Il senso di vuoto Validazione di un test diagnostico – Assisi 2013
Nel DSM 5 i disturbi della personalità sono presenti sia nella sezione II, dove sono stati riproposte le stesse categorie diagnostiche presenti nel DSM IV TR, sia nella sezione III dove si propone il nuovo modello “ibrido” . Lo scopo è abituare i clinici alla nuova classificazione, dimensionale e tratto specifica, e orientare la ricerca in questa direzione. Malgrado possano esistere dei vantaggi nell’effettuare una diagnosi dimensionale ci sono state molte resistenze nell’accogliere la nuova proposta diagnostica al punto da dover riproporre le vecchie diagnosi. Presenteremo, in ogni caso, la nuova nosografia.
Come si procede in ambito di personalità?
Prima di effettuare diagnosi vera e propria il clinico, esperto, deve seguire una serie di indicazioni che portano a valutare la gravità del disturbo presentato e il funzionamento interpersonale del paziente. In sostanza, sono tre i livelli da valutare: il funzionamento generale, la patologia e i tratti/domini.
In primo luogo, dunque, si effettua una valutazione dimensionale del livello di compromissione del Sé e delle relazioni interpersonali, attraverso un continuum di gravità espresso con 5 livelli (Self and Interpersonal Functioning Continuum).
Successivamente, il clinico deve verificare se presente un disturbo di personalità patologico (borderline, evitante, etc.). Nel caso in cui non fosse presente patologia, ma solo una compromissione generale derivante dalla prima valutazione effettuata, si passa alla valutazione dei tratti/domini di personalità.
Primo step valutativo che mira a definire i diversi livelli di organizzazione della personalità. La Scala dei Livelli di Funzionamento della Personalità, permette di individuare delle dimensioni che si dividono in disturbi del Sé e funzionamento interpersonale.
Per quanto riguarda i disturbi del Sé si hanno due aree da valutare lungo un continuum di gravità:
(1) l’identità, intesa come l’esperienza di se stessi come soggetti unici e dotati di confini definiti, la stabilità della propria autostima, l’accuratezza della propria auto-valutazione e la capacità di regolare una vasta gamma di emozioni;
(2) l’autodirezionalità, intesa come capacità di perseguire obiettivi a breve termine e scopi di vita coerenti e significativi, l’utilizzo di standard di comportamento interni costruttivi e prosociali e la capacità di riflette in modo produttivo su di sé.
Il Funzionamento interpersonale, invece, è valutato tenendo conto di due dimensioni:
(1) l’empatia, intesa come comprensione delle esperienze e motivazioni altrui, tolleranza di prospettive diverse e comprensione degli effetti del proprio comportamento sugli altri;
(2) l’intimità, intesa come profondità e durata delle relazioni positive con gli altri, desiderio e capacità di intimità e rispetto reciproco.
Dopo aver definito questa parte generale, si passa a quella di diagnostica vera e propria, secondo step.
Anche qui, però, sono state introdotte delle novità: saranno sei i disturbi di personalità che si possono diagnosticare: schizotipico, antisociale, borderline, narcisistico, evitante e ossessivo compulsivo.
Mancano, e non saranno reintegrati lo schizoide, l’istrionico, il paranoide e il dipendente. Alcuni potrebbero dire, “che fine hanno fatto il passivo aggressivo e il depressivo di personalità?“. Beh, erano stati eliminati e inseriti in appendice da un pezzo, malgrado nella SCID II erano ancora presenti.
Ognuno di questi disturbi di personalità è presentato in maniera più articolata da come era stato inserito nel DSM-IV TR, perché caratterizzati da una parte sul funzionamento generale e un’altra sui tratti patologici di personalità relativamente stabili, non riconducibili alla condizioni socio-culturali dell’individuo e a una condizione medica generale o all’uso di sostanze.
In sostanza, per porre diagnosi di disturbo di personalità dovranno essere soddisfatti i seguenti criteri:
Fatto ciò, si passa alla parte successiva, ovvero l’individuazione di 5 grandi tratti/ domini: Affettività Negativa (AN), Distacco (D), Antagonismo (A), Disinibizione vs Compulsività (DS vs C) e Psicoticismo (P).
Questi 5 domini, valutati anche su una scala dimensionale (0-4) sono ulteriormente articolabili in un totale di 28 sottodomini o “trait-facets”.
Quindi, se un paziente soddisfa i criteri per la presenza di un funzionamento patologico, ma non per uno dei 6 disturbi di personalità, il clinico viene invitato a procedere alla valutazione secondo i 5 grandi domini appena elencati, per mezzo dei quali vengono descritti una serie di Personality Disorders Trait Specified (PDTs) che prendono il posto dei famosi disturbi di personalità Non Altrimenti Specificati del DSM-IV-TR.
Ogni trait-domain può essere ulteriormente valutato in modo dimensionale per mezzo di una scala a 4 passi (da 0 a 3). Questa descrizione può essere approfondita prendendo in considerazione le 28 trait-facets associate ai vari domini. Le informazioni derivate da domini e sottodomini possono essere quindi utilizzate per la formulazione del caso anche se nessuno dei criteri dei disturbi della personalità sia soddisfatto.
Da quanto emerge, risulta essere abbastanza evidente la poca linearità e scorrevolezza nella diagnosi, al punto da risultare molto difficile da far digerire soprattutto a chi effettua diagnosi da molti anni. In particolare, far parlare la patologia con i Big Five, da cui originano i tratti/domini sembra essere un impresa piuttosto ardua. Si otterrà una valutazione del funzionamento globale del paziente e l’incasellamento dello stesso in categorie poco diagnostiche.
Speriamo di non fare un volo nel vuoto.
BIBLIOGRAFIA:
“…non sembra improbabile il sospetto che i progenitori dell’uomo,
siano maschi o femmine,
o dei due sessi,
prima che avessero acquistato la facoltà di esprimere
il loro vicendevole amore col linguaggio articolato,
cercassero di allettarsi l’un l’altro con note o ritmo musicale…”
(Darwin, 1871)
Darwin l’aveva già detto che la musica gioca un ruolo nella selezione sessuale.
Alcuni ricercatori francesi hanno condotto un esperimento proprio per trovare conferme scientifiche a questa ipotesi.
Numerose ricerche hanno cercato di capire quali siano le caratteristiche degli uomini maggiormente attrattive per la popolazione femminile.
Diversamente dagli uomini, infatti, le donne possono avere soltanto un numero limitato di figli e questo le porterebbe a scegliere uomini che possano assicurare di avere risorse necessarie per sè e per la propria stirpe.
Un recente lavoro (Gueguen & Lami 2012) riporta infatti che coloro che avevano una macchina più costosa erano più inclini a ricevere il numero di telefono chiesto ad una passante.
In accordo con la Teoria Evoluzionistica e quella dell’Investimento Parentale di Trivers (1972) sembra che per le donne l’elevata classe sociale e l’elevato stipendio rappresentino un fattore importante nella scelta della partner, ma non è l’unico.
Forse anche la musica gioco un ruolo pertanto, tornando a Darwin e a quello che ormai più di un secolo fa asseriva, potrebbe essere che le donne siano particolarmente sensibili alla musica, così come accade nelle altre specie?
Già in letteratura sono presenti studi che rivelano lo stretto legame tra musica e selezione sessuale. Sanders & Venmoth (1998) hanno evidenziato come le donne subiscano maggiormente l’influenza della musica nel periodo dell’ovulazione e Sluming & Manning (2000) in un altro interessante studio, hanno rilevato il rapporto tra secondo e quarto dito della mano (rapporto 2D:4D) ritenuto essere un maker genetico della presenza di testosterone in epoca prenatale e quindi indicativo di una buona fertilità, evidenziando come questo fosse minore (quindi migliore) nei componenti di un orchestra piuttosto che nella popolazione generale.
Pertanto Gueguen, Meineri and Fisher-Louku (2013) hanno condotto uno studio per valutare se, e in che modo, l’essere un musicista possa favorire la possibilità di ricevere un numero di telefono da una donna.
Nell’esperimento un ragazzo di 20 anni (preliminarmente selezionato come il maggiormente attraente da un campione di donne tra altri uomini) è stato istruito a chiedere, a ragazze approssimativamente tra 18 e 22 anni che passeggiavano da sole, il loro numero di telefono invitandole ad uscire per un drink in 3 diverse condizioni: una con la custodia di una chitarra in mano, una con una borsa sportiva in mano, e una senza alcun oggetto, mantenendo inalterate le altre variabili (cosa dire, quando sorridere) ed evitando di selezionare la ragazza sulla base della sua attraenza.
I risultati dimostrano che il 31% dei numeri telefonici sono stati raccolti nella condizione che prevedeva la presenza della custodia di chitarra, a differenza del 9% con la borsa sportiva e del 14% senza nulla in mano, evidenziando una differenza significativa tra la prima condizione e le altre e supportando l’ipotesi degli autori che la musica possa giocare un ruolo nella selezione sessuale. Questo non ci stupisce, Darwin l’aveva già visto in tutti gli animali, perchè dovrebbe essere diverso nell’uomo?
Un passo in più per rispondere all’intramontabile domanda senza risposta di Freud, “Cosa vogliono le donne?”, forse un musicista.
BIBLIOGRAFIA:
Il gene in questione è una variante del gene ADRA2B, che influenza l’ormone e neurotrasmettitore noradrenalina e che svolge un ruolo nella formazione di memorie emozionali; il nuovo studio dimostra che la variante ADRA2B gioca anche un ruolo nei processi percettivi individuali.
200 soggetti hanno partecipato allo studio in cui sono stati esposti a parole positive, negative e neutre, in rapida successione.
I partecipanti con la variante del gene ADRA2B erano più suscettibili degli altri nel percepire le parole negative; entrambi i gruppi invece erano più sensibili alle parole positive piuttosto che a quelle neutre.
Questa predisposizione genetica, spiega Todd, autore dello studio, induce le persone a una selezione di elementi negativi nell’ambiente circostante.
Ulteriori ricerche esploreranno questo fenomeno tra i gruppi etnici: si ritiene infatti che più della metà dei caucasici abbiano la variante ADRA2B che invece è significativamente meno diffusa in altre etnie; per esempio, un recente studio ha rilevato che solo il 10 % dei ruandesi possiede tale variante nel suo corredo genetico.
BIBLIOGRAFIA:
Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo
Tale capacità permetterebbe al bambino, che vive una buona e necessaria dipendenza emotiva, di imparare gradualmente la mediazione riflessiva grazie alla quale potersi differenziare dalle figure genitoriali.
Riuscendo a districarsi nella selva dei sentimenti e dei vissuti potrebbe, da adolescente prima e da adulto poi, far fronte alle inevitabili frustrazioni che la vita riserva senza crollare, fuggire o rifugiarsi in nuove e distorte forme di dipendenza, quali alcool, droghe o altre forme di devianza (Montefoschi, Pietrini, Raggi, 2009).
Alcune ricerche sull’argomento, presentano un adolescente che sembra far di tutto pur di allontanarsi dalla relazione con i genitori e con altre figure di attaccamento familiari, ostentando spesso spirito di opposizione e capacità di autonomia. Ma la conquista dell’autonomia, che non va realmente a discapito dei rapporti genitoriali o familiari, si accompagna all’instaurarsi di una serie di relazioni sicure, che dureranno con molta probabilità ben oltre l’adolescenza (Fraley e Davis, 1997).
Non si tratta dunque di una fase in cui i comportamenti e i bisogni di attaccamento vengono abbandonati, piuttosto è il periodo in cui questi sono gradualmente trasferiti ai coetanei (Allen e Land, 1999), ai partner sentimentali in prima istanza ed agli amici in seconda.
Il trasferimento dei bisogni e dei comportamenti di attaccamento dai genitori ai pari, richiede comunque una trasformazione, da relazioni d’attaccamento gerarchiche si passerà a relazioni d’attaccamento simmetriche. Vien da sé che l’adolescente che avrà vissuto da piccolo attaccamenti sicuri, più facilmente gestirà il conflitto di separazione con i genitori in modo partecipato, e le identificazioni con i pari saranno adeguate, coinvolgenti seppure critiche (Allen & Land 1999). Adolescenti con attaccamento evitante vivranno tale conflitto in modo prevalentemente inconsapevole e meno partecipato, ma le identificazioni con i pari potranno essere più difficoltose.
Adolescenti con attaccamento ambivalente tenderanno a vivere il conflitto genitoriale con violenza e rabbia, e trovandosi più facilmente preda di forti emozioni, tenderanno a identificazioni massicce e acritiche verso i pari.
Il baricentro affettivo si sposterà eccessivamente dalla famiglia ai pari (branco, bullismo, devianza). Un discorso più complesso riguarda l’attaccamento disorganizzato, in cui le conseguenze a lungo termine sembrano essere una difficile gestione dello stress e delle emozioni negative, attestate dalla presenza perdurante di elevati livelli di cortisolo nella saliva e dall’aumento della frequenza dei battiti cardiaci ben oltre il tempo di esposizione allo stress (Van Ijzendoorn, Schuengel, Balermans-Kranenburg,1999).
Interessanti a tal proposito i lavori di Mary Main (2008) e di Lyons-Ruth e Jacobvits (2008) sulle cause e le evoluzioni degli attaccamenti evitanti e disorganizzati dalla prima infanzia alla prima età adulta, e quelli di Gianni Liotti (Liotti, Farina, 2011) sugli sviluppi dissociativi degli attaccamenti disorganizzati associati a esperienze traumatiche.
Tali studi permettono di capire in modo più preciso e sperimentalmente fondato come caregivers che si relazionano ai bambini in modo spaventato e spaventante, presentandosi come fonti di protezione ed in egual misura di paura, agevolino relazioni precoci caratterizzate da sentimenti di impotenza e ostilità; ciò rende loro impossibile il compito di sviluppare strategie relazionali organizzate, rappresentazioni coerenti di sé e degli altri e una buona capacità di comprendere il comportamento proprio e altrui in termini di stati intenzionali.
Per Liotti, dato che l’attivazione del sistema di attaccamento determina in queste persone profonde angosce di annientamento, il loro comportamento finirebbe per essere controllato in modo più o meno rigido dai sistemi motivazionali dell’accudimento, del rango e forse anche della sessualità e il loro funzionamento psichico si organizzerebbe in senso dissociativo.
LEGGI LA MONOGRAFIA: TRIBOLAZIONI
Secondo molte culture orientali la sofferenza dell’individuo si ridurrebbe grandemente se riuscisse a considerarsi parte di un tutto universale rinunciando alla propria centralità e unicità assoluta. Certamente l’egocentrismo e lo stesso egoismo hanno un ruolo positivo nell’evoluzione e sono dunque stati selezionati. Guardare il mondo da una sola prospettiva è più semplice ed efficace. Così come puntare ai propri interessi conduce, in genere, a realizzarli.
La cultura occidentale ha ipertrofizzato questo aspetto. Così pensiamo di essere al centro dell’universo. Il decentramento da questa prospettiva non è facile. Quando i fatti ci ricordano improvvisamente e spesso duramente che l’universo non è al nostro servizio, oltre alla frustrazione di qualche scopo specifico c’è la frustrazione di questo smisurato egocentrismo narcisista.
Esso può essere mitigato solo dallo sviluppo di una buona capacità metacognitiva (Flavell 1988; Semerari 1991, 1996, 1999). Che origina da una sicura relazione di attaccamento infantile ( Bowlby 1969, 1973, 1980; Fonagy 2001; Fonagy et al. 2002; Fonagy, Target 1996).
Al centro di tutto c’è “l’Io” punto di vista da cui è difficile distanziarsi Intorno all’Io, in cerchi concentrici, troviamo la nostra famiglia, la nostra cultura, il nostro tempo che diventano altrettanti standard normativi di ciò che è normale, buono e giusto.
Poi c’è “il genere umano” a cui tutto è sottomesso. Pensiamo che le mucche facciano il latte, i campi il grano e le galline le uova per darci la possibilità di fare i dolci: sappiamo che non è così ma siamo portati a pensarlo.
Poi c’è la terra, il nostro pianeta che, se non crediamo più essere il centro dell’universo ancora lo pensiamo, contro ogni logica, come l’unico in grado di ospitare la vita. Da qui a trasformare il wishfull thinking in onnipotenza il passo è breve: “se tutto è stato creato al mio servizio ciò che voglio può e deve accadere”.
Questa sorta di delirio di riferimento e di onnipotenza non sarebbe di per sé motivo di sofferenza se non fosse che poi le cose non vanno realmente così. Ci rimaniamo doppiamente delusi a motivo delle irrealistiche e ingiustificate aspettative. La gente spesso tribola dicendosi “non doveva capitare a me oppure a noi” o, più semplicemente, “non doveva capitare” ma non sa spiegare il perché di tale aspettativa magica. Sono arrabbiati con la sorte ritenendosi detentori di diritti inspiegabili che sembrano loro ingiustamente lesi.
L’egocentrismo spinge a sentirsi soli ma anche unici e speciali. Ad esempio molti si chiedono. “Come è possibile che tutti per strada siano sereni e felici ed io invece porti dentro tanta sofferenza?”
Naturalmente questo modo di sentirsi gli unici sofferenti è frutto di un errore di prospettiva. Ciascuno vede dal di dentro solo sé stesso, mentre degli altri vede la preziosa confezione esterna, il fiocco arricciato e la carta sgargiante.
Le persone che si incontrano per strada non sputano fiamme, non si puntano la pistola carica alla tempia, non annodano la corda insaponata. Ma del loro animo che ne sappiamo? I pensieri non sono pesciolini guizzanti in una boccia di vetro, non si vedono. L’anima non è trasparente. Tutti appaiono agli altri viandanti tranquilli e persino soddisfatti. Solo se si facesse un buchino in quelle splendide apparenze si vedrebbe cosa colerebbe fuori.
Il bacio, come forma di effusione nelle relazioni sentimentali, è incredibilmente diffuso in varie forme e in quasi tutte le culture e società contemporanee; inoltre è stato osservato anche negli scimpanzé e nei bonobo, i primati nostri parenti più prossimi, anche se è meno intenso e meno frequente.
Secondo uno studio della Oxford University è grazie al bacio che riusciamo ad inquadrare un partner potenziale e, quando la relazione è già avviata, può addirittura aiutarci a trattenere il partner.
Per capire meglio la funzione del bacio nelle relazioni sentimentali, Rafael Wlodarski e Robin Dunbar hanno condotto un sondaggio online che ha coinvolto più di 900 adulti nel valutare l’importanza del baciare nelle relazioni a breve e a lungo termine.
Le principali teorie sul ruolo che il bacio svolge nei rapporti sentimentali sono tre: aiuta nella la valutazione della qualità genetica dei potenziali partners, serve ad aumentare l’eccitazione per avviare il rapporto sessuale e fa da collante nella relazione.
Lo scopo della ricerca condotta era proprio passare al vaglio queste tre teorie.
Le risposte al sondaggio indicano che le donne, nelle relazioni sentimentali, attribuiscono al bacio maggiore importanza degli uomini; inoltre uomini e donne che si considerano attraenti o tendono ad avere relazioni a breve termine e incontri sessuali casuali attribuiscono al bacio molta importanza. Tra i mammiferi, esseri umani compresi, le femmine devono investire (tra gravidanza e allattamento) più tempo degli uomini con la prole e studi precedenti hanno mostrato che le donne tendono ad essere più selettive degli uomini nella scelta del partner.
Questi dati, nel loro insieme, sostengono la teoria per la quale il bacio aiuta nella selezione dei potenziali partners: il bacio infatti veicolando gusto e odore, ci fornisce indizi per una prima e inconsapevole valutazione di compatibilità biologica, genetica e dello stato generale di salute dell’altro.
Scelta e corteggiamento negli esseri umani sono complessi, dice Dunbar, e passano attraverso diverse fasi di valutazione in cui ci chiediamo se andare più a fondo nella relazione; durante queste fasi l’attrazione è sensibile al viso, al corpo, a codici sociali, fino ad arrivare al test del bacio che rappresenta già una fase più intima della valutazione.
Un altro dato significativo che emerge dalla ricerca è che l’importanza del bacio varia a seconda che le persone si trovino in relazioni a lungo o breve termine, in particolare le donne con relazioni a lungo termine lo hanno giudicato molto importante e questo suggerisce che il bacio giochi un ruolo chiave come mediatore di affetto e attaccamento nelle relazioni stabili.
Nonostante il bacio aumenti l’eccitazione sessuale non sembra essere, invece, un elemento importante nello spiegare perchè ci baciamo nelle relazioni sentimentali.
Nelle relazioni a breve termine il bacio è stato considerato importante prima di un rapporto sessuale, meno durate e ancora meno dopo o in altri momenti. Nelle relazioni a lungo termine invece, dove il mantenimento del legame è un obiettivo fondamentale, il bacio era ugualmente importante prima del rapporto sessuale ma anche in situazioni non legate alla sessualità.
Ancora, baci frequenti, ma non rapporti sessuali più frequenti, erano legati a relazioni più soddisfacenti, anche quando questo non era preludio di un rapporto sessuale.
Per concludere un articolo apparso su Human Nature, in accordo con altri studi secondo i quali i cambiamento ormonali associati al ciclo mestruale possono modificare le preferenze femminili per un potenziale compagno, rivela che l’atteggiamento delle donne nei confronti del bacio romantico dipende dalla fase del ciclo mestruale in cui si trovano e dalla fase della relazione che stanno vivendo: il bacio è particolarmente valorizzato nelle fasi iniziali di una relazione e nella fase del ciclo in cui le probabilità di concepire sono maggiori.
Quando le probabilità di concepimento sono più alte le donne preferiscono uomini che mostrano segni di un buon corredo genetico: visi mascolini, simmetria facciale, dominanza sociale e compatibilità genetica; il bacio si rivela in questa fase un importante strumento di valutazione della qualità generica del partner.
BIBLIOGRAFIA:
Michela Muggeo, Chiara Caruso, Elena Mannelli, Francesca Martino
LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA
Se invece nasce un conflitto e una sfida aperta tra questi due ruoli chi ne risente sono tutti i membri del gruppo sia dal punto di vista prestazionale che da quello relazionale.
Secondo Mazzali [1995] il punto di vista, molto diverso, da cui allenatore e capitano osservano le relazioni interne alla squadra e le sue prestazioni, sono fonte di possibili malintesi nel momento in cui uno cerca di imporre le proprie idee all’altro. La visuale del capitano è interna e legata alla particolarità delle situazioni, quella dell’allenatore, al contrario è esterna e permetta un’analisi generale delle condizioni della squadra.
Risolvere questa relazione attraverso la supremazia di uno dei due leader non può che essere dannoso. Se soccombe il capitano, ne risentiranno tutti i giocatori che lo avevano eletto a quello status al fine di deresponsabilizzarsi. Nel momento in cui la sua posizione viene messa a rischio, tutta la stabilità e la sicurezza che il suo ruolo conferisce alla squadra inizia a perdersi. Se è l’allenatore ad uscirne sconfitto la leadership viene totalmente lasciata in mano ai suoi giocatori. Questa possibilità non è sicuramente più positiva della precedente. Senza la guida istituzionale, il capitano si trova in una posizione che non gli permette di fare delle valutazioni critiche e obiettive e non vi è più una figura forte in grado di sedare eventuali conflitti con gli outsider, i sindacalisti o con altri leader, i quali possono prendere tutta l’attenzione dei giocatori portando via impegno ed energie al raggiungimento degli obiettivi e alla prestazione. I risultati ottenuti in questo caso sono estremamente variabili e possono attraversare comunque periodi di successo, che non danno garanzie, però, sulla loro continuità futura.
Come si può risolvere questa situazione? La soluzione migliore proposta dall’autore è quella di costruire anche, e soprattutto, con il leader intimo un accordo che implichi l’investimento reciproco di fiducia l’uno nell’altro e che permetta di distinguere con chiarezza i diversi compiti e funzioni e di delineare i limiti del proprio campo d’azione.
Se quest’accordo viene sviluppato i risultati non solo eviteranno le dinamiche precedentemente esposte ma permetteranno anche di migliorare notevolmente sia la prestazione che la soddisfazione del gruppo. Questo perché i due ruoli risultano spesso complementari, dove uno non può carpire il problema o non può risolverlo direttamente, può farlo l’altro.
Per questo il buon allenatore sa farsi rispettare dal leader intimo, deve saper imporre la propria autorità, ma deve far di tutto perché il capitano lavori per la squadra dal momento che solitamente è sia uno dei giocatori più dotati, sia colui che gli altri atleti hanno designato come proprio punto di riferimento. Tutto ciò possibilmente evitando che si inneschino dei comportamenti di sfida tra loro.
“Top Brain, Bottom Brain: Surprising Insights Into How You Think” questo è il titolo del nuovo libro di Stephen M. Kosslyn, professore a Harvard, e dello scrittore e sceneggiatore G. Wayne Miller.
Gli autori presentano una nuova teoria su come la predominanza del cervello non sia più destra o sinistra (emisferica) ma coinvolga la parte alta e bassa del nostro cervello. Ci sono deiverse aree che entrano in sinergia dal basso o dall’alto dando origine a diversi modi di pensare, ad esempio l’utilizzo maggiore del cervello basso caratterizza uno stile più introverso, riflessivo; al contrario un uso esclusivo del cervello alto caratterizza una spiccata creatività.
Gli autori ne individuano 4:Dinamico , Riflessivo , Creativo ed Elastico.
Nonostante le grandi diversità dei 4 stili di ragionamento, nessuno è superiore all’altro, quindi non c’è necessità di nessuna “ginnastica” per migliorare il proprio modo di pensare/agire. Gli autori per ogni tipo di pensiero ne sottolineano le singole caratteristiche con vantaggi e svantaggi e ne delineano anche dei profili di personaggi famosi appunto per dimostrare quanto ogni stile di pensiero, quindi ogni interazione tra le diverse parti del nostro cervello, sia a sè e quanto potenziale è insito in ognuno di noi.
Sta a noi scegliere come sfruttarlo o come far pensare il nostro cervello al meglio.
Diventava importante evitare la distinzione destro/sinistro, analitico/intuitivo, logico/creativo. Volevamo analizzare in modo diverso come le diverse parti del cervello elaborano l’informazione. È sorta in me l’idea che il cervello, come un tutto, è un sistema integrato e dobbiamo considerare come le diverse parti interagiscono.
La storia delle ricerche sul coping è contrassegnata dal continuo confrontarsi e alternarsi di due distinti approcci, uno che enfatizza il ruolo dei fattori disposizionali e l’altro che sottolinea invece il ruolo dei fattori situazionali.
Il coping, inteso come l’insieme di strategie mentali e comportamentali che sono messe in atto per fronteggiare una certa situazione, è stato tradizionalmente considerato come una caratteristica piuttosto stabile di personalità. In seguito le modalità di coping sono state analizzate come reazioni flessibili e mutevoli a sfide normative o a eventi di vita quotidiana stressanti.
Gli orientamenti più recenti considerano il coping come un processo che nasce da interazioni che superano o sfidano le risorse di un soggetto e che è formato da molteplici componenti, quali la valutazione cognitiva degli eventi, le reazioni di disagio, le risorse personali e sociali, etc.
Questi processi sono considerati ciclici e cumulativi, pertanto le diverse componenti si modellano reciprocamente nel tempo e gli esiti ottenuti di volta in volta influenzano il repertorio e le risorse di coping disponibili all’individuo per negoziare le successive interazioni e situazioni stressanti.
La prima generazione di ricercatori sul coping concentrò gli sforzi e gli interessi a identificare e studiare solo alcune risposte di coping di base, anche se potenzialmente ogni soggetto ha a disposizione un numero illimitato di strategie. In particolare furono identificate due dimensioni principali: le strategie centrate sul problema (problem-focused), quali ad esempio adoperarsi per modificare la situazione prevenendo o riducendo la fonte dello stress, e quelle centrate sulle emozioni (emotion-focused), volte a ridurre i disturbi affettivi e psicologici che accompagnano la percezione dello stress, come prendere le distanze dalla situazione, cercare un sostegno sociale. Un’ulteriore dimensione fu poi identificata, si tratta della strategia orientata all’evitamento (avoidance-oriented), che prevede comportamenti quali la fuga di fronte alla situazione stressante.
All’interno di questo quadro, una strategia di grande interesse riguarda il coping proattivo, attuato cioè prima di incontrare eventuali eventi stressanti.
Aspinwall e Taylor, nello specifico, hanno posto in evidenza che l’attuazione del coping proattivo ha importanti benefici per la persona, in quanto minimizza l’ammontare complessivo di stress che il soggetto potrebbe incontrare, aumenta il numero di opzioni possibili per affrontare una situazione e consente infine di preservare risorse personali, come tempo ed energia, agendo preventivamente.
Nonostante le controindicazioni che si possono verificare, per esempio l’evento stressante potrebbe anche non verificarsi mai, i vantaggi per chi mette in atto forme proattive di coping sono indubbiamente elevati. Il coping di tipo preventivo più efficace è sempre attivo, e può esprimersi sia con attività cognitive come la pianificazione, sia comportamentali, come l’intrapresa di un’iniziativa. Il grado in cui il coping proattivo può essere attuato è moderato dall’ambiente immediato e dal carico cognitivo che comporta, dall’esperienza passata e dalle opportunità avute in precedenza di esercitare l’abilità di questo tipo di coping. Questa prospettiva pone particolare attenzione sui due aspetti principali capaci di influenzare il coping e la gestione dell’attivazione emotiva.
Da un lato c’è il ruolo delle differenze individuali come l’ottimismo, la repressione o le credenze di controllo sugli eventi; dall’altro gli aspetti ambientali che rendono più o meno probabile l’apprendimento efficace e la realizzazione dei compiti proattivi, quali le risorse, le richieste e il carico cognitivo o il peso cronico. Ne emerge che quanto le persone imparano durante la gestione degli stress e come affrontano l’attivazione emozionale scaturita dalla percezione di un possibile evento negativo influenza le modalità con cui saranno affrontate le situazioni stressanti successive. Questa proposta di Aspinwall e Taylor punta inoltre a valorizzare il coping attivo. Infatti, mentre inizialmente il coping attivo era considerato positivo per gli eventi stressanti soggetti a cambiamento e il coping di evitamento era più utile nel caso di eventi incontrollabili, in realtà l’uso continuato di strategie di evitamento si rivela un fattore di rischio, in quanto non produce nuove informazioni sui problemi e compromette alcune risorse come il sostegno sociale.
Nell’ambito della psicologia del benessere, le strategie di coping messe in atto nell’affrontare gli eventi stressanti della vita quotidiana sono state approfondite con lo scopo di mettere in luce eventuali differenze tra ottimisti e pessimisti. In generale si potrebbe dire che l’esperienza affligge meno gli ottimisti rispetto ai pessimisti quando questi hanno a che fare con delle difficoltà nella loro vita.
Questo tipo di differenze non è solo dovuto al livello di ansia presente prima di incontrare una situazione stressante, bensì è principalmente dovuto alle diverse strategie che ottimisti e pessimisti mettono in atto nel far fronte agli eventi. Innanzitutto, le persone che hanno più fiducia nel futuro, come gli ottimisti, producono uno sforzo continuo, anche quando si trovano di fronte a gravi avversità. Viceversa, le persone più dubbiose e preoccupate nei confronti del futuro tendono a provare ad allontanare da sé o a evitare le avversità. In questo senso, i pessimisti tendono principalmente a compiere azioni che diano loro temporanee soluzioni o distrazioni, che in realtà non li aiutano a risolvere il problema.
Sembrerebbe dunque che l’ottimismo porti a una più frequente focalizzazione sul problema, con un impegno prevalente di strategie problem-focused, piuttosto che emotion-focused.
Questa ipotesi, tuttavia, è stata confermata solo parzialmente sul piano empirico. Infatti, nonostante ci sia evidenza del fatto che i soggetti ottimisti ricorrano maggiormente a strategie problem-focused, in letteratura sono presenti anche ricerche che mettono in evidenza un’associazione tra ottimismo e strategie emotion-focused sia di segno positivo, sia di segno negativo.
Gli ottimisti dunque non solo usano strategie di coping centrate sul problema, ma anche differenti tecniche centrate sulle emozioni, inclusi gli sforzi per accettare la realtà di situazioni difficili e per metterle sotto la miglior luce possibile. Questo indica che gli ottimisti possono trarre dei vantaggi nel coping, rispetto ai pessimisti, anche nelle situazioni che non possono essere modificate.
Altri ricercatori hanno indagato le differenze nelle disposizioni in merito ai diversi stili di coping tra pessimisti e ottimisti. Come per gli stili situazionali, gli ottimisti mostrano una tendenza disposizionale alle risposte attive, al coping centrato sul problema e si dimostrano più portati alla pianificazione quando affrontano eventi stressanti. I pessimisti, invece, tendono maggiormente ad abbandonare l’obbiettivo che stavano perseguendo, con cui l’evento stressante interferisce.
Sebbene poi gli ottimisti si caratterizzino per la tendenza ad accettare la realtà, essi provano comunque a vedere il meglio anche nelle situazioni peggiori e a imparare sempre qualcosa anche dagli eventi stressanti. Al contrario, i pessimisti riportano la tendenza a rifiutare palesemente la situazione e ad abusare di sostanze: strategie che diminuiscono la loro consapevolezza del problema. Quindi, in termini generali, si può sostenere che gli ottimisti si caratterizzino principalmente per stili di coping attivi, laddove i pessimisti appaiono maggiormente evitanti.
Questi risultati sono stati anche confermati da una meta-analisi condotta da Nes e Segerstrom, la quale ha messo in evidenza come i soggetti ottimisti si distinguano dai pessimisti per l’impiego di modalità di regolazione attiva (approach coping), piuttosto che evitante (avoidance coping), differenza che si riscontra sia per le strategie problem-focused sia per quelle emotion-focused.
Altri studi hanno inoltre indagato il rapporto tra l’ottimismo e gli stili di coping in contesti specifici. Ad esempio, Strutton e Lumpkin hanno approfondito le loro ricerche nell’ambito lavorativo. Dai risultati da loro ottenuti è emerso che gli ottimisti sono soliti utilizzare strategie centrate sul problema, come la risoluzione diretta del problema, più dei pessimisti. Questi ultimi, ancora una volta, si sono invece caratterizzati per la messa in atto di strategie evitanti.
Tutti questi risultati sono in linea con il quadro concettuale dell’ottimismo disposizionale in cui le aspettative positive portano a un maggiore coinvolgimento e a una maggiore persistenza nel raggiungimento dei propri obiettivi. Allo stesso modo, aspettative negative, come quelle dei pessimisti, conducono a un minore coinvolgimento e a una maggiore desistenza.
Queste associazioni emerse tra ottimismo e strategie di coping non sembrano essere dovute solo al modo in cui ottimisti e pessimisti valutano gli eventi. In questa ottica Chang ha recentemente esaminato l’impatto dell’ottimismo e delle valutazioni della situazione sulle strategie adottate nel fronteggiare uno stimolo stressante come un esame di ammissione a un corso. Nei casi da lui osservati, gli ottimisti non si distinguevano dai pessimisti nella valutazione primaria dell’evento, bensì nelle valutazioni secondarie. Gli ottimisti, cioè, percepivano l’esame come un evento maggiormente controllabile e i loro sforzi per tentare di fronteggiarlo risultavano più efficaci di quanto non fossero quelli dei pessimisti.
BIBLIOGRAFIA:
La superstizione fa fare alla gente cose strane: toccare legno, o ferro, evitare gatti neri o scale aperte, e spesso anche chi razionalmente si rende conto che questi gesti non hanno davvero un effetto e un legame con il verificarsi o meno di certi eventi cede a piccoli rituali superstiziosi. Perchè? Perchè funziona!
Infatti “toccare ferro” anche se non ha un effetto sulla realtà che ci circonda, influisce sulle nostre convinzioni.
Pensare di essere fortunati, considerare, ad esempio, di non avere mai fatto un incidente, ci spinge inevitabilmente a considerare anche la sfortuna e l’eventualità che possa accadere e questo, inevitabilmente, ci fa entrare in uno stato di preoccupazione che certi gesti ci aiutano a placare.
In uno studio, che sarà pubblicato sul Journal of Experimental Psychology, i ricercatori hanno chiesto ad un gruppo di studenti universitari di dire ad alta voce “che sicuramente durante l’inverno non avrebbero fatto incidenti”; hanno poi confrontato le conseguenze psicologiche e comportamentali di questa “pericolosa” affermazione con quelle di un gruppo di controllo che non pronunciava la frase.
L’idea era quella che pronunciare la frase li avrebbe indotti in uno stato di superstiziosa preoccupazione, secondo il principio per cui vantarsi della fortuna attira la sfortuna. E così è stato, inoltre quando gli è stata data la possibilità di toccare il tavolo di legno davanti a loro, gli studenti che avevano pronunciato la frase, lo facevano con l’idea che questo esorcizzava la sfortuna che avevano attirato dichiarandosi immuni dalla possibilità di fare incidenti.
Perché il rituale è stato efficace? Tutti i rituali superstiziosi condividono un ingrediente: implicano un azione di evitamento, cioè gesti che danno l’idea di allontanare qualcosa di cattivo da noi stessi. I rituali aiutano a calmare la mente perché l’azione di evitamento in esso espressa probabilmente induce sentimenti, i pensieri e sensazioni che le persone normalmente sperimentano quando riescono ad allontanare qualcosa di sgradevole.
Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno chiesto a diverse persone di “toccare legno” con un gesto che implicava un’azione evitante, toccare il tavolo in alto con un gesto di allontanamento da sé stessi, o una che non implicasse un evitamento, cioè toccare il tavolo nella parte inferiore, verso sé stessi. Come previsto, il secondo gruppo, nonostante avesse avuto la possibilità di compiere un gesto scaramantico (toccare legno) non aveva avuto la sensazione che questo lo immunizzasse dalla sfortuna.
Successivamente i ricercatori hanno verificato se i gesti di evitamento avevano lo stesso effetto in situazioni non superstiziose. Invece di “toccare legno” dopo avere pronunciato la frase “sfortunata” i partecipanti del gruppo sperimentale dovevano tirare una palla, un’ azione di evitamento ma non associata a un contesto superstizioso. Anche questo gesto ha avuto l’effetto di ridurre la preccupazione legata all’idea di avere attirato su di sé la sfortuna, e questo avveniva sia a nel gruppo sperimentale di chicago che in quello di singapore, cioè l’effetto era indipendente dalla cultura dei partecipanti.
Per concludere, se quasi ogni gesto può essere trasformato in un rito scaramantico, forse quelli che hanno più probabilità di essere usati sono quelli che riescono a farci sentire diversamente, e meglio.
BIBLIOGRAFIA:
Sister: “Il bambino abbandonato e la sua ferocia dolente”. Simon e Louise sono due personaggi tragici che vivono un mondo ai confini della strada, desolato e solitario, dove non c’è speranza di riscatto. (…)
Christiane Puntscher
…aprire le ali e come un gabbiano volare
nel cielo infinito senza più tornare
Il mondo è fuori, Solarium
Tutto ebbe inizio nel 2009 con il concorso musicale “Oltre il muro- Una canzone a trent’anni dalla Legge Basaglia”, organizzato insieme al Comune di Modena e dedicato alle canzoni che avessero come tema il disagio psichico.
Il concorso fu l’occasione per fare “uscire allo scoperto” gruppi musicali composti da utenti e operatori dell’Ospedale Privato Convenzionato Villa Igea di Modena, che utilizzavano lo scrivere canzoni come strumento riabilitativo, occasione per stare insieme in modo creativo e per esprimere con la musica quello che avevano dentro. Nel 2009 i primi gruppi a salire sul palco furono i Fermata Fornaci, formatisi al Day Hospital di Villa Igea, e i Darkiska (oggi diventati i Divo), nati presso la Semiresidenza psichiatrica Il Sole di Sassuolo. Da allora l’esperienza del songwriting riabilitativo è cresciuta anno dopo anno in senso quantitativo e qualitativo. Sono nati nuovi gruppi presso altre strutture come i Solarium, presso la Residenza a Trattamento Protratto Il Borgo, la Nespolo Band, presso l’omonima Residenza Psichiatrica per adolescenti, i Lunatici e i Sole Cantorum presso la Residenza La Luna e il Sole di Sassuolo.
La scorsa settimana il sogno è diventato realtà: a Villa Igea è stato presentato un CD contenente le canzoni nate negli anni nei laboratori di musicoterapia, dal titolo appunto “Inimmaginabile”. La presentazione del disco ha avuto luogo nel bel giardino della clinica, il luogo dove i pazienti solitamente passeggiano quando non ci sono attività nei reparti. La clinica è stata aperta a tutti per l’occasione ed è stato possibile visitare anche il Museo dell’albero della memoria, un singolare edifico costruito attorno a un albero, dove sorgeva la vecchia portineria.
Vi racconto qualcosa di più sui gruppi e sui loro coordinatori.
I Fermata Fornaci sono attualmente coordinati da Barbara Rosset, una cantautrice modenese che collabora con i Nomadi, per i quali ha scritto alcuni brani dell’ultimo disco. Barbara non aveva precedenti esperienze in ambito psichiatrico e all’inizio è stata affiancata dal sottoscritto nella conduzione del gruppo, insieme alle bravissime operatrici del DH. Con un grande talento compositivo e un entusiasmo contagioso, Barbara è stata determinante nella realizzazione del CD. Ha motivato benissimo il gruppo, ha insegnato esercizi di respirazione e tecniche vocali, ma soprattutto ha trasmesso il coraggio anche a chi non aveva mai cantato. Si è poi prodigata con musicisti professionisti per realizzare delle splendide basi, su cui il gruppo ha cantato in studio di registrazione. Barbara è la prova vivente di come una persona, anche priva di una formazione specifica, ma supportata da una buona equipe, possa trasmettere una passione a persone con gravi problemi psichiatrici, ottenendo risultati terapeutici importanti.
I gruppi della residenza e semiresidenza di Sassuolo sono coordinati da Tommy Togni, cantautore e attore modenese, autore del brano di successo di Irene Grandi “In vacanza da una vita“, altro grande artista prestato alla psichiatria. All’inizio ricordo che Tommy, anche lui alla prima esperienza nel mondo psichiatrico, era abbastanza spaventato all’idea di condurre un laboratorio di musica e teatro con pazienti psichiatrici. Sostenuto e guidato dall’equipe della psichiatra Lucia Zanni, ha fatto crescere ben tre band che scrivono canzoni e commedie teatrali, presentate a rassegne legate alla salute mentale (Settimana della Salute Mentale, Festival delle Abilità Differenti, Feste dell’Associazione Famigliari) e non (Settembre Formiginese). I brani composti dai gruppi di Sassuolo sono stati cantati e interpretati dagli utenti, accompagnati alla chitarra da Tommy.
L’ultimo arrivato nel fecondo laboratorio artistico di Villa Igea è il mio “socio” Cristian Grassilli, che è psicoterapeuta e musicoterapeuta, oltre ad essere ovviamente cantautore superbo (già autore, insieme al sottoscritto, per Francesco Guccini) e che ha dato vita alla Nespolo band e ai Solarium. Cristian ha registrato le basi musicali su cui hanno cantato i gruppi.
L’esperienza in studio di registrazione è stata esaltante per utenti e operatori, che hanno avuto occasione di scoprire un luogo nuovo in cui si sono trovati subito a proprio agio. E’ ormai assodato che quando i nostri pazienti si sperimentano in contesti lontani dai luoghi di cura e riabilitazione funzionino meglio, vincendo quella che Franco Basaglia chiamava “malattia da istituzionalizzazione” e mostrando parti di sè inaspettate e inimmaginabili.
La presentazione del CD è stata una vera festa, con centinaia di partecipanti. Sono venuti tanti gruppi di pazienti di altre strutture, accompagnati dagli operatori, insieme a famigliari, autorità locali, studenti e semplici curiosi. Quasi tutti gli utenti presenti sono transitati in passato da Villa Igea, come tappa del proprio percorso di cure. Alcuni nel frattempo sono guariti, altri hanno fatto passi avanti significativi, ed è stato bello riincontrarsi in un’occasione così positiva.
Il concerto è stato l’occasione anche per scoprire le qualità artistiche di alcuni operatori, come quelle di un nuovo medico del Day Hospital, che ha accompagnato magistralmente i Fermata Fornaci alle percussioni. L’impianto audio non era il massimo, ma “fortunatamente” la mattina stessa era stato ricoverato un fonico nel reparto dove lavoro, che, con grande disponibilità, si è messo al servizio dello show. Potere del rock and roll…
Le protagoniste assolute sono comunque state, come sempre, le canzoni, i cui testi, a tratti ironici a tratti struggenti, non hanno niente da invidiare alla migliore tradizione cantautorale italiana.
Tra i brani divertenti vale la pena citare una parodia de Il leone si è addormentato, che diventa Te un rimbambì, con protagonista lo strizzacervelli “Lo psichiatra si è addormentato, gli han dato lo Xanax, è un rimbabì, è un rimbambì…”.
Tra i pezzi poetici Vivere l’alba recita “scriverò le mie paure per dire ciò che ho dentro, a chi non vuol sapere se c’è il sole o pioggia intorno a sé”.
Per chi fosse interessato ad ascoltare l’intero CD, è disponibile gratuitamente contattando l’Ospedale Privato Villa Igea (www.villaigea.it).