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Food craving e isolamento: una torta al cioccolato per gestire la solitudine

Una nuova ricerca ha permesso di rilevare un’associazione interessante tra solitudine e food craving, il cui significato letterale è “voglia di cibo"

Di Silvia Bettoni, Silvia Carrara, Michela Di Gesù, Martina Gori, Giulia Onida, Matteo Zambianchi

Pubblicato il 14 Mag. 2024

Quale associazione tra food craving e solitudine

A seguito della pandemia da COVID-19 abbiamo assistito ad un incremento di Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, che si manifestano in pattern di pensieri e comportamenti disfunzionali tra cui restrizioni, abbuffate e un’eccessiva attenzione rivolta verso la forma fisica e il cibo (APA, 2022). Questo fenomeno ha fornito nuovi spunti alla ricerca scientifica che, tra i numerosi risultati, ha permesso di rilevare un’associazione interessante tra isolamento e food craving, il cui significato letterale è “voglia di cibo”.

Food craving: molto più di una semplice voglia

Un recente studio è stato condotto al fine di analizzare l’impatto dell’isolamento sociale sul food craving (Zhang et al., 2024). Questo rappresenterebbe un irrefrenabile desiderio rivolto a un alimento, accompagnato da una compromissione delle abilità di gestione delle proprie abitudini alimentari, che sarebbe sostenuta dalla credenza che l’impulso percepito sia incontrollabile (Holtzman, 2019). Alla vista (e non solo) di particolari cibi tipicamente ipercalorici, si innescherebbe quindi un rimuginio desiderante, vale a dire una rappresentazione relativa a un contenuto alimentare che sia ripetitiva ed estremamente dettagliata in termini cognitivi e di immagini, che alimenta il craving (Caselli et al., 2013) e raggiunge il culmine con la gratificazione data dall’assunzione di quanto desiderato. Sappiamo quindi che il food craving aumenta la probabilità di presentare abitudini alimentari disfunzionali ma è necessario chiarire il ruolo dell’isolamento nella loro relazione. A questo proposito, la letteratura riporta che a maggiori livelli di solitudine percepita si associ una maggiore attivazione dei network neurali implicati nella ruminazione (Bzdok & Dunbar, 2022; Spreng, Dimas & Mwilambwe-Tshilobo, 2021) e un’inibizione di quelli implicati nel controllo del comportamento. Tali alterazioni sono centrali nel già noto fenomeno per cui a maggiori livelli di isolamento sociale si associa un comportamento di food craving (Levine, 2012). Lo studio si propone quindi di individuare le relazioni fisiologiche tra solitudine e abitudini alimentari disfunzionali.

L’attivazione cerebrale in risposta a immagini di cibo

Per la ricerca condotta dal gruppo di Arpana Gupta del Goodman-Luskin Microbiome Center presso l’Università della California di Los Angeles, sono state reclutate 93 donne di età compresa tra i 18 e i 50 anni, senza particolari condizioni mediche. Sono state rilevate informazioni demografiche e di composizione corporea, come il BMI, body mass index o indice di massa corporea. Alle stesse partecipanti è stato inoltre somministrato un questionario al fine di raccogliere dati circa la loro salute mentale, le abitudini alimentari e la percezione di isolamento sociale attraverso la Perceived Isolation Scale, strumento volto a indagare la solitudine percepita misurando il supporto ricevuto dagli affetti. L’osservazione delle reazioni fisiologiche è stata invece condotta attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Questo strumento consente di visualizzare non solo la struttura del cervello, ma anche le aree attivate durante un particolare compito, utilizzando come indicatori le variazioni nel flusso sanguigno cerebrale.

A seguito della somministrazione dei questionari, le partecipanti sono quindi state sottoposte all’fMRI mentre venivano loro mostrate cinque categorie di immagini suddivise per contenuti: alimenti dolci ipercalorici (dolci al cioccolato e simili), alimenti salati ipercalorici (fast food), alimenti dolci ipocalorici (come la frutta), alimenti salati ipocalorici (ad esempio dell’insalata) e oggetti non alimentari pixelati che fungevano da controllo.  La risonanza magnetica funzionale ha permesso di analizzare l’attivazione delle aree cerebrali in corrispondenza delle diverse categorie di soggetti proposti.

Una mente sola è una mente a rischio

I risultati delle analisi di fMRI hanno evidenziato che le donne che riportano alti livelli di solitudine, mostrano un’attività cerebrale maggiore in risposta alle immagini di cibo rispetto alle donne che riferiscono di percepire livelli inferiori di solitudine. In particolare, ad attivarsi maggiormente sono le aree del lobulo parietale inferiore, associato alla ruminazione, insieme alla corteccia occipitale, che rileva e decodifica le immagini in informazioni, ma anche al corpo striato e all’insula, responsabili dei sistemi di desiderio e ricompensa.

È stata inoltre rilevata una riduzione di attività della corteccia prefrontale dorsolaterale, implicata nei meccanismi di inibizione e ragionamento che costituiscono una parte della rete di controllo esecutivo. I cambiamenti in queste aree cerebrali erano maggiori quando venivano presentate immagini di dolciumi ipercalorici.

In aggiunta a questi risultati, da un confronto dei dati raccolti attraverso i questionari è emerso che soggetti con alti livelli di isolamento percepito presentavano più alte percentuali di massa grassa, peggiori abitudini alimentari e condizioni psicologiche.

Ulteriori risultati hanno infatti dimostrato come alti livelli di solitudine siano associati con una minor resilienza psicologica e maggiori livelli di ansia e depressione, che possono contribuire a rinforzare il circolo vizioso del food craving (Zhang et al., 2024).

Al food craving c’è una soluzione (oltre a una spiegazione)

Alla luce dei risultati emersi, si ipotizza quindi che le persone che si sentono sole hanno una tendenza maggiore a gestire le loro difficoltà psicologiche attraverso un rapporto disfunzionale con il cibo, che può manifestarsi con fame compulsiva fino ad arrivare a delle vere e proprie abbuffate e quindi a ingerire quantità di cibo significativamente grandi in un breve periodo di tempo. Gupta riporta che una maggiore attivazione cerebrale in corrispondenza della visione di dolci ipercalorici si spieghi in quanto, come è risaputo, tali alimenti costituiscono forti stimoli per il meccanismo di “ricompensa”, usato come risorsa per trovare conforto in situazioni di dolore e disagio.

Ciò che è emerso da queste analisi apre la strada a diverse ipotesi di causalità tra i fattori interessati, che permetteranno ai ricercatori di approfondire l’argomento ma, per il momento, quanto scoperto è prezioso per combattere la credenza che la tendenza ad abbuffare sia solamente una carenza di forza di volontà, che porta al giudizio e all’autocolpevolizzazione e innesca il circolo vizioso dei comportamenti alimentari disfunzionali: colpa, tristezza, food craving (come strategia per gestire lo stato emotivo negativo), abbuffata e di nuovo colpa.

Esistono invece delle ragioni più complesse e definirle consente un intervento terapeutico mirato, con dei semplici accorgimenti che possono migliorare le condizioni di isolamento, come mangiare o cucinare insieme a qualcuno, iniziare un corso di cucina o qualsiasi attività che, secondo Gupta, possa aiutare a non rimanere ingaggiati nel rimuginio desiderante tipico del craving.

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