In due studi successivi è stata condotta la stessa operazione di allocazione delle risorse, ma i ricercatori hanno esaminato le decisioni dal punto di vista dei partner. I risultati mostrano che i partner cambiano il loro comportamento in base fWHR del soggetto.

Quando il partner pensava di dovere dividere le risorse con una controparte che aveva una fWHR relativamente alta, ha anticipato il suo comportamento egoistico comportandosi a sua volta egoisticamente.

Nello studio finale, i partecipanti hanno completato ancora una volta lo stesso compito, ma venivano informati della decisione del partner prima di prendere una decisione per se stessi.

Questo li ha portati ad agire in modi che erano in linea con le aspettative del partner, cioè che sarebbero stati egoisti nel dividere le risorse.

In sintesi gli autori dello studio sostengono gli individui si comportano più egoisticamente quando interagiscono con persone con visi larghi e che questo egoismo innesca comportamenti egoistici nell’altro.

Insomma è l’idea che abbiamo dell’altro a indurlo a comportarsi in un certo modo o quel modo di comportarsi è scritto nella sua biologia? Secondo i ricercatori entrambe le cose: processi sociali, oltre ad eventuali differenze biologiche, possono suscitare differenti modelli di comportamento come funzione del fWHR delle persone.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

Avere debiti mette a rischio la salute mentale

 

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Che avere debiti potesse essere fonte di stress si sapeva, quello che hanno evidenziato i ricercatori dUniversità di Southampton e della Kingston University, è che avere debiti può aumentare la probabilità fino a tre volte in più di avere una patologia mentale.

Gli studiosi hanno fatto una revisione delle ricerche precedenti raggiungendo un campione di 34 mila soggetti.

Quello che emerge è che coloro che presentavano problemi mentali  avevano patologie  quali depressione, psicosi, tossicodipendenze e alti rischi suicidari. Non è chiara, come sottolinea il dottor Thomas Richardson, Psicologo Clinico dell’Università di Southampton, quale sia la relazione tra debiti e malattia mentale. Quello che viene rilevato in sostanza è che chi presenta una situazione economica di debito spesso presenta anche una malattia mentale.


è difficile stabilire cosa causa cosa: potrebbe infatti essere che siano i debiti a causare problemi mentali o che siano problemi mentali già esistenti a spingere le persone a indebitarsi, magari perché tendono a non avere un’occupazione lavorativa regolare. Infine, ipotizzano i ricercatori, la correlazione potrebbe essere ambivalente: una crea l’altra e viceversa, in diversi casi.

 

I debiti fanno perdere la testaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
(…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Le neuroscienze cognitive in tribunale

 

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Le neuroscienze cognitive, con riferimento a tecniche di neuroimaging funzionale,  possono influenzare le perizie in ambito penale: punti di vista in contrasto rispetto all’uso o meno di tali tecniche.

Nell’ultimo decennio le neuroscienze cognitive hanno conosciuto un vero e proprio boom. Lo sviluppo dello studio delle basi neurobiologiche delle nostre abilità mentali più alte – come linguaggio, ragionamento, intenzione, memoria e percezione – è stato tumultuoso. Per “osservare” la relazione tra attività cerebrale e abilità mentali, i neuroscienziati cognitivi utilizzano tecnologie di neuroimaging funzionale che misurano il metabolismo del cervello e che sono ormai entrate nelle aule dei tribunali, sia negli Stati Uniti che in altri paesi. Tra questi anche l’Italia. Una delle applicazioni più controverse di questa metodica è la prova del vizio di mente nel processo penale.

 

«Non sono stato io, è stato il mio cervello»Consigliato dalla Redazione

Le neuroscienze cognitive in tribunale e tutti i dubbi sul tema: l\’intervista all\’esperto di neurodiritto Sofia Moratti, Research Associate dell\’ “European University Institute” di Firenze (…)

Tratto da: Giornalettismo

 

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Sono un istrione: Uno, nessuno, centomila!

 

Sono un istrione: uno, nessuno, centomila. - Immagine: © George Mayer - Fotolia.comL’Istrione non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Sono un istrione! Cantava Aznavour in una nota canzone non più contemporanea.

Seduttivo e affascinante, dedito a voler fare colpo sull’altro ponendosi sempre al centro dell’attenzione, manipolatore e fatuo: questo è l’istrione.

Si tratta di un abile attore che si cala nel ruolo della sua vita e recita una parte, fingendo di essere chi non è.

Una sola persona dai tanti volti o nessuno, come diceva Pirandello in un noto romanzo? In realtà è una e una sola persona che debutta sul palcoscenico della sua vita con tante maschere, una per ogni occasione. Recita quotidianamente e per questo non riesce ad uscire dal personaggio: è l’unico modo che conosce per ricevere consensi.

E se il pubblico non ci fosse? Viene fuori per quello che è realmente, un depresso! Il fulcro della sofferenza dell’istrionico è determinato dal profondo senso di indegnità, mancanza d’affetto, inadeguatezza a badare a se stesso.

Dietro alla maschera che indossa , c’è un dolore profondo, che cerca in ogni modo di arginare, per paura di soccombere o perché dietro esiste la vana convinzione che se scoprissero quello che è realmente, disprezzabile/non amabile, gli altri possano lasciarlo solo non prendendosi cura di lui.

Ambienti familiari caotici, contraddittori, senza regole, facilitano l’insorgenza di questo disturbo. Si tratta, spesse volte,  di rapporti che si basano sulla non autenticità, dove si considera solo l’apparire e non l’essere. I rapporti, così impostati appaiono immediatamente superficiali e i bisogni sono considerati subordinati all’apparire. 

Il bambino di quel nucleo familiare non è preso sul serio; è sempre troppo piccolo, troppo stupido, troppo poco importante per rispondere alle domande, potrebbe essere rimproverato per qualcosa che subito dopo non costituisce più un problema. La conseguenza di questo atteggiamento è non essere in grado di pensare in maniera autonoma, perciò non essere capace di crescere.

L’istrionico non sa riflettere sui propri stati mentali e assumersi delle responsabilità, così individua come proprio il pensiero dell’altro. I genitori recitano una parte e il figlio si adegua, adottando gli stessi valori di conformismo, o recitando il copione opposto: il migliore appetibile, il ribelle, la pecora nera, sempre di recita si tratta! Il prezzo da pagare: l’inautenticità, l’estraneità da se stesso, la mancanza di identità. Presto impara che da solo non ce la fa e cerca qualcuno che possa accudirlo, previo il senso di colpa. Capisce che ciò che conta è la maschera che indossa, perché cela il vuoto dei sentimenti, la mancanza di verità, calore, riconoscimento.

Non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Dietro questa maschera è velata la rabbia di essere squalificato, ignorato, svalutato, non riconosciuto, abbandonato. La rabbia di chi, giunto sulla scena della sua vita, è stato non visto come persona, ignorato, criticato, disprezzato. La maschera copre la rabbia e la trasforma in seduzione, creatività, fascino,”ti sedurrò, così avrò la tua ammirazione!“.

L’istrionico vuole lodi, ammirazione, plausi, o addirittura riconoscenza. Guai a criticare lo show di un istrionico: si allontana e diventa un nemico. Essere lontano dalle luci della ribalta, aumentano la ferita, il dolore, il senso di disgusto per se stesso che lo investe come un guanto. Meglio essere fatui che autentici! Se fallisce, nel non essere riconosciuto, rischia di ricadere nel vissuto depressivo, di entrare in contatto con quella parte di sé, fragile, debole, triste, che non vuole assolutamente far vedere e provare.

Di qui il grande bisogno di affermare la propria persona che, per alcuni aspetti, potrebbe far confondere col narcisista che è innamorato di se stesso, mentre l’istrionico è innamorato della sua immagine. Ma essere stregati dal proprio riflesso porta ad allontanarsi dai sentimenti e crea un profondo senso di insicurezza e sfiducia. Si genera una screpolatura shakespeariana, essere o non essere, difficile e dolorosa da sanare. L’istrionico ha un doppio, Doppelgänger, diviso in cattivo/depresso e buono/maschera.

La maschera deve  suscitare nell’altro ammirazione, invidia, fascino, e permettergli di conquistare una preda del sesso opposto: di qui la seduzione sessuale e il bisogno di competere in amore.

La conquista di un partner, specie se difficile, ricercato, magari già impegnato, fornisce all’istrionico una sorta di sfida, ma a questa fase, segue prima o poi una caduta dovuta alla delusione esperita nel momento in cui mosso dai limiti dell’altro, lo svaluta.

Successivamente vede se stesso come perdente per non essere stato capace di perseguire lo scopo principe della sua vita. L’istrionico scruta nel partner lo specchio del proprio valore e il bastone su cui poggiarsi nella vita. Il rapporto d’amore serve per l’autoaffermazione.

Spesso, l’ istrionico finisce in rapporti triangolari, nei quali ripropongono il loro menage familiare. Ciò accade soprattutto ai figli unici, che sostengono di instaurare tali relazioni per caso, senza volerlo, e interpretano questo evento come dettato dalla sfortuna: tutti gli uomini o le donne che a loro piacciono sono già legati.

In realtà, nel cercare partner non liberi, ripropone lo stile di attaccamento che aveva con i genitori. D’altra parte, ha paura di un rapporto in cui il partner sia libero, perché equivarrebbe ad impegnarsi in modo più serio, responsabile e totale. In questo modo verrebbe fuori per quello che è, un depresso, e questa intimità spaventa.

Ottiene apprezzamenti, mascherati, disprezzandosi, ottiene riconoscimento svalutandosi! Solo chi si svilisce crea un personaggio dietro cui nascondersi, solo chi non si ama può creare un falso amore per chi non è. Quindi, più l’immagine acquisisce valore a scapito della verità, più il dolore interiore diventa dilaniante. E ancora, più la tristezza si allarga e i confini si indeboliscono, più si recita un personaggio diverso da sé. In tal modo l’insicurezza di fondo aumenta.

Come potrebbe “salvarsi” un istrionico? Beh, facendo un saldo integrativo riconoscendo l’altro come persona, nella sua individualità con le proprie caratteristiche e aspettative, al di là del ruolo di pubblico di cui è investito.

Ciò avviene attraverso crisi depressive ed elaborazioni del lutto connesse alla mancanza di amore, quindi facendo pace con la parte “brutta” di se stesso, ma autentica e non fatua.

L’istrionico ama la sua immagine, e guarisce quando comincia ad amarsi, apprezzarsi come persona, abbandonando l’amore per il suo riflesso: deve vedersi per quello che è realmente incontrando e apprezzando la propria autenticità: il se stesso negletto e non apprezzato. Solo se impara ad amare il vero sé può amare gli altri. 

Sono un istrione!

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BIBLIOGRAFIA: 

Affrontare la Malattia e il Lutto (2013) – Recensione

Recensione del Libro:

Affrontare la malattia e il lutto

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Affrontare la malattia e il lutto  - copertinaIl libro “Affrontare il lutto e la malattia” cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Quando muore una persona cara, di colpo cessano tutte le nostre certezze e ci tocca fare i conti con l’assenza di qualcuno che è stato parte di noi. All’improvviso crolla il mondo sotto i nostri piedi e ci si sente impotenti e desiderosi di protezione. Ma cosa succede quando un lutto impatta nel mondo interno di un bambino? Quali parole trovare per una cosa già così inspiegabile per un adulto?

Il libro “Affrontare il lutto e la malattiarimanda proprio a questo e cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Il libro, scritto da vari autori ( S.M.G. Adamo; M. Badoni; C.M. Carlevaris; R. De Falco e I. Pick), fa parte della collana “Cento e Un Bambino”, collana di prospettiva psicoanalitica, diretta da Emanuela Quagliata e rivolta a tutti i genitori, composta da volumi monotematici riguardanti le tappe principali della vita di un bambino.

La lettura si presenta scorrevole, agevolata da un numero esiguo di pagine e da un formato molto ridotto. Talvolta gli autori si lasciano cadere in un linguaggio forse troppo tecnico per un genitore, tuttavia a fine volume viene presentato un piccolo glossario, contenente il significato dei vari termini scientifico-psicologici utilizzati.

Il libro offre una panoramica psicologica di quel che succede in una famiglia colpita da una grave malattia o da un lutto e del difficile ruolo di guida, per i più piccoli, che i vari caregiver, già distrutti dal dolore, dovrebbero ricoprire. Nelle pagine non viene presentata, tuttavia, una guida ai comportamenti da adottare o meno ma, cosa più importante, nel libro si tenta di comprendere quanto sia difficile affrontare un lutto, si rispetta il dolore e il tempo (a volte lungo) di riorganizzazione interna dei più grandi e, alla luce di questo, si cerca di illustrare le ricadute di ciò sui più piccoli e il modo migliore per accogliere le loro domande, i loro dubbi e la loro sofferenza, senza mascherare la propria.

Il libro è inoltre arricchito da capitoli su un tema che, per la sua natura altamente dolorosa, rimane spesso tabù: cosa succede quando tocca al bambino essere vittima di una grave malattia? Si snoda così la parte finale del libro, in cui vengono presentati diversi casi di supporto psicologico a bambini e a genitori, effettuati nei vari ospedali pediatrici.

Gli autori sembrano mettersi in gioco: attraverso tali casi, offrono parte della loro professionalità ed anche della loro sofferenza (perché, ahimè, nonostante il distacco, non siamo fatti di pietra!) per illustrare quanto sia importante intervenire non solo sul corpo del bambino ma anche sui suoi vissuti, sulle sue emozioni, sulle sue lecite domande. A questo proposito non nascondo quanto sia difficile rimanere impassibili dinnanzi ad alcune righe dei vari casi riportati, disagio tuttavia “accolto”, nel dispiegarsi del testo, dagli stessi autori, con un invito a dedicare più spazi di supervisione e discussione tra il personale curante (medici, infermieri e psicologi).

Nonostante la collana e il volume siano pensati per i genitori (con lutti da affrontare o non), consiglio la lettura del volume anche a psicologi e psicoterapeuti: l’esame puntiglioso dei vissuti interni legati a un lutto e i vari casi clinici presentati,  possono offrire uno spunto teorico ma soprattutto pratico, anche per i tanti che non seguono un orientamento psicoanalitico. 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Adamo, S.M.G.; Badoni, M.; Carlevaris, C.M.; De Falco, R.  e Pick, I. (2013) Affrontare il Lutto e la Malattia. In Quagliata, E., Cento e Un Bambino. Roma, Astrolabio- Ubaldini Editore.

 

 

Neuroscienze: scoperto un Circuito Cerebrale correlato all’Infertilità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’infertilità è un problema importante che affligge milioni di persone in tutto il mondo: considerando che i vari studi di popolazione danno un indice di fecondità (possibilità di concepire per ciclo) intorno al 25% in coppie giovani, i calcoli prevedono che nelle nuove coppie il 19% avrà problemi riproduttivi dopo 2 anni e che di queste il 4% sarà sterile e le altre coppie saranno subfeconde, cioè con un indice di fecondità 3 o 4 volte più basso della norma.

I ricercatori della New Zealand’s University of Otago hanno fatto una scoperta importante per la comprensione dei circuiti cerebrali fondamentali per la fertilità normale negli esseri umani e in altri mammiferi e per consentire la progettazione di nuove terapie per le coppie infertili e nuove forme di contraccezione.

Kisspeptin, una piccola proteina, e il suo recettore GPR54, era stato già identificato come cruciale per la fertilità negli esseri umani, ora, grazie agli studi del professor Herbison – direttore del University’s Centre for Neuroendocrinology, leader mondiale nello studio dei meccanismi cerebrali di controllo della fertilità – si scopre come questa molecola sia fondamentale anche perchè si verifichi l’ovulazione .

Herbison ha scoperto che le GnRH (gli ormoni di rilascio delle gonadotropine), prodotte dall’ipofisi, sono attivate dalla comunicazione tra i suoi recettori cellulari GPR54 e la proteina kisspeptin. In pratica quando la comunicazione fallisce non c’è ovulazione.

I ricercatori studiando i topi che non avevano recettori GPR54 nei neuroni GnRH, hanno scoperto che questi non avevano raggiunto la pubertà ed erano sterili. Hanno poi dimostrato che i topi infertili potevano tornare alla fertilità, inserendo il gene GPR54 in pochi neuroni GnRH .

Secondo Herbison, questi risultati rappresentano un passo in avanti sostanziale per consentire nuove cure per l’infertilità e lo sviluppo di nuovi contraccettivi.

La nostra nuova comprensione del meccanismo esatto attraverso il quale kisspeptin funge da controllore della riproduzione è un importante passo avanti che apre nuove strade per affrontare quello che è spesso un problema di salute straziante. Attraverso i dettagli di tale meccanismo ora abbiamo un interruttore chimico chiave grazie al quale i farmaci possono essere mirati“, spiega il professor Herbison .

Inoltre la proteina kisspeptin può rivelarsi utile nel trattamento di malattie come il cancro alla prostata che sono influenzate dai livelli degli ormoni sessuali steroidei nel sangue.

 

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GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – NEUROSCIENZE

L’INFERTILITA’ DI COPPIA IN UN’OTTICA COSTRUTTIVISTA – SITCC 2012

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il cervello maschile. Istruzioni per l’uso.

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO E’ DA CONSIDERARSI UN’OPERA DI IRONIA. LE FONTI CITATE SONO REALI, LE NOSTRE CONCLUSIONI UMORISTICHE.

 

Il cervello dei maschi. Istruzioni per l'uso . - Immagine: © Sangoiri - Fotolia.comC’è poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

La comunità scientifica è divisa. Da una parte i ricercatori che si ostinano ad indagare le differenze biologiche nei cervelli di uomini e donne a spiegazione della variabilità comportamentale, dall’altra i colleghi che accusano i primi di “neurosessismo”.

Tra loro, Raffaella Rumiati, docente di neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, denuncia poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

E’ opininone diffusa, per esempio, che le donne non siano biologicamente portate per le materie scientifiche ma la constatazione che in paesi più evoluti, in materia di uguaglianza sociale e parità di genere, i risultati scolastici delle ragazze in matematica siano equiparabili a quelli dei colleghi maschi, lascia credere che molte caratteristiche di genere ricondotte a variabili neurologiche dipendano invece da fattori culturali.

Sul versante opposto altre personalità del panorama scientifico nazionale come Antonio Federico, Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università di Siena, parlano invece di differenze genetiche, ormonali e strutturali nei due cervelli con importanti ricadute sulle funzioni cerebrali ed è proprio sulla base di tali riscontri che voglio dare al nostro pubblico femminile un po’ di suggerimenti per comprendere meglio il comportamento maschile ed agire di conseguenza.

1. Se proprio avete bisogno, chiedete!

Le capacità empatiche degli uomini sono notevolmenti inferiori alle nostre (e probabilmente anche a quelle del gatto), non date quindi per scontato che segni di evidente malessere inducano il vostro partner a chiedervi come state ne tantomeno se avete bisogno di qualcosa.

2. Siate chiare

Nell’interazione verbale, abituatevi ad un linguaggio semplice, concreto e in sintonia con l’espressione del vostro volto. Eventuali messaggi ambigui potrebbero mandare in tilt il vostro interlocutore. Il cervello dell’uomo tende ad elaborare la realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro, razionale, logico e rigidamente lineare.

3. Niente coccole 

Se siete distrutte da una giornata di lavoro e avete desiderio di baci e abbracci affidatevi al gatto di cui sopra o vi ritroverete a dovervi inventare un gran mal di testa per evitare una notte di fuoco. Nel vocabolario maschile il termine “coccole”, colpa del testosterone, è sinonimo di “preliminari”.

4. Niente chiacchere

Se avete voglia di parlare con qualcuno in questo caso nemmeno il gatto vi può essere d’aiuto. Interpellate un’amica. E’ risaputo che le capacità comunicative delle donne sono notevolmente superiori a quelle degli uomini. 

5. Una cosa alla volta

Non pretendete troppo dai vostri uomini. Mentre le donne sono abili nel compiere operazioni mentali in parallelo, gli uomini faticano a rispondere anche alla più banale delle domande se sono impegnati in qualsiasi attività che vada oltre il mantenimento dei propri parametri vitali.

6. Pretendete il minimo

L’evoluzione sembrerebbe aver plasmato il cervello maschile per essere portato verso la sistematicità. Ne deriva, per esempio, una maggior predisposizione ad interagire con gli apparecchi elettronici. Pretendete dunque che l’uomo di casa sia quantomeno in grado di sostituire una lampadina.

A chi mi accusa di neurosessismo voglio ricordare che per secoli si è pensato che quell’8% di cervello in meno ci rendesse meno intelligienti… potrebbe anche essere vero.

 

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GENDER STUDIES – NEUROSCIENZE – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

EDIT (del 4 ottobre 2013):

Ovviamente è un articolo ironico e ricco di pregiudizi riguardo le differenze tra uomini e donne e la rigidità a cui accenna Emanuele deriva proprio dall’intenzione di marcare ulteriormente tale diversità di genere. Del resto è ciò che facciamo spesso nella vita di tutti i giorni, soprattutto a giustificazione dell’incomprensione con il sesso opposto. In verità la ricerca negli ultimi anni dà un risalto sempre maggiore a variabili culturali e ambientali e questo dovrebbe aiutarci ad essere un po’ meno “neurosessisti”… salvo quando questo ci fa comodo, ovvio!

In risposta al commento di un lettore,
Ilaria Cosimetti.

Depressione e Psicoterapia: tutto fa brodo?

Depressione e psicoterapia . - Immagine:  © Brian Jackson - Fotolia.comLa depressione è un disturbo della salute mentale caratterizzato da: ricorrenti stati di tristezza e insoddisfazione, bassa autostima e diminuito interesse nelle attività quotidiane, anche piacevoli.

Secondo studi epidemiologici condotti nel mondo occidentale, una percentuale che va dall’8% al 12% della popolazione tende a sviluppare nel corso della vita un disturbo depressivo (Andrade & Caraveo, 2003), rappresentando così uno dei disturbi più frequentemente diagnosticati.

Oggi, gli approcci psicoterapeutici per la cura della depressione sono numerosi e variegati, e più volte la ricerca si è posta l’obiettivo di verificarne l’efficacia. Sebbene vi sia consenso sull’efficacia della psicoterapia per la depressione, resta aperto il dibattito su quale sia l’approccio preferibile.

I risultati di due meta-analisi hanno indicato una maggiore efficacia degli approcci cognitivo-comportamentali rispetto ad altri approcci non CBT (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998). In contrasto, uno studio comparativo tra CBT e terapia psicodinamica breve non ha rilevato differenze significative circa l’efficacia dei due interventi (Leichsenring, 2001).

In un recente studio pubblicato su PLOS Medicine (Barth, Munder, Gerger et al., 2013), gli Autori hanno svolto un’analisi comparata tra differenti trattamenti psicoterapeutici per la depressione (nei quali non era prevista alcuna terapia farmacologica), concludendo che ciascuno di essi darebbe un qualche beneficio e non sembrerebbe esservi un approccio terapeutico superiore agli altri.

La ricerca è stata condotta utilizzando una metodologia recentemente sviluppata, definita meta-analisi di rete (network meta-analysis), una tecnica che consente di confrontare differenti approcci terapeutici sia in confronto diretto, sia in confronto a un gruppo di controllo. Nelle meta-analisi di rete, le informazioni ricavate dagli studi che verificano un confronto diretto tra un trattamento A e un trattamento B, sono combinate a informazioni provenienti da un confronto indiretto di A e B derivato da altre ricerche, che paragonano ciascuno dei due trattamenti A e B con un terzo trattamento C (che potrebbe essere un altro trattamento psicoterapeutico o un gruppo di controllo). Questa metodologia è stata impiegata per verificare l’efficacia di interventi farmacologici per la depressione (Cipriani et al., 2009) e il disturbo maniacale (Cipriani et al., 2011), ma secondo gli autori non risultava ancora impiegata nella ricerca sulla psicoterapia.

I ricercatori hanno preso in esame 198 articoli pubblicati dal 1975 al 2012, che prendevano in esame dati ottenuti da oltre 15.000 pazienti che hanno intrapreso una tra sette tipologie di interventi psicoterapeutici*: psicoterapia interpersonale, attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, problem solving therapy, terapia psicodinamica, addestramento alle abilitá sociali e counselling di supporto. Ognuno di questi approcci è stato comparato con gli altri e con un gruppo di controllo (composto da pazienti in lista di attesa o che non seguivano nessun approccio strutturato).

I risultati indicano che tutti i sette approcci terapeutici sono efficaci nel ridurre i sintomi depressivi rispetto alle situazioni di controllo e non risultano differenze significative tra i differenti tipi di terapia. Tuttavia, prendendo in esame solo gli studi condotti su larghi campioni di pazienti (>50), i ricercatori hanno rilevato chiari benefici da parte degli approcci cognitivo-comportamentale, terapia interpersonale, problem-solving therapy, ma non da parte degli altri approcci. Il counselling di supporto e la terapia psicodinamica breve hanno mostrato di produrre benefici in studi condotti su campioni più ridotti (da 25 a 50 pazienti), ma non su gruppi di dimensione più elevata.

Inoltre, per quanto riguarda la presenza di documentazione, vi è un ampio divario tra gli approcci in analisi: il 70% della letteratura esaminata dagli autori riguarda la CBT, confermandosi come l’approccio con il maggiore supporto empirico.

Secondo gli Autori, questi risultati suggeriscono che ai pazienti depressi andrebbero illustrate differenti possibilità d’intervento terapeutico, per concordare l’approccio più idoneo alle loro caratteristiche.

In seguito ad una lettura più dettagliata dell’articolo di Barth e coll. (2013), possiamo davvero concludere che, qualunque sia l’approccio terapeutico scelto, ogni paziente ne trarrà beneficio, come riportato da Sciencedaily.com? Oppure, è possibile che i dati riflettano la presenza di una minore documentazione a supporto di certi approcci rispetto ad altri? Le misurazioni di outcome sono assolutamente comparabili per ciascun studio? Si potrebbero ipotizzare risultati differenti qualora questi approcci venissero testati simultaneamente all’interno di un trial clinico, rispetto ad una comparazione di risultati ottenuti in studi differenti, e in epoche storiche differenti?

Il dibattito è aperto.

 

*Note:

Terapia interpersonale: è una terapia breve e altamente strutturata, prevede l’utilizzo di un manuale; é focalizzata sulle problematiche interpersonali che possono indurre la depressione.

Attivazione comportamentale (Behavioral activation): ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza nel paziente che vi siano attività piacevoli in cui coinvolgersi, cerca inoltre di incrementare le interazioni positive tra il paziente e il suo ambiente di vita.

Terapia cognitivo-comportamentale: ha lo scopo di analizzare le credenze negative del paziente, valutare quanto queste influenzino il comportamento attuale e futuro, quindi intervenire su di esse mediante ristrutturazione cognitiva, mettendole in discussione.

Problem-solving therapy: ha l’obiettivo di definire i problemi del paziente, proporre differenti possibilità di soluzione e quindi selezionare, implementare e valutare la soluzione migliore.

Terapia psicodinamica: si concentra sui conflitti irrisolti del passato e sulle relazioni, per comprendere l’impatto che hanno sulla situazione di vita attuale del paziente.

Addestramento alle abilità sociali: ha l’obiettivo di insegnare abilità che possano aiutare il paziente a sviluppare e mantenere relazioni sane, basate su onestà e rispetto.

Counselling di supporto: è un approccio terapeutico di impostazione generalistica, che ha lo scopo di mettere il paziente nelle condizioni di poter parlare delle proprie esperienze ed emozioni, offrendo empatia ma senza suggerire soluzioni o insegnare nuove abilità.

 

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DEPRESSIONE – PSICOTERAPIA COGNITIVA – PSICOANALISI

RECENSIONE DI TERAPIA METACOGNITIVA DEI DISTURBI D’ANSIA E DELLA DEPRESSIONE (A. WELLS)

 

BIBLIOGRAFIA

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