Una nuova ricerca messa a punto da David Comer Kidd e Emanuele Castano (The New School for Social Research), pubblicata sul giornale Science, ha indagato l’effetto che la lettura di opere di narrativa ha sulla capacità di comprendere gli stati mentali degli altri, ovvero sulla Teoria della mente.
Quest’ultima è una complessa abilità sociale che ci permettere di “leggere” la mente dell’altro e di comprenderne gli stati mentali. Lo studio vuole indagare in che modo la qualità della lettura, valutata attraverso 3 diversi tipi di narrativa, influiva sulla Teoria della mente dei soggetti. La prima categoria riguardava la narrativa “letteraria”, relativa a quelle opere di maggior prestigio letterario che raccontavano storie percepite come verosimili.
La seconda, la “narrativa di genere”, comprendeva romanzi di fantascienza e la terza, denominata “non-fiction”, raggruppa tutte le opere non categorizzabili nei due gruppi precedenti, come ad esempio le opere di matrice storica. Per ognuna delle tre categorie vennero selezionate delle opere che furono assegnate, secondo un ordine casuale, a ciascuno dei partecipanti. Dopo la lettura dei romanzi, i ricercatori valutarono la Teoria della mente dei soggetti tramite diverse misurazioni.
Una di queste (denominata “Reading the Mind in the Eyes”) consisteva nell’osservare delle fotografie in bianco e nero e cercare di riconoscere l’emozione provata dal soggetto raffigurato. Un’altra, invece, valutava indici cognitivi ed affettivi. Dai risultati emerse che in tutte le diverse misurazioni, i soggetti destinati alla lettura della narrativa letteraria ottennero punteggi mediamente superiori rispetto a quelli assegnati alle altre due categorie, le quali non evidenziarono differenze significative.
Sembra, quindi, che non è sufficiente la lettura di opere di vario genere per migliore la nostra teoria della mente, ma l’elemento cruciale è rappresentato proprio dal tipo di narrativa di cui si fa uso. Sono le opere di narrativa letteraria appartenenti alla prima categoria a stimolare un maggior pensiero creativo ed un coinvolgimento intellettivo superiore che permettono di ottenere effetti positivi sulle nostre abilità sociali.
La letteratura narrativa richiede, infatti, una maggior coinvolgimento intellettivo del lettore, necessario per comprendere le mille sfaccettature che si snodano nel racconto e la complessità di ciascun personaggio. Come accade nella vita reale, al lettore è richiesto uno sforzo cognitivo per capire i personaggi nella loro totalità e dare senso al loro comportamento. Sembra, dunque, che la capacità della lettura e della narrativa di influire positivamente sulle abilità sociali e sulla teoria della mente è determinata dal fatto che i romanzi stimolano un processo intellettivo raffinato necessario per scrutare dentro ogni personaggio.
Ricerca di un percorso nella cura dei disturbi alimentari:
dalla struttura secondaria all’organizzatore emotivo di base
Nei DCA è spesso possibile ricostruire l’esistenza di un significativo disturbo nell’interazione precoce con la madre – che ha coinvolto il contatto corporeo e la nutrizione, il più delle volte con manifestazioni clinicamente lievi e frequentemente con insorgenza entro il terzo mese di vita della paziente – che sembra in grado di organizzare un disturbo dei nascenti sentimenti relativi al Sé corporeo e all’alimentazione.
Ciò avviene in presenza di una particolare difficoltà materna, spesso specifica per “quella figlia”, mentre più raramente è una caratteristica che può ripetersi con più figli. Ho quindi momentaneamente optato per la definizione di un profondo disturbo emotivo di “maternità conflittuale” che ben rende l’estensione al Sé sia della madre che della figlia, piuttosto che orientarsi sulla sola alimentazione.
Nell’esperienza che sommariamente riporto mi avvalgo di un’impostazione diagnostica in cui opera una apposita équipe, complessa e diversificata per formazione e specializzazione che, oltre a utilizzare i diversi strumenti tipici per i disturbi alimentari, è addestrata a utilizzare come elemento centrale, ogni volta sia possibile, un accurato lavoro di ricostruzione delle vicende emotive precoci tra madre e figlia e dell’evidente disturbo del contatto tra loro: in atto allora, e di solito tutt’ora presente.
Le madri vengono quindi coinvolte come testimoni di quanto è accaduto anni prima, e da queste vere e proprie collaborazioni emergono spesso elementi molto significativi.
La prospettiva che si apre in questo percorso è che per disinnescare il disturbo alimentare in atto può divenire prioritario tentare di aiutare a sanare il tormento persistente tra madre e figlia. Permettere quindi innanzitutto, per quanto riguarda la figlia, il passaggio da una diagnosi di disturbo “congenito” e misterioso del Sé a un identificabile, descrivibile e comprensibile disturbo emotivo nella relazione primaria. È al contempo auspicabile la riparazione, per quanto riguarda la madre e il suo cruccio altrimenti ineliminabile, anche indipendentemente dalle patologie d’altro genere eventualmente presenti in entrambe. La riparazione, in sostanza, può aiutare la mamma a riaggiustare almeno in parte il proprio sentimento materno e percepirsi come una buona madre, in quanto finalmente in grado di fornire il proprio aiuto emotivo profondo alla figlia. Per quest’ultima la riparazione può comportare il sentirsi almeno in parte pacificata nel suo essere al mondo e sanare parzialmente il suo sentimento di figlia che non avrebbe dovuto esserci, o non essere così.
Può essere al contrario, ed è possibile asserirlo anche per le frequenti constatazioni nelle pazienti pluritrattate, assolutamente fuorviante perseguire a priori e prematuramente percorsi di cosiddetta “emancipazione” tra le due, che spesso fomentano e mantengono nel tempo distruttive polemiche e caratterialità lasciando invariato il disturbo di fondo: la qualità tormentosa mantiene infatti attiva la relazione patologica anche a distanza.
L’esperienza clinica dimostra invece che, quando è possibile, il risanamento della tormentosità della relazione può facilitare una più naturale successiva evoluzione e un più fisiologico distacco.
L’orientamento attuale nella comprensione e cura dei Disturbi Alimentari, che descriverò qui brevemente, ha preso avvio a partire da osservazioni cliniche e ha a sua volta fornito materiale per il lavoro tuttora in atto sulla psicopatologia, soprattutto per quanto riguarda il criterio della differenziazione tra sentimenti di base del Sé, vicissitudini relazionali e organizzazioni sintomatologiche.
Il percorso cui mi riferisco nel titolo rientra di fatto in un approccio alla psicopatologia cui faccio riferimento da anni insieme ai colleghi A.R.P.
In questo scritto ometterò volutamente tutte le considerazioni sulla psicopatologia del Sé emergente e delle sue evoluzioni nell’adolescenza, che mi riservo di descrivere in un altro momento. L’obiettivo è invece “raccontare” sinteticamente una modalità di lavoro clinico, in parte già consolidata ma in continua evoluzione, che apre interessanti prospettive su questa complessa patologia.
I disturbi alimentari sono sindromi cliniche complesse, con definizioni diagnostiche tra le più minuziose e dettagliate del DSM – sia nella versione IV (American Psychiatric Association (APA) Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, (DSM-IV-TR), Masson, Milano (2001)) che nella più recente DSM V (American Psychiatric Association (APA) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-5 (2013) – seppure sia comunque difficile includere nelle definizioni le molte variabili di decorso (Per esempio, io ritengo utile considerare l’esistenza di manifestazioni sintomatologiche miste, con rapida alternanza di ritiro dal cibo, attacchi di fame e restrizione, che porta alla disorganizzazione acuta del rituale), sia dal punto di vista della gravità che delle fasi di cronicizzazione e acuzie.
Perché si strutturi un disturbo alimentare vero e proprio sono necessari elementi clinici ben definiti, che poco hanno a che fare con i canoni estetici a cui fanno tanto spesso riferimento i mass media; notizie e dibattiti sul tema non tengono conto della differenza tra “problemi alimentari” e “disturbi alimentari” veri e propri e finiscono per contribuire al peggioramento di situazioni già compromesse, ma non sono da soli in grado di strutturare un disturbo alimentare.
Affinché si sviluppi un vero disturbo alimentare è necessaria la compresenza di due elementi invarianti: un profondo disturbo del sentimento del sé corporeo e un disturbo specifico dell’appetito, che insieme contribuiscono a formare la costellazione “primaria” da cui si scatena, solitamente in adolescenza e proprio sotto la pressione delle spinte evolutive, il ben noto irriducibile tormento verso il proprio aspetto e la propria fame.
Sui disturbi del comportamento alimentare molto è stato detto e molto si dice.
In particolare, i colleghi cognitivisti (C. Fairburn 2003, S. Sassaroli e G.M. Ruggiero (2011), R. Dalle Grave (1993), hanno descritto l’apparato emotivo e cognitivo secondario e ritualistico che caratterizza questi quadri clinici in modo che possiamo ormai considerare clinicamente esaustivo ed efficace e a tali descrizioni, quindi, ci si può riferire. Per apparato secondario intendo tutto quanto di emotivo e cognitivo si mette in moto, in adolescenza, attorno ai due elementi base “primari” cui ho appena fatto riferimento.
Nella mia personale casistica e in quella che afferisce al Servizio Disturbi Alimentari A.R.P. ho da tempo (Seminario sui Disturbi Alimentari, A.R.P. 2005) avuto modo di effettuare alcune osservazioni, molto istruttive, che mi hanno indotto a rivolgere sin dall’inizio della consultazione clinica una specifica e immediata attenzione, oltre che all’apparato secondario, a quello primario – ovvero alle emozioni di fondo che strutturano e organizzano i diversi casi di disturbo alimentare, e ciò sia per quanto riguarda l’aspetto diagnostico sia per il successivo intervento.
Certamente la casistica del nostro Servizio non può essere rappresentativa di tutta la gamma di possibili quadri sintomatologici che caratterizzano i disturbi alimentari in quanto, almeno in parte, è inevitabilmente preselezionata: sia per il tipo di invio che per la scelta da parte delle (Per quanto il numero di casi di disturbi alimentari in pazienti maschi sia in costante aumento, la casistica in carico al nostro Servizio Disturbi Alimentari rimane prettamente femminile; scelgo per questo motivo di riferirmi genericamente a pazienti femmine) pazienti e delle loro famiglie di afferire a una consultazione clinica privata e a una struttura molto caratterizzata (mi riferisco alla notevole differenza rispetto alla casistica afferente, per esempio, ai Servizi Pubblici o ai reparti di degenza ospedalieri) nella sua metodologia.
Ritengo che questa casistica possa comunque fornire un interessante apporto per alcuni spunti di riflessione sia sulla psicopatologia che sulle possibili vie di trattamento.
È importante precisare che l’impostazione clinica che qui presento è nata grazie al contributo iniziale di alcune madri di pazienti, che hanno spontaneamente raccontato quanto era accaduto nei primi mesi di vita della figlia e con la figlia, concorrendo a farci ricorrere e addestrare a una particolare “anamnesi emotiva”: relativa, cioè, ai primi mesi di vita della bambina e al costituirsi della relazione madre-figlia, proprio nella fase di accudimento e nutrizione primari.
Quelle madri hanno descritto reazioni emotive verso la neonata e la necessità di nutrirla che inizialmente ho definito come un “ripudio conflittuale”: una sensazione di disagio, rifiuto, talvolta paura o soggezione per la figlia, che al contempo le faceva sentire profondamente colpevoli e sbagliate, ma anche costrette a “combattere” per eliminare quel sentimento disturbante. Successivamente ho avuto modo di individuare con più precisione una gamma di situazioni differenti e il fatto che, accanto a madri con difficoltà più generalizzate verso la maternità, fosse spesso prevalente una problematicità nel sentirsi idonee, come madri, proprio a causa dei sentimenti sperimentati verso “quella figlia”.
Si è configurata, così, l’ipotesi di un disturbo definibile come maternità conflittuale, cioè un conflitto emotivo complesso che coinvolge il Sé materno e quello della figlia.
Devo in particolare ringraziare una signora (di origini e cultura modeste ma molto lucida sul proprio modo di sentire) che parecchi anni fa, dopo che ebbi visto la figlia con un grave disturbo anoressico-bulimico cronico, mi chiese un appuntamento per spiegare il suo punto di vista ed esprimere il suo cruccio: “Dottore, avrei preferito che questa figlia non ci fosse, perché ero innamorata di un altro e volevo separarmi da mio marito. Addirittura, per un attimo, ho sperato che lei potesse essere figlia dell’altro, ma appena l’ho vista ho capito che non era così: era proprio la copia di mio marito. Non sono cattiva, ma questa odiata creatura non c’entrava niente con la mia situazione, era figlia di un momento di debolezza, quasi una violenza subita. Io so che lei ha sentito in che stato ero: a 2-3 mesi da un lato mi respingeva, dall’altro si attaccava al seno come se fosse l’ultimo pasto, e così ha continuato con il biberon, e adesso fa col cibo. Certo, io non ero tranquilla, anche se cercavo in tutti i modi di impormi di esserlo. Ancora oggi le preparo da mangiare come se fosse il mio modo di farmi perdonare per non averla voluta, ed è per questo che non riesco mai a prepararle del cibo normale, né a dargliene di meno, anche se so che poi vomiterà. Le assicuro, dottore: mia figlia sentiva che io ero in quello stato d’animo”.
La splendida lezione di psicopatologia fornita da questa signora può ben far capire quanto dicevo riguardo al cambio di approccio diagnostico: l’importanza di tornare a chiedere, quando possibile alle persone giuste, al di là di teorie e spiegazioni varie, cosa davvero è capitato tra madre e figlia, anni prima, per comprendere come si è strutturato il disturbo alimentare tuttora presente.
Il cambiamento di approccio ha permesso di intravedere rapidamente anche una possibile modalità di intervento. Ciò è avvenuto anche perché la stessa signora ha accettato di spiegare alla figlia, che appariva irrimediabilmente persa in una sua diagnosi di inguaribilità – era convinta di essere posseduta da una fame “geneticamente” mostruosa e da una profonda e immodificabile cattiveria e deformità – quanto era accaduto. Ne è conseguita una commovente modificazione sia della relazione madre-figlia che della situazione clinica della ragazza.
Le situazioni emotive descritte dalle madri intervistate con il nuovo assetto erano molto diverse tra loro; ne cito alcune: “Le sembrerà strano, ma appena nata mia figlia mi faceva paura, fisicamente paura, anche solo a guardarla. Sembrava già subito determinata e prepotente e avevo davvero difficoltà a nutrirla”; “Quando è nata ho provato subito un profondo sentimento di estraneità: non poteva essere mia figlia, completamente diversa e molto più bella di me, era uguale alla famiglia di mio marito, verso cui ero così in soggezione”; “Era come una clandestina, nella mia vita dedicata al lavoro: la nutrivo appena potevo, il resto del tempo stava con una tata. Ma sembrava che la disturbasse avere a che fare con me, dovevo ogni volta riguadagnarmi, quasi imponendomi, il diritto di accudirla e nutrirla”; “L’aveva voluta mio marito, a tutti i costi. Quando sono rimasta incinta sono stata profondamente contrariata e speravo di abortire, poi è nata e all’inizio l’ho odiata e mi sono odiata. Provavo davvero fastidio ad occuparmene e nutrirla. Lui mi stava addosso, dicendomi che non stavo volentieri con lei perché non lo amavo”; “Ho dovuto allattarla per forza e con un fastidio tremendo fino a tre mesi, con la suocera che mi dava della viziata e della fannullona se solo accennavo all’idea di passare al biberon”.
Come si può facilmente rilevare, ciò che accomuna queste mamme è il fatto di aver sperimentato la maternità con una forte criticità, un vero e proprio momento di crisi.
Con alcune madri non è stato possibile accedere ad alcuna utile traccia emotiva: si tratta di persone con cui si è immediatamente instaurato un contatto troppo disturbato per stabilire una vera alleanza. Nei racconti delle madri più collaborative si rileva spesso, invece, al di là delle notevoli differenze che ogni caso presenta, che sin dalla nascita e già nei primi 3-4 mesi di vita della figlia si è creato un sentimento conflittuale, in vario modo relativo all’esistenza stessa della piccola: un’interferenza emotiva specifica verso il suo corpo e il relativo accudimento e verso la sua nutrizione, un sentimento molto disturbante per la mamma e, conseguentemente, per la bambina.
Sovente in quei resoconti viene descritto un disturbo sub-clinico del rapporto con il cibo, generalmente insorto entro i tre mesi di vita, cui al momento non era stato attribuito un particolare significato e che può riaffiorare alla memoria se, nella ricostruzione anamnestica, si conferisce molta attenzione proprio ai primi mesi – cosa peraltro non sempre facile.
In questi casi non viene dunque descritta una vera e propria patologia alimentare infantile ma un disturbo relazionale, precoce e significativo, con manifestazioni clinicamente lievi a carico dell’appetito, frequentemente entro il terzo mese di vita della bambina, e che può venire collegato dalla madre stessa al “contagio emotivo” con il conflitto personalmente sperimentato nei confronti della piccola.
Se si pensa alle pazienti anoressiche, questo risulta particolarmente rilevante: spesso solo un disturbo profondo, precoce e molto “fisico”, può produrre un effetto così potente da permettere un ritiro, un’astinenza totale dal cibo – probabilmente altrimenti inaccessibile – in grado di persistere addirittura fino alla morte (la situazione più simile è la cosiddetta depressione anaclitica). La capacità di ritirarsi totalmente dal cibo, dalla fame e dal mondo è altrimenti estremamente difficile da raggiungere, e può essere importante reperire e ricostruire un precursore di quell’attitudine, sperimentata in una fase precocissima, magari in sintonia con un profondo ritiro emotivo della madre, come spesso viene dolorosamente descritto.
È essenziale non dimenticare che per molte donne, di tutte le età, provenienze ed estrazioni sociali, la maternità rappresenta un vero e proprio “esame della vita”, spesso particolarmente drammatico: per la puerpera, dal momento in cui nasce il suo bambino, nella particolare condizione post partum può avere inizio un vero e proprio tormento: una incessante e allarmata verifica della propria adeguatezza, come madre ma anche come donna ed essere umano, attraverso la propria capacità di amare, accudire e far crescere il figlio. Ogni reazione, sentimento e comportamento nei confronti del piccolo è vagliato con apprensione e incertezza, con un verdetto sospeso sulla propria capacità di affrontare il compito, divenuto centrale nell’esistenza di quella donna, di essere una buona madre, in grado di provvedere alla sua vita.
Questa atmosfera incombente va tenuta sempre presente, e non solo per i disturbi alimentari. Può costituire infatti la cornice entro cui, mentre una neomamma sorride faticosamente a parenti e amici, dentro di lei si scatenano sentimenti molto intensi e particolarmente violenti, con difficoltà spesso non facili da sopportare.
Se una madre è in grado di dirsi: “Questa figlia non mi piace/non è come la volevo” oppure “Non avrei voglia di allattarla”, e può fare a suo modo i conti con questo sentimento, è possibile che non si strutturi una relazione tormentosa con la figlia intorno al contatto con il suo corpo e la sua nutrizione. Provare sentimenti di ostilità e fastidio per quel piccolo esserino può essere difficile da tollerare e può accadere, in presenza di particolari condizioni emotive, che il pensiero “Assomiglia a quell’odiosa di mia suocera, la detesto” si trasformi nel tormento: “Se lo penso non sono una buona madre” (o addirittura “Sono incapace di fare la madre”) e sfoci in un sentimento, spesso rifiutato e misconosciuto, di ulteriore ostilità e/o soggezione verso la figlia, che può pervadere e disturbare la relazione nascente.
Si può creare insomma un clima emotivo in cui la figlia, e la situazione di accudimento e nutrimento, diventano un pericolo persistente per la madre, perché la fanno sentire continuamente sbagliata e in lotta per essere invece impeccabile e, proprio per questo, impossibilitata a chiedere aiuto; a sua volta la bambina, condividendo inevitabilmente l’emozione tormentosa della madre, struttura un senso di sé e della nutrizione profondamente alterato. Si tratta di un vero e proprio contagio emotivo, in una situazione di vicinanza molto stretta come quella dei primi mesi: la condivisione di un’inquietudine profonda e disturbante che mamma e figlia vivono su di sé e verso l’altra, e che si struttura in un modo di sentire di fondo che, anni dopo, riemergerà nella forma virulenta tipica di questi casi.
La diagnosi dell’eventuale disturbo precoce relativo al contatto fisico con il corpo e con la nutrizione e l’individuazione delle emozioni condivise da mamma e figlia possono dunque essere elementi di fondamentale importanza per comprendere e trattare le patologie alimentari: per poterli indagare è cruciale riuscire a stabilire una buona alleanza diagnostica con entrambe le protagoniste, la paziente e sua madre.
La procedura che sto presentando prevede infatti come passaggio essenziale, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, il ricorso alla testimonianza delle madri, indipendentemente dalle eventuali concomitanti anamnesi familiari. Queste ultime sono solitamente utilizzate, infatti, per ricostruire eventuali situazioni più complesse all’interno del gruppo familiare che potrebbero altrimenti sfuggire all’attenzione del clinico, ma non possono sostituire il particolare clima dei colloqui anamnestici con le madri, dedicati ai primi mesi e all’allattamento.
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Fin dal primo colloquio con la paziente, la si informerà che al fine di effettuare una ricostruzione della situazione primaria e degli affetti più primitivi e “psicosomatici” ancora attivi nella sua vita, potrà essere necessario, come prassi abituale, coinvolgere sua madre in quanto in grado di ricordare elementi e situazioni che lei non potrebbe recuperare perché troppo piccola quando sono avvenuti.
Questo approccio, invece che spaventarle o irritarle, sorprende spesso positivamente le pazienti con disturbo alimentare, che nella maggior parte dei casi accettano l’assetto diagnostico così impostato con maggior naturalezza e senza che questo coinvolgimento sia percepito come una indebita ingerenza in un loro spazio; spesso, al contrario, trapela la soddisfazione per il fatto che la madre si impegni e lavori attivamente per loro.
Il fatto di dichiarare che si cerca di comprendere quali vicende emotive sono all’origine del problema alimentare, oltre che incuriosire le pazienti, ha spesso contribuito a far spostare la loro attenzione dal complesso apparato ritualistico connesso al cibo verso la qualità della relazione affettiva con la madre. La disponibilità di quest’ultima a dare il proprio contributo, inoltre, ha spesso di per sé facilitato una parziale apertura tra le due, spesso fino a quel momento assai problematica.
I colloqui con le madri vanno – ovviamente – rigorosamente effettuati in un clima il più possibile collaborante e non giudicante, esplicitando apertamente che non si è a caccia di colpevoli ma che, al contrario, è stata e continua ad essere la cosiddetta colpa (In realtà la colpa è solo una componente: l’altra è, come spiegherò più avanti, l’intollerabile sentimento di inadeguatezza del Sé) a rappresentare la principale fonte del disturbo: mi è capitato di dover paradossalmente citare l’esempio di madri che, per sottrarsi a una relazione faticosa e disturbante per sé e per i figli, hanno scelto di farli allevare dalla nonna o da apposito personale.
Ed è d’altra parte anche importante poter riconoscere a queste mamme che il timore di essere sottoposte a un processo, come madri e come persone, può rappresentare un vero e proprio ostacolo mentre si sta tentando di comprendere, grazie al loro prezioso apporto, che cosa è accaduto anni prima.
Lo scopo, vero e dichiarato, di questi colloqui è invece rilevare le difficoltà che possono aver sperimentato, verso la figlia e con la figlia, in alcuni casi sin dal suo concepimento e comunque nei suoi primi mesi di vita. Esplicitare l’intento non giudicante della consultazione è fondamentale, ma risulta convincente solo se genuinamente convinto: è quindi necessario avere la consapevolezza di addentrarsi in un mondo tormentoso in cui la madre è spesso prigioniera di un continuo processo alla sua persona. Sapersi muovere in questo clima senza aggravare la sua percezione di colpevolezza è una competenza, tecnica ed emotiva, difficile da apprendere e maneggiare, e il rischio per il clinico è sentirsi a sua volta colpevole di arrecare dolore con le proprie domande; può essere di aiuto, in questi casi, pensare alle difficoltà di quei primi mesi come un equivalente di una depressione post-partum.
Le madri di pazienti con disturbo alimentare sono costantemente afflitte, anche quando inizialmente lo negano, da un cruccio specifico in relazione alla figlia. Questo cruccio riguarda il passato ma è sempre presente, anche nella situazione attuale, con diverse caratteristiche – di colpa, profonda inadeguatezza, ostilità – perché la figlia, con il suo disturbo e spesso con le sue accuse, esplicite o implicite, continua da sempre a tenere vivo il proprio tormento.
Il cruccio materno può essere molto spesso accompagnato da una, seppur conflittuale, esigenza riparativa. Proprio questa esigenza, come ho già detto, ha fatto intravedere non solo la possibilità di accedere all’alleanza con le madri, ma anche quella di un utile raffronto, diretto e guidato, con la figlia, che si è dimostrato potenzialmente in grado di intervenire rapidamente sul disturbo alimentare, pur lasciando ovviamente sul campo molte delle tematiche conflittuali correlate, comprese quelle relative alle cosiddette, e spesso vistose, comorbilità.
Il confronto diretto tra madre e figlia sull’origine del disturbo si rivela spesso cruciale per il trattamento del disturbo; ogni qualvolta ciò sia possibile, questi incontri a tre (clinico, paziente e madre) sono previsti come parte culminante della procedura e si traducono spesso in momenti di “verità”: per le pazienti con disturbo alimentare sentirsi raccontare dalla madre quali sono state le vicende emotive che hanno fatto instaurare il disturbo, persistente e da sempre presente tra loro, ha un potente effetto di chiarificazione del tormento che le affligge. Questo spesso permette un accesso emotivo in grado di smontare la certezza di queste pazienti di essere portatrici di una caratteristica mostruosa spesso vissuta come ontologica e irrimediabile, più di qualunque interpretazione o spiegazione da parte dei dottori.
In questi incontri il clinico si limita a fare da facilitatore e da intermediario tra le due: senza intervenire troppo, cerca di aiutare la figlia a entrare in contatto con la sensazione di profondo malessere in cui la madre ha vissuto decenni prima. Questo consente il riconoscimento della genesi dell’antica e costante sensazione di non piacere alla mamma: si tratta di un intervento che certamente potremmo definire “riparatore”. Il racconto della madre, che rivela ciò che è accaduto nel suo modo di sentire anni prima assume quasi sempre, infatti, caratteristiche riparative nel vissuto delle pazienti con disturbo alimentare, perché così facendo la madre torna, dolorosamente e faticosamente, a occuparsi di lei e del suo dolore e non più del suo cibo, ridiventando davvero madre.
Il poter dire alla mamma: “Sento di non piacerti” oppure “Sono sempre stata un problema per te” e sentirsi confermare che è stato davvero così, anni prima e per ragioni ben precise, ha frequentemente l’effetto di smontare il malessere profondo che le lega; può ridurre il senso di continua contesa, di reciproca accusa e di falsità sottostante, e soprattutto può sanare il livello di tensione e di sofferenza continue per la sensazione di non andare mai bene, condiviso da entrambe e diventato ormai oggetto di rivendicazione reciproca perenne, spesso con accese polemiche intrise di caratterialità e spesso connesse proprio alle abitudini alimentari.
Si struttura infatti, in questa interazione, difficile sin dal suo inizio, ciò che ho definito il “tragico equivoco”: una relazione patologica madre-figlia, disturbata e disturbante, che si mantiene nel tempo e nelle successive tappe evolutive. La figlia, infatti, sviluppa un atteggiamento verso l’alimentazione diverso dalle attese della madre, proprio perché già impregnato dalle inquiete sensazioni provenienti dal contatto iniziale; la madre, interpretando il contatto relazionale disturbato come un ripudio, un’imputazione, un attacco, una tirannia oppure un fallimento, finisce per prenderne le distanze e respingerlo risolutamente, senza riconoscerne la genesi.
Il fatto che la madre, nell’incontro a tre, possa finalmente dire: “Ero in difficoltà con me stessa e quindi con te” permette di spostare il profondo sentimento di persistente disagio dal Sé della figlia, su cui era finito, al disturbo del contatto primario, vera origine del sentimento disturbato.
La dominanza del sentimento di Sé precoce, con tutti i suoi effetti percettivi (“mi vedo per come mi sento”) e somatici (“ho una fame mostruosa o un ritiro ascetico dal corpo e dalla sua fame”), è la traccia emotiva che può consentire di smontare l’importanza dell’elaborazione secondaria della sopravvenuta crisi adolescenziale, dell’estetica, dello schifo, del perfezionismo, dei rituali fisici ed alimentari. Questi elementi, certamente dominanti nell’esistenza delle pazienti con disturbi alimentari conclamati, sono comunque secondari ai sentimenti di base, che potremmo definire gli “organizzatori emotivi” del disturbo alimentare; il recupero del fastidio originario può diventare il vero elemento in grado di produrre un effetto mutativo sul disturbo in atto, ma soprattutto nel modo di percepirsi della paziente, mentre gli elementi secondari vengono ridotti nella loro virulenza.
Ciò può valere anche per le conseguenze nelle relazioni. È infatti possibile un doppio chiarimento: comprendere le modalità con cui le emozioni della madre hanno agito nell’eziopatogenesi del sintomo della figlia, ma anche esplorare l’effetto della piccola e delle sue alterate richieste alimentari sulla mamma, con il mantenimento di una struttura relazionale che spesso diviene successivamente “polemica” tra famiglia e paziente e tra i familiari che parteggiano per l’una o l’altra posizione.
Nei casi in cui il coinvolgimento delle madri non è stato realizzabile e si è potuto ricorrere alla sola ricostruzione con le pazienti, l’esperienza pregressa con madri collaborative ha comunque offerto una serie di utili tracce nel tentativo di identificare con sufficiente approssimazione le qualità del disturbo di base originario. Potremmo dire che le testimonianze delle madri collaborative sono d’aiuto, oltre che alle proprie figlie e ai clinici, anche ad altre madri e altre pazienti.
Sulla base di queste esperienze, come ho accennato, si è venuto a strutturare in A.R.P. un procedimento clinico che prevede tappe specifiche (primi colloqui con le pazienti; test – una scala valutativa dei disturbi alimentari e una batteria di test standardizzata completa di test cognitivi, narrativi e proiettivi e anamnesi alle pazienti – ; colloqui anamnestici – il protocollo di queste anamnesi è andato perfezionandosi nel tempo, soprattutto per la qualità delle domande previste – alle madri e, in alcuni casi, ai padri; colloqui di confronto con pazienti e madri), anche in presenza di una eventuale psicoterapia già in corso – in quest’ultimo caso l’intervento si può inserire nel trattamento senza sostituirlo, un apporto esterno alla processualità già in atto – mantenendo, per quanto possibile e il più delle volte, l’intero percorso nell’ambito dell’assetto diagnostico.
Questa scelta affatto particolare ha diverse motivazioni. La prima deriva dall’esperienza, che ci ha mostrato come proprio l’assetto di consultazione viene spesso spontaneamente utilizzato dalle pazienti per una più rapida riduzione della tormentosità e dell’intensità del sintomo, potendolo di fatto esse stesse trasformare in una tecnica di intervento mutativo. La seconda ragione è che queste pazienti accettano spesso con sollievo la comunicazione che si intende procedere con un lavoro sostanzialmente diagnostico e non con un ulteriore trattamento.
Molte di loro, il più delle volte pluritrattate e reduci da innumerevoli tentativi di cura, inefficaci e interrotti, spiegano le pregresse rotture – alcune anche in corso di prenotazione telefonica o di consultazione iniziale – con quella che ho definito la “sindrome delle mani nel piatto”: l’attribuzione, anche arbitraria, al clinico di una troppo precoce e inopportuna intenzione di interferire con le proprie abitudini alimentari e il proprio modo di vivere. Spesso tale attribuzione si inserisce nel clima già fortemente e reciprocamente critico dell’ambiente in cui la paziente si muove e in cui finisce per essere coinvolto sia l’invio che il clinico.
Viene quindi chiaramente precisato sia alla paziente che ai familiari che la consultazione avrà una finalità di ricerca approfondita, non limitata al disturbo, e che in questa fase non si metterà in atto alcun trattamento, proprio perché queste pazienti insegnano che è determinante mantenere, per il tempo necessario, un assetto sospensivo. Questa scelta ha mostrato di ridurre notevolmente le interruzioni precoci che spesso si manifestano nei preliminari della consultazione con pazienti con disturbo alimentare.
La procedura “diagnostica” sembra spesso avere, già di per sé, un effetto momentaneamente calmante sulla conflittualità e la rivendicatività tipiche di queste costellazioni sintomatologiche, purché siano garantiti collateralmente, quando necessari, i trattamenti d’urgenza. Questi ultimi, spesso invocati a gran voce dai familiari, talvolta si rendono immediatamente necessari perché fasi di acuzie si possono scatenare già solo nella prospettiva della consultazione, come peraltro è esperienza comune di chi si occupa di questi disturbi.
Soprattutto nei casi più gravi è molto importante, perciò, che sia prevista sin dall’inizio, collateralmente alla consultazione, la collaborazione con un dottore o un’istituzione sanitaria di fiducia in grado di controllare i parametri vitali e maneggiare le eventuali urgenze mediche o psichiatriche dichiarando che ciò è importante, oltre che per la salute dell’interessata, proprio per garantire lo spazio di indagine al di là dell’urgenza.
Queste rapide esacerbazioni sono d’altronde la spia dello stato di notevole allarme e attivazione che caratterizza questi disturbi. La sempre presente minaccia di essere profondamente sbagliate, per sé e per gli altri, si accompagna infatti all’attivazione allarmata e all’attitudine eliminatoria: come la madre ha tentato ripetutamente, iperattivandosi, di sbarazzarsi del sentimento disturbante che non avrebbe voluto provare e di tutto ciò che la faceva sentire una madre sbagliata, anni dopo la figlia sentirà parti del suo corpo, o addirittura tutta la sua fisicità, come ontogeneticamente e ineluttabilmente estraniati e disturbanti, e cercherà tormentosamente e attivamente la modalità per sbarazzarsi del fastidio, con tutti i rituali che ne conseguono. Allo stesso modo potrà cercare di sbarazzarsi del disturbo di avere a che fare con i dottori.
Ancora una volta, madre e figlia condividono lo stesso sentimento: in questo caso, il bisogno di eliminare quanto le disturba. A questo proposito, va detto che l’attitudine mentale “eliminatoria” nell’affrontare le situazioni – qualunque difetto o sentimento disturbante non dovrebbe esistere e bisogna sbarazzarsene, in modo iperattivo – caratterizza la maggior parte delle famiglie con problematiche alimentari.
Anche a questo proposito non dobbiamo dimenticare che per le pazienti con disturbo alimentare vale quanto detto per le madri riguardo alla maternità: l’esplosione dell’adolescenza diviene il loro terribile “esame della vita”, il tormento di fronte al quale si ritrovano sempre sotto la minaccia di risultare definitivamente perdenti, con la terrificante percezione di essere portatrici di un’ineluttabile mostruosità, talvolta una vera e propria maledizione.
Queste pazienti vivono spesso nello stesso clima di processo continuo sperimentato dalle madri, non solo per il tormento originario di fondo ma anche a causa della reazione del loro ambiente alle particolari e disadattive attitudini alimentari messe in atto: molto spesso infatti, come è ben noto, il momento del cibo nelle famiglie di queste pazienti diventa il culmine del dramma familiare.
La rilevazione, nel racconto delle madri, della situazione di conflitto e conseguente allarme riguardo alla vicinanza fisica con la figlia e alla sua nutrizione ha da un lato l’importante funzione di rendere conto della profondità biologica del disturbo: nella precocissima fase della vita in cui si costruisce la fiducia di base – nel suo elemento più “corporeo” – la profonda inquietudine relativa al momento della nutrizione e del contatto fisico si può inserire come un cuneo nella strutturazione del comune sentimento di tranquillità e sicurezza che il cibo arriverà e della fiducia – vera memoria fisica – che dallo stato di appetito si potrà passare alla sazietà e al benessere.
Se per la maggior parte delle persone il momento del cibo, nell’arco della giornata, è piacevolmente e affettivamente atteso, così non è in queste famiglie. Il momento della nutrizione, infatti, divenuto intensamente problematico e carico di allarme in quei primi mesi, lo ridiventa anni dopo, a disturbo conclamato, finendo spesso per modificare radicalmente l’esistenza di tutta la famiglia, in una drammatizzazione rituale dalle caratteristiche eclatanti, che sembrano descrivere le antiche difficoltà emotive di cui sono memoria.
Tornando alla “psicopatologia descrittiva” delineata dalle madri, essa comprende quattro tipi prevalenti di disturbi “affettivi” nelle figlie, riguardo alla nutrizione: 1) il ritiro dal cibo, 2) il rifiuto attivo, 3) la fame avida, spaventata, definita molto spesso come “da ultimo pasto”, e 4) la frequente alternanza di questi stati. In qualche caso è capitato che la componente “spaventata” fosse descritta dalla madre come personalmente indotta, per il timore del rifiuto o del ritiro da parte della figlia, proprio per spingerla a mangiare: la piccola a sua volta ha precocemente adottato modalità tormentose di accesso al cibo e il rimedio attuato si iscrive in una situazione emotivamente sempre inquieta. È evidente, da questi racconti, che se il momento della nutrizione è anche solo minimamente allarmato, la fame non potrà acquisire carattere di naturalezza e ne sarà direttamente coinvolta, alterandosi.
Proprio per questi meccanismi, le pazienti con disturbo alimentare possono sentirsi letteralmente possedute dalla percezione disturbante e innaturale della loro fame e spesso descrivono le proprie giornate come monopolizzate dalla ricerca di modalità per sedarla o tenerla a bada, come per esempio la restrizione da infliggere al proprio corpo. In qualche caso, all’interno di un decorso più “cronicizzato”, vi possono essere fasi anche molto acute in cui la paziente “diventa” la propria fame allarmata, totalizzante, la cui sedazione è talmente imprescindibile da non poterla considerare postponibile; pervasa dal terrore che questa percezione crea in lei, ha la necessità di farla sparire in ogni modo: la fame in sé ma soprattutto la paura, fisica e palpabile, ad essa collegata.
Dobbiamo però ricordare che la clinica dimostra che altrettanto rilevante della fame è la questione della sazietà: in questi quadri clinici anch’essa è profondamente alterata, e da stato anche solo parzialmente piacevole può trasformarsi in uno sgradevole e spesso insopportabile “riempimento”, che presto si associa al più generale sentimento di sgradevolezza corporea.
Il disturbo della sazietà e il suo malessere sono una parte rilevante del tormento giornaliero e dell’organizzazione del rituale che domina la vita di queste pazienti: anche la fase della nutrizione è fonte di possibile fastidio; per questo cercano incessantemente di escogitare il modo di eliminarlo, rendendo così l’inferno del cibo ancora più invasivo. Si tratta dell’attitudine eliminatoria precedentemente descritta: queste pazienti sono letteralmente pervase dal fastidio profondissimo e dall’insofferenza apparentemente incontrastabile per qualcosa che non dovrebbe esserci: la sporgenza di un osso, il senso di pesantezza post prandium, la paura di trasformarsi in modo mostruoso e, solo in ultimo, quella vera e propria di “ingrassare” nel senso che possono intendere coloro che non hanno questo disturbo.
Il termine “ingrassare” va sempre tradotto, dai clinici, in trasformazione mostruosa (nei disturbi alimentari si assiste, oltre alla più nota dismorfofobia, una specifica fobia del cibo, che chiamo fobia di trasformazione: più misconosciuta della precedente, innesta la paura che il cibo possa trasformare e deformare, immediatamente e irrimediabilmente, il corpo. Mi riservo di approfondirne la descrizione in altra sede), per comprendere davvero di cosa si parla con queste pazienti, che sembrano volerci sempre dire: “Non mi piace il mio corpo, che percepisco come estraneo, verso cui provo rabbia e il desiderio di eliminarlo (che configura la cosiddetta “suicidarietà strutturale”) o di eliminarne le parti più disturbanti”.
La specificità emotiva di questi quadri sintomatologici è quindi il profondo fastidio per il corpo, per il cibo e per il momento dell’alimentazione nel suo insieme, compreso il senso di sazietà. Si tratta di emozioni precoci, cioè di ricordi somatici di quelle emozioni e di quel fastidio, che è a sua volta connesso alla pretesa che tali disturbi non dovrebbero esserci – così come, all’estremo, non dovrebbe esserci il problema di essere nutriti: essendo la questione del cibo e della fame ineliminabile, questo ripudio conflittuale con il corpo e la fame può ingigantirsi fino al punto che il doversi nutrire diventa un mostruoso e fastidioso difetto congenito di cui ci si dovrebbe sbarazzare.
Per questo mangiare un chicco di mais può diventare un gesto pericoloso.
All’interno del percorso di confronto tra madre e figlia, è possibile reperire i precursori di queste situazioni cliniche nelle emozioni, ingigantite dalla drammaticità delle manifestazioni sintomatologiche attuali, che emergono nei racconti delle mamme intervistate. Una di loro ha detto: “Mi sentivo un mostro ad avere questa difficoltà a nutrirla e ad averci a che fare: era un incubo ogni volta, avrei davvero voluto sparire pur di non farlo, avrei voluto non essere sua madre. È stato un sollievo quando a tre mesi ho potuto smettere di allattarla”.
Ed è questo tipo di traccia che mi ha sempre fatto pensare all’emozione inevitabilmente condivisa tra madre e figlia, nella situazione difficile di una nutrizione e di un accudimento conflittuale: per entrambe può essere un momento gravemente tormentoso.
Le diverse situazioni e storie familiari danno vita a molteplici variabili cliniche, con caratteristiche emotive diverse, che strutturano casi apparentemente molto differenti tra loro. Citarli tutti è impensabile in questa sede, mi limiterò dunque ad accennarne solo qualcuno: la figlia che si sente cattiva e approfittatrice se mangia; quella che protegge la madre, anche se la respinge, perché la sente fragile (è forse la tipologia clinica con il maggior rischio di morte); la figlia in costante polemica e respingente (diventerà accusatoria: la mamma non fa mai abbastanza, così come il mondo); la paziente incontenibile: la madre è dall’inizio in soggezione e sia lei che la famiglia sentono di doverla subire per cui diviene ai loro occhi sempre più mostruosa e prepotente.
Anche nella descrizione della madri delle pazienti con disturbo alimentare è possibile delineare tipologie diverse. Per esempio, negli ultimi anni accade sempre più frequentemente di osservare mamme influenzate, oltre che da componenti emotive personali e familiari che incrementano l’allarme delle proprie emozioni verso la figlia, dall’idea di non poter dedicare tempo all’allattamento e all’accudimento, spesso con la motivazione di dover tornare rapidamente al lavoro, con un fastidio e un’urgenza che le porta ad affrontare l’allattamento con fretta e impazienza, animate dal sottostante desiderio di far durare quel momento il più breve tempo possibile.
È suggestivo come questo stile “efficientistico-impaziente” rimandi al comportamento di alcune pazienti bulimiche che maneggiano cibo e vomito come una pratica aziendale da espletare in modo perfettamente organizzato. In questi casi si intravede come si può essere instaurata, nella bambina, la paura di perdere il cibo: se non ha sperimentato il sentimento di avere a disposizione tutto il tempo che le serviva, per poppare, ha iniziato a mangiare avidamente, come se fosse appunto l’ultimo pasto, e così sarà, anni dopo, una volta instaurato il disturbo alimentare vero e proprio.
Sono esperienza comune le mamme che considerano il cibo come un premio, da elargire alla piccola come ricompensa, magari riparativa, o come un mezzo per tentare di rinforzare e riaffermare il proprio legame con la bimba; sono quelle che chiamo “spacciatrici di cibo”. Anche in questo caso, il momento di alimentarsi non è tranquillo, per la figlia, che vive sempre nella tensione del dubbio e dell’allerta, con un appetito deformato dalla confusione tra il proprio appetito, la necessità di dover mangiare a tutti i costi e quella di accontentare le richieste materne. Queste situazioni sono spesso facilmente identificabili perché la paziente riporta di riuscire a mangiare più tranquillamente in ambienti percepiti come neutri e non richiedenti.
La paziente con disturbo alimentare convive da sempre con emozioni che considera mostruose, nella convinzione di avere a che fare con un proprio difetto biologico intrinseco: la qualità somatica di questi sentimenti è la vera difficoltà con cui ha a che fare, e con lei i dottori che cercano di curarla. Per questo può essere fondamentale che il clinico la aiuti recuperare queste sensazioni come prodotto dei ricordi somatici di emozioni precocemente condivise con la madre nel disagio dei primi contatti. L’obiettivo finale sarà quello di aiutarla a passare dalla convinzione di essere un mostro, senza alcuna possibilità di contrastare questo ineluttabile stato, alla consapevolezza di essere una persona che, per la storia che ha contraddistinto lei e sua madre in quel contesto familiare, ha specifiche paure riguardo al cibo e al fatto di essere portatrice di un difetto mostruoso, paure di cui ci si può occupare.
Come ho già detto, questo profondo cambio di prospettiva, oltre al cambiamento relazionale con la madre, spesso permette il ridursi del disturbo alimentare, sottraendo motivazione all’apparato ritualistico secondario, talvolta senza che occorra toccarlo direttamente.
Un altro aspetto riguarda i dottori: l’esperienza di sentirsi narrare come si è strutturato quel disturbo – frutto di un’emozione antica, condivisa tra madre e figlia, un modo di sentire che tuttora le anima entrambe e non uno stato ineluttabile di cui avere paura e di cui doversi sbarazzare a tutti i costi – può permettere ai clinici di seguire la traccia emotiva alla base del disturbo in una prospettiva diversa, rispetto ai sentimenti di inaccessibilità che spesso alcune di queste pazienti suscitano. Anche il sentimento di fondo del clinico, dunque, sia nei confronti della madre che della figlia, può essere quello di poter essere di maggior aiuto riguardo al sentimento di ineluttabilità del loro destino.
Il confronto tra madre e figlia dimostra infatti che questi modi di sentire, gestititi da sempre da entrambe con modalità conflittuali, sono in realtà condivisi molto profondamente: trasmessi da una all’altra in una sorta di contagio fin dall’origine, comprese le preoccupazioni di tipo ontologico.
Il ruolo determinante della qualità della relazione con la madre nei disturbi alimentari è dato per acquisito da moltissimi AA (E. Kestemberg e S. Decobert (1972), H. Bruch (1982), M. Selvini Palazzoli et al. (1988, 1998), Noveletto (2009), S. Minuchin (1974): oltre che fornirne conferma, le osservazioni che presento in questa sede indicano che è spesso possibile trovare rispondenze molto strette – e clinicamente utilizzabili – tra gli stati affettivi della madre nei primi mesi di vita della figlia, persistenti tuttora nella traccia di relazione conflittuale attuale, e il modo di sentire sottostante alla sintomatologia di quest’ultima, che li drammatizza e amplifica.
Pur non disponendo di una casistica di grandi numeri, tutti gli elementi incoraggiano a proseguire in questa direzione: considerando il disturbo alimentare come conseguenza di una drammatica e complessa difficoltà emotiva relativa alla maternità, al proprio valore come madre e alla relazione madre–figlia, riteniamo sia possibile modificare profondamente le attuali modalità di approccio clinico, perfezionarle e, con gli apporti di colleghi con attitudini diversificate, reperirne altre, anche più efficaci. È infatti a mio avviso evidente che tutte le considerazioni precedenti possono contribuire a modificare le sequenze tecniche e le strategie dei trattamenti, qualunque sia l’orientamento del clinico.
Sassaroli, S. & Ruggiero, G.M. (a cura di) (2011). I Disturbi Alimentari. Roma: Laterza
Bruch, H. (1982). Anorexia nervosa: Theory and therapy. American Journal of Psychiatry, 139, 1531-1538.
Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1988). I giochi psicotici della famiglia. Milano: Raffaello Cortina.
Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1998). Ragazze anoressiche e bulimiche. La terapia familiare. Milano: Raffello Cortina Editore.
Kestemberg J., Decobert S.(1972). La Faim et le Corps, PUF, Paris.
NOVELLETTO A. (2009), L’adolescente: Una prospettiva psicoanalitica. Astrolabio, Roma
Minuchin, S. (1974). Families and Family Therapy. Harvard University Press: Cambridge.
Dalle Grave, R., Bartocci, C., Tudisco, P., Pantano, M., Bosello, O. (1993). Inpatient treatment for anorexia nervosa: A lenient approach. European Eating Disorders Review, 1, 166-176
La paura della felicità e i suoi rischi – Psicologia
La paura delle emozioni positive sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici.
Il timore di provare emozioni negative e dolorose (ansia, tristezza, colpa) può essere chiaro, comprensibile e seppur in diversa misura, identificabile nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
Meno immediato agli occhi dei più è il timore delle emozioni positive che tuttavia sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici.
Molte persone temono proprio quelle emozioni piacevoli (eccitazione, felicità, tranquillità) che sentono mancare nella propria vita quotidiana e in modo più o meno consapevole mettono in atto comportamenti per evitarle (Williams, Chamblers & Ahrens, 1997).
Ma qual è il senso di questo timore? Quale il suo nucleo? Solitamente la base non ha una natura biologica o inconscia ma cognitiva, la differenza si realizza in base a come interpretiamo le emozioni positive e a come vi reagiamo.
Le regole che governano queste interpretazioni possono essere diverse. Innanzitutto alcuni individui si spaventano perche temono che l’eccitazione li porti a perdere il controllo e quindi quando l’entusiasmo sale tendono a frenarsi e a imporsi un forte e rigido autocontrollo (se mi eccito troppo perdo il controllo delle mie azioni, impazzisco, non capisco più nulla).
Secondariamente, uno stato di serenità e tranquillità (per esempio nel rapporto affettivo con un compagno/a) può essere interpretato come una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie tese a prevenire pericoli e minacce (se sono tranquillo posso essere impreparato quando qualcosa di negativo accadrà, perché sicuramente accadrà, per cui mi devo tenere all’erta e preoccuparmi delle cose negative che potrebbero accadere).
Infine anche la soddisfazione e la felicità possono essere temute e interpretate come una prova di ingenuità, superficialità, scarso valore personale (non posso restare fermo a godere di queste sensazioni ma devo capire cosa non funziona, dove potrei sbagliare, cosa potrebbe andare male per non sedermi sugli allori ma continuare a migliorarmi).
L’impatto di queste convinzioni può proiettarsi in modo negativo su diversi disturbi psicologici come il disturbo d’ansia generalizzata o la depressione (Olatunji, Moretz & Zlomke, 2010).
La valutazione di queste convinzioni così come interventi terapeutici orientati alla loro discussione critica possono eliminare un importante ostacolo alla riduzione della sofferenza mentale.
“Micro-aggressioni”, lo abbiamo già capito tutti, è un concetto complementare a quello di “politicamente corretto”. Anche se non conoscevo questa parola, mi è bastato vederla per capire quale fosse il suo significato. E per provare un moto di fastidio, un misto di collera e colpa. No, esagero. Non era proprio fastidio. Era semmai micro-fastidio, un misto di micro-collera e di micro-colpa. Il che è ancora più fastidioso.
Micro-aggressioni. È una parola che ho imparato questa estate, aggirandomi tra le esposizioni dei libri al congresso dell’American Psychological Association. Era nel titolo di molti libri che erano esposti li, al congresso. Non è stato necessario sfogliarli per capire immediatamente a cosa si riferisse quel termine. La copertina, su cui era rappresentata un’agitata conversazione tra persone di varia provenienza etnica, aiutava a comprendere di che cosa si trattasse. Ma probabilmente ci sarei arrivato anche senza quell’aiuto.
Micro-aggressioni è un termine coniato dallo psicologo Chester M. Pierce negli anni ’70 e indica tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o anche culturale (Pierce, 1977; Sue, 2007).
“Micro-aggressioni”, lo abbiamo già capito tutti, è un concetto complementare a quello di “politicamente corretto”. Anche se non conoscevo questa parola, mi è bastato vederla per capire quale fosse il suo significato. E per provare un moto di fastidio, un misto di collera e colpa. No, esagero. Non era proprio fastidio. Era semmai micro-fastidio, un misto di micro-collera e di micro-colpa. Il che è ancora più fastidioso.
Trovo questo termine, “micro-aggressioni”, particolarmente utile perché forse ci consente di capire più a fondo il significato del termine “politicamente corretto” e del perché molti di noi possano trovare questa parola -e tutto il movimento culturale che lo sostiene- al tempo stesso profondamente giusta e profondamente fastidiosa. O meglio, profondamente micro-fastidiosa. Tutto sta in quella paroletta rivelatrice: “micro”.
Il politicamente corretto esprime un bisogno giusto. Il bisogno di rapporti sociali umani e civili, in cui non si è etichettati semplicisticamente in base all’etnia, la religione o la preferenza sessuale, ma come persone. Bene. Tuttavia quel “micro” rivela che questo bisogno, per realizzarsi, è costretto a incarnarsi in un’ossessiva attenzione a qualunque micro-manifestazione che potenzialmente abbia un significato svalutativo, anche indiretto.
Quindi anche elogiare l’innato senso della musica di certi popoli, o la bontà della cucina di un altro certo popolo possono essere una micro-aggressione. Ed effettivamente, se alla fine di una mia presentazione scientifica qualcuno si congratulasse con me dicendomi: “come siete bravi a cucinare voi italiani!” il significato sarcastico sarebbe evidente. Ma, nel politicamente corretto, questa frase è sempre svalutante, anche in un contesto che la giustifica. Ovvero a cena a casa mia (dove peraltro si mangia malissimo).
Si dirà: esagerazioni degli americani. Il che è vero. Infatti, ricordo che in quello stesso congresso, durante una discussione scientifica uno degli oratori rispose a una domanda dicendo: “this is a micro-aggression!” Non so, magari era anche vero che l’oratore fosse stato (micro) aggredito. Però per la mia sensibilità italiana mi pareva che la sottolineatura fosse irrimediabilmente piagnucolosa.
Però, malgrado le esagerazioni degli americani, questa tendenza inevitabilmente prende piede e prenderà piede sempre di più anche da noi. È inutile negarlo, non è un complotto. Personalmente, la considero una spontanea tendenza umana a diminuire sempre di più la violenza e l’aggressività. Lo dimostra lo psicologo Steven Pinker in un bel libro appena tradotto in italiano: “Il declino della violenza” (Pinker, 2013).
Quindi anche da noi ci sarà sempre più attenzione alle micro-aggressioni, malgrado millenni di abitudine italiana a una comicità aggressiva e feroce, dai fescennini degli antichi romani alla commedia dell’arte. Ce ne sono vari esempi. Ma l’esempio migliore è già il fatto che io, in questo momento non ho nessun desiderio di fare un esempio specifico, perché già farne è rischiare una micro-aggressione.
Per esempio, l’infortunio accaduto recentemente a una nota impresa alimentare italiana potrebbe essere un buon esempio. Potrei scriverne. Ma non lo faccio. Non ho desiderio di infilarmi in un ginepraio di distinguo, in cui ogni cosa che si dice suonerebbe irrimediabilmente goffa. Mi limito a dire che già soltanto etichettare quell’episodio come una micro-aggressione per qualcuno potrebbe suonare come una micro-aggressione, perché svaluterebbe la gravità del fatto. E così via.
La faccio troppo lunga? Probabile. Cammino sulle uova? Sicuro. Me la caverò parlando di un episodio più piccolo, capitato qui tra noi, nel (micro) mondo di State of Mind. Una nostra collega ha pubblicato uno spiritoso articolo sulle differenze intellettuali tra maschi e femmine, concludendo con un paio di battute sul cervello del maschi.
L’articolo ha attirato un gran numero di clic e qualche commento irritato, da parte maschile. In sé un micro-episodio, una tempesta in un bicchier d’acqua. Ma abbiamo già visto che tutto il politicamente corretto si nutre di micro-elementi. Quindi l’episodio è importante proprio perché futile.
Vi confesserò che c’è stata un po’ di maretta anche nella nostra redazione. Una micro-redazione di sette persone, in cui le quattro donne hanno trovato l’articolo spassosissimo mentre almeno due maschi su tre hanno espresso qualche dubbio. Uno di noi se l’è cavata con un argomento scientificamente corretto: la parte scientifica andava approfondita. Vero, ma non credo che fosse solo quello il problema. C’era anche il (micro)-problema del (micro)-fastidio generato dalle battute della collega, riassumibili nell’espressione: gli uomini ragionano con il pisello. Insopportabile? Non direi. Fastidioso? Un po’. Intollerabilmente micro-fastidioso? Sicuramente.
Vi dirò (lasciatemi raccontare i retroscena di redazione, in puro stile “new-journalism”; mi fa sentire tanto Tom Wolfe): ho tentato di gestire il micro-fastidio esprimendo l’opinione che l’articolo era sicuramente un successo (è stato gradito da un significativo numero di lettori e, sospetto, soprattutto lettrici), ma ho aggiunto che la parte satirica necessitava di qualche limatura, pena un retrogusto da misandria tardo-femminista anni ’70 un po’ superato. Roba da “SCUM manifesto” di Valerie Solanas (1968), un curioso oggetto di modernariato culturale, un libro che teorizzava l’inferiorità genetica del genere maschile. Un libro che ancora oggi non si riesce a digerire, se non etichettandolo come “satira”. Ma in fondo non si riesce. Perché? Perché la Solanas era del tutto priva di auto-ironia.
Insomma, in tempi di politicamente corretto e di micro-aggressioni la satira diventa un esercizio sempre più difficile da eseguire, e necessita di un livello di scrittura da campioni del mondo.
Unico salva-condotto: mescolare l’ironia con l’auto-ironia. Ovvero possiamo abbandonarci a esercizi satirici a patto di riuscire, continuamente, a prendere in giro anche noi stessi mentre lo facciamo. Quindi possiamo essere misandrici (o perfino misogini), ma a patto di riuscire a dare di noi stessi (e di noi stesse) l’immagine di persone a nostra volta un po’ sfigate, in fondo bisognose e innamorate dell’oggetto della nostra satira, uomo o donna che sia.
Concludo con una considerazione. Il bisogno di proteggere le minoranze dalle micro-aggressioni è comprensibile e civile. Tuttavia, se il politicamente corretto è un bene, esso sarà necessariamente un bene universale. Il che significa che il politicamente corretto non può non estendersi oltre le minoranze. E già si estende oltre le minoranze, assumendo il significato di limitazione e censura di qualunque espressione micro-aggressiva, come si vede in un articolo di Sue e dei suoi collaboratori (Sue e coll., 2007).
Con inevitabili limitazioni anche delle varie forme di umorismo. Già oggi l’umorismo misogino, così come quello a sfondo etnico, è inevitabilmente escluso. Rimangono delle zone ancora franche, sempre più limitate. Dei cosiddetti “acceptable prejudice” come li chiama il filosofo Philip Jenkins (2003). Esempi? L’anti-cattolicesimo, o –appunto- la misandria. Delle eccezioni non giustificabili, perché illogiche. Il che può essere (micro)-irritante. Come ascoltare battute anti-maschili senza poter davvero ribattere. Troppo difficile.
Che fare? Nulla, siamo adulti e –come diceva Albert Ellis- possiamo tollerare le micro-aggressioni ancora accettabili in società. Sapendo che stiamo assistendo agli ultimi fuochi. Ancora pochi anni e anche noi potremmo rispondere a una micro-aggressione anti-maschile con un definitivo “This is not appropriate!” che, a quanto pare, è il segnale sociale utilizzato in USA per zittire una deriva politicamente scorretta in una conversazione. Sarà bellissimo. E noiosissimo. E sottilmente piagnucoloso. Non aggiungo altro, sono già giunto al confine di una micro-aggressione.
Pierce, C.M., Carew, J.V., Pierce-Gonzalez & Wills, D. (1977). An experiment in racism: TV commercials. Education and Urban Society, 10, 61-87. (DOWNLOAD)
Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – Il lavoro dei Danzamovimento Terapeuti formati da ATI si propone di utilizzare il linguaggio primitivo preverbale come fonte di conoscenza per intraprendere un processo di cura: grazie a tale processo si potranno tradurre in parole o in linguaggio simbolico le esperienze psicofisiche primitive che fondano l’essere della persona e che possono essere fonte di disagio o psicopatologia.
Nel caso specifico di L. è stato importantissimo il setting di terapia individuale, per potere lavorare accuratamente in un rapporto esclusivo, sulle aree di carenza originaria del paziente, agendo sulle parti deprivate, permettendogli una “seconda nascita”, e procedendo in un rapporto evolutivo e di riconoscimento dei significati esistenziali delle sue azioni.
Grazie dunque al sostegno di uno spazio dedicato e di un contenitore stabile (l’holding environment di Winnicott), dato dal setting e dalla presenza empatica e sintonizzata del terapeuta, si può dare sostegno al Sé grandioso scisso del paziente, ricreando in prima battuta inizialmente lo spazio protetto dove questi possa vivere l’illusione di un rapporto avvolgente e esclusivo; allo stesso tempo, si creano i presupposti di un contenitore che accolga e moduli le esperienze della parte deprivata e debole nel successivo momento del distacco, della differenziazione, della disillusione, dando così asilo sia alla parte grandiosa, sia alla parte deprivata dell’individuo.
Vi sono così le condizioni per agire in un ambiente protetto e sicuro che permette al paziente di relazionarsi col terapeuta come a un oggetto d’uso (Winnicott) e come a un Oggetto-Sé materno (Kohut) nei termini riparativi di una regressione al servizio dell’Io.
Il mio lavoro con L. è stato pensato e condotto secondo i principi e gli strumenti metodologici della Danzamovimento Terapia come è insegnata nella Scuola di Art Therapy Italiana (ATI). Il lavoro dei Danzamovimento Terapeuti formati da ATI si propone di utilizzare il linguaggio primitivo preverbale come fonte di conoscenza per intraprendere un processo di cura: grazie a tale processo si potranno tradurre in parole o in linguaggio simbolico le esperienze psicofisiche primitive che fondano l’essere della persona e che possono essere fonte di disagio o psicopatologia.
La DMT si è rivelata efficace per accedere ai vissuti primitivi annidati nella memoria somatica preverbale di L., gemello rifiutato e “sacrificato”.
L’attenzione alla sfera non verbale della relazione, l’osservazione del corpo e del movimento attraverso gli strumenti del sistema di analisi del movimento Laban (LMA), del Kestenberg Movement Profile (KMP) e dei patterns di connessione corporea di Peggy Hackney, permette di riconoscere nelle forme, nei ritmi e nelle variazioni del tono muscolare una biografia degli affetti, e agevola a individuare le difese insediatesi nella muscolatura per stabilire la modalità e il livello di relazione oggettuale del paziente. Si possono così formulare interventi clinici congruenti e riconoscere i messaggi nascosti presenti nel movimento del paziente e del terapeuta che vi interagisce: si possono così presentare al paziente esperienze (object presenting) nella forma di azioni e movimenti intenzionali di movimento (handling).
L’ascolto profondo delle tematiche somatiche controtransferali, aiuta il terapeuta a leggere nel proprio corpo e successivamente propri pensieri quello che accade nel contatto col paziente.
Grazie alla disciplina del Movimento Autentico, la quale “aiuta a sviluppare il ruolo del terapeuta come testimone non giudicante, non proiettante e non interpretante, a incrementare la conoscenza e la consapevolezza dei propri movimenti e degli stati psicocorporei a essi associati, del funzionamento dei meccanismi associativi, proiettivi, interpretativi relativi al movimento, e a comprendere i modi in cui siamo propensi a fare proiezioni e i modelli inconsci che adottiamo in relazione a incontri e relazioni specifiche con l’altro e con eventi specifici.” (Govoni 2012).
Ciò è funzionale al mantenere attive le capacità di pensare e aperta la ricezione e la comunicazione empatica con pazienti che non sono in contatto con il nucleo originario del Sé, e tendono a mostrare una immagine di sé cristallizzata nella grandiosità, sottraendosi alle esperienze frustranti e spaventose in cui il sé deprivato diviene visibile.
In DMT il terapeuta si serve di modalità di rispecchiamento empatico analoghe a quelle descritte da Winnicott e Kohut: in questi momenti il terapeuta, come la madre, funziona come uno specchio, che fornisce al paziente un riflesso dei suoi gesti e della sua esperienza, in cui egli si riconosce. In queste interazioni il terapeuta mette in atto una capacità di sintonizzazione affettiva (Stern), simile a quella della madre che dà senso all’esperienza soggettiva preverbale del bambino, interpretandone accuratamente i suoi stati affettivi interni a partire dalla loro intensità, ritmo e forma (Pieraccini 2012).
Dopo questa iniziale esperienza, si può poi attivare una sperimentazione individuale di modalità nuove di movimento, sostenute, modulate e accolte dal terapeuta, abbandonando il rispecchiamento: qui il ruolo del terapeuta diviene più “paterno”, e permette al paziente l’esplorazione di sé nella realtà.
Nel lavoro col corpo, l’uso di specifici materiali facilitatori si rivela utilissimo nel riattivare le connessioni corporee (Hackney), favorendo la scoperta e l’evoluzione di qualità di movimento e affettive che richiedono una sperimentazione, uno sviluppo e un consolidamento. In questo modo si può raggiungere un personale stile di movimento in una forma intenzionale, giungendo a una interazione efficace col mondo reale.
E’ poi necessaria una lettura della dimensione simbolica del movimento, e l’attribuzione di forma e significato all’esperienza somatica dell’individuo; questa permette di tradurre l’esperienza del corpo in linguaggio metaforico, divenendo consapevoli delle connessioni fra le proprie componenti emotive, affettive, cognitive.
Dai movimenti e dalle azioni del corpo si può passare a nominare i vissuti e i sentimenti che vi erano sotto i gesti, sotto il movimento; si attua uno scarto da un’attività legata al fantasticare (Winnicott) a un racconto narrativo legato alla biografia del paziente, in cui si possono affrontare –nominandoli e significandoli- elementi simbolici e reali relativi a vissuti di rabbia, gelosia, esclusione, abbandono, timore di “non farcela”, “non essere capace”, non piacere, non essere amato, non essere “normale”… e rendere concreto il desiderio del paziente di essere preso sul serio, di agire sul reale, grazie a una maggiore consapevolezza delle sue rappresentazioni mentali che egli ora può riconoscere e collegare significativamente coi propri pensieri, emozioni e proprie azioni, in un vissuto di maggiore genuinità esistenziale, anche proiettata nel futuro.
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Il percorso di educazione al sonno svolto con mamme e papà ha portato non solo a un miglioramento del sonno nei bambini con autismo (ASD), ma ha avuto anche un impatto positivo su stati ansiosi, disfunzioni attentive e comportamenti ripetitivi nei piccoli pazienti nella loro quotidianità diurna.
Secondo una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Autism e Developmental Disorders , alcuni aspetti comportamentali nei bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD) possono migliorare a seguito di un training di igiene del sonno (una sorta di educazione al sonno) dei loro genitori.
I ricercatori del Vanderbilt Kennedy Center, della University of Colorado Denver e dell’Università di Toronto hanno esaminato 80 bambini con ASD di età compresa tra 2-10 anni coinvolgendo i genitori in questo training di psicoeducazione al sonno.
Dai risultati è emerso che il percorso di educazione al sonno svolto con mamme e papà ha portato non solo a un miglioramento del sonno nei bambini con ASD, ma ha avuto anche un impatto positivo su stati ansiosi, disfunzioni attentive e comportamenti ripetitivi nei piccoli pazienti nella loro quotidianità diurna.
Inoltre anche i genitori ne avrebbero beneficiato segnalando una maggiore percezione di competenza genitoriale al termine del training. Forse, non solo una migliore qualità del sonno ma anche maggiore autoefficacia percepita dei genitori può essere un fattore moderatore degli effetti benefici.
Simili contributi svolgono un ruolo importante poichè sostengono l’efficacia di interventi semplici per supportare i genitori di bambini con ASD- e non solo -in quello che è spesso uno dei fattori di stress che devono affrontare: il momento della nanna.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Un articolo molto chiaro e interessante del New York Times su una questione purtroppo nota anche in Europa: il cronico problema di immagine della psicoterapia. Mal rappresentata dai media, preferita dai pazienti rispetto alle sole terapie farmacologiche, avallata da trial scientifici che ne dimostrano inequivocabilmente l’efficacia, osteggiata dalle case fermaceutiche che dispongono di un ben altro arsenale per rappresentare la realtà a colpi di lobbying.
Nei soli USA dal 1998 al 2007 la percentuale di pazienti ambulatoriali curati con la sola psicoterapia è calata del 34% mentre il numero di pazienti che hanno ricevuto la sola terapia farmacologica è aumentata del 23%.
Questo mentre 33 differenti studi indipendenti hanno rilevato che i pazienti preferiscono 3 volte tanto la psicoterapia rispetto al trattamento farmacologico.
Ma non è tutta colpa del Big Pharma, sostiene l’articolo: il problema si trova anche all’interno: ancora troppi psicoterapeuti per un motivo e per l’altro non fanno riferimento a terapie scientificamente provate, a protocolli testati di provata efficacia e sono tanti i casi di professionisti che applicano teorie eccentriche e mai verificate o indulgono in vecchie terapie old school che dovrebbero essere definitivamente abbandonate (come alcune polverose e quasi esoteriche psicoanalisi freudiane).
Il rischio, conclude il giornalista del NYT, è che se i servizi di psicoterapia non si fondano sulle ultime e migliori ricerche scientifiche, l’intera professione verrà lentamente allontanata dai servizi di sanità pubblica, a favore ancora una volta delle terapie farmacologiche.
The answer is that psychotherapy has an image problem. Primary care physicians, insurers, policy makers, the public and even many therapists are largely unaware of the high level of research support that psychotherapy has. The situation is exacerbated by an assumption of greater scientific rigor in the biologically based practices of the pharmaceutical industries — industries that, not incidentally, also have the money to aggressively market and lobby for those practices.
For the sake of patients and the health care system itself, psychotherapy needs to overhaul its image, more aggressively embracing, formalizing and promoting its empirically supported methods.
[…]
Psychotherapy faces an uphill battle in making this case to the public. There is no Big Therapy to counteract Big Pharma, with its billions of dollars spent on lobbying, advertising and research and development efforts. Most psychotherapies come from humble beginnings, born from an initial insight in the consulting office or a research finding that is quietly tested and refined in larger studies.
The fact that medications have a clearer, better marketed evidence base leads to more reliable insurance coverage than psychotherapy has. It also means more prescriptions and fewer referrals to psychotherapy.
Il convegno della Consulta delle Scuole Italiane di CBT ha offerto un'occasione per esaminare la formazione attuale e futura, sottolineando l'importanza di adottare pratiche basate sull'evidenza.
4° Congresso italiano di psicoterapie cognitive-comportamentali di terza generazione. Condividi i risultati del tuo lavoro proponendo un poster da presentare durante la sessione dedicata
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Sandra Sassaroli è stata ospite del podcast "Tressessanta" di Virginia Gambardella, un dialogo intenso e ricco di spunti per approcciare al tema della salute mentale
Secondo una recente ricerca, le persone con tratti di narcisismo grandioso tendono a essere e a percepirsi come escluse più frequentemente rispetto agli altri
Raramente un film si può definire perfetto. Come trama, tempi recitativi, costruzione dei dialoghi. “To be or not to be,Vogliamo vivere!” nella traduzione italiana -, pellicola del 1942 firmata da Ernst Lubistch e recentemente riproposta nelle sale dopo essere stata restaurata e rimasterizzata, è un film perfetto.
Siamo nella Polonia invasa dai nazisti e le vicende di una coppia di attori teatrali si intrecciano a quelle della Resistenza; il dilemma amletico è una scena che ritorna più volte e puntualmente il protagonista, iniziando il celebre monologo shackespeariano, vede uno spettatore alzarsi da una delle prime file e andarsene: la ferita all’orgoglio d’artista sarebbe ancor più cocente se l’attore sapesse che il camerino di sua moglie è il luogo in cui lo sconosciuto, un giovane e aitante aviatore, si reca ogni sera all’incipit del monologo.
In breve tempo scoppia il conflitto bellico e il triangolo amoroso inaugura un susseguirsi di equivoci e intrighi sottili in cui il marito intuisce senza aver certezza, trovandosi poi costretto dagli eventi a collaborare con il presunto amante della moglie per combattere il comune nemico tedesco.
La compagnia teatrale è al centro di acrobazie pericolose ed esilaranti a stretto contatto con la Gestapo, che viene ripetutamente ingannata e sbeffeggiata a pochi passi dal precipizio mortale.
“To be or not to be“, si diceva, è un’opera perfetta; l’ironia con cui viene affrontato un tema complesso come la guerra, l’arguzia utilizzata per descrivere gli stati d’animo dei personaggi non possono essere pienamente trasmesse a chi non ha visto il film: si tratta di una comicità seria, comunicata attraverso espressioni da registro drammatico che vengono sapientemente modulate per ottenere l’effetto della farsa.
I dialoghi sono geniali, spesso serrati e i colpi di scena si susseguono senza diventare ridondanti, le situazioni alternano i diversi piani del racconto e li sovrappongono, variando di continuo i temi, i riferimenti. Le risate dello spettatore sono inevitabili ma non indotte dalla ricerca del ridicolo, poiché ogni scena sarebbe perfettamente plausibile anche in un film drammatico e lo stesso può dirsi per i dialoghi; sono la magistrale espressività degli attori e la superba raffinatezza della sceneggiatura, che in ogni passaggio afferma qualcosa per intendere altro, a generare l’effetto comico.
La regia di Lubistch è eccezionale specie nel lavoro sugli interpreti, che con un gesto quasi impercettibile o un movimento del corpo studiato ad arte fanno comprendere al pubblico le differenti dinamiche dei sentimenti, la gelosia, una reazione indispettita, il gioco divertito tra realtà e finzione o il compiacimento incosciente di un ingenuo Amleto al cospetto del Terzo Reich. La missione di far ridere senza un solo sorriso recitato viene ampiamente portata a termine e l’opera riesce anche a entrare nel cuore, dileggiando la follia nazista con leggerezza penetrante, mettendo a nudo l’ottusità di certi umani ma in fondo di tutti gli umani e mantenendo vivo l’interesse dello spettatore sia verso le intenzioni comiche sia nella riflessione sul destino dei personaggi; un film da assorbire tutto d’un fiato, da amare e rivedere per cogliere i dettagli che nella prima proiezione si perdono.
Vogliamo vivere, ed è molto meglio farlo con questi film.
Quando l’umore cambia alla toilette: la “pupuforia” e il nervo vago
Ci sono ragioni spiegabili fisiologicamente rispetto all’estasi da W.C. e in particolare la stimolazione del nervo vago, dovuta alla distensione del retto, attraverso cui transitano le feci.
Descrivendo un brutto periodo di ansia e depressione, un paziente mi ha detto durante un colloquio “Dottore è un disastro, sto malissimo per la maggior parte della giornata. Ho notato che sto un po’ meglio solo quando vado di corpo”. Un bel periodo di m…, ho pensato per libera associazione.
Poi ho provato a riflettere sul perché il ragazzo stesse meglio proprio durante l’espletamento del bisogno fisiologico. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata una possibile regressione freudiana alla fase anale, anche se non vi erano evidenze nella struttura di personalità del soggetto.
Così ho iniziato a documentarmi e ho scoperto l’esistenza in lingua anglosassone della parola “poophoria” e di un vero trattato scritto da due eminenti gastroenterologi (Sheth e Richman, 2007).
Anche l’antica Scuola Medica Salernitana aveva identificato un potere terapeutico nell’evacuazione, probabilmente pensando più ad aspetti di disintossicazione del corpo, ben espressa nel motto “Defecatio matutina bona tam quam medicina”.
Ci sono ragioni spiegabili fisiologicamente rispetto all’estasi da W.C. e in particolare la stimolazione del nervo vago, dovuta alla distensione del retto, attraverso cui transitano le feci.
Il nervo vago è il decimo nervo cranico che va a ramificarsi fino alla zona addominale. La sua stimolazione determina un effetto di rilassamento con riduzione della pressione arteriosa e del battito cardiaco e una minor perfusione cerebrale.La cosiddetta risposta vagale è il contrario della risposta da stress. Ma attenzione, una diminuzione eccessiva della pressione a livello cerebrale può portare fino alla “sincope da defecazione”, con temporanea perdita di coscienza.
D’altra parte, già precedentemente agli interessanti studi “pupulogici”, il rapporto tra nervo vago e umore era ben noto. La stimolazione elettrica del nervo vago (Vagus Nerve Stimulation, VNS) è stata utilizzata inizialmente in pazienti epilettici per ridurre la frequenza delle convulsioni. Ben presto si notò come anche l’umore migliorasse in seguito a tale stimolazione, tanto che la Food and Drug Administration americana ha riconosciuto nel 2005 la VNS come trattamento per la depressione resistente (Ogbonnaya S., Kaliaperumal C., 2013). L’azione terapeutica avviene tramite l’impianto di uno stimolatore sottocutaneo al lato del collo, in anestesia generale.
Come per gli antidepressivi, non è ancora del tutto chiaro in quale modo l’uso del VNS migliori l’umore.
Tra le ipotesi c’è l’effetto anticonvulsivo, possibili cambiamenti a livello neuroanatomico regionale, un’aumentata tollerenza allo stress o un’azione diretta a livello dei neuroni noradrenergici e serotoninenrgici.
Gli esseri umani avrebbero potenzialmente accesso ad una gamma pressoché infinta di alimenti ma, in pratica, la scelta quotidiana è notevolmente ridotta. Questo avviene perché mangiamo più con la testa che con la bocca.
Il primo pasto è sempre semplice. Per Eva fu un morso di una mela, per un bambino è il latte materno. Tuttavia, con lo sviluppo delle prime esperienze alimentari e dei primi rapporti con l’ambiente esterno, inizia anche un processo di selezione che trascende il valore nutritivo del cibo stesso. In quanto onnivori, gli esseri umani avrebbero potenzialmente accesso ad una gamma pressoché infinta di alimenti ma, in pratica, la scelta quotidiana è notevolmente ridotta. Questo avviene perché mangiamo più con la testa che con la bocca.
Una volta risolto il problema della sopravvivenza, le nostre abitudini alimentari sono fortemente influenzate dalle rappresentazioni mentali di quello che riteniamo commestibile. Per esempio, cavallette ed altri tipi di insetti hanno un valore nutritivo molto alto e sono apprezzate in certe culture africane e orientali, ma non nella nostra. Questo non dipende dal gusto (le avessimo mai assaggiate!) ma dal semplice fatto che per la maggioranza degli Italiani e dei popoli occidentali, questi animali appartengono alla categoria “insetto” e non a quella “cibo”.
La cultura ha una notevole influenza sulle nostre scelte alimentari, condizionando la disponibilità degli alimenti e le pratiche di consumo, ma non solo. Il comportamento alimentare si distingue per l’elevato valore simbolico, che non si esaurisce nella sua funzione nutrizionale ma può essere considerato come atto dicomunicazione e di espressione di Sé. In particolare, in alcuni studi di psicologia sociale è emerso come gli individui tendano a giudicare gli altri sulla base degli alimenti scelti, o che suppongono mangino, e che spesso tendiamo a scegliere un cibo per comunicare qualcosa di noi stessi.
Si prenda, per esempio, il caso dei prodotti biologici che, in Italia, sono spesso più cari degli altri, a parità di prodotto. La scelta può dipendere da specifiche esigenze (per esempio, allergie a determinati pesticidi) ma anche essere l’espressione della propria identità, come persona salutista o attenta all’ambiente, nonché la manifestazione del proprio stile di vita alimentare.
Per queste ragioni, quando guardiamo quello che abbiamo nel piatto, dobbiamo considerare che la nostra scelta trascende sia il valore nutritivo che il gusto (non sempre, infatti, ci limitiamo a mangiare quello che ci piace). Mangiare è un processo psicologico, influenzato dalle norme esplicite ed implicite fornite dal contesto sociale in cui viviamo, e dai nostri atteggiamenti nei confronti del cibo. Può fornire informazioni su alcuni aspetti dell’identità della persona, ma anche agire come strumento di comunicazione di bisogni, conflitti ed espressione di Sé.
Tuttavia, la psicologia sociale ci aiuta a comprendere la moltitudine di fenomeni che sono alla base delle scelte alimentari quotidiane, non patologiche. Da tempo viene utilizzata dall’industria alimentare per entrare in sintonia col mercato ma, oggigiorno, è anche impiegata in chiave di prevenzione per migliorare il rapporto con il cibo sia sul piano fisiologico che su quello psicologico.
Stiamo conducendo una ricerca sulle abitudini alimentari, in collaborazione con l’università del Surrey (UK), tra i ragazzi tra i 18 e i 31 anni che vivono da soli o con dei coinquilini. La ragione per cui coppie conviventi sono escluse riguarda la necessità di gestire la spesa in autonomia senza eccessive influenze da parte di un partner.
Avendo un target molto vasto da raggiungere non riusciamo ad esaurire il campione tra i soli studenti dell’Università Bicocca e stiamo cercando l’aiuto di tutti per completare la ricerca.
Se qualcuno di voi si riconosce nel campione, potrebbe compilare questo breve questionario? Mediamente, abbiamo visto che ci si mette meno di 10 minuti per completarlo.
In alternativa, potreste far girare il link nella vostra mailing list, sulla vostra pagina facebook o su twitter?
Ringraziandovi in anticipo per disponibilità e cortesia, resto a disposizione di ulteriori chiarimenti.
Generalmente tendiamo a evitare di infliggere dolore agli altri, con senso di colpa e rimorso nel caso in cui questo accada. Nel sadismo tuttavia la crudeltà provoca piacere o eccitazione.
Ma senza andare lontano in menti criminali, e senza sconfinare nelle perversioni sessuali, tale fenomeno può essere molto più comune nella nostra normalità di quanto pensiamo.
Due ricerche condotte da Erin Buckels della University of British Columbia hanno studiato tale fenomeno. Anzitutto, come prevedibile, è stato dimostrato sperimentalmente che nelle persone con elevati punteggi di sadismo insorge piacere a seguito di comportamenti di danneggiamento dell’altro.
Secondo i ricercatori tali tendenze sadiche sarebbero frequenti e comuni tali da costituire un tratto della personalità: si traggono benefici emotivi – in termini di piacere esperito – causando oppure osservando dolore inflitto ad altri.
Sono stati reclutati circa settanta soggetti a cui veniva chiesto di scegliere tra diversi compiti generalmente considerati poco piacevoli: uccidere scarafaggi, aiutare uno sperimentatore a uccidere scarafaggi, pulire toilette sporche oppure resistere al dolore mentre si immerge una mano in acqua gelida.
A coloro che sceglievano il compito di uccidere insetti veniva mostrata una sorta di macchina tritura-insetti, in cui dovevano inserire gli scarafaggi e far partire il macchinario. Nel rispetto dell’etica in realtà si tratta di un artificio sperimentale quindi nessun animale è stato realmente ucciso durante l’esperimento: i partecipanti avevano questa credenze mentre in realtà gli scarafaggi venivano fatti “scappare” da una via nascosta.
Tra i 71 partecipanti il 12,7% ha scelto il compito di tolleranza del dolore in acqua gelida, il 33,8% la pulizia delle toilette sporche, il 26,8% ha scelto l’assistenza all’uccisione di insetti e il 26,8% il compito che prevedeva l’uccisione degli insetti.
Dai risultati è emerso – come ci si aspettava – che chi sceglieva il compito di uccisione degli insetti aveva anche punteggi più elevati di impulsi sadici.
In secondo luogo i soggetti con elevati punteggi di sadismo che avevano scelto di uccidere gli scarafaggi riportavano anche un maggior livello di piacere rispetto a coloro che avevano scelto altri task; inoltre il livello di piacere esperito sembra correlato positivamente con il numero di insetti uccisi.
Dunque il sadismo non è solo un fenomeno da devianze sessuali e criminali ma può trovare spazio nella nostra psicopatologia della vita quotidiana; in tal senso questo aspetto personologico risulta ancora poco conosciuto e poco studiato. Gli stessi ricercatori stanno continuando a indagare il sadismo nella vita quotidiana in relazione a comportamenti di trolling online e a diverse forme di sadismo vicario, quali provare piacere dalla visione di scene cruente nei film o nei videogames.
SFU Milano: Presentazione Corso di Laurea in Psicologia 2013-2014 – Programma
La Sigmund Freud University, con sedi a Vienna, Parigi, Berlino e Linz, presenta la sua nuova sede di Milano, con il primo corso di Laurea in Psicologia che inizierà a dicembre.
In occasione della presentazione, verranno illustrati ai presenti non solo gli argomenti d’esame, ma anche il particolare approccio allo studio e alla formazione che SFU propone ai suoi studenti: classi piccole, tutoraggio individuale, molta pratica e un periodo di studi da svolgere all’estero.
Interverrà alla presentazione il rettore della Sigmund Freud Privat Universitat Wien e il corpo docenti della SFU Milano.
Una clamorosa inchiesta di Science porta alla luce i fumosi meccanismi che si nascondono dietro alla selva delle riviste accademico-scientifiche open access : uno studio privo di fondamento, realizzato ad hoc e riempito di errori elementari, è stato accettato nel 60% dei casi. Basta saldare il bonifico di SIMONE COSIMI (…)
Il convegno della Consulta delle Scuole Italiane di CBT ha offerto un'occasione per esaminare la formazione attuale e futura, sottolineando l'importanza di adottare pratiche basate sull'evidenza.
4° Congresso italiano di psicoterapie cognitive-comportamentali di terza generazione. Condividi i risultati del tuo lavoro proponendo un poster da presentare durante la sessione dedicata
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Sandra Sassaroli è stata ospite del podcast "Tressessanta" di Virginia Gambardella, un dialogo intenso e ricco di spunti per approcciare al tema della salute mentale
Secondo una recente ricerca, le persone con tratti di narcisismo grandioso tendono a essere e a percepirsi come escluse più frequentemente rispetto agli altri
Compito biologico, psicologico e sociale della figura d’attaccamento, è quello di rappresentare per il bambino una base sicura da cui si possa affacciare per esplorare il mondo «in sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario» (Bowlby, 1989).
La teoria dell’attaccamento ha messo in evidenza la predisposizione innata dell’essere umano ad instaurare relazioni affettive con una figura di riferimento, rappresentata solitamente dalla madre, che assicuri la continuità degli accudimenti indispensabili per la sopravvivenza psicofisica, e che svolga la funzione di proteggere la persona in situazioni di pericolo (Bowlby, 1969).
La forte accelerazione tecnologica, i cambiamenti economici e sociali dei giorni nostri, hanno profondamente modificato la famiglia e il rapporto madre figlio.
Oggi i bambini molto piccoli sono più vulnerabili nella primissima fase della loro vita in quanto la figura materna ha più carichi di lavoro e di conseguenza meno possibilità di vivere la fase simbiotica.
La teoria dell’attaccamento di John Bowlby e dei suoi prosecutori rappresenta l’anello di congiunzione fra differenti orientamenti teorici e operativi.
Compito biologico, psicologico e sociale della figura d’attaccamento, è quello di rappresentare per il bambino una base sicura da cui si possa affacciare per esplorare il mondo «in sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario» (Bowlby, 1989).
A Mary Ainsworth, si deve l’ideazione dello strumento di indagine denominato Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978) nel quale distingueva gli stili di attaccamento in sicuro, insicuro-evitante ed insicuro ansioso-ambivalente, al fine di identificare le differenti modalità con cui si esplica il comportamento di attaccamento del bambino con il caregiver. Successivamente Main e Salomon (1990) elaborarono un quarto stile, il “disorientato/disorganizzato”, per descrivere la diversa gamma di comportamenti spaventati, strani, disorganizzati e apertamente in conflitto.
Lo stile di attaccamento dunque, prende forma in gran misura dal modo in cui i genitori o altre figure significative interagiscono con il bambino.
Considerato che la metodologia della Strange Situation può essere impiegata solo con bambini, per i soggetti adolescenti ed adulti sono stati creati altri strumenti, di cui il più noto ed autorevole è sicuramente la Adult Attachment Interview (Crittenden, 1999). Questo dispositivo classifica lo stato mentale di un adulto in relazione alla sua storia di attaccamento, valutando in particolare la coerenza fra emozioni e pensieri.
La Strange Situation e la Adult Attachment Interview individuano patterns omologhi, laddove quelli presenti nell’infanzia tenderebbero a traslare in quelli strutturalmente identici dell’età adulta. Si tratta quindi di modelli di attaccamento che, mutando progressivamente le modalità espressive, sono presenti lungo tutto l’arco della vita.
Procrastinare: Tribolazioni pt. 15 – Psicopatologia della vita quotidiana
Tecnostress: quando nella coppia si è in 3 – Psicologia
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Essere una coppia 2.0 è sempre più difficile. Sembra infatti che la tecnologia influenzi la vita di coppia ma in senso negativo.
Quello che emerge dalle ultime indagini effettuate su centinaia di manager ICT, è un calo del desiderio, la mancanza quasi totale, se non totale, di rapporti sessuali nella coppia. La coppia 2.0 si astiene.
Si suppone che l’essere troppo social incida e abbatta la libido
Questo viene anche confermato da studi americani in cui emerge che il 16% degli uomini soffrono di totale assenza di stimoli sessuali nei confronti della partner a causa di un utilizzo troppo intenso o prolungato sui social.
Arrivano però anche consigli del dott. Molinari, dell’Ospedale San Camillo di Roma, su come alimentare il desiderio e risvegliare l’uomo per farlo uscire dal letargo sessuale.
Come prevenire il Tecnostress e le complicanze legate al benessere sessuale della coppia? Risponde Carlo Molinari, urologo Ospedale San Camillo di Roma: Dialogo con il partner, una maggiore socialità, un po’ di coccole e massaggi per risvegliare i sensi assopiti.
Il bilinguismo sarebbe un vantaggio – e non un ostacolo – al processo di recupero e riabilitazione dell’afasia.
Nell’era della globalizzazione , il bilinguismo sta diventando sempre più frequente e comprensibilmente è spesso considerato un plus. Ma cosa accade quando insorge una condizione di afasia?
Secondo alcuni ricercatori dell’ Institut universitaire de gériatrie de Montréal (IUGM) , il bilinguismo sarebbe essere un vantaggio – e non un ostacolo – al processo di recupero e riabilitazione dell’afasia.
Dalla metanalisi di diversi studi emerge che il training della lingua in cui il bilingue è meno competente, e non la lingua dominante, avrebbe effetti di generalizzazione e trasferimento dei riapprendimenti sulla lingua non ancora trattata.
Inoltre le somiglianze tra le due lingue, a livello di sintassi, fonologia e vocabolario, faciliterebbero questo effetto di trasferimento dei riapprendimenti: ad esempio, stimolare la parola tavolo in francese faciliterebbe il recupero della parola table in inglese.
In generale, negli approcci semantici, basati sulla stimolazione dei significati delle parole, il trasfert cross-linguistico si fonda sulle proprietà semantiche di una parola che attraverso associazioni mentali richiamerebbero con più facilità vocaboli semanticamente collegati anche nella lingua non direttamente trattata.
In passato i terapisti del linguaggio avrebbero probabilmente chiesto ai pazienti bilingue di reprimere una delle loro due lingue , e concentrarsi su una sola lingua target. Oggi una visione diversa consente di utilizzare entrambe le lingue in un ottica di ottimizzazione degli effetti riabilitativi.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Questa volta tocca a Georgina Wilkin a raccontare il suo percorso dentro la malattia dell’anoressia.
Georgina è entrata nella malattia spinta dal timore di non prendere ingaggi come modella o meglio spinta dalla pressione di avere tutti gli ingaggi, la pressione per di voler essere la nuova “Kate Moss.” L’unico modo per riuscirci era essere magra, magrissima.
In questo caso le accuse che spesso vengono indirizzate alla moda, ai grandi marchi sono reali. La moda ha avuto il suo peso. Georgina ha fatto diversi ricoveri, terapia e stava cos’ male che è dovuta arrivare al sondino.
Ora sta meglio e vuole raccontare la sua esperienza così da avvertire le altre ragazze di non sottovalutare il problema, la malattie e soprattutto il loro peso e il loro valore.
‘My lips and fingers were blue because I was so thin that my heart was struggling to pump blood around my body.
‘The make-up artists would have to disguise it with concealer.