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Asessualità. Tra repulsione e indifferenza, lontano dal piacere.

 

Asessualità . - Immagine: © celianestudio - Fotolia.comSe le forme di rifiuto e di astensione dal sesso, generalmente definite come castità, sono sempre state dichiarate oltre che valorizzate in alcune culture religiose, negli ultimi anni è emerso l’interesse scientifico per quello che vuole essere descritto come un fenomeno “nuovo”: l’asessualità.

La storia della sessualità è stata soprattutto storia della repressione sessuale, dei meccanismi che l’hanno socialmente designata e culturalmente tramandata, fino all’epoca della tanto attesa (e mai pienamente raggiunta) liberazione sessuale.

L’epoca moderna e post-moderna sono state poi caratterizzate dall’ipersessualizzazione, dalla diffusione della pornografia e dalla banalizzazione dell’esperienza erotica, che hanno contribuito al calo del desiderio, sia maschile che femminile, in tutte le fasce d’età. Se le forme di rifiuto e di astensione dal sesso, generalmente definite come castità, sono sempre state dichiarate oltre che valorizzate in alcune culture religiose, negli ultimi anni è emerso l’interesse scientifico per quello che vuole essere descritto come un fenomeno “nuovo”: l’asessualità.

Il primo lavoro a riscontrare un dato significativo a riguardo è stato il rapporto Kinsey:

“nell’America degli anni ’50 la percentuale di chi non esprimeva nessun interesse per i comportamenti sessuali risultava andare da1l’ 1 al 4% negli uomini e dall’ 1 al 19% nelle donne. La ricerca sul tema viene rilanciata da Anthony Bogaert, professore di psicologia nell’ università canadese di Brock , che dal 2004 fino ad oggi si è occupato di analizzare quello che ha definito come « quarto sesso », una dimensione al pari delle altre nello spettro dell’orientamento sessuale”.

Nella prima ricerca di Bogaert su un campione britannico, l’ 1,05% delle persone intervistate ha dichiarato di “non essersi sentito mai sessualmente attratto da nessuno”.

Questa risposta correlata con altri dati ha permesso di trarre le seguenti conclusioni:

in media, questa parte del campione presentava un’età più alta della media e con maggiori problemi di salute; inoltre si trattava di persone non sposate né conviventi e che, sempre rispetto alla media, avevano iniziato a fare sesso più tardi .

Queste ricerche sono state sostenute e approfondite da David Jay, fondatore nel 2001 dell’associazione Asexuality Visibility and Education Network (AVEN) che oggi conta 42 mila membri in tutto il mondo, dei quali 2 mila in Italia.

In un sondaggio internazionale realizzato da AVEN con la partecipazione di 3 mila iscritti, il 28% ha ammesso di cedere alle richieste sessuali del partner occasionalmente, il 17% di farlo regolarmente e il 25% di rimanere fermo sulle proprie posizioni.

Mentre al pensiero di immaginarsi durante un atto sessuale il 17% ha provato repulsione totale, il 38% repulsione moderata e il 27% indifferenza.

Questi dati, insieme alle interviste e ai racconti di vita, vengono presentati da AVEN in pubblicazioni e convegni, con l’intento di “informare chi non prova pulsioni sessuali e raggiungerlo perchè non si senta solo e diverso; educare le persone sia asessuali sia non, aiutandole ad approfondire la propria conoscenza del fenomeno; aumentare la visibilità per una futura integrazione tra stili di vita diversi”.

Lo scopo primario sembra quindi essere il riconoscimento sociale di una “categoria di persone” che vuole rimanere svincolata ma anche accettata dalle altre. Il proclamo è l’ orgoglio di vivere questa condizione non come una scelta ma come un orientamento sessuale, al pari di quello eterosessuale, omosessuale e bisessuale.

In una società nella quale avere una sessualità attiva e regolare è assimilata alla normalità, l’asessualità non vuole essere annessa a un trauma o ad una patologia.

Certamente le novità più recenti sono il coming out delle persone che si definiscono asessuali, con la voglia di sostenere le proprie motivazioni nonchè, soprattutto nei mass media, con il bisogno di conoscersi e di riconoscersi.

Come riflessione sulle ultime pubblicazioni in merito e sull’invito alla sessuologia ad assumere il punto di vista asessuale, in un gioco di specchi fra la follia della sessualità e la follia dell’asessualità, viene da spostare il focus della discussione dalla mancanza d’interesse per il sesso all’assenza del piacere.

Mi piace ricordare le parole di Foucault, che in una intervista del 1978 affermava:

Credo che sia molto difficile intraprendere una lotta nei termini della sessualità senza, a un certo punto, trovarsi intrappolati da nozioni come quelle di malattia della sessualità, patologia della sessualità, normalità della sessualità.” Per preservare la sessualità, nel corso della sua opera Foucault aveva spostato l’obiettivo sul piacere, prendendolo come “un semplice evento, un evento che si produce, che si produce al limite del soggetto, o tra due soggetti”.

Il piacere, dunque, questo semplice evento che si verifica o non si verifica, concerne soprattutto se stessi e, nella condivisione diventa la caratteristica prima della relazione con l’altro.

Data per raggiunta la legittimità e la legittimazione dell’asessualità, c’è una domanda che rimane ancora senza risposta: dov’è il piacere?

 

LEGGI ANCHE:

Asessualità: Scelta, Patologia o diverso Orientamento Sessuale?

SESSO – SESSUALITA’ – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

IPERSEXUAL DISORDER: SARA’ INCLUSO NEL DSM – V?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Disturbo Evitante di Personalità – Il riconoscimento delle emozioni

Di Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo

 

Disturbo evitante di personalità - Il riconoscimento delle emozioni. -Immagine: © aleshin - Fotolia.comI pazienti con Disturbo evitante di personalità  rispetto a quelli con disturbo borderline avevano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente. La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo. 

La conoscenza sul disturbo evitante di personalità (DEP) si è approfondita negli ultimi anni. Appare sempre più evidente che si tratta di un disturbo diffuso, grave, co-occorrente con numerosi disturbi sintomatici e comportamentali – quali disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi alimentari, abuso di sostanze e alcool –  e per il quale mancano modelli di trattamento di provata efficacia. 

Significativi passi avanti nella conoscenza dell’evitante riguardano l’importanza che hanno i problemi nella conoscenza e regolazione delle emozioni in questi pazienti. Sembra consolidato il dato che la difficoltà a identificare i propri affetti è un aspetto tipico del DEP. Studi recenti portano dati specifici.

I pazienti con DEP rispetto a quelli con disturbo borderline avevano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente.

La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo (Johanssen et al., 2013). La carenza nell’identificare l’interesse è coerente con l’idea che in questi pazienti ci sia un’inibizione del sistema esploratorio, che li porta ad essere riluttanti a muoversi in ambienti (sociali) ignoti.

Due studi condotti con i nostri colleghi a Indianapolis e Roma portano dati che illustrano ulteriormente le caratteristiche di scarsa conoscenza e regolazione emozionale nel DEP.

In un campione di veterani di guerra in trattamento per abuso di sostanze, è emerso che non la sola alessitimia, ovvero la scarsa consapevolezza dei propri affetti, prediceva nel campione di pazienti analizzati la presenza di disturbo evitante. Solo un sottogruppo che oltre a scarsa alessitimia aveva bassa Mastery metacognitiva presentava infatti tratti marcati di DEP.

In sintesi, tratti evitanti in pazienti che abusano di sostanze sembrano associati da una combinazione di scarsa consapevolezza degli affetti e insufficienti strategie di regolazione del comportamento sociale basate su una conoscenza adeguata sugli stati mentali.

In termini semplici: se un paziente non ha buona consapevolezza degli affetti ma adotta strategie funzionali, del tipo “quando sono teso faccio esercizio fisico e mi calmo” difficilmente avrà tratti evitanti. Se invece ha scarsa consapevolezza degli affetti, non riesce a dire meglio di “sono teso” e non ha buona mastery “quando sono teso non so che fare, sono nervoso, irritabile” probabilmente avrà aspetti evitanti (Lysaker et al., in stampa). Questo può aprire la strada all’uso di sostanze come modalità maladattiva di regolazione degli affetti.

I pazienti con DEP inoltre, sembrano avere una tendenza peculiare ad inibire le proprie emozioni, molto più che in altri disturbi del cluster C e in modo opposto a pazienti con disturbo borderline di personalità (Popolo et al., proposto per la pubblicazione).

Nel complesso sembra che approfondire la conoscenza sugli aspetti disfunzionali nella conoscenza e regolazione degli affetti permetterà di conoscere ulteriormente i meccanismi che sostengono il DEP con la speranza di trattare più efficacemente sia il disturbo stesso che i disturbi sintomatici e comportamentali ad esso associati.

LEGGI ANCHE:

DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’ – DROGHE & ALLUCINOGENI – DISTURBI DI PERSONALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Io, io, io… cosa ci svela l’utilizzo dei pronomi. – Personalità & Autostima

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

James W. Pennebaker, chair del dipartimento di Psicologia dell’Università del Texas, è autore di uno studio particolarmente interessante, in quanto ribalta una credenza del senso comune: che chi usa spesso il pronome “io” sia in generale più sicuro di sé, più potente e con uno status superiore agli altri.

Niente di più falso.
L’utilizzo del pronome “io” è incredibilmente potente in quanto orienta la percezione all’interno della conversazione. Un esempio su tutti è l’istruzione del terapeuta nelle terapie di coppia di utilizzare il più possibile il pronome “io” al posto del “tu”

Es:  non si deve dire “tu non mi ascolti” bensì “io non mi si sento ascoltato“.  Le frasi impostate con “io” sono percepite come meno accusatorie. E non è poco.

Tornando all’ “io” e a quello che svela dell’autostima delle persone e del loro rango percepito, il Dr. Pennebaker spiega: La persona di status elevato guarda al resto del mondo mentre quella di rango inferiore guarda a se stessa. Da qui, l’uso differente dei pronomi che plasma l’intera organizzazione del discorso e di conseguenza del “frame” della comunicazione (per dirla con Lakoff).
Cinque distinti esperimenti sono stati effettuati per indagare le ipotesi di partenza, i risultati dello studio sono stati pubblicati nel libro: “The Secret Life of Pronuons”.

Dr. Pennebaker has found heavy “I” users across many people: Women (who are typically more reflective than men), people who are more at ease with personal topics, younger people, caring people as well as anxious and depressed people. (Surprisingly, he says, narcissists do not use “I” more than others, according to a meta-analysis of a large number of studies.)

And who avoids using “I,” other than the high-powered? People who are hiding the truth. Avoiding the first-person pronoun is distancing.

What saying ‘I’ says about youConsigliato dalla Redazione

Researchers say that your usage of the pronoun ‘I’ says more about you than you may realize. (…)

 

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La Sindrome dell’Impostore: sentirsi indegni del proprio successo – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La Sindrome dell’impostore (Imposter Syndrome) non è una vera diagnosi, ma un modo colloquiale tra gli addetti ai lavori per definire un preciso stato mentale: quello di chi si sente un imbroglione, un truffatore, indegno del proprio successo nonostante le molte evidenti prove che ne dimostrano i meriti e talenti.

In questo interessante articolo si parte da un aneddoto paradigmatico: le poche donne che sono riuscite a imporsi nella Silicon Valley Californiana (la Mecca dell’high tech, un ambiente ancora totalmente dominato da uomini) subiscono un tale livello di ostracismo che riesce ad oscurare i successi e le conquiste personali e di squadra fino all’insorgere della paradossale sindrome dell’impostore.

Non importa quanto sei bravo o quanto hai dimostrato sul campo, la generale diffidenza percepita nei tuoi confronti ti porterà in quello stato mentale in cui ti domandi se per caso non sia tutta fortuna, se tu non sia un impostore.

L’articolo prosegue con 6 consigli per tenere sotto controllo la sindrome dell’impostore e vivere serenamente i tuoi successi lavorativi. Consigli utilissimi, per le donne così come per gli uomini!


“Note that ‘imposter syndrome’ is not a real diagnosis,” according to Dr. Simon Rego, director of the CBT Training Program at Montefiore Medical Center/Albert Einstein College of Medicine in New York. It’s simply intended to describe the psychological phenomenon when people feel like frauds, despite clear evidence of merit.

“If people can learn to look objectively for evidence for the fact that they are competent (instead of only evidence against it), they will start to believe it – and feel less like an imposter!” Rego says.

So ask yourself objectively: Did luck really play a role in your success? Did you work harder than others on your team like Grosz?

 

Imposter Syndrome: Do You Ever Feel Undeserving of Your Success? | CareerBlissConsigliato dalla Redazione

Silicon Valley is famously male-dominated. And, unfortunately, she tells us that “brogrammers” sometimes don’t treat women as equals at work. (…)

Tratto da: CareerBliss

 

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Menopausa, Yoga e i rimedi contro l’Insonnia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Praticare yoga può contribuire ad alleviare i sintomi della menopausa.

La donna è sottoposta nel corso della sua vita a cambiamenti del proprio corpo, basti pensare alla pubertà, alla gravidanza e infine alla menopausa. Ogni tappa incide sulla vita della donna e sulla sua capacità di adattarsi. Spesso la menopausa è vissuta in maniera drammatica dalle donne perché viene identificata con l’inizio dell’invecchiamento.

Gli effetti della menopausa sono variabili e dipendono anche dall’ambiente sociale, dal livello culturale della donna e dal suo stato generale di salute. Generalmente l’età media in cui si ha riscontro della menopausa oscilla tra i 50-52 anni (menopausa spontanea).

La sintomatologia della menopausa è alquanto variegata, può essere caratterizzata da vampate di calore, il soggetto avverte notevoli sbalzi della temperatura, si verifica ipersudorazione e  un notevole arrossamento del collo e della nuca. Invece i disturbi del sonno sono frequenti nell’immediato periodo post-menopausa; si possono avere difficoltà ad addormentarsi, sonno agitato e nel caso peggiore l’insonnia.

Secondo uno studio condotto dalla ricercatrice Katherine Newton presso il Group Health Research sostiene che praticare yoga possa contribuire ad alleviare i sintomi della menopausa.

E’ stata effettuata una ricerca randomizzata denominata “MeFlash” per verificare se gli approcci naturali, tra cui lo yoga, l’esercizio fisico e l’assunzione di olio di pesce nella dieta, potessero alleviare i sintomi della menopausa.

Questo studio ha preso in esame 249 donne e sono state suddivise in diversi gruppi. Un primo gruppo doveva fare degli esercizi di yoga, un altro  praticare un programma di esercizi di aerobica, il terzo gruppo doveva assumere degli integratori alimentari a base di acidi grassi omega tre; infine sono stati confrontati con un gruppo placebo e anche con coloro che non praticavano nessuna attività fisica.

I risultati di questo studio hanno evidenziato l’importanza dell’esercizio fisico che sembra essere collegato ad una riduzione della depressione e dell’insonna. Anche praticare lo yoga è stato associato ad una migliore qualità del sonno e dell’umore. E’ bene tuttavia dire che gli effetti non erano statisticamente cosi significativi. Invece per quanto riguarda gli omega tre sembrano non apportare nessun miglioramento significativo né alla qualità del sonno, né alla vampate di calore e alla sudorazione notturna.

Questi risultati suggeriscono che si possono ottenere dei miglioramenti solo quando si praticano discipline fisiche come lo yoga per un periodo prolungato e costante, ma non mostrano progressi significativi con l’ausilio di integratori alimentari. In ogni caso i disturbi legati al climaterio possono trovare giovamento dallo sport inducendo un benessere generale mentale e fisico.

LEGGI ANCHE:

SONNOINSONNIAYOGATERZA ETA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Misurare la patologia mentale con il DSM 5… Ecco le novità!

 

DSM 5 CoverEd ecco apparire sulla scena il DSM 5, cinque e non quinto! Sì, noi, in Italia, dobbiamo ancora aspettare il prossimo anno per avere tra le mani il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ma i suo contenuti già riecheggiano.

Con l’avvento del DSM 5, cambia la modalità di misurazione della patologia mentale. Una nuova nomenclatura da cui sono stati estratti nuovi modi di misurare. I test, nuovi di zecca e tutti self report, sono stati ideati per essere somministrati al paziente durante la fase di assessment, e in tempi successivi, per monitorarne il progresso in corso di trattamento e la remissione della  gravità dei sintomi. In questo modo si favorisce il confronto tra inizio e fine trattamento. Le scale dovrebbero essere utilizzate per potenziare il decision-making clinico e non solamente come base per la diagnosi clinica.

Le scale di valutazione possono essere classificate a grandi linee in 4 tipi:

• Le scale di misurazione dei sintomi cross-cutting che possono essere utili ad una valutazione globale dello status mentale, orientando l’attenzione ai sintomi riconosciuti come trasversali in tutte  le diagnosi. Si tratta di sintomi legati al funzionamento generale e all’Asse I. Queste scale aiutano a identificare delle aree di indagine aggiuntive, come memoria, pensieri ripetitivi, uso di sostanze, che forniscano una guida al trattamento e alla prognosi. Sono costituite da due livelli: il Livello 1 è strutturato sotto forma di test volti ad indagare i diversi domini patologici  degli adulti,  bambini e adolescenti. Il Livello 2 è strutturato in modo da fornire una valutazione più approfondita di alcuni domini specifici, come ansia, depressione, mania, disturbi del sonno, etc. Si tratta sempre di misure molto brevi e generiche volte a valutare la presenza o meno del sintomo stesso.

Le scale specifiche, più dettagliate delle precedenti, valutano la gravità del singolo disturbo in tutta la sua manifestazione.  Queste scale possono essere somministrate alle persone che hanno ricevuto una diagnosi o in attesa della stessa. Alcune valutazioni sono auto-somministrate, mentre altre vengono somministrate dal clinico.

• La World Health Organization Disability Assesment Schedule, versione 2.0 (WHODAS 2.0) valuta l’abilità del paziente di portare a termine attività appartenenti a 6 aree: comprensione e comunicazione; evitamento; cura di se; relazioni con i pari; attività quotidiane (casa/famiglia, lavoro/scuola); partecipazione sociale. La scala è auto-somministrata (o dal caregiver) e corrisponde ai concetti contenuti nella WHO International Classification of Functioning, Disability and Health.

• I Questionari, e non interviste semistrutturate, di Personalità del DSM-5 misurano i tratti disadattivi divisi  in 5 domini: sentimenti negativi, separazione, antagonismo, disinibizione e psicoticismo. Per gli adulti e i bambini a partire dagli 11 anni, sono disponibili versioni brevi composte da 15 item e versioni complete di 220 item suddivise in diverse 25 sottoscale  che possono essere riassunte ulteriormente nei 5 domini di base. E’ inoltre disponibile una versione completa per il caregiver.

Ci sono inoltre, delle misure addizionali, Additional Assessment Measures

• L’ Early Development and Home Background (EDHB) può essere utile nella valutazione dello sviluppo primario e del background di esperienze familiari passate e attuali di un bambino che riceve cure. Ne sono state fornite due versioni: una compilata dal genitore o dal caregiver del bambino, l’altra deve essere compilata dal clinico.

• La Cultural Formulation Interview (CFI) è costituita da 16 domande che i clinici possono utilizzare durante una valutazione della salute mentale per ottenere informazioni sull’impatto della cultura negli aspetti chiave della presentazione clinica e della cura di un individuo.

• La Cultural Information Interview- versione per il caregiver raccoglie informazioni collaterali sui domini del CFI dai familiari o dai caregiver.

• La Supplementary Modules to the Cultural Formulation Interview può essere d’aiuto al clinico per condurre una valutazione culturale più esaustiva. I primi 8 moduli supplementari esplorano i domini centrali del CFI in profondità. I successivi 3 moduli si focalizzano sulle popolazioni con specifici bisogni, come ad esempio i bambini e gli adolescenti, gli anziani, gli immigrati e i rifugiati. L’ultimo modulo esplora le esperienze e i punti di vista degli individui che si occupano di caregiving.

Insomma, queste in breve sono le novità che il DSM 5 ci riserva, e prima del suo grande debutto possiamo cominciare e familiarizzare con alcune grandi cambiamenti che determineranno una svolta nell’era della psicodiagnosi.

LEGGI ANCHE:

Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – DSM5

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE 2

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

 -Pt. 2-

Autoregolazione delle emozioni e attaccamento materno – infantile

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile - PARTE 2. -Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comLa capacità di sintonizzazione del genitore è un mediatore privilegiato nella trasmissione dei modelli di attaccamento.

Fin dalla nascita tra madre e bambino si costituisce un sistema di regolazione affettiva, che permette un’oscillazione continua tra comunicazioni riuscite ed errate.
La madre svolge quindi fin dall’inizio una funzione trasformativa nei confronti delle emozioni proprie e del bambino, in particolare di quelle negative.
La mancata azione trasformativa e regolativa induce al ricorso prolungato di forme di autoregolazione che possono intaccare le sue nascenti capacità relazionali (Tronick, 1989), tra queste, una delle più precoci appare il distogliere lo sguardo dallo stimolo stressante, condotta che è in grado di decelerare il battito cardiaco.

Nei primi 2-3 mesi di vita compaiono i comportamenti centrati sul succhiare e/o manipolare parti del proprio corpo o dell’immediato ambiente circostante,  sempre al fine di auto-consolarsi. Particolarmente interessanti a tal proposito sono i risultati delle ricerche ottenuti utilizzando il paradigma del volto immobile, Still Face (Cohn e Tronick,1983).

A fronte del volto non responsivo della madre, il bambino intensifica inizialmente i suoi sforzi comunicativi rivolti a quest’ultima accentuando il sorriso, le vocalizzazioni e l’intensità dello sguardo; con la persistenza dell’inespressività del volto materno, egli dapprima rivolge lo sguardo altrove e assume anch’egli una mimica inespressiva, poi fa ricorso alla stimolazione di parti del proprio corpo ed alla manipolazione dei propri indumenti (Tronick, 1989).

Esemplare a questo riguardo è il lavoro di Slade e Haft (1999) che, considerando la responsività come capacità della madre di condividere gli affetti positivi e negativi del proprio bambino, ha evidenziato l’esistenza di una correlazione specifica tra i Modelli Operativi Interni della madre circa l’attaccamento, indagati attraverso l’Adult Attachment Interview e la sua capacità di sintonizzarsi con il figlio.

L’ipotesi sostenuta è che la capacità di sintonizzazione del genitore sia un mediatore privilegiato nella trasmissione dei modelli di attaccamento. Le madri classificate sicure attraverso l’AAI, secondo questo studio, sono capaci di rispondere in modo sintonizzato ai diversi stati emotivi positivi e negativi, espressi dal proprio bambino durante le sessioni di gioco libero previste dalla ricerca.

Le madri distanzianti, si rilevano incapaci di sintonizzarsi con le emozioni negative manifestate dai figli, non accogliendo in particolare le loro richieste di prossimità e consolazione, operando invece sintonizzazioni selettive in relazione alle esperienze positive di padronanza vissute dal bambino.

Al contrario le madri preoccupate si dimostrano parzialmente in grado di rispondere alle richieste di consolazione e prossimità dei loro figli, ma incapaci invece di rispecchiare quelle legate alla loro padronanza e autonomia.

Altri fattori significativi nel determinare la responsività della madre sono quelli contestuali, tra i quali spicca il grado di coinvolgimento del padre nella relazione con la madre. Lo scarso coinvolgimento del padre sembra determinare, infatti, un aumento degli scambi affettivi negativi tra madre e bambino, provocando, se ciò si verifica in un periodo precoce dello sviluppo infantile, modificazioni nei patterns di attaccamento.

LEGGI ANCHE:

ATTACCAMENTO – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VOCE & COMUNICAZIONE PARAVERBALE

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Riabilitare il dolore da arto fantasma con la tDCS

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La tDCS (transcranical direct current stimulation) è una tecnica di stimolazione cerebrale, in questo studio è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci

E’ una tecnica non invasiva, di recente e crescente impiego nelle neuroscienze per la riabilitazione di svariate patologie neurologiche e non: afasia, emiplegia, negligenza spaziale unilaterale, demenza, emicrania, depressione, dipendenze e altre patologie psichiatriche.

La tDCS influenza l’eccitabilità corticale attraverso l’erogazione di corrente elettrica continua sullo scalpo a bassa intensità (2 mA), attraverso due elettrodi: l’anodo e il catodo; la stimolazione anodica provoca la depolarizzazione del potenziale di membrana, inducendo un incremento nell’attività neurale spontanea e quindi un aumento dell’eccitabilità corticale nell’area stimolata della corteccia cerebrale, mentre il catodo, al contrario, attraverso l’iperpolarizzazione del potenziale di membrana inibisce l’attività della corteccia sottostante.
In questo studio la tDCS è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci. A seguito dell’amputazione di un arto è possibile che il paziente abbia la sensazione cinestesica, motoria e/o sensoriale che la parte amputata sia ancora presente (sensazione fantasma).

Quando la sensazione fantasma si associa a dolore si parla di PLP. Le cause di questo fenomeno sono rintracciabili in meccanismi psicologici, periferici, a livello spinale e a livello corticale; è a quest’ultimo livello, sui meccanismi di plasticità corticale, che agisce la tDCS.

La letteratura disponibile sul dolore da arto fantasma imputa il fenomeno a meccanismi di riorganizzazione corticale: a livello di S1 (corteccia somatosensoriale primaria) l’area di rappresentazione del volto si espande invadendo l’area deafferentata nell’emisfero controlaterale all’arto amputato, e a livello sia di S1 che di M1 (corteccia motoria primaria) l’area in cui è rappresentata la bocca invade l’area deputata alla rappresentazione dell’arto amputato.
In un primo studio sono stati confrontati gli effetti sul fenomeno dell’arto fantasma in 4 condizioni diverse: stimolazione eccitatoria di M1, eccitatoria e inibitoria di PPC (corteccia parietale posteriore) e sham (un altro vantaggio della tDCS è che permette di condurre studi in doppio cieco, in quanto nella condizione sham l’apparecchio interrompe l’erogazione di corrente impercettibilmente dopo 30 secondi e la condizione sham o real è determinata dal codice che viene inserito nell’apparecchio alla sua accensione).

Le valutazioni del dolore sono state eseguite mediante la compilazione di VAS (scale graduate di 10 cm), prima dell’inizio della seduta, al suo termine e dopo 90 minuti. I risultati hanno mostrato una diminuzione statisticamente significativa del dolore, immediatamente dopo la fine della seduta di stimolazione eccitatoria su M1, effetto che svanisce dopo 90 minuti, e non è presente in seguito nelle altre 3 condizioni di stimolazione.
Alla luce di questi risultati la tDCS eccitatoria è stata applicata su M1 controlaterale al lato dell’amputazione in 10 sedute da 15 minuti di cui 5 sham stimulation e altre 5 real stimulation (sempre in doppio cieco) in uno studio single case.

I risultati mostrano che la stimolazione eccitatoria di M1 in 5 sessioni ripetute è in grado di ridurre il PLP a lungo termine (follow-up fino a 2 mesi), e anche il dolore al moncone.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia di gruppo per il Disturbo Bipolare a Firenze.

Scuola Cognitiva di Firenze 

Terapia di gruppo per il Disturbo Bipolare

da Novembre 2013

 

Terapia di gruppo per il disturbo Bipolare. Scuola Cognitiva di FirenzeLa terapia è rivolta a pazienti bipolari attualmente in buon compenso psicopatologico. Prima dell’inizio degli incontri verrà effettuato un colloquio clinico ed una valutazione psicodiagnostica che sarà ripetuta al termine dei 10 incontri per monitorare i risultati della terapia.

 

PSICOEDUCAZIONE PER IL DISTURBO BIPOLARE

Il Disturbo Bipolare ha una prevalenza nella popolazione tra il 3 ed il 5%, con conseguenze sulla qualità della vita molto negative. Negli ultimi anni è stata ampiamente dimostrata l’efficacia della Psicoeducazione nella prevenzione delle ricadute e nel miglioramento della qualità di vita delle persone con disturbo bipolare. Il trattamento di gruppo proposto da Colom e Vieta della sezione Psicoeducazione del Barcelona Bipolar Disorder Program, è attualmente l’intervento psicoterapico migliore nell’ integrare e potenziare l’efficacia della terapia farmacologica nella cura del disturbo bipolare.

ORGANIZZAZIONE, COSTI e SCOPI della TERAPIA

La terapia si svolgerà in un gruppo composto da un massimo di 15 persone. Si strutturerà in 10 sessioni a cadenza settimanale, della durata di un ora e mezza ciascuna, dalle 18.30 alle 20.00 presso la sede in via delle Porte Nuove, 10 Firenze .

COSTO 300 euro (IVA inclusa)

Lo scopo della terapia è quello di migliorare la qualità della vita di chi soffre di Disturbo Bipolare ed apprendere una tecnica che aiuti il paziente ad aver un minor numero di ricadute. Questo avverrà attraverso l’aiuto a gestire meglio le crisi, a riconoscere i segnali iniziali ed affrontarli precocemente.

TEMI DELLE SESSIONI:

1) Descrizione generale della terapia di gruppo, introduzione e definizione.

2)Descrizione e definizione del Disturbo Bipolare 

3)Sintomi maniacali e ipomaniacali indotti da sostanze

4)Sintomi di Stato Misto e Depressivi

5)Decorso ed andamento del disturbo

6)Terapie farmacologiche: stabilizzanti dell’umore

7)Terapie a base di antidepressivi e ansiolitici

8)Prevenzione delle ricadute

9)Gestione della fase di scompenso

10)Restituzione e conclusioni

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TUTTI GLI ARTICOLI SUL DISTURBO BIPOLARE 

Il bacio. Lo usiamo per orientarci nella scelta del partner e per tenercelo vicino – Psicologia & Antropologia

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Una ricerca dell’Università di Oxford condotta dal Prof. Robin Dunbar sul significato antropologico e sociale del bacio. 

‘Mate choice and courtship in humans is complex,’ said Professor Robin Dunbar. ‘It involves a series of periods of assessments where people ask themselves “shall I carry on deeper into this relationship?” Initial attraction may include facial, body and social cues. Then assessments become more and more intimate as we go deeper into the courtship stages, and this is where kissing comes in.’

[…]

To understand more, Rafael Wlodarski and Professor Robin Dunbar set up an online questionnaire in which over 900 adults answered questions about the importance of kissing in both short-term and long-term relationships.

Rafael Wlodarski explained: ‘There are three main theories about the role that kissing plays in sexual relationships: that it somehow helps assess the genetic quality of potential mates; that it is used to increase arousal (to initiate sex for example); and that it is useful in keeping relationships together. We wanted to see which of these theories held up under closer scrutiny

Kissing helps us find the right partner – and keep them – University of OxfordConsigliato dalla Redazione

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
What’s in a kiss? A study by Oxford University researchers suggests kissing helps us size up potential partners and, once in a relationship, may be a way of getting a partner to stick around. (…)

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Fenomenologia dell’amicizia col benefit

Amicizia col benefit . - Immagine: ©Gina Sanders Fotolia.comIn inglese è il “friend with benefits”: si tratta di relazioni di amicizia che comprendono il beneficio del rapporto sessuale, senza il coinvolgimento e gli impegni di un rapporto di coppia.

(Lehmiller et al., 2011).

In brasiliano “amigo colorido”, in italiano, più prosaicamente, trombamico/a (con la variante di scopamico/a), che per praticità chiameremo in questo articolo TA.

Questo tipo di rapporto, sempre più frequente nella società occidentale, viene studiato da psicologi e sociologi per le possibili implicazioni sulla salute fisica (malattie sessualmente trasmesse) e psichica (a seconda di come possono evolvere o finire). La TA va distinta dal cosìdetto “hookup”, o rapporto sessuale occasionale tra sconosciuti o conoscenti che ha luogo un’unica volta. Per parlare di TA gli incontri sessuali devono essere più di uno, e soprattutto devono interessare persone legate da un rapporto di amicizia.

In diversi studi americani, condotti sulle popolazioni studentesche, oltre la metà degli intervistati ha riportato pregresse esperienze di TA (Bisson and Levine, 2009). Nonostante l’attenzione si sia concentrata come sempre sugli studenti universitari, per la relativa facilità ad essere reclutati e studiati, la TA può riguardare pure età più avanzate, anche se mancano dati precisi in tal senso.

Le ricerche hanno mostrato come gli incontri di TA sarebbero caratterizzati da una varietà di attività sessuali (sesso orale, toccamenti, penetrazione), anche se il rapporto completo è quello che si manifesta con più frequenza. Spesso i partner concordano una sorta di “regolamento”, che comprende accordi sulle precauzioni da prendere durante l’atto sessuale e sulla privatezza degli incontri (chi può sapere della TA?).

In realtà un esplicito “negoziato” relazionale spesso non viene fatto e questo può rendere comunque il rapporto problematico. Gli intervistati hanno individuato proprio nell’attività sessuale con una persona conosciuta e fidata il maggior vantaggio di questo tipo di rapporto, oltre che la possibilità che dall’esperienza fisica possa nascere un legame affettivo. Tra gli svantaggi della TA sono stati individuati timori rispetto alla possibilità di rovinare l’amicizia o la possibilità di provare sofferenze emotive a causa del coinvolgimento sessuale. Gli intervistati, in particolare i maschi (che sorpresa…), hanno comunque dichiarato che la TA susciterebbe più reazioni emotive positive, che negative (Owen and Fincham, 2011).

Rispetto al profilo demografico delle persone che sperimentano la TA, si tratta soprattutto di soggetti che vivono in aree urbane (ah, la pace della campagna…) e che solitamente non sono religiosi praticanti (peccatori…).

Sembra che i maschi abbiano più esperienze di TA rispetto alle femmine (54% vs 42), come del resto accade anche per i rapporti sessuali occasionali, anche favoriti da un maggior permissivismo a livello sociale, visto che ancora oggi le donne sessualmente più “sportive” possono essere denigrate o non viste favorevolmente (Schmitt et al., 2003). Quest’ultimo fatto potrebbe costituire un deterrente per le femmine rispetto all’ esprimere il proprio interesse per i rapporti occasionali, costituendo perciò un bias per gli studi. Un aspetto interessante da tener conto è che è stato dimostrato che se la donna si dichiara emotivamente coinvolta con il partner occasionale, il giudizio sociale negativo migliora (Cohen and Shetland, 1996), come a dire che il coinvolgimento emotivo legittima l’atteggiamento libertino.

Altri studi evidenziano come le femmine tendano a considerare la TA in modo più emotivo e meno fisico rispetto ai maschi, forse nel tentativo di giustificare e autoassolvere un comportamento che può essere biasimato a livello sociale (Mc Ginty et al., 2007).

L’abuso di alcol favorirebbe la nascita di questo tipo di rapporti, soprattutto per quanto riguarda le femmine (Owen and Fincham, 2011).

Spesso i trombamici hanno una visione dell’amore non particolarmente romantica, credono di potersi innamorare di più persone nel corso della vita e sono convinti che il sesso possa avere un senso anche senza amore (Puentes et al., 2008).

 Secondo Mongeau e colleghi (2013) esisterebbero ben sette sottotipi diversi di TA: i veri amici (persone legate da un reale e sincero rapporto di amicizia, con il “benefit” come accessorio), i “solo sesso” (si pensa all’altra persona solo quando si ha voglia di sesso), i “salvagenti sessuali” (persone che condividono lo stesso gruppo sociale e che a fine serata, quando il party finisce, si ritrovano nello stesso letto), i TA “in transito” (TA che sfociano in vere relazioni sentimentali; in realtà questa categoria comprende tre sottotipi a seconda che ci sia o no un’intenzionalità consapevole o meno di utilizzare la TA come anticamera del rapporto di coppia), i “terminandi” (residuati sessuali di una relazione di coppia ormai conclusa).

Gli studiosi sottolineano la grande utilità di avere a disposizione questa lista di categorie, per definirsi in modo preciso a livello relazionale, anche sui social network, superando finalmente la vetusta dicotomia single/fidanzato (o sposato).

Di questo passo arriveremo al punto che quando incontreremo un amico di infanzia, che non vediamo da anni, alla fatidica domanda “Beh allora ti sei sposato, hai fatto figli?”, lui potrà rispondere “No, però ho un salvagente sessuale!”.

Restando in tema di rapporti amicali, ma discostandosi leggermente dalla TA, vale la pena accennare a un recente studio texano (“in Texas ci nascono solo tori e checche” gridava il Sergente Hartman in Full Metal Jacket), che è andato a indagare un altro tipo di benefit, che compare nelle amicizie uomo-donna, quando però il “lui” è omosessuale (Russel et al., 2013). Il plus in questo tipo di rapporti sarebbe l’imparzialità nelle consulenze sentimentali e nei consigli amorosi. Lo studio, condotto usando i social network, ha mostrato come le donne eterosessuali percepiscano la consulenza offerta da un uomo gay come più affidabile di quella offerta da un uomo o una donna eterosessuale. Allo stesso modo, i partecipanti maschi gay percepiscono i consigli d’amore di una donna eterosessuale come più affidabili rispetto allo stesso consiglio offerto da un uomo o una donna omosessuale.

Gli studiosi hanno motivato le predilezioni dall’assenza di “conflitti di interesse” in questi tipi di rapporti, privi di sentimenti di rivalità o attrazione sessuale.

Per concludere, l’amicizia tra uomo e donna può esistere eccome, anche se pare sempre più complessa.

 

LEGGI ANCHE:

SESSO – SESSUALITA’ – AMORE – RELAZIONI SENTIMENTALI

E’ VERO CHE GLI UOMINI PENSANO DI PIU’ AL SESSO DELLE DONNE?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – A lesson from Bernardo Carducci

Bernardo Carducci

Indiana University Southeast Shyness Research Institute

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

 

Is being ‘introverted’ the same of being shy?. -Immagine: © Scott Griessel - Fotolia.comAt a party, the shy person is standing by herself but looks uncomfortable (“I wish I had the nerve to talk to somebody.  I wish somebody would come and talk to me.”).  The introvert is standing by herself, but looks content (“Don’t bother me.  I’m happy just standing here holding up this wall.”).

No, shyness is not the same as introversion.  In fact, the motivational nature of shyness has more in common with extroversion than introversion.

An introvert is someone who prefers solitary activities but can be social when the need arises, such as when attending public functions, such as dinner parties and poetry readings. On the other hand, the shy person is someone who truly wants to be with others.

In fact, my own research indicates that one of the most common strategies used by shy individuals to deal with their shyness is what I call “forced extroversion.” With forced extroversion, shy individuals will go voluntarily to a variety of social activities, such as parties, clubs, and shopping centers, with the specific intent of meeting other people.

While shy individual go to great lengths to be in those setting where they will have the opportunity to socialize with others, for a variety of reason, they find socializing difficult.  For example, while going to a party with the specific intent of meeting others, a shy person may have trouble talking to someone he or she is attracted to or wants to get to know.

To help clarify this distinction between shyness and introversion, consider this example.  At a party, the shy person is standing by herself but looks uncomfortable (“I wish I had the nerve to talk to somebody.  I wish somebody would come and talk to me.”).  The introvert is standing by herself, but looks content (“Don’t bother me.  I’m happy just standing here holding up this wall.”).

Actually, unlike the shy person who probably went to the party willingly, it is unlikely the introvert would go to a party at all.  Thus, while both the shy individual and the introvert may be standing against the wall at the party, their reason for doing so are totally different: the introvert is there because he prefers to be, whereas the shy individual is there because she feel she has no choice.  As this example illustrates, what shyness really comes down to is a matter of control.  For shy individuals, their shyness controls them.

SEE  THE INTERVIEW WITH BERNARDO CARDUCCI 

SEE THE ENGLISH ARTICLES ARCHIVE

 

REFERENCES: 

 

For more information on dealing effectively with your shyness, visit the Indiana University Southeast Shyness Research Institute at www.ius.edu/shyness.

I cani provano emozioni nello stesso modo dei bambini

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Gregory Berns, prestigioso neuro-scienziato dell’ Emory University di Atlanta è riuscito nella sua impresa.

E’ riuscito a fare al suo cane Callie, e altri 11, un esame così importante come la risonanza magnetica. Il fine era di indagare il cervello canino, per vedere se funzionava come il nostro, sopratutto per quel che riguarda la competenza emotiva.

Dopo un paio di anni di training è riuscito a far si che una dozzina di cani riuscisse ad effettuare la  risonanza magnetica e da questa è emerso che, nel momento in cui il cane veniva stimolato con immagini del padrone, del cibo o di una mano si attivavano quelle aree del nucleo caudato come avviene in noi esseri umani.

L’attivazione dell’area analoga viene detta “omologia funzionale” e ci suggerisce che i cani abbiano una competenza emozionale, per quel che riguarda emozioni positive, come i bambini; sono quindi in grado di mostrarci amore ed affetto più che come fossero soltanto dei migliori amici.

 

Le aree cerebrali umane che si «illuminano» quando si pensa a situazioni piacevoli (cibo, amore, denaro) sono esattamente le stesse che si «illuminano» nel cane quando gli si fornisce l’indicazione di dove è il suo cibo preferito.

 

Tristi, contenti o innamorati: I cani “sentono” come i bimbiConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Coccolarli come figli non è solo un vezzo, lo dice la scienza: le zone emozionali del loro cervello reagiscono come quelle dei cuccioli d’uomo (…)

Tratto da: ilgiornale.it

 

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Psicoeconomia: Il valore dell’attesa: aspettare ci rende più pazienti

Santina Leonardi

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Psicoeconomia – Le persone attribuiscono più valore alle cose per le quali devono attendere a causa di un processo che gli psicologi chiamano auto-percezione – capiamo cosa noi stessi vogliamo osservando il nostro comportamento (se aspettiamo tanto per una cosa significa che la desideriamo tanto).

Diciamolo, a nessuno piace attendere. Ma come replichereste all’affermazione che proprio l’odioso atto di attendere ci rende più pazienti e più disponibili a rimandare la nostra soddisfazione?

Considerate la scelta fra avere l’ultimo modello di smartphone, che verrà messo in vendita la settimana prossima, e aspettare per un modello ancora più nuovo, disponibile il prossimo mese. Può il fatto di attendere una settimana per esprimere la propria scelta (non decido adesso ma decido fra una settimana), influire sulla scelta stessa?

Secondo un recentissimo studio di Ayelet Fishbach, Professore di Behavioral Science and Marketing alla Booth School of Business dell’Università di Chicago, e Xiani Dai, ricercatore della CUHK Business School dell’Università di Hong Kong, attendere prima di esprimere una scelta di fatto rende le persone più pazienti.

Per verificare le loro ipotesi, i due ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti negli Stati Uniti, in Cina e Hong Kong. In un primo esperimento i ricercatori hanno invitato i partecipanti a rendersi disponibili a partecipare a futuri studi. Come premio per tale disponibilità tutti i partecipanti potevano scegliere fra due lotterie: una consentiva di vincere 50$ in tempi brevi, l’altra 55$ ma in tempi più lunghi.

Le attese erano diversificate fra 3 gruppi sperimentali: il 1° gruppo poteva subito scegliere fra 50$ in 3 giorni o 55$ in 23 giorni; per gli altri due gruppi si prevedeva una vincita di 50$ in 30 giorni oppure una vincita di 55$ in 50 giorni, ma mentre il 2° gruppo poteva scegliere subito, il 3° gruppo doveva aspettare prima di esprimersi. Ventisette giorni dopo il primo invito, i ricercatori contattarono i componenti del 3° gruppo, a quel punto questi partecipanti, come quelli appartenenti al 1° gruppo, dovevano scegliere fra aspettare altri 3 giorni per vincere 50$ oppure altri 23 giorni per vincerne 55.

Nel 1° gruppo soltanto il 31% ha scelto di aspettare per un premio maggiore. Nel 2° gruppo la percentuale è salita al 56%. Invece, fra le persone del 3° gruppo, che hanno dovuto aspettare diverse settimane per esprimere la loro preferenza, l’86% ha scelto di aspettare pur di ricevere un premio maggiore. Anche se avevano le stesse alternative del 1° gruppo, il fatto di aver aspettato a scegliere ha fatto aumentare la loro pazienza.

Evidentemente avere del tempo per esprimere la propria decisione non significa semplicemente fare una scelta in anticipo e aspettare di comunicare tale scelta. Se così fosse i livelli di pazienza dimostrata dal 1° e dal 3° gruppo non avrebbero presentato differenze. Il fatto che il terzo gruppo si dimostri ulteriormente disponibile ad attendere, sostengono gli autori, implica che l’attesa aumenta il valore attribuito alla scelta tanto da incidere sul livello stesso di pazienza.

In un altro esperimento è emerso invece il fatto che quando il premio in gioco è uno solo, non siamo disposti ad attendere ulteriormente e preferiamo affrontare dei costi (come quelli di spedizione) pur di averlo subito: l’attesa fa aumentare il valore percepito dell’oggetto desiderato ma la nostra pazienza in questo caso diminuisce.

I risultati di questi esperimenti modificano le teorie esistenti sull’argomento in quanto identificano le condizioni nelle quali l’attesa nella formulazione di una scelta può aumentare il livello di pazienza di una persona. 

In generale, secondo la Fishbach, le persone attribuiscono più valore alle cose per le quali devono attendere a causa di un processo che gli psicologi chiamano auto-percezione – capiamo cosa noi stessi vogliamo osservando il nostro comportamento (se aspettiamo tanto per una cosa significa che la desideriamo tanto).

LEGGI ANCHE:

PSICOECONOMIA PSICOLOGIA & MARKETINGDECISON MAKING

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dai, X., Fishbach, A. (2013). When waiting to choose increases patience. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 121, 256-266. (DOWNLOAD)

 

La Psicoterapia può cambiare il cervello? – Neuroscienze

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Un interessante articolo sugli effetti della psicoterapia nell’attività funzionale del cervello.

Un primo importante dato emerso è che la psicoterapia apporta dei significativi cambiamenti nell’attività funzionale del cervello dei soggetti affetti da disturbi psichici e che tali cambiamenti cerebrali si correlano al miglioramento clinico di questi soggetti, per cui solo nei soggetti in cui alla fine di un periodo di trattamento psicologico si osserva una significativa riduzione dei sintomi clinici è rinvenibile un cambiamento significativo dell’attività funzionale del cervello (Wykes-Brammer-Mellers et al. 2002). Un secondo dato di non minore importanza è che la psicoterapia induce un cambiamento nell’attività funzionale di specifiche aree cerebrali, ossia induce un cambiamento nell’attività di quelle aree corticali e/o sottocorticali il cui funzionamento anormale sostiene i sintomi clinici che caratterizzano una specifica patologia psichica (Kandel 1999).

Può la psicoterapia cambiare il cervello?Consigliato dalla Redazione

Recentemente, molti neuroscienziati – ancora una volta un nome per tutti: Kandel – hanno sostenuto che la psicoterapia non è solo un efficace trattamento psicologico, in grado di indurre dei signif… (…)

Tratto da: Neuroscienze.net

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E’ più facile guarire un bambino felice

 

 

 

E' più facile guarire un bambino felice . - Immagine: © Viorel Sima - Fotolia.comCome in ospedale c’è un personale che si occupa della malattia, deve esserci anche un personale che si occupa della parte sana del bambino. Ecco allora che, affianco a medici, infermieri e psicologici, la presenza di figure con ruolo ludico come il dottore clown, diventa di fondamentale importanza.

Ridere è un’attività che travolge meccanismi mentali, sblocca sistemi neurovegetativi, offre sponde al cognitivo, lubrifica la relazione sociale, diviene sistema pedagogico: fa scintillare la vita che è in noi (Fioravanti e Spina, 2006).

La ricerca ha dimostrato i diversi effetti benefici della risata: incrementa la secrezione di sostanze chimiche naturali, catecolamine ed endorfine che migliorano il senso di benessere generale (Adams, 1999); aumenta a livello cerebrale l’attività elettrochimica, con conseguente maggiore reattività, creatività e acutezza mentale, grazie alla produzione di beta endorfine responsabili dell’innalzamento della soglia della percezione del dolore (Fioravanti e Spina, 2006); diminuisce la secrezione di cortisolo e abbassa il tasso di sedimentazione, migliorando la risposta immunitaria; purifica le vie respiratorie superiori; provoca una ginnastica addominale che ha effetti profondi sull’apparato digerente; diminuisce l’insonnia, poiché le tensioni interne diminuiscono; è un antidoto allo stress. In sintesi l’humour costituisce il fondamento di una buona salute mentale (Adams, 1999).

I pericoli che possono sorgere, come conseguenza del trauma emotivo che accompagna l’ospedalizzazione in età evolutiva, sono resi noti ormai da tempo ma ancora oggi sono pochi gli ospedali pediatrici italiani che si occupano seriamente di questa questione (Capurso, 2001). Ogni piccolo paziente che entra in ospedale porta con sé, non solo la sua malattia ma anche il suo “essere bambino”, che è indissolubilmente collegato a una parte sana, ricca di potenzialità, di attitudini, di competenze. Come in ospedale c’è un personale che si occupa della malattia, deve esserci anche un personale che si occupa della parte sana del bambino. Ecco allora che, affianco a medici, infermieri e psicologici, la presenza di figure con ruolo ludico come il dottore clown, diventa di fondamentale importanza.

Il gioco è la via principale per aiutare il bambino ad affrontare situazioni dolorose, gran parte della salute mentale del bambino dipende dalla possibilità di giocare perchè contribuisce a ridurre lo stress emotivo, favorisce la comprensione di quanto succede e sviluppa nel piccolo la capacità di superare la difficile prova dell’ospedalizzazione. Giocare è bello e un ospedale dove si gioca non può essere un posto brutto (Capurso, 2001).

I dottori clown non fanno diagnosi e non compilano cartelle cliniche, loro offrono una sorta di ricette che non si applicano alla parte malata del paziente ma a ciò che in lui è in buona salute. Essere un dottore clown vuol dire essere amore puro in azione, coinvolgere l’altro nella risata, donarsi incondizionatamente. Per fare ciò si usano armi tutte particolari: meraviglia, curiosità, creatività, spontaneità, servizio e strategie d’amore (Adams, 1999), con l’unico scopo di rendere più serena la vita dei piccoli pazienti ricoverati, per non far spegnere in loro il sorriso, l’entusiasmo, la gioia di vivere (Simonds e Warren, 2003).

Il dottore clown entra nella stanza del bambino in punta di piedi, la sua è una presenza non ingombrante, diventa partecipe della consapevolezza che il bambino ha della sua malattia. Egli è soltanto uno strumento che accoglie il dolore del bambino, lo comprende, lo trasforma e lo restituisce in una forma a lui più adatta.

Una conferma dell’importanza della presenza di tale figura in un ospedale pediatrico è venuta da uno studio condotto nel 2009 all’interno dell’ospedale G. Salesi di Ancona con l’ipotesi iniziale che la presenza di una figura ludica, come quella del dottore clown, diminuisca la frequenza di comportamenti di disagio nei bambini che entrano in contatto con la realtà ospedaliera.

Lo studio, che ha riguardato 40 bambini ospedalizzati di età compresa tra 2 e 10 anni, si è basato sulla rilevazione della frequenza di comportamenti, assunti come indicatori di disagio da parte del bambino, attraverso la somministrazione di uno schema di codifica, elaborato e validato, a partire dalle osservazioni condotte nei reparti.

La rilevazione della presenza o assenza di questi comportamenti è avvenuta prima nel gruppo sperimentale, formato da bambini che hanno preso parte durante l’ospedalizzazione alle attività con il dottore clown, e poi nel gruppo di controllo, formato da bambini che non hanno preso parte alle attività.

I risultati ottenuti hanno mostrato una notevole differenza tra i due gruppi che va a confermare l’ipotesi iniziale: l’interazione con il dottore clown in un ospedale pediatrico aiuta i piccoli pazienti ad affrontare un’esperienza dolorosa e stressante e diminuisce significativamente la comparsa di comportamenti di disagio da parte loro.

Sembra impossibile pensare a una reale unione di due elementi così contrapposti: da una parte il gioco, il riso, il divertimento e dall’altra parte la sofferenza, il dolore fisico e psichico, ma ciò è possibile e i dottori clown fanno di questa unione il principio della loro vita. È sulla base dell’unicità di questa relazione tra dottore clown e persona che l’ospedale può diventare un posto migliore e si può iniziare a utilizzare gli effetti benefici che una risata può apportare.

Dopotutto, é più facile guarire un bambino felice (Simonds e Warren, 2003).

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Ripensare la psicoterapia attraverso Madonna e Bateson

Madonna GiovanniLa psicoterapia attraverso Bateson“: è questo il titolo del lavoro di Giovanni Madonna, psicologo-psicoterapeuta del Servizio Sanitario Nazionale, nonché didatta presso la sede di Napoli dell’IIPR (Istituto Italiano Psicoterapia Relazionale).

Ciò che più colpisce del testo, ristampato quest’anno con la Casa Editrice Franco Angeli, dopo una fortunata prima edizione curata nel 2003 da Bollati Boringhieri, è che esso, lungi dall’essere una mera presentazione e illustrazione del complesso pensiero batesoniano, ne costituisce un’ interessante proposta di rilettura e sviluppo.

Tale lavoro, pur proponendo una teoria della psicoterapia, per le sue implicazioni epistemologiche si rivolge anche ai non clinici e fornisce un contributo a una pratica della psicoterapia fondata sulla sensibilità e alla sua possibilità di insegnamento/apprendimento. L’ “estetica” (della cura), menzionata nel sottotitolo, non va intesa in senso filosofico, come dottrina del bello; va invece collegata, secondo l’etimo greco, alla conoscenza sensibile, e sta a indicare il sentimento del rispetto da parte del clinico, la capacità di uscire dai percorsi usuali, di assumersi la responsabilità di sé e degli altri.

Madonna di recente, confermandosi ancora una volta come uno dei maggiori esperti del pensiero batesoniano, ha portato a compimento un secondo volume dal titolo “La psicologia ecologica. Lo studio dei fenomeni della vita attraverso il pensiero di Gregory Bateson” in cui, pensando i temi tradizionali della psicologia (la percezione, l’apprendimento, la memoria, la personalità, le emozioni…) in chiave ecologica, concepisce la psicologia come parte integrante e non separabile della più vasta ecologia della mente.

Professor Madonna com’è entrato in contatto con il pensiero di Gregory Bateson e cosa di esso apprezza e ama di più?

“Ho studiato psicologia a Roma, alla “Sapienza”, nella seconda metà degli anni Settanta. Lì qualche docente particolarmente illuminato – non ricordo chi – inserì nel programma d’esame un paio di saggi tratti da “Verso un’ecologia della mente”, che è stato pubblicato in Italia nel 1976. Mi pare si trattasse di “Verso una teoria della schizofrenia” e de “La cibernetica dell’‘io’: una teoria dell’alcoolismo”. Fu così che entrai in contatto col pensiero di Bateson. Ne rimasi affascinato per la sua capacità di mettere insieme cose comunemente ritenute molto distanti l’una dall’altra, e studiate nell’ambito di discipline diverse. La capacità di connessione è tuttora l’aspetto del pensiero batesoniano che amo di più.”

Nel suo primo testo grande spazio è affidato a un tema a lei molto caro quello della formazione… Colpisce molto laddove lei, parlando di una forma di “apprendimento a bottega”, afferma che “il didatta non può insegnare in maniera diretta ma può solo allestire le condizioni più adatte al realizzarsi dell’apprendimento” (Giovanni Madonna, “La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, 2013, p. 33)… Può spiegarci meglio cosa intende dire con ciò?

“Intendo dire che uno psicoterapeuta lavora principalmente con la persona che è. E i modi di essere non sono singoli elementi di comportamento. Questi, sì, possono essere insegnati e imparati, in maniera diretta e volendo farlo: funzionano sulla base delle leggi del rinforzo, per le quali gli elementi di comportamento premiati tenderanno a riproporsi e quelli puniti tenderanno a estinguersi. E i premi e le punizioni possono essere decisi e anche programmati. Ma i modi di essere possono essere concepiti come classi di comportamento. E le classi di comportamento non funzionano sulla base delle leggi del rinforzo; attengono invece alle modalità di somministrazione del rinforzo (al fatto, per esempio, che i rinforzi siano somministrati con modalità prevalentemente continua o discontinua, premiante o punitiva, eccetera). E le modalità di somministrazione del rinforzo molto difficilmente possono essere decise e programmate: attengono a loro volta ai modi di essere, ai tratti di personalità, o aspetti del carattere, che dir si voglia. E questi funzionano al di fuori della coscienza e della volontà. E allora un didatta – “a bottega”, appunto – non può che allestire le condizioni in cui più probabilmente un certo apprendimento possa, per vie imprevedibili, realizzarsi… può coltivare, non progettare e programmare.

A un tratto lei poi, parlando più nello specifico della psicoterapia afferma che lo psicoterapeuta sa di “non possedere e di non poter raggiungere la verità assoluta e sa che, insieme al suo paziente ne costruisce una” (Giovanni Madonna, La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, 2013, p.71  sg.), dunque il terapeuta deve rinunciare alla scoperta della verità? Non trova che ciò corra il rischio di regalare un eccessivo senso di incertezza?

Da quando, all’inizio degli anni Ottanta, c’è stato l’avvento della cibernetica del secondo ordine  –  e dell’introduzione dell’osservatore nel campo di osservazione, che essa ha comportato – che piaccia o no, nessuno studioso (fisico, medico, psicologo o antropologo che fosse) ha potuto più pretendere di conoscere le cose in maniera oggettiva ed esaustiva. Tutti si son dovuti accontentare di conoscere le cose in maniera soggettiva e parziale. Lo psicoterapeuta che si introduce nel campo di osservazione è certamente più incerto e dubitoso – e dunque più umile e tollerante – ma il fatto di sapere di non poter raggiungere la verità lo avvicina un po’ di più alla verità, anzi alla verità sulla verità, che è una verità di ordine più elevato: “vero è che non posso conoscere la verità”… più incerto, sì, ma forse anche un pochino più saggio o, almeno, meno protervo e arrogante.

Se dunque ho capito bene il modello psicoterapeutico da lei proposto “centrato sul terapeuta”, nutre l’idea di un terapeuta che “riconosca il carattere integrato del sistema che comprende lui insieme al suo paziente, che consideri il verbo “cambiare” anche nella sua accezione intransitiva e per il quale il cambiamento è coevoluzione… che non rivendicherà il merito del cambiamento del paziente, non si sentirà né vorrà sembrare un mago” (Giovanni Madonna, La psicoterapia attraverso Bateson. Verso un’estetica della cura”, Franco Angeli, Milano, p.42 sg.).

Esatto. E’ Proprio così!

Semplificando, per quanto ciò possa essere possibile, cosa a suo avviso è responsabile dell’insorgenza della patologia e cosa possiamo invece intendere per guarigione?

Umh… effettivamente è difficile dirlo con poche e semplici parole… Diciamo che la psicopatologia insorge quando c’è contrasto fra parti di una mente e disconoscimento o negazione della connessione fra le parti in contrasto. Il disconoscimento o la negazione vengono generati da “errori epistemologici”, che allontanano gli esseri umani da come funziona la natura e allestiscono le condizioni in cui la psicopatologia può attecchire. Gli errori epistemologici più comuni e dannosi sono a) Credere di percepire le cose come sono; b) Ignorare la circolarità dei sistemi e c) Tentare di controllare una parte del sistema cui apparteniamo e perfino noi stessi. Possiamo chiamarli, sinteticamente, errore dell’obiettività, errore della linearità ed errore della finalità. Questi errori, insieme e in combinazione, orientano alla separazione, in particolare alla separazione di chi li commette dal tutto più ampio che lo comprende. La separazione rappresenta l’humus sul quale la psicopatologia attecchisce e del quale si nutre.

Quanto alla guarigione, possiamo dire che attiene alla correzione degli errori epistemologici – e delle loro implicazioni – e alla riconnessione di ciò che è stato separato.

Ci parla un po’del suo ultimo libro e di cosa intenda dire quando parla di “ecologia della mente”?

L’ecologia della mente è un paradigma epistemologico proposto negli anni Settanta da Gregory Bateson. Possiamo considerarla una scienza connettiva in virtù della quale possiamo giungere all’integrazione dell’insieme dei fenomeni biologico/mentali, ovvero di una gamma molto ampia di fenomeni apparentemente assai diversi l’uno dall’altro, ma molto simili nell’organizzazione e nel funzionamento. Questi fenomeni riguardano la vita in generale: l’evoluzione, l’apprendimento, il linguaggio e tutti gli altri processi, piccoli e grandi, che innervano di sé e che costituiscono il mondo degli esseri viventi.

Col mio ultimo libro, “La psicologia ecologica” ho voluto rendere esplicita la psicologia sulla quale, con il precedente libro, “La psicoterapia attraverso Bateson”, avevo fondato la proposta di una psicoterapia sistemica. Ne “La psicologia ecologica” propongo la psicologia attraverso l’epistemologia batesoniana ovvero in termini di <<ecologia della mente>>, come parte integrante e non separabile di quella matrice epistemoplogica.

 

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BIAS – EURISTICHE – IN TERAPIA

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE CON LE COPPIE E LE FAMIGLIE – RECENSIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Teoria della mente – La lettura ci aiuta a capire meglio gli altri

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una nuova ricerca messa a punto da David Comer Kidd e Emanuele Castano (The New School for Social Research), pubblicata sul giornale Science, ha indagato l’effetto che la lettura di opere di narrativa ha sulla capacità di comprendere gli stati mentali degli altri, ovvero sulla Teoria della mente.

Quest’ultima è una complessa abilità sociale che ci permettere di “leggere” la mente dell’altro e di comprenderne gli stati mentali. Lo studio vuole indagare in che modo la qualità della lettura, valutata attraverso 3 diversi tipi di narrativa, influiva sulla Teoria della mente dei soggetti. La prima categoria riguardava la narrativa “letteraria”, relativa a quelle opere di maggior prestigio letterario che raccontavano storie percepite come verosimili.

La seconda, la “narrativa di genere”, comprendeva romanzi di fantascienza e la terza, denominata “non-fiction”, raggruppa tutte le opere non categorizzabili nei due gruppi precedenti, come ad esempio le opere di matrice storica. Per ognuna delle tre categorie vennero selezionate delle opere che furono assegnate, secondo un ordine casuale, a ciascuno dei partecipanti. Dopo la lettura dei romanzi, i ricercatori valutarono la Teoria della mente dei soggetti tramite diverse misurazioni.

Una di queste (denominata “Reading the Mind in the Eyes”) consisteva nell’osservare delle fotografie in bianco e nero e cercare di riconoscere l’emozione provata dal soggetto raffigurato. Un’altra, invece, valutava indici cognitivi ed affettivi. Dai risultati emerse che in tutte le diverse misurazioni, i soggetti destinati alla lettura della narrativa letteraria ottennero punteggi mediamente superiori rispetto a quelli assegnati alle altre due categorie, le quali non evidenziarono differenze significative.

Sembra, quindi, che non è sufficiente la lettura di opere di vario genere per migliore la nostra teoria della mente,  ma l’elemento cruciale è rappresentato proprio dal tipo di narrativa di cui si fa uso. Sono le opere di narrativa letteraria appartenenti alla prima categoria a stimolare un maggior pensiero creativo ed un coinvolgimento intellettivo superiore che permettono di ottenere effetti positivi sulle nostre abilità sociali.

La letteratura narrativa richiede, infatti, una maggior coinvolgimento intellettivo del lettore, necessario per comprendere le mille sfaccettature che si snodano nel racconto e la complessità di ciascun personaggio. Come accade nella vita reale, al lettore è richiesto uno sforzo cognitivo per capire i personaggi nella loro totalità e dare senso al loro comportamento. Sembra, dunque, che la capacità della lettura e della narrativa di influire positivamente sulle abilità sociali e sulla teoria della mente è determinata dal fatto che i romanzi stimolano un processo intellettivo raffinato necessario per scrutare dentro ogni personaggio.

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TEORIA DELLA MENTE – LETTERATURA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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