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Shocking Truth: le verità sulla Pornografia e le storie di Abuso

Shocking truth . - Immagine: ©chrisdorney-Fotolia.comShocking Truth (Verità sconvolgente) è un documentario della regista svedese Alexa Wolf sul mondo della pornografia  ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso.

Presentato al Parlamento svedese nel 2000 nell’ambito di un dibattito sulla libertà di espressione nella pornografia è quasi introvabile, ma ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso, che, nella sua espressione più estrema, viene paragonata a un luogo di abuso e tortura legalizzati, non poi così diversa da quella illegale e proibita degli snuff movies.

Shocking Lies: Sanningar om lögner och fördomar i porrdebatten (“Menzogne sconvolgenti: Verità, bugie e pregiudizi nei dibattiti sul porno“) è un’antologia, pubblicata a pochi mesi di distanza dal documentario, che raccoglie contributi sull’argomento di diversi giornalisti e persone legate al mondo del porno.

Isabelle Sorente, laureata in fisica all’école Polytechnique, romanziera e autrice di teatro, racconta, con un linguaggio forte, tanto quanto le immagini del film, le verità sconvolgenti che si celano dietro all’abile lavoro di montaggio dei filmati porno, in cui giovani donne si sottopongono a tour de force sessuali con centinaia di uomini in poche ore. Sanguinamenti, lesioni interne, gravi danni fisici permanenti, l’impossibilità di interrompere le riprese (interrotte, a volte, solo grazie all’arrivo della polizia) sono solo alcuni dei dettagli che vengono nascosti al pubblico in fase di montaggio; la Sorente va oltre, e si chiede chi siano queste donne e questi uomini, raccontandoci un universo disumanizzato in cui il piacere della sessualità è del tutto assente e la libertà di scelta una bugia sulla quale si erge l’intero sistema.

Il vero protagonista non è il piacere, ne l’erotismo, ma l’abuso, fisico, sessuale, psicologico, spesso subito nell’infanzia e nell’adolescenza, ripetutamente, fino a diventare l’unica realtà possibile, inevitabile, fino a sembrare addirittura desiderabile.

Alcune ricerche hanno dimostrato che il 75% delle prostitute sono state vittime, nella loro infanzia, di abusi sessuali.

La vergogna, l’umiliazione, il sentimento e la paura di non valere nulla, di non essere nulla se non una cosa da usare per dare piacere (piacere?) modellano il senso di identità di queste donne che, lungi dall’aver mai sperimentato una qualche forma di protezione, non possono far altro che rivivere all’infinito le violenze subite, raccontando a loro stesse che è proprio quello che desiderano e che hanno scelto liberamente di fare.

La denuncia della Sorente è sopratutto sociale, quella di un sistema (capitalista) in cui, in nome del libero mercato e della libertà di scelta e di espressione, queste vittime sono lasciate a sé stesse, libere (libere?) di verificare fino a che punto si può arrivare: dov’è il fondo? Fino a dove la violenza e l’annichilimento del sé possono arrivare? C’è un limite oltre al quale questo diventa insopportabile? La maggior parte delle attrici che arrivano alla zoofilia (rapporti sessuali con animali) si suicida, ci racconta la Sorente.

Si parla tanto di abuso e maltrattamento infantili e dei devastanti effetti di questo tipo di trauma sulla personalità adulta, ma quanto ci è possibile associare questo trauma alla sessualità della pornografia, della prostituzione o più in generale a una certa voracità sessuale cosi valorizzata nella nostra moderna e disinibita società?

La neuropsicofisiologia ci dice che la sessualità è un complesso evento psicofisico che non ha a che fare solo con il corpo ma che concerne le esperienze relazionali, la comunicazione intima, lo sviluppo affettivo e cognitivo, le memorie implicite (Imbasciati e Buizza 2012). La sessualità dunque è primariamente un’ emozione che ha carattere relazionale e che è correlata alle prime esperienze di attaccamento, in cui il corpo fa da mediatore con l’ambiente esterno.

Violenza fisica e sessuale, maltrattamenti, trascuratezza emotiva sono gli ingredienti che fanno da sfondo all’alessitimia post-traumatica che apre la strada alla sessualità compulsiva, in cui gli aspetti dolorosi dei traumi originari rimangono dissociati e l’atto sessuale stesso diviene il tentativo disperato di evitare un legame emotivo con la dolorosa realtà interna ed esterna (Craparo, 2013).

Se l’orrore dell’abuso infantile non può essere pensato, sentito, nominato, mentalizzato (Fonagy et al. 2002) condannando chi ne è vittima a un dolore somatopsichico soverchiante e alla messa in atto di condotte compulsive, forse il primo passo che possiamo compiere è proprio quello di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.

 

LEGGI ANCHE:

 SESSO – SESSUALITA‘ – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE

ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA

MEMORIE TRAUMATICHE E MENTALIZZAZIONE (2013) – RECENSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Assisi 2013 – L’Acquafobia e Le Cognizioni Di Mantenimento

Barbara Postal

L’Acquafobia e Le Cognizioni Di Mantenimento

B. Postal, G. Caselli

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Come viene definita l’acquafobia? L’acquafobia fa parte delle fobie specifiche del sottotipo “ambiente naturale”. Come tutte le fobie, la paura varia da persona a persona. L’acquafobia, anche nota con il nome di talassofobia, è la paura di immergersi in acqua ed è anche inquadrata come paura di nuotare. Nella ricerca qui rappresentata con acquafobia si intende la paura di nuotare da soli in acqua profonda.

Attraverso il portale online “Surveymonkey” si è approntato un questionario per misurare l’acquafobia e le cognizioni collegate. Il questionario è stato inviato a più di cento persone, con l’ipotesi di diagnosi di sofferenza da acquafobia.

Il questionario era composto dai seguenti elementi:

1) Il FSS-II i cui item includono situazioni ansiogene relative agli animali, situazioni sociali, lesioni e morte, oggetti, suoni e altre situazioni, come l’acquafobia. L’acquafobia viene colta con 3 item: item 25 (“nuotare da soli”), item 34 (“stare su una barca”) e item 46 (“acqua fonda”). Per la ricerca qui rappresentata si è tenuto conto solo degli item 25 e 46.

2) L’ACS misura le credenze sugli stati emotivi. Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala a)la paura dalla paura.

3) Il FDS-R è un questionario “self-report” il quale dà accesso alle credenze dell’intolleranza alla frustrazione. Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala “intolleranza delle emozioni”.

4) L’ACQ aiuta a misurare meglio il controllo percepito sulle reazioni emozionali e sulle minacce esterne, che hanno una rilevanza diretta per i disturbi d’ansia; è composto da 30 item. 16 item misurano il fattore “eventi esterni” e 14 item il fattore “reazioni emozionali interne”.

5) Lo STAI le qui scale servono al rilevamento della paura come “stato” (“State- Anxiety”) e la paura come tratto (“Trait-Anxiety”). Nel questionario approntato è stata usata solo la sottoscala che rileva la paura di “stato”. La domanda iniziale è stata modificata, così da riferirsi ai momenti nei quali la persona testata si trova nell’acqua profonda.

76 persone hanno risposto al questionario, delle quali 28 maschi e 48 femmine. Per l’analisi dei dati sono stati selezionati i soggetti che avevano risposto agli item 25 (“nuotare da soli”) e 46 (“acqua fonda”) del FSS-II con uno score superiore a 4. Trentacinque soggetti hanno fatto parte di questo gruppo (chiamato in seguito “gruppo acquafobia”).

Con l’ipotesi 1 si intendeva dimostrare che le persone affette da acquafobia sono più ansiose rispetto a quelle che non ne soffrono. Il “gruppo acquafobia” è stato confrontato con il resto del campione. Non si è usato il cut-off dello score totale del FSS-II (≤ 118 nelle donne e ≤ 93 negli uomini), ma sono state confrontate le medie. Così si è potuto osservare se il “gruppo acquafobia” avesse punteggi significativamente più alti del resto del campione. L’ipotesi è stata confermata. Il campione del “gruppo acquafobia” è stato confrontato con tutti i questionari usati nel questionario approntato.

Dalla “tabella 1” si nota che il “gruppo acquafobia” ha punteggi significativamente diversi in tutti i totali.

Controllando le medie, i punteggi del “gruppo acquafobia” sono più alti in tutti i questionari, tranne nelle scale “e” (controllo tramite episodi esterni) e “r” (controllo tramite reazioni interne) dell’ACQ, nel quale i punteggi sono più bassi.

Con l’ipotesi 3 si è inteso dimostrare che il “gruppo acquafobia” avesse uno score più alto nell’anxiety-scale dell’ACS, che significherebbe che queste persone hanno un’alta paura della paura. Anche questa ipotesi è stata confermata, così come le ipotesi 5 e 7 (tabella 2). Con l’ipotesi 5 si intendeva dimostrare la difficoltà nella gestione delle emozioni da parte delle persone affette da acquafobia.

Con l’ipotesi 7 si intendeva dimostrare che le persone del “gruppo acquafobia” manifestassero un’alta intensità della tensione, della preoccupazione, della nervosità, dell’irrequietezza interiore e della paura degli eventi futuri. Il “gruppo acquafobia” dimostra quest’alta intensità pensando a momenti nei quali si trova nell’acqua profonda.

L’ipotesi 8 chiede cosa predice di più la tensione provata nuotando nell’acqua profonda, così come misurata dallo STAI-X1. Si è verificata una regressione in tutti i punteggi e lo STAI-X1 come variabile dipendente. Confrontando questi valori al netto degli altri si nota quali siano i più forti predittori dello STAI-X1. Gli unici predittori significativi sono l’ACQ scala “e” e l’ACS anxiety-scale. Vale a dire che queste variabili predicono il livello di ansia provato nuotando in acqua profonda al netto delle altre dimensioni.

Con l’ipotesi 2 si intendeva dimostrare che persone affette da acquafobia soffrono anche di un’intensa paura dell’altezza. Per confermare quest’ipotesi sono stati individuati i soggetti che soffrono di paura dell’altezza (punteggi ≥ 4 nell’item 23 “l’alto”). Anche qui la differenza è significativa. Significa che persone affette da acquafobia tendono ad avere anche più paura dell’altezza. Nella tabella 3 si nota che l’indice di correlazione su tutto il campione è più alto con l’item 25 (“nuotare da soli”).

Con l’analisi dell’ipotesi 4 si è potuto dimostrare soltanto che il “gruppo acquafobia” avesse la credenza di comportarsi male o fare brutta figura nei momenti d’ansia. L’ipotesi che questo gruppo abbia la credenza di nutrire poca fiducia in se stessi, ovvero di essere in grado di controllare la propria paura, non è stata confermata.

Poiché si è potuta confermare solo in parte l’ipotesi 4, l’analisi sull’ipotesi 6 più dettagliata non si è potuta svolgere. Tuttavia il confronto tra i due gruppi con l’ACQ si nota nelle tabelle 1 e 2. In effetti, vi si può notare che il “gruppo acquafobia” ha una percezione di controllo più bassa in entrambe le scale dell’ACQ (scala “e” e scala “r”).

Questa ricerca rappresenta un primo tentativo di capire meglio questa fobia specifica chiamata “aquafobia”. In parte si è riusciti a raggiungere questo obiettivo, c’è però ancora spazio per allargare questa ricerca.

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ASSISI FORUM SULLA FORMAZIONE IN PSICOTERAPIA – ANSIA – PAURA

Genetica e soddisfazione coniugale

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori della University of California Berkeley e della Northwestern University  hanno scoperto una correlazione significativa tra la variante di un gene, l’allele 5 – HTTLPR, e la soddisfazione coniugale.

Una vita di coppia carica di emozioni negative e di poche positive sembrerebbe il requisito fondamentale dell’insoddisfazione coniugale, ma non per tutti è così; alcune persone infatti sono meno sensibili di altre al clima emotivo di coppia, positivo o negativo che sia, e la loro soddisfazione in coppia sembra non essere particolarmente influenzata né dalla positività né dalla negatività delle emozioni sperimentate. Perchè?

I ricercatori della University of California Berkeley e della Northwestern University hanno cercato di rispondere a questa domanda e hanno scoperto una correlazione significativa tra la variante di un gene, l’allele 5 – HTTLPR, e la soddisfazione coniugale.

Tutti gli esseri umani ereditano una copia di questa variante da ciascun genitore ed è la lunghezza dell’allele ad essere associata a una maggiore o minore soddisfazione coniugale.  Lo studio longitudinale ha monitorato oltre 150 coppie sposate da più di 20 anni: i ricercatori hanno osservato sia i genotipi che l’interazione tra i partners, ogni 5 anni. I risultati indicano che gli individui con due alleli corti del gene riferivano maggiori emozioni negative e insoddisfazione (rabbia,  disprezzo, e maggiore infelicità in presenza di emozioni positive) in relazione alla vita di coppia, rispetto a quelli con uno o due alleli lunghi che erano, invece, molto meno sensibili al clima emotivo dei loro matrimoni.

Inoltre la correlazione tra geni, emozioni e soddisfazione coniugale è stata particolarmente pronunciata negli adulti più anziani: durante l’infanzia e la vecchiaia infatti siamo più sensibili alle influenze genetiche. 

I  risultati, specificano i ricercatori, non indicano che i coniugi con diverse varianti di 5 – HTTLPR sono incompatibili, ma suggeriscono che quelli con due alleli corti hanno maggiori probabilità di prosperare in un buon rapporto e soffrire in uno cattivo.

LEGGI ANCHE:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIGENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

La donna perfetta (The Stepford Wives) – Cinema & Psicoterapia #11

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #11

La donna perfetta (The Stepford Wives) (2004)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

La donna perfetta (The Stepford Wives) (2004). -Immagine: Locandina

Un perfezionista pensa di meritare attenzione e amore solo se è perfetto e per questo controlla che tutto lo sia, teme che l’errore possa portare a sminuire i risultati fissati ed è molto esigente con se stesso e con gli altri. È critico se gli standard non sono raggiunti e, se vengono raggiunti pensa, spesso, che il compito era troppo facile. 

Info:

È un film diretto da Frank Oz, interpretato da Nicole Kidman, Glenn Close, Christopher Walken, Matthew Broderick. USA 2004. Commedia. Il film è tratto dal romanzo La fabbrica delle mogli di Ira Levin.

Trama: 

Joanna, manager televisiva, viene licenziata, si deprime e quando esce dalla clinica in cui si è curata il marito Walter le comunica che si è anch’egli licenziato dalla televisione dove entrambi lavoravano e di voler salvare il loro matrimonio in crisi.

Si trasferiscono a Stepford, una cittadina in cui le mogli sono perfette: belle, casalinghe ineccepibili, fanno “sesso alla grande e con i loro mariti!”. I due protagonisti scopriranno che tutte le donne sono state trasformate in robot. L’artefice di tutto è  Claire, chirurgo neurologico di fama mondiale che, tornata a casa dopo l’ennesima giornata di lavoro, uccide il marito e la sua amante, e decide di creare Stepford.

Motivi di interesse:

Cara mi lucideresti le scarpe per domani? Certamente! Scusa, hai cucinato quel manicaretto che mi fa impazzire? È quasi pronto. Io esco con gli amici, ci vediamo dopo. Divertiti!

Un sogno? No, Stepford.

Il film propone un mondo perfetto dove tutti sono come gli altri vogliono. La compiacenza e l’accondiscendenza caratterizzano l’atteggiamento di queste mogli perfette che stupiscono per la loro abnegazione verso i mariti. Joanna chiede se i robot sanno anche dire “ti amo, ma con sentimento”. La donna perfetta è quello che si può considerare un vero e proprio attacco ad un modello culturale che ha nella televisione il mezzo di diffusione più importante. In questo senso è interessante un dialogo tra due protagonisti:

Tutte le donne di questa città sono perfette e sensuali gatte morte, tutti gli uomini degli sfigati bavosi. 

Non è una cosa un po’ strana? 

Non per me. 

Perché no? 

Lavoro in televisione”.

Il perfezionismo è un costrutto implicato nei disturbi del comportamento alimentare, ma anche nei disturbi d’ansia e nella depressione.

Un perfezionista pensa di meritare attenzione e amore solo se è perfetto e per questo controlla che tutto lo sia, teme che l’errore possa portare a sminuire i risultati fissati ed è molto esigente con se stesso e con gli altri. È critico se gli standard non sono raggiunti e, se vengono raggiunti pensa, spesso, che il compito era troppo facile. 

A Stepford tutti hanno ciò che vogliono, l’apparenza copre il non essere, un mondo artificiale e privo di umanità, dove si ricostruiscono donne e uomini per soddisfare il proprio desiderio di avere ciò che si sogna. La perfezione, però, non esiste e la spirale fatta di aspettative frustrate e di persone che non fanno e non dicono mai ciò che vorresti, riappare immancabilmente. Alla resa dei conti, quando nemmeno il telecomando per le mogli funziona più, Joanna svela di non essere mai diventata un robot e che Walter la stava aiutando a porre fine a quell’incubo.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film offre importanti spunti di lettura e di discussione su alcuni processi e costrutti implicati in alcuni disturbi d’ansia, nei disturbi del comportamento alimentare e nella depressione: perfezionismo, bisogno di controllo, autostima, atteggiamento compiacente, separazione e individuazione, autonomia e indipendenza.

 

Trailer

LEGGI ANCHE:

PERFEZIONISMOANSIADEPRESSIONE DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE -ED

RECENSIONI – CINEMA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 3

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 3

Prime interazioni e analisi del movimento nel caso di L.

LEGGI: PARTE 1PARTE 2

 

Il gemello sacrificato - parte 3. - Immagine: © andreyfire - Fotolia.comDal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – Il lavoro dei Danzamovimento terapeuti per un’analisi delle prime interazioni e del movimento del bambino.

Quando lo vedo arrivare nel corridoio accompagnato dal papà e quando in palestra mi sta di fronte rigido e chiuso nella sua giacca a vento, noto che l’effort1 del peso2 non è mai interamente attivato, e prevale in sua sostituzione il flusso di tensione muscolare3 tenuto ad alta intensità4. Mentre sta in piedi, con le braccia lungo il corpo, studiandomi e raccontandomi le sue fantasie, L. congela il movimento e il respiro, e mantiene un flusso di forma5 chiuso e ristretto.

Secondo Judith Kestenberg il flusso di forma chiuso ha a che fare con un disagio nei confronti dell’ambiente circostante, il quale non favorisce la motivazione a gettare un ponte fra sé e il mondo. Osservo che, qualunque cosa faccia, manca in L. la connessione col centro del corpo, e, ancor prima, col respiro6, che non può sostenere le altre azioni. Il flusso di tensione muscolare tenuto non gli permette di allargare la forma del corpo, come se creasse una vera e propria seconda pelle (Bick 1968). Ciò suggerisce la mancanza di un oggetto interno contenitivo e l’ ansia per non potersi lasciare andare all’aiuto e alla disponibilità emotiva degli altri.

Un obiettivo di lavoro nella prima fase della terapia riguarda la costruzione di una relazione che diventi una pelle mentale per L., che gli permetta di interiorizzare il nostro appuntamento come uno spazio-tempo in cui poter stare in presenza di un adulto interessato e partecipe, che riconosca e contenga la sua parte deprivata, facendogli sentire accolta la totalità del suo essere.

Questo tipo di relazione permette una regressione terapeutica (Winnicott, Kohut), che favorisce la sperimentazione di oggetti Sé empatici, riducendo nel paziente la scissione verticale che lo divide fra aspetti di grandiosità e sensazioni di vuoto e inibizione, in modo da integrarli nella totalità del Sé.

Inoltre, salta subito all’occhio uno scarso utilizzo della cinesfera7: L. è spesso confinato nel suo spazio intimo8, da cui a volte esce improvvisamente per mimare calci e pugni allo specchio indirizzati a “rivali”, o per ripropormi le coreografie dei suoi eroi del wrestling. Quando si dedica a tali movimenti di apertura, predomina il pre-effort9 della repentinità10: in quella situazione il corpo “si scompone”, per cui, invece che sferrare calci e pugni come vorrebbe, gli arti “esplodono” fuori dalla cinesfera intima, perdendo ogni coordinazione.

Gli manca quindi una vera e propria gestualità direzionale11 che parta dal centro del corpo e vada verso l’esterno; non è in grado di attivare efficacemente la connessione nucleo-distale12. Nei suoi gesti e movimenti non riesce a esprimere l’intenzionalità di andare verso lo spazio, gli oggetti e le persone per prendere o raggiungere ciò che desidera.

Judith Kestenberg (Kestenberg 1975) descrive il neonato come impegnato, nei primi mesi, a formare un suo guscio di tensione muscolare esterna per sentire nel corpo la differenziazione dalla madre; in questa condizione, il piccolo, intento ad acquisire il controllo sul restringersi e l’espandersi, sul mantenere una tensione corporea costante e sul riadattarla nei suoi spostamenti, crea una prima relazione direzionale quando comincia ad afferrare gli oggetti.

II desiderio di prendere oggetti distanti lo spinge fuori dal centro del corpo, verso lo spazio, per raggiungerli.

Sebbene abbia constatato l’incompleta attivazione dell’effort del peso, scorgo in questa sua posizione eretta, stazionaria, rigida, un tentativo di mantenimento dell’atteggiamento corporeo tipico del bambino nella fase anale dello sviluppo psicosessuale (Kestenberg 1975). In questa fase l’attenzione del bambino è molto concentrata sulla parte inferiore del corpo, perchè deve imparare a stare in piedi; l’esplorazione e il mantenimento della posizione eretta dà al piccolo la sensazione di essere “tutto di un pezzo”, un solido muro verticale che si oppone alla gravità. In effetti L. raramente cammina per la stanza, più che altro sta fermo o al massimo passa il peso da un piede all’altro, o fa pochi passi avanti e indietro o lateralmente, esibendo ritmi ora anali lottanti, ora genitali interni13; in tutto ciò le braccia sono sempre piegate strette vicine al busto, o, più spesso, lungo il corpo, ciondoloni.

Nell’intento di accogliere il bambino e di farlo sentire visto e sostenuto, in un primo momento sono ricorsa, nel modo di stare in piedi o seduta, di muovermi, di parlare, di ascoltarlo, soprattutto al rispecchiamento e alla sintonizzazione sui ritmi, le intensità e le forme del corpo di L.14. Ad esempio: durante i suoi racconti fantastici mi mettevo di fianco a lui e ne imitavo il ritmo con cui passava il peso da un piede all’altro; oppure stavo seduta di fronte a lui raggomitolata, anche io in un flusso di forma chiuso, dondolandomi al ritmo dei suoi spostamenti di peso. A volte gli proponevo attività ispirate alle arti marziali, modulando il movimento e suggerendo la sperimentazione di una maggiore pienezza dei movimenti del calcio e del pugno da lui ricercati.

Tutte le volte che lo rispecchiavo con troppa precisione, o quando gli proponevo di muoverci insieme, cioè di “negoziare” i suoi movimenti coi miei, cadeva nel flusso neutro15, deanimandosi come una bambola di pezza, con lo sguardo perso nello spazio remoto16. Nei bruschi cambiamenti degli attributi del flusso di tensione17 ora descritti, ho potuto vedere come, nel corpo, L. esprimesse uno scollegamento fra l’immagine irrealistica e fantastica di sé e il reale vissuto corporeo. L., infatti, sentiva l’impulso di passare bruscamente dallo stato di ritiro e chiusura descritto, ad azioni che avrebbero richiesto l’attivazione della connessione corporea omolaterale e controlaterale18, necessaria per sferrare un pugno o un calcio efficaci e credibili. Lo scomporsi del suo movimento quando tentava un aggancio “reale” agli spericolati atti che mi descriveva, non davano la sensazione di un movimento espressivo e compiuto, diretto a un fine, come avviene quando gli effort descritti da Laban si esplicano nella loro pienezza. L’uso frequente del pre-effort della repentinità, legato ad azioni che si svolgono prevalentemente su un piano sagittale19, indica, secondo Kestenberg, uno stato di allerta permanente, un essere pronti all’attacco e alla fuga come difesa controfobica20.

Il non avere raggiunto la capacità di usare effort pieni denotava una scarsa padronanza degli schemi di movimento che permettono di affrontare la vita quotidiana; il wrestler alle prese con le sue micidiali coreografie lottanti, il karateka che esegue (termine) i suoi kata con efficacia e convinzione di combattente, erano solo ideali per L., che sferrava calci e pugni davvero poco realistici.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2

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BIBLIOGRAFIA:

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  • —————— (1960), La teoria del rapporto infante-genitore, in: (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, cit.
  • —————— (1962), L’integrazione dell’Io nello sviluppo del bambino, in: (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, cit.
  • —————— (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970.
  • —————— (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.
  • Zazzo R. (1984), Il paradosso dei gemelli. La Nuova Italia, Firenze 1987.

 

NOTE

1Nella LMA il termine effort indica la manifestazione dinamica nel movimento, originata da un impulso interno e visibile all’esterno in rapporto alla forza di gravità (peso) e alla gestione attiva dello spazio e del tempo.

2Riporto la chiara spiegazione di Katya Bloom: <<L’ effort del peso, designato come forte o leggero, riguarda la sensazione fisica del corpo stesso e la sensibilità tattile. Rendendo conscio questo aspetto dell’esperienza, secondo Laban, sviluppiamo una intenzione con cui operare, fare qualcosa col corpo. (…) L’elemento del peso, quindi, è legato al senso di efficacia e di attività, alla capacità di esercitare un impatto, oltre che di essere in-formati. Un senso di presenza tridimensionale ci mette a disposizione un luogo a partire dal quale provare sensazioni, vedere o pensare.>>(Bloom 2006, p. 37).

3<<L’elemento del flusso (libero o tenuto/legato) riguarda il controllo o la libertà dei sentimenti che si esprimono nel movimento. Quando ci sono carenze nell’ambiente primario, o quando il bebé è estremamente sensibile ai fattori di disturbo affettivo, le sue reazioni possono essere caratterizzate da un flusso legato. Intendo con questo le strategie per la regolazione e il controllo degli affetti di fronte a sentimenti arcaici che chiamano in causa il terrore dell’estinzione. (…) Naturalmente questi sentimenti primitivi che ho ricondotto all’elemento del flusso non sono circoscritti alla prima infanzia. Le carenze dell’ambiente originario lasciano in qualche misura l’impronta sull’esperienza successiva di tutti noi, ma se son state gravi e durature avranno probabilità molto maggiori di essere riattivate in momenti di stress e di trauma durante tutto il corso della vita.>> (Bloom 2006, pp. 91, 92).

4Il flusso tenuto di tensione muscolare è legato secondo la LMA e il KMP alla relativa libertà o restrizione del flusso del respiro e dell’energia, della forza vitale del corpo; ha a che fare col controllo muscolare dei confini del corpo, dei sentimenti, del vissuto corporeo e delle emozioni. In questa modalità non si esprime né si riceve un messaggio affettivo, ma si comunica all’altro di non avvicinarsi, rinunciando così a entrare in contatto (Govoni 2012).

5Nel KMP il flusso di forma è il fattore di base del movimento, è <<la forma del corpo che cambia e si muove adattandosi, sia rispetto a se stessi, che all’ambiente esterno>>. La respirazione polmonare è anche il primo movimento verso la relazione con l’ambiente esterno, e plasma uno spazio interno tridimensionale. Il neonato dapprima apre e chiude la propria forma corporea per respirare e per assecondare le sensazioni interne e raggiungere uno stato di comfort. L’esperienza del flusso della forma nutrita dal respiro, crea una prima connessione con la differenziazione del sé dalla madre: così il bambino sperimenta l’allargamento e il restringimento della forma corporea anche in relazione allo spazio che lo accoglie, facendo una prima esperienza dei propri confini. Il neonato sostenuto dall’abbraccio della mamma, cede il suo peso e si aggiusta nella forma. La madre cerca di sintonizzarsi con il respiro e con il peso del bambino dando origine così ad un legame e ad un rapporto di fiducia.

6Bartenieff/Hackney descrivono il respiro come il fattore-base del movimento, il primo atto con cui nasciamo alla vita: il respiro è cellulare e polmonare fa sì che sperimentiamo il senso di pieno e vuoto, e una forma primaria di tridimensionalità; è la percezione di base per la fiducia nell’esserci.

7Nella LMA la cinesfera è lo spazio che circonda il corpo, direttamente raggiungibile dal soggetto, in cui vengono descritti i tracciati di movimento in dimensioni, piani, diagonali, in relazione al centro di gravità del corpo.

8Nella LMA è l’area della cinesfera più contigua al centro del corpo.

9 Secondo Judith Kestenberg gli effort di Laban hanno nello sviluppo una funzione adattativa, vengono usati per cooperare col mondo esterno; i precursori degli effort, o pre-effort sono invece collegati al flusso di tensione e sono i principali mezzi motori dei meccanismi di apprendimento e difesa; mediano fra l’Es e l’Io. Si veda R. M. Govoni, Danza: linguaggio poetico del corpo e strumento di cura, pagg. 71, 72.

10Nel KMP il pre-effort della repentinità corrisponde a uno stato di all’erta, ha a che fare con difese di tipo attacco-fuga, del “buttarsi” a fare qualcosa, degli acting-out, e si esplica principalmente nel piano sagittale (salto, corsa, pugno, calcio, strisciare…); a questo pre-effort è collegato il processo cognitivo dell’apprendimento tramite intuizione.

11Nel KMP la gestualità direzionale è quella che si dirige dal centro del corpo al suo esterno, direzionata verso qualcosa, per entrarvi in relazione. I movimenti direzionali possono essere spoke-like (a una dimensione, dritti), ark-like (a due dimensioni, curvi, ad arco) e carving (scolpire lo spazio, tridimensionali).

12Nello studio sulle connessioni corporee Bartenieff/Hackney, la connessione nucleo-distale (o irradiazione ombelicale) comprende lo sviluppo del sostegno del nucL. interno del respiro e dei muscoli/ossa interne del corpo in relazione con il movimento di ciascun arto verso l’ambiente.

13Nel KMP i ritmi del flusso di tensione muscolare denotano il flusso continuo fra tensione e rilassamento dei muscoli Essi si organizzano il modo in cui l’essere umano organizza i suoi impulsi energetici, che si manifestano attraverso variazioni toniche. <<Questi ritmi si definiscono come combinazioni di ritmi più semplici essenziali, sia per certi tipi di compiti sia per funzioni fisiche elementari. Ritmi specifici si associano alle seguenti azioni: 1) succhiare, mordere, 2) tendere, torcere, 3) correre, fermarsi, 4) ondeggiare, oscillare, 5) saltare, balzare. (…) Ciascuno di questi ritmi può essere classificato anche secondo le corrispondenti fasi e zone libidiche. Così: 1) succhiare e mordere sono attività della fase orale, 2) tendere e torcere appartengono alla fase anale, 3) correre e fermarsi alla fase uretrale, 4) ondeggiare, oscillare alla fase genitale interna, 5) saltare e balzare alla fase genitale esterna. Va distinta anche una versione libidica o sadica nei modelli di movimento di ciascuna fase, che connota una maggiore o minore quantità di sforzo, oppure, in termini più soggettivi, una qualità più indulgente (indulging) o combattiva (fighting) del movimento.>> (La Barre 2001, p. 39).

14Stern sottolinea il vincolo fra la sintonizzazione affettiva e la percezione dell’altrui movimento attraverso gli affetti vitali; ciò corrisponde alle qualità che i Danzamovimento Terapeuti osservano attraverso il flusso di forma, ritmi di del flusso di tensione muscolare e gli attributi del flusso di tensione del KMP e tramite gli Effort nella LMA: <<Nel lavoro di Danza Movimento Terapia si perfeziona la tecnica del rispecchiamento attraverso la possibilità di sintonizzarsi al flusso di tensione e al flusso di forma del movimento del paziente.>> (Govoni 2010, Kestenberg 1990).

15Il flusso neutro o deanimato è un flusso che impiega livelli minimi di tensione muscolare (Govoni 2012).

16Nella LMA è lo spazio al di fuori della cinesfera, cioè non direttamente raggiungibile dal corpo.

17Nel KMP gli attributi del flusso di tensione sono la parte “affettiva” del flusso di tensione, derivano da bisogni biologici e psichici e organizzano la loro regolazione affettiva, cioè l’espressione dei sentimenti e le reazioni emotive alla sicurezza e al pericolo.

18La Hackney descrive la cross-lateral connectivity come il movimento controlaterale del corpo connesso al centro del corpo stesso, che impegna le catene muscolari che vanno dai piedi al pavimento pelvico e dalla spina dorsale alla connessione scapola/braccio/mano, fino alla testa. Hackney descrive come nel bambino, l’imparare a usare questa connessione sia successiva al saper padroneggiare la connessione omolaterale, che organizza il corpo in una parte che mantiene la stabilità, mentre l’altra si muove e lavora, è legata alla funzioni laterali del cervello e alla chiarezza di pensiero (Hackney, 1998, pp. 177 et segg.).

19Il piano sagittale nella LMA indica i movimenti che spostano il corpo avanti e indietro in relazione al suo centro.

20Si veda anche nota 8.

Lei dice che è solo un amico? La voce può smascherare un tradimento.

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli uomini e le donne alterano la loro voce quando parlano con gli amanti anziché con un amico. Tali variazioni possono potenzialmente essere utilizzati per rilevare l’infedeltà.

Una nuova ricerca dalla Albright College del professore associato di psicologia Susan Hughes  ha evidenziato che gli uomini e le donne alterano la loro voce quando parlano con gli amanti anziché con un amico, e che tali variazioni possono potenzialmente essere utilizzati per rilevare l’infedeltà. 

Un esperto di psicologia evolutiva e di percezione della voce ha preso in esame le differenze tra campioni vocali dirette verso un amico ed un amante.  Lo studio è stato condotto insieme a  Jack LaFayette direttore della ricerca a Albright e Sally D. Farley, ex assistente  di psicologia alla Albright, che ora insegna all’Università di Baltimora.

Lo studio ha esaminato come le persone modificano l’intonazione e la modulazione del tono di voce quando sono impegnati in una breve conversazione telefonica con un partner romantico rispetto ad un amico dello stesso sesso. I ricercatori hanno reclutato 24 persone che erano state precedentemente  in luna di miele, invitandoli a telefonare al loro partner cosi ad un caro amico dello stesso sesso, ed entrambi i casi impegnarsi in una conversazione parlando del più e del meno.

Gli studiosi hanno poi mostrato le registrazioni a 80 valutatori indipendenti che giudicavano i campioni in base a questi parametri: la sensualità, la piacevolezza, ed il grado di interesse romantico. I valutatori sono stati esposti a queste registrazione per un tempo di massimo due secondi e sono riusciti perfettamente a identificare in maniera accurata se il parlante ha parlato con un amico o con un amante. I ricercatori ipotizzano che le persone alterano il tono di voce per comunicare il loro stato di relazione. Infatti i campioni vocali  diretti verso partner romantici sono stati classificati più piacevoli a differenza di quelli diretti verso gli amici dello stesso sesso.

Inoltre lo studio ha eseguito un analisi dello spettrogramma, ovvero la rappresentazione grafica dell’intensità di un suono in funzione al tempo e alla frequenza; ed è emerso che le donne utilizzano un tono di voce basso mentre gli uomini un tono alto ma entrambi cercano di imitare il tono di voce   del partner quando sono impegnati in una conversazione telefonica romantica.

Questo effetto potrebbe dipendere dal bisogno di appartenenza e di intimità ma anche una modalità per comunicare affetto e di connessione relazionale.

LEGGI ANCHE:

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALIVOCE & COMUNICAZIONE PARAVERBALEGENDER STUDIES

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Chi di pubblicità ferisce, di Popcorn perisce… PsicoEconomia

 

 

Si sa che la pubblicità subliminale ed il product placement all’interno di film e trasmissioni televisive funzionano, eccome! La Rayban ancora ringrazia il film Top Gun che l’ha salvata dal fallimento facendo schizzare le vendite dei suoi occhiali alle stelle e anche gli  spot televisivi influenzano i nostri comportamenti di consumo.
Come possiamo quindi difendere il nostro portafogli dall’effetto degli spot che ci spingono a comprare, comprare, comprare?! Un recente studio tedesco ha scoperto che sgranocchiare popcorn al cinema durante la pubblicità interferisce con quei meccanismi psicologici di esposizione al brand che portano lo spettatore a sviluppare un atteggiamento positivo verso la marca, riducendo così la probabilità di affiliazione al prodotto.
Insomma, meglio un attentato alla dieta che al portafogli… o forse no!?
Questo meccanismo che è stato indagato per via sperimentale viene battezzato “oral interference“, messo in atto appunto con l’ingestione di popcorn o la masticazione di chewing gum, mentre al gruppo di controllo veniva somministrata solamente una compressa di zucchero.
Lo studio è dell’Università di Colonia di cui riportiamo l’abstract:

Popcorn in the cinema: Oral interference sabotages advertising effects

Sascha Topolinski, Sandy Lindner, Anna Freudenberg

 

Abstract

One important psychological mechanism of advertising is mere exposure inducing positive attitudes towards brands. Recent basic research has shown that the underlying mechanism of mere exposure for words, in turn, is the training of subvocal pronunciation, which can be obstructed by oral motor-interference. Commercials for foreign brands were shown in cinema sessions while participants either ate popcorn, chewed gum (oral interference) or consumed a single sugar cube (control). Brand choice and brand attitudes were assessed one week later. While control participants more likely spent money (Experiment 1, N = 188) and exhibited higher preference and physiological responses (Experiment 2, N = 96) for advertised than for novel brands, participants who had consumed popcorn or gum during commercials showed no advertising effects. It is concluded that advertising might be futile under ecological situations involving oral interference, such as snacking or talking, which ironically is often the case. FULL ARTICLE

 

Popcorn in the Cinema: Oral Interference sabotages advertising EffectsConsigliato dalla Redazione

Popcorn e pubblicità al Cinema
Advertising uses repetition to increase consumers’ preference for brands. Initially, novel brands gain in popularity due to repetition, which increases the likelihood that consumers later buy the brands. Particularly for novel brands, excessive exposure and repetition is necessary to establish the b… (…)

Tratto da:

 

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Asessualità. Tra repulsione e indifferenza, lontano dal piacere.

 

Asessualità . - Immagine: © celianestudio - Fotolia.comSe le forme di rifiuto e di astensione dal sesso, generalmente definite come castità, sono sempre state dichiarate oltre che valorizzate in alcune culture religiose, negli ultimi anni è emerso l’interesse scientifico per quello che vuole essere descritto come un fenomeno “nuovo”: l’asessualità.

La storia della sessualità è stata soprattutto storia della repressione sessuale, dei meccanismi che l’hanno socialmente designata e culturalmente tramandata, fino all’epoca della tanto attesa (e mai pienamente raggiunta) liberazione sessuale.

L’epoca moderna e post-moderna sono state poi caratterizzate dall’ipersessualizzazione, dalla diffusione della pornografia e dalla banalizzazione dell’esperienza erotica, che hanno contribuito al calo del desiderio, sia maschile che femminile, in tutte le fasce d’età. Se le forme di rifiuto e di astensione dal sesso, generalmente definite come castità, sono sempre state dichiarate oltre che valorizzate in alcune culture religiose, negli ultimi anni è emerso l’interesse scientifico per quello che vuole essere descritto come un fenomeno “nuovo”: l’asessualità.

Il primo lavoro a riscontrare un dato significativo a riguardo è stato il rapporto Kinsey:

“nell’America degli anni ’50 la percentuale di chi non esprimeva nessun interesse per i comportamenti sessuali risultava andare da1l’ 1 al 4% negli uomini e dall’ 1 al 19% nelle donne. La ricerca sul tema viene rilanciata da Anthony Bogaert, professore di psicologia nell’ università canadese di Brock , che dal 2004 fino ad oggi si è occupato di analizzare quello che ha definito come « quarto sesso », una dimensione al pari delle altre nello spettro dell’orientamento sessuale”.

Nella prima ricerca di Bogaert su un campione britannico, l’ 1,05% delle persone intervistate ha dichiarato di “non essersi sentito mai sessualmente attratto da nessuno”.

Questa risposta correlata con altri dati ha permesso di trarre le seguenti conclusioni:

in media, questa parte del campione presentava un’età più alta della media e con maggiori problemi di salute; inoltre si trattava di persone non sposate né conviventi e che, sempre rispetto alla media, avevano iniziato a fare sesso più tardi .

Queste ricerche sono state sostenute e approfondite da David Jay, fondatore nel 2001 dell’associazione Asexuality Visibility and Education Network (AVEN) che oggi conta 42 mila membri in tutto il mondo, dei quali 2 mila in Italia.

In un sondaggio internazionale realizzato da AVEN con la partecipazione di 3 mila iscritti, il 28% ha ammesso di cedere alle richieste sessuali del partner occasionalmente, il 17% di farlo regolarmente e il 25% di rimanere fermo sulle proprie posizioni.

Mentre al pensiero di immaginarsi durante un atto sessuale il 17% ha provato repulsione totale, il 38% repulsione moderata e il 27% indifferenza.

Questi dati, insieme alle interviste e ai racconti di vita, vengono presentati da AVEN in pubblicazioni e convegni, con l’intento di “informare chi non prova pulsioni sessuali e raggiungerlo perchè non si senta solo e diverso; educare le persone sia asessuali sia non, aiutandole ad approfondire la propria conoscenza del fenomeno; aumentare la visibilità per una futura integrazione tra stili di vita diversi”.

Lo scopo primario sembra quindi essere il riconoscimento sociale di una “categoria di persone” che vuole rimanere svincolata ma anche accettata dalle altre. Il proclamo è l’ orgoglio di vivere questa condizione non come una scelta ma come un orientamento sessuale, al pari di quello eterosessuale, omosessuale e bisessuale.

In una società nella quale avere una sessualità attiva e regolare è assimilata alla normalità, l’asessualità non vuole essere annessa a un trauma o ad una patologia.

Certamente le novità più recenti sono il coming out delle persone che si definiscono asessuali, con la voglia di sostenere le proprie motivazioni nonchè, soprattutto nei mass media, con il bisogno di conoscersi e di riconoscersi.

Come riflessione sulle ultime pubblicazioni in merito e sull’invito alla sessuologia ad assumere il punto di vista asessuale, in un gioco di specchi fra la follia della sessualità e la follia dell’asessualità, viene da spostare il focus della discussione dalla mancanza d’interesse per il sesso all’assenza del piacere.

Mi piace ricordare le parole di Foucault, che in una intervista del 1978 affermava:

Credo che sia molto difficile intraprendere una lotta nei termini della sessualità senza, a un certo punto, trovarsi intrappolati da nozioni come quelle di malattia della sessualità, patologia della sessualità, normalità della sessualità.” Per preservare la sessualità, nel corso della sua opera Foucault aveva spostato l’obiettivo sul piacere, prendendolo come “un semplice evento, un evento che si produce, che si produce al limite del soggetto, o tra due soggetti”.

Il piacere, dunque, questo semplice evento che si verifica o non si verifica, concerne soprattutto se stessi e, nella condivisione diventa la caratteristica prima della relazione con l’altro.

Data per raggiunta la legittimità e la legittimazione dell’asessualità, c’è una domanda che rimane ancora senza risposta: dov’è il piacere?

 

LEGGI ANCHE:

Asessualità: Scelta, Patologia o diverso Orientamento Sessuale?

SESSO – SESSUALITA’ – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

IPERSEXUAL DISORDER: SARA’ INCLUSO NEL DSM – V?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Disturbo Evitante di Personalità – Il riconoscimento delle emozioni

Di Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo

 

Disturbo evitante di personalità - Il riconoscimento delle emozioni. -Immagine: © aleshin - Fotolia.comI pazienti con Disturbo evitante di personalità  rispetto a quelli con disturbo borderline avevano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente. La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo. 

La conoscenza sul disturbo evitante di personalità (DEP) si è approfondita negli ultimi anni. Appare sempre più evidente che si tratta di un disturbo diffuso, grave, co-occorrente con numerosi disturbi sintomatici e comportamentali – quali disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi alimentari, abuso di sostanze e alcool –  e per il quale mancano modelli di trattamento di provata efficacia. 

Significativi passi avanti nella conoscenza dell’evitante riguardano l’importanza che hanno i problemi nella conoscenza e regolazione delle emozioni in questi pazienti. Sembra consolidato il dato che la difficoltà a identificare i propri affetti è un aspetto tipico del DEP. Studi recenti portano dati specifici.

I pazienti con DEP rispetto a quelli con disturbo borderline avevano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente.

La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo (Johanssen et al., 2013). La carenza nell’identificare l’interesse è coerente con l’idea che in questi pazienti ci sia un’inibizione del sistema esploratorio, che li porta ad essere riluttanti a muoversi in ambienti (sociali) ignoti.

Due studi condotti con i nostri colleghi a Indianapolis e Roma portano dati che illustrano ulteriormente le caratteristiche di scarsa conoscenza e regolazione emozionale nel DEP.

In un campione di veterani di guerra in trattamento per abuso di sostanze, è emerso che non la sola alessitimia, ovvero la scarsa consapevolezza dei propri affetti, prediceva nel campione di pazienti analizzati la presenza di disturbo evitante. Solo un sottogruppo che oltre a scarsa alessitimia aveva bassa Mastery metacognitiva presentava infatti tratti marcati di DEP.

In sintesi, tratti evitanti in pazienti che abusano di sostanze sembrano associati da una combinazione di scarsa consapevolezza degli affetti e insufficienti strategie di regolazione del comportamento sociale basate su una conoscenza adeguata sugli stati mentali.

In termini semplici: se un paziente non ha buona consapevolezza degli affetti ma adotta strategie funzionali, del tipo “quando sono teso faccio esercizio fisico e mi calmo” difficilmente avrà tratti evitanti. Se invece ha scarsa consapevolezza degli affetti, non riesce a dire meglio di “sono teso” e non ha buona mastery “quando sono teso non so che fare, sono nervoso, irritabile” probabilmente avrà aspetti evitanti (Lysaker et al., in stampa). Questo può aprire la strada all’uso di sostanze come modalità maladattiva di regolazione degli affetti.

I pazienti con DEP inoltre, sembrano avere una tendenza peculiare ad inibire le proprie emozioni, molto più che in altri disturbi del cluster C e in modo opposto a pazienti con disturbo borderline di personalità (Popolo et al., proposto per la pubblicazione).

Nel complesso sembra che approfondire la conoscenza sugli aspetti disfunzionali nella conoscenza e regolazione degli affetti permetterà di conoscere ulteriormente i meccanismi che sostengono il DEP con la speranza di trattare più efficacemente sia il disturbo stesso che i disturbi sintomatici e comportamentali ad esso associati.

LEGGI ANCHE:

DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’ – DROGHE & ALLUCINOGENI – DISTURBI DI PERSONALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Io, io, io… cosa ci svela l’utilizzo dei pronomi. – Personalità & Autostima

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

James W. Pennebaker, chair del dipartimento di Psicologia dell’Università del Texas, è autore di uno studio particolarmente interessante, in quanto ribalta una credenza del senso comune: che chi usa spesso il pronome “io” sia in generale più sicuro di sé, più potente e con uno status superiore agli altri.

Niente di più falso.
L’utilizzo del pronome “io” è incredibilmente potente in quanto orienta la percezione all’interno della conversazione. Un esempio su tutti è l’istruzione del terapeuta nelle terapie di coppia di utilizzare il più possibile il pronome “io” al posto del “tu”

Es:  non si deve dire “tu non mi ascolti” bensì “io non mi si sento ascoltato“.  Le frasi impostate con “io” sono percepite come meno accusatorie. E non è poco.

Tornando all’ “io” e a quello che svela dell’autostima delle persone e del loro rango percepito, il Dr. Pennebaker spiega: La persona di status elevato guarda al resto del mondo mentre quella di rango inferiore guarda a se stessa. Da qui, l’uso differente dei pronomi che plasma l’intera organizzazione del discorso e di conseguenza del “frame” della comunicazione (per dirla con Lakoff).
Cinque distinti esperimenti sono stati effettuati per indagare le ipotesi di partenza, i risultati dello studio sono stati pubblicati nel libro: “The Secret Life of Pronuons”.

Dr. Pennebaker has found heavy “I” users across many people: Women (who are typically more reflective than men), people who are more at ease with personal topics, younger people, caring people as well as anxious and depressed people. (Surprisingly, he says, narcissists do not use “I” more than others, according to a meta-analysis of a large number of studies.)

And who avoids using “I,” other than the high-powered? People who are hiding the truth. Avoiding the first-person pronoun is distancing.

What saying ‘I’ says about youConsigliato dalla Redazione

Researchers say that your usage of the pronoun ‘I’ says more about you than you may realize. (…)

 

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Gli scritti ritrovati di Roberto Lorenzini – Un semplice caso
Continua la pubblicazione a puntate dei racconti "Gli scritti ritrovati", di Roberto Lorenzini e a cura di Pierangelo D'Ambra.
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La Sindrome dell’Impostore: sentirsi indegni del proprio successo – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La Sindrome dell’impostore (Imposter Syndrome) non è una vera diagnosi, ma un modo colloquiale tra gli addetti ai lavori per definire un preciso stato mentale: quello di chi si sente un imbroglione, un truffatore, indegno del proprio successo nonostante le molte evidenti prove che ne dimostrano i meriti e talenti.

In questo interessante articolo si parte da un aneddoto paradigmatico: le poche donne che sono riuscite a imporsi nella Silicon Valley Californiana (la Mecca dell’high tech, un ambiente ancora totalmente dominato da uomini) subiscono un tale livello di ostracismo che riesce ad oscurare i successi e le conquiste personali e di squadra fino all’insorgere della paradossale sindrome dell’impostore.

Non importa quanto sei bravo o quanto hai dimostrato sul campo, la generale diffidenza percepita nei tuoi confronti ti porterà in quello stato mentale in cui ti domandi se per caso non sia tutta fortuna, se tu non sia un impostore.

L’articolo prosegue con 6 consigli per tenere sotto controllo la sindrome dell’impostore e vivere serenamente i tuoi successi lavorativi. Consigli utilissimi, per le donne così come per gli uomini!


“Note that ‘imposter syndrome’ is not a real diagnosis,” according to Dr. Simon Rego, director of the CBT Training Program at Montefiore Medical Center/Albert Einstein College of Medicine in New York. It’s simply intended to describe the psychological phenomenon when people feel like frauds, despite clear evidence of merit.

“If people can learn to look objectively for evidence for the fact that they are competent (instead of only evidence against it), they will start to believe it – and feel less like an imposter!” Rego says.

So ask yourself objectively: Did luck really play a role in your success? Did you work harder than others on your team like Grosz?

 

Imposter Syndrome: Do You Ever Feel Undeserving of Your Success? | CareerBlissConsigliato dalla Redazione

Silicon Valley is famously male-dominated. And, unfortunately, she tells us that “brogrammers” sometimes don’t treat women as equals at work. (…)

Tratto da: CareerBliss

 

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LEGGI ANCHE: AUTOCRITICISMO, DA USARE A PICCOLE DOSI


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Menopausa, Yoga e i rimedi contro l’Insonnia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Praticare yoga può contribuire ad alleviare i sintomi della menopausa.

La donna è sottoposta nel corso della sua vita a cambiamenti del proprio corpo, basti pensare alla pubertà, alla gravidanza e infine alla menopausa. Ogni tappa incide sulla vita della donna e sulla sua capacità di adattarsi. Spesso la menopausa è vissuta in maniera drammatica dalle donne perché viene identificata con l’inizio dell’invecchiamento.

Gli effetti della menopausa sono variabili e dipendono anche dall’ambiente sociale, dal livello culturale della donna e dal suo stato generale di salute. Generalmente l’età media in cui si ha riscontro della menopausa oscilla tra i 50-52 anni (menopausa spontanea).

La sintomatologia della menopausa è alquanto variegata, può essere caratterizzata da vampate di calore, il soggetto avverte notevoli sbalzi della temperatura, si verifica ipersudorazione e  un notevole arrossamento del collo e della nuca. Invece i disturbi del sonno sono frequenti nell’immediato periodo post-menopausa; si possono avere difficoltà ad addormentarsi, sonno agitato e nel caso peggiore l’insonnia.

Secondo uno studio condotto dalla ricercatrice Katherine Newton presso il Group Health Research sostiene che praticare yoga possa contribuire ad alleviare i sintomi della menopausa.

E’ stata effettuata una ricerca randomizzata denominata “MeFlash” per verificare se gli approcci naturali, tra cui lo yoga, l’esercizio fisico e l’assunzione di olio di pesce nella dieta, potessero alleviare i sintomi della menopausa.

Questo studio ha preso in esame 249 donne e sono state suddivise in diversi gruppi. Un primo gruppo doveva fare degli esercizi di yoga, un altro  praticare un programma di esercizi di aerobica, il terzo gruppo doveva assumere degli integratori alimentari a base di acidi grassi omega tre; infine sono stati confrontati con un gruppo placebo e anche con coloro che non praticavano nessuna attività fisica.

I risultati di questo studio hanno evidenziato l’importanza dell’esercizio fisico che sembra essere collegato ad una riduzione della depressione e dell’insonna. Anche praticare lo yoga è stato associato ad una migliore qualità del sonno e dell’umore. E’ bene tuttavia dire che gli effetti non erano statisticamente cosi significativi. Invece per quanto riguarda gli omega tre sembrano non apportare nessun miglioramento significativo né alla qualità del sonno, né alla vampate di calore e alla sudorazione notturna.

Questi risultati suggeriscono che si possono ottenere dei miglioramenti solo quando si praticano discipline fisiche come lo yoga per un periodo prolungato e costante, ma non mostrano progressi significativi con l’ausilio di integratori alimentari. In ogni caso i disturbi legati al climaterio possono trovare giovamento dallo sport inducendo un benessere generale mentale e fisico.

LEGGI ANCHE:

SONNOINSONNIAYOGATERZA ETA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Misurare la patologia mentale con il DSM 5… Ecco le novità!

 

DSM 5 CoverEd ecco apparire sulla scena il DSM 5, cinque e non quinto! Sì, noi, in Italia, dobbiamo ancora aspettare il prossimo anno per avere tra le mani il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ma i suo contenuti già riecheggiano.

Con l’avvento del DSM 5, cambia la modalità di misurazione della patologia mentale. Una nuova nomenclatura da cui sono stati estratti nuovi modi di misurare. I test, nuovi di zecca e tutti self report, sono stati ideati per essere somministrati al paziente durante la fase di assessment, e in tempi successivi, per monitorarne il progresso in corso di trattamento e la remissione della  gravità dei sintomi. In questo modo si favorisce il confronto tra inizio e fine trattamento. Le scale dovrebbero essere utilizzate per potenziare il decision-making clinico e non solamente come base per la diagnosi clinica.

Le scale di valutazione possono essere classificate a grandi linee in 4 tipi:

• Le scale di misurazione dei sintomi cross-cutting che possono essere utili ad una valutazione globale dello status mentale, orientando l’attenzione ai sintomi riconosciuti come trasversali in tutte  le diagnosi. Si tratta di sintomi legati al funzionamento generale e all’Asse I. Queste scale aiutano a identificare delle aree di indagine aggiuntive, come memoria, pensieri ripetitivi, uso di sostanze, che forniscano una guida al trattamento e alla prognosi. Sono costituite da due livelli: il Livello 1 è strutturato sotto forma di test volti ad indagare i diversi domini patologici  degli adulti,  bambini e adolescenti. Il Livello 2 è strutturato in modo da fornire una valutazione più approfondita di alcuni domini specifici, come ansia, depressione, mania, disturbi del sonno, etc. Si tratta sempre di misure molto brevi e generiche volte a valutare la presenza o meno del sintomo stesso.

Le scale specifiche, più dettagliate delle precedenti, valutano la gravità del singolo disturbo in tutta la sua manifestazione.  Queste scale possono essere somministrate alle persone che hanno ricevuto una diagnosi o in attesa della stessa. Alcune valutazioni sono auto-somministrate, mentre altre vengono somministrate dal clinico.

• La World Health Organization Disability Assesment Schedule, versione 2.0 (WHODAS 2.0) valuta l’abilità del paziente di portare a termine attività appartenenti a 6 aree: comprensione e comunicazione; evitamento; cura di se; relazioni con i pari; attività quotidiane (casa/famiglia, lavoro/scuola); partecipazione sociale. La scala è auto-somministrata (o dal caregiver) e corrisponde ai concetti contenuti nella WHO International Classification of Functioning, Disability and Health.

• I Questionari, e non interviste semistrutturate, di Personalità del DSM-5 misurano i tratti disadattivi divisi  in 5 domini: sentimenti negativi, separazione, antagonismo, disinibizione e psicoticismo. Per gli adulti e i bambini a partire dagli 11 anni, sono disponibili versioni brevi composte da 15 item e versioni complete di 220 item suddivise in diverse 25 sottoscale  che possono essere riassunte ulteriormente nei 5 domini di base. E’ inoltre disponibile una versione completa per il caregiver.

Ci sono inoltre, delle misure addizionali, Additional Assessment Measures

• L’ Early Development and Home Background (EDHB) può essere utile nella valutazione dello sviluppo primario e del background di esperienze familiari passate e attuali di un bambino che riceve cure. Ne sono state fornite due versioni: una compilata dal genitore o dal caregiver del bambino, l’altra deve essere compilata dal clinico.

• La Cultural Formulation Interview (CFI) è costituita da 16 domande che i clinici possono utilizzare durante una valutazione della salute mentale per ottenere informazioni sull’impatto della cultura negli aspetti chiave della presentazione clinica e della cura di un individuo.

• La Cultural Information Interview- versione per il caregiver raccoglie informazioni collaterali sui domini del CFI dai familiari o dai caregiver.

• La Supplementary Modules to the Cultural Formulation Interview può essere d’aiuto al clinico per condurre una valutazione culturale più esaustiva. I primi 8 moduli supplementari esplorano i domini centrali del CFI in profondità. I successivi 3 moduli si focalizzano sulle popolazioni con specifici bisogni, come ad esempio i bambini e gli adolescenti, gli anziani, gli immigrati e i rifugiati. L’ultimo modulo esplora le esperienze e i punti di vista degli individui che si occupano di caregiving.

Insomma, queste in breve sono le novità che il DSM 5 ci riserva, e prima del suo grande debutto possiamo cominciare e familiarizzare con alcune grandi cambiamenti che determineranno una svolta nell’era della psicodiagnosi.

LEGGI ANCHE:

Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – DSM5

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE 2

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

 -Pt. 2-

Autoregolazione delle emozioni e attaccamento materno – infantile

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile - PARTE 2. -Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comLa capacità di sintonizzazione del genitore è un mediatore privilegiato nella trasmissione dei modelli di attaccamento.

Fin dalla nascita tra madre e bambino si costituisce un sistema di regolazione affettiva, che permette un’oscillazione continua tra comunicazioni riuscite ed errate.
La madre svolge quindi fin dall’inizio una funzione trasformativa nei confronti delle emozioni proprie e del bambino, in particolare di quelle negative.
La mancata azione trasformativa e regolativa induce al ricorso prolungato di forme di autoregolazione che possono intaccare le sue nascenti capacità relazionali (Tronick, 1989), tra queste, una delle più precoci appare il distogliere lo sguardo dallo stimolo stressante, condotta che è in grado di decelerare il battito cardiaco.

Nei primi 2-3 mesi di vita compaiono i comportamenti centrati sul succhiare e/o manipolare parti del proprio corpo o dell’immediato ambiente circostante,  sempre al fine di auto-consolarsi. Particolarmente interessanti a tal proposito sono i risultati delle ricerche ottenuti utilizzando il paradigma del volto immobile, Still Face (Cohn e Tronick,1983).

A fronte del volto non responsivo della madre, il bambino intensifica inizialmente i suoi sforzi comunicativi rivolti a quest’ultima accentuando il sorriso, le vocalizzazioni e l’intensità dello sguardo; con la persistenza dell’inespressività del volto materno, egli dapprima rivolge lo sguardo altrove e assume anch’egli una mimica inespressiva, poi fa ricorso alla stimolazione di parti del proprio corpo ed alla manipolazione dei propri indumenti (Tronick, 1989).

Esemplare a questo riguardo è il lavoro di Slade e Haft (1999) che, considerando la responsività come capacità della madre di condividere gli affetti positivi e negativi del proprio bambino, ha evidenziato l’esistenza di una correlazione specifica tra i Modelli Operativi Interni della madre circa l’attaccamento, indagati attraverso l’Adult Attachment Interview e la sua capacità di sintonizzarsi con il figlio.

L’ipotesi sostenuta è che la capacità di sintonizzazione del genitore sia un mediatore privilegiato nella trasmissione dei modelli di attaccamento. Le madri classificate sicure attraverso l’AAI, secondo questo studio, sono capaci di rispondere in modo sintonizzato ai diversi stati emotivi positivi e negativi, espressi dal proprio bambino durante le sessioni di gioco libero previste dalla ricerca.

Le madri distanzianti, si rilevano incapaci di sintonizzarsi con le emozioni negative manifestate dai figli, non accogliendo in particolare le loro richieste di prossimità e consolazione, operando invece sintonizzazioni selettive in relazione alle esperienze positive di padronanza vissute dal bambino.

Al contrario le madri preoccupate si dimostrano parzialmente in grado di rispondere alle richieste di consolazione e prossimità dei loro figli, ma incapaci invece di rispecchiare quelle legate alla loro padronanza e autonomia.

Altri fattori significativi nel determinare la responsività della madre sono quelli contestuali, tra i quali spicca il grado di coinvolgimento del padre nella relazione con la madre. Lo scarso coinvolgimento del padre sembra determinare, infatti, un aumento degli scambi affettivi negativi tra madre e bambino, provocando, se ciò si verifica in un periodo precoce dello sviluppo infantile, modificazioni nei patterns di attaccamento.

LEGGI ANCHE:

ATTACCAMENTO – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VOCE & COMUNICAZIONE PARAVERBALE

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Riabilitare il dolore da arto fantasma con la tDCS

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La tDCS (transcranical direct current stimulation) è una tecnica di stimolazione cerebrale, in questo studio è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci

E’ una tecnica non invasiva, di recente e crescente impiego nelle neuroscienze per la riabilitazione di svariate patologie neurologiche e non: afasia, emiplegia, negligenza spaziale unilaterale, demenza, emicrania, depressione, dipendenze e altre patologie psichiatriche.

La tDCS influenza l’eccitabilità corticale attraverso l’erogazione di corrente elettrica continua sullo scalpo a bassa intensità (2 mA), attraverso due elettrodi: l’anodo e il catodo; la stimolazione anodica provoca la depolarizzazione del potenziale di membrana, inducendo un incremento nell’attività neurale spontanea e quindi un aumento dell’eccitabilità corticale nell’area stimolata della corteccia cerebrale, mentre il catodo, al contrario, attraverso l’iperpolarizzazione del potenziale di membrana inibisce l’attività della corteccia sottostante.
In questo studio la tDCS è stata applicata con l’intento di modulare il dolore da arto fantasma (PLP, phantom limb pain), difficilmente trattabile con i farmaci. A seguito dell’amputazione di un arto è possibile che il paziente abbia la sensazione cinestesica, motoria e/o sensoriale che la parte amputata sia ancora presente (sensazione fantasma).

Quando la sensazione fantasma si associa a dolore si parla di PLP. Le cause di questo fenomeno sono rintracciabili in meccanismi psicologici, periferici, a livello spinale e a livello corticale; è a quest’ultimo livello, sui meccanismi di plasticità corticale, che agisce la tDCS.

La letteratura disponibile sul dolore da arto fantasma imputa il fenomeno a meccanismi di riorganizzazione corticale: a livello di S1 (corteccia somatosensoriale primaria) l’area di rappresentazione del volto si espande invadendo l’area deafferentata nell’emisfero controlaterale all’arto amputato, e a livello sia di S1 che di M1 (corteccia motoria primaria) l’area in cui è rappresentata la bocca invade l’area deputata alla rappresentazione dell’arto amputato.
In un primo studio sono stati confrontati gli effetti sul fenomeno dell’arto fantasma in 4 condizioni diverse: stimolazione eccitatoria di M1, eccitatoria e inibitoria di PPC (corteccia parietale posteriore) e sham (un altro vantaggio della tDCS è che permette di condurre studi in doppio cieco, in quanto nella condizione sham l’apparecchio interrompe l’erogazione di corrente impercettibilmente dopo 30 secondi e la condizione sham o real è determinata dal codice che viene inserito nell’apparecchio alla sua accensione).

Le valutazioni del dolore sono state eseguite mediante la compilazione di VAS (scale graduate di 10 cm), prima dell’inizio della seduta, al suo termine e dopo 90 minuti. I risultati hanno mostrato una diminuzione statisticamente significativa del dolore, immediatamente dopo la fine della seduta di stimolazione eccitatoria su M1, effetto che svanisce dopo 90 minuti, e non è presente in seguito nelle altre 3 condizioni di stimolazione.
Alla luce di questi risultati la tDCS eccitatoria è stata applicata su M1 controlaterale al lato dell’amputazione in 10 sedute da 15 minuti di cui 5 sham stimulation e altre 5 real stimulation (sempre in doppio cieco) in uno studio single case.

I risultati mostrano che la stimolazione eccitatoria di M1 in 5 sessioni ripetute è in grado di ridurre il PLP a lungo termine (follow-up fino a 2 mesi), e anche il dolore al moncone.

 

LEGGI ANCHE:

NEUROSCIENZEDOLORE

SCHIENA DRITTA! COME LA POSTURA (NOSTRA E DEGLI ALTRI)

INFLUENZA LA SOGLIA DEL DOLORE

BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia di gruppo per il Disturbo Bipolare a Firenze.

Scuola Cognitiva di Firenze 

Terapia di gruppo per il Disturbo Bipolare

da Novembre 2013

 

Terapia di gruppo per il disturbo Bipolare. Scuola Cognitiva di FirenzeLa terapia è rivolta a pazienti bipolari attualmente in buon compenso psicopatologico. Prima dell’inizio degli incontri verrà effettuato un colloquio clinico ed una valutazione psicodiagnostica che sarà ripetuta al termine dei 10 incontri per monitorare i risultati della terapia.

 

PSICOEDUCAZIONE PER IL DISTURBO BIPOLARE

Il Disturbo Bipolare ha una prevalenza nella popolazione tra il 3 ed il 5%, con conseguenze sulla qualità della vita molto negative. Negli ultimi anni è stata ampiamente dimostrata l’efficacia della Psicoeducazione nella prevenzione delle ricadute e nel miglioramento della qualità di vita delle persone con disturbo bipolare. Il trattamento di gruppo proposto da Colom e Vieta della sezione Psicoeducazione del Barcelona Bipolar Disorder Program, è attualmente l’intervento psicoterapico migliore nell’ integrare e potenziare l’efficacia della terapia farmacologica nella cura del disturbo bipolare.

ORGANIZZAZIONE, COSTI e SCOPI della TERAPIA

La terapia si svolgerà in un gruppo composto da un massimo di 15 persone. Si strutturerà in 10 sessioni a cadenza settimanale, della durata di un ora e mezza ciascuna, dalle 18.30 alle 20.00 presso la sede in via delle Porte Nuove, 10 Firenze .

COSTO 300 euro (IVA inclusa)

Lo scopo della terapia è quello di migliorare la qualità della vita di chi soffre di Disturbo Bipolare ed apprendere una tecnica che aiuti il paziente ad aver un minor numero di ricadute. Questo avverrà attraverso l’aiuto a gestire meglio le crisi, a riconoscere i segnali iniziali ed affrontarli precocemente.

TEMI DELLE SESSIONI:

1) Descrizione generale della terapia di gruppo, introduzione e definizione.

2)Descrizione e definizione del Disturbo Bipolare 

3)Sintomi maniacali e ipomaniacali indotti da sostanze

4)Sintomi di Stato Misto e Depressivi

5)Decorso ed andamento del disturbo

6)Terapie farmacologiche: stabilizzanti dell’umore

7)Terapie a base di antidepressivi e ansiolitici

8)Prevenzione delle ricadute

9)Gestione della fase di scompenso

10)Restituzione e conclusioni

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TUTTI GLI ARTICOLI SUL DISTURBO BIPOLARE 

Il bacio. Lo usiamo per orientarci nella scelta del partner e per tenercelo vicino – Psicologia & Antropologia

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Una ricerca dell’Università di Oxford condotta dal Prof. Robin Dunbar sul significato antropologico e sociale del bacio. 

‘Mate choice and courtship in humans is complex,’ said Professor Robin Dunbar. ‘It involves a series of periods of assessments where people ask themselves “shall I carry on deeper into this relationship?” Initial attraction may include facial, body and social cues. Then assessments become more and more intimate as we go deeper into the courtship stages, and this is where kissing comes in.’

[…]

To understand more, Rafael Wlodarski and Professor Robin Dunbar set up an online questionnaire in which over 900 adults answered questions about the importance of kissing in both short-term and long-term relationships.

Rafael Wlodarski explained: ‘There are three main theories about the role that kissing plays in sexual relationships: that it somehow helps assess the genetic quality of potential mates; that it is used to increase arousal (to initiate sex for example); and that it is useful in keeping relationships together. We wanted to see which of these theories held up under closer scrutiny

Kissing helps us find the right partner – and keep them – University of OxfordConsigliato dalla Redazione

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
What’s in a kiss? A study by Oxford University researchers suggests kissing helps us size up potential partners and, once in a relationship, may be a way of getting a partner to stick around. (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Tutti gli articoli su: Rapporti Interpersonali
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