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Avere debiti mette a rischio la salute mentale

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Che avere debiti potesse essere fonte di stress si sapeva, quello che hanno evidenziato i ricercatori dUniversità di Southampton e della Kingston University, è che avere debiti può aumentare la probabilità fino a tre volte in più di avere una patologia mentale.

Gli studiosi hanno fatto una revisione delle ricerche precedenti raggiungendo un campione di 34 mila soggetti.

Quello che emerge è che coloro che presentavano problemi mentali  avevano patologie  quali depressione, psicosi, tossicodipendenze e alti rischi suicidari. Non è chiara, come sottolinea il dottor Thomas Richardson, Psicologo Clinico dell’Università di Southampton, quale sia la relazione tra debiti e malattia mentale. Quello che viene rilevato in sostanza è che chi presenta una situazione economica di debito spesso presenta anche una malattia mentale.


è difficile stabilire cosa causa cosa: potrebbe infatti essere che siano i debiti a causare problemi mentali o che siano problemi mentali già esistenti a spingere le persone a indebitarsi, magari perché tendono a non avere un’occupazione lavorativa regolare. Infine, ipotizzano i ricercatori, la correlazione potrebbe essere ambivalente: una crea l’altra e viceversa, in diversi casi.

 

I debiti fanno perdere la testaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
(…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Le neuroscienze cognitive in tribunale

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Le neuroscienze cognitive, con riferimento a tecniche di neuroimaging funzionale,  possono influenzare le perizie in ambito penale: punti di vista in contrasto rispetto all’uso o meno di tali tecniche.

Nell’ultimo decennio le neuroscienze cognitive hanno conosciuto un vero e proprio boom. Lo sviluppo dello studio delle basi neurobiologiche delle nostre abilità mentali più alte – come linguaggio, ragionamento, intenzione, memoria e percezione – è stato tumultuoso. Per “osservare” la relazione tra attività cerebrale e abilità mentali, i neuroscienziati cognitivi utilizzano tecnologie di neuroimaging funzionale che misurano il metabolismo del cervello e che sono ormai entrate nelle aule dei tribunali, sia negli Stati Uniti che in altri paesi. Tra questi anche l’Italia. Una delle applicazioni più controverse di questa metodica è la prova del vizio di mente nel processo penale.

 

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Tratto da: Giornalettismo

 

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Sono un istrione: Uno, nessuno, centomila!

 

Sono un istrione: uno, nessuno, centomila. - Immagine: © George Mayer - Fotolia.comL’Istrione non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Sono un istrione! Cantava Aznavour in una nota canzone non più contemporanea.

Seduttivo e affascinante, dedito a voler fare colpo sull’altro ponendosi sempre al centro dell’attenzione, manipolatore e fatuo: questo è l’istrione.

Si tratta di un abile attore che si cala nel ruolo della sua vita e recita una parte, fingendo di essere chi non è.

Una sola persona dai tanti volti o nessuno, come diceva Pirandello in un noto romanzo? In realtà è una e una sola persona che debutta sul palcoscenico della sua vita con tante maschere, una per ogni occasione. Recita quotidianamente e per questo non riesce ad uscire dal personaggio: è l’unico modo che conosce per ricevere consensi.

E se il pubblico non ci fosse? Viene fuori per quello che è realmente, un depresso! Il fulcro della sofferenza dell’istrionico è determinato dal profondo senso di indegnità, mancanza d’affetto, inadeguatezza a badare a se stesso.

Dietro alla maschera che indossa , c’è un dolore profondo, che cerca in ogni modo di arginare, per paura di soccombere o perché dietro esiste la vana convinzione che se scoprissero quello che è realmente, disprezzabile/non amabile, gli altri possano lasciarlo solo non prendendosi cura di lui.

Ambienti familiari caotici, contraddittori, senza regole, facilitano l’insorgenza di questo disturbo. Si tratta, spesse volte,  di rapporti che si basano sulla non autenticità, dove si considera solo l’apparire e non l’essere. I rapporti, così impostati appaiono immediatamente superficiali e i bisogni sono considerati subordinati all’apparire. 

Il bambino di quel nucleo familiare non è preso sul serio; è sempre troppo piccolo, troppo stupido, troppo poco importante per rispondere alle domande, potrebbe essere rimproverato per qualcosa che subito dopo non costituisce più un problema. La conseguenza di questo atteggiamento è non essere in grado di pensare in maniera autonoma, perciò non essere capace di crescere.

L’istrionico non sa riflettere sui propri stati mentali e assumersi delle responsabilità, così individua come proprio il pensiero dell’altro. I genitori recitano una parte e il figlio si adegua, adottando gli stessi valori di conformismo, o recitando il copione opposto: il migliore appetibile, il ribelle, la pecora nera, sempre di recita si tratta! Il prezzo da pagare: l’inautenticità, l’estraneità da se stesso, la mancanza di identità. Presto impara che da solo non ce la fa e cerca qualcuno che possa accudirlo, previo il senso di colpa. Capisce che ciò che conta è la maschera che indossa, perché cela il vuoto dei sentimenti, la mancanza di verità, calore, riconoscimento.

Non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Dietro questa maschera è velata la rabbia di essere squalificato, ignorato, svalutato, non riconosciuto, abbandonato. La rabbia di chi, giunto sulla scena della sua vita, è stato non visto come persona, ignorato, criticato, disprezzato. La maschera copre la rabbia e la trasforma in seduzione, creatività, fascino,”ti sedurrò, così avrò la tua ammirazione!“.

L’istrionico vuole lodi, ammirazione, plausi, o addirittura riconoscenza. Guai a criticare lo show di un istrionico: si allontana e diventa un nemico. Essere lontano dalle luci della ribalta, aumentano la ferita, il dolore, il senso di disgusto per se stesso che lo investe come un guanto. Meglio essere fatui che autentici! Se fallisce, nel non essere riconosciuto, rischia di ricadere nel vissuto depressivo, di entrare in contatto con quella parte di sé, fragile, debole, triste, che non vuole assolutamente far vedere e provare.

Di qui il grande bisogno di affermare la propria persona che, per alcuni aspetti, potrebbe far confondere col narcisista che è innamorato di se stesso, mentre l’istrionico è innamorato della sua immagine. Ma essere stregati dal proprio riflesso porta ad allontanarsi dai sentimenti e crea un profondo senso di insicurezza e sfiducia. Si genera una screpolatura shakespeariana, essere o non essere, difficile e dolorosa da sanare. L’istrionico ha un doppio, Doppelgänger, diviso in cattivo/depresso e buono/maschera.

La maschera deve  suscitare nell’altro ammirazione, invidia, fascino, e permettergli di conquistare una preda del sesso opposto: di qui la seduzione sessuale e il bisogno di competere in amore.

La conquista di un partner, specie se difficile, ricercato, magari già impegnato, fornisce all’istrionico una sorta di sfida, ma a questa fase, segue prima o poi una caduta dovuta alla delusione esperita nel momento in cui mosso dai limiti dell’altro, lo svaluta.

Successivamente vede se stesso come perdente per non essere stato capace di perseguire lo scopo principe della sua vita. L’istrionico scruta nel partner lo specchio del proprio valore e il bastone su cui poggiarsi nella vita. Il rapporto d’amore serve per l’autoaffermazione.

Spesso, l’ istrionico finisce in rapporti triangolari, nei quali ripropongono il loro menage familiare. Ciò accade soprattutto ai figli unici, che sostengono di instaurare tali relazioni per caso, senza volerlo, e interpretano questo evento come dettato dalla sfortuna: tutti gli uomini o le donne che a loro piacciono sono già legati.

In realtà, nel cercare partner non liberi, ripropone lo stile di attaccamento che aveva con i genitori. D’altra parte, ha paura di un rapporto in cui il partner sia libero, perché equivarrebbe ad impegnarsi in modo più serio, responsabile e totale. In questo modo verrebbe fuori per quello che è, un depresso, e questa intimità spaventa.

Ottiene apprezzamenti, mascherati, disprezzandosi, ottiene riconoscimento svalutandosi! Solo chi si svilisce crea un personaggio dietro cui nascondersi, solo chi non si ama può creare un falso amore per chi non è. Quindi, più l’immagine acquisisce valore a scapito della verità, più il dolore interiore diventa dilaniante. E ancora, più la tristezza si allarga e i confini si indeboliscono, più si recita un personaggio diverso da sé. In tal modo l’insicurezza di fondo aumenta.

Come potrebbe “salvarsi” un istrionico? Beh, facendo un saldo integrativo riconoscendo l’altro come persona, nella sua individualità con le proprie caratteristiche e aspettative, al di là del ruolo di pubblico di cui è investito.

Ciò avviene attraverso crisi depressive ed elaborazioni del lutto connesse alla mancanza di amore, quindi facendo pace con la parte “brutta” di se stesso, ma autentica e non fatua.

L’istrionico ama la sua immagine, e guarisce quando comincia ad amarsi, apprezzarsi come persona, abbandonando l’amore per il suo riflesso: deve vedersi per quello che è realmente incontrando e apprezzando la propria autenticità: il se stesso negletto e non apprezzato. Solo se impara ad amare il vero sé può amare gli altri. 

Sono un istrione!

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BIBLIOGRAFIA: 

Affrontare la Malattia e il Lutto (2013) – Recensione

Recensione del Libro:

Affrontare la malattia e il lutto

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Affrontare la malattia e il lutto  - copertinaIl libro “Affrontare il lutto e la malattia” cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Quando muore una persona cara, di colpo cessano tutte le nostre certezze e ci tocca fare i conti con l’assenza di qualcuno che è stato parte di noi. All’improvviso crolla il mondo sotto i nostri piedi e ci si sente impotenti e desiderosi di protezione. Ma cosa succede quando un lutto impatta nel mondo interno di un bambino? Quali parole trovare per una cosa già così inspiegabile per un adulto?

Il libro “Affrontare il lutto e la malattiarimanda proprio a questo e cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Il libro, scritto da vari autori ( S.M.G. Adamo; M. Badoni; C.M. Carlevaris; R. De Falco e I. Pick), fa parte della collana “Cento e Un Bambino”, collana di prospettiva psicoanalitica, diretta da Emanuela Quagliata e rivolta a tutti i genitori, composta da volumi monotematici riguardanti le tappe principali della vita di un bambino.

La lettura si presenta scorrevole, agevolata da un numero esiguo di pagine e da un formato molto ridotto. Talvolta gli autori si lasciano cadere in un linguaggio forse troppo tecnico per un genitore, tuttavia a fine volume viene presentato un piccolo glossario, contenente il significato dei vari termini scientifico-psicologici utilizzati.

Il libro offre una panoramica psicologica di quel che succede in una famiglia colpita da una grave malattia o da un lutto e del difficile ruolo di guida, per i più piccoli, che i vari caregiver, già distrutti dal dolore, dovrebbero ricoprire. Nelle pagine non viene presentata, tuttavia, una guida ai comportamenti da adottare o meno ma, cosa più importante, nel libro si tenta di comprendere quanto sia difficile affrontare un lutto, si rispetta il dolore e il tempo (a volte lungo) di riorganizzazione interna dei più grandi e, alla luce di questo, si cerca di illustrare le ricadute di ciò sui più piccoli e il modo migliore per accogliere le loro domande, i loro dubbi e la loro sofferenza, senza mascherare la propria.

Il libro è inoltre arricchito da capitoli su un tema che, per la sua natura altamente dolorosa, rimane spesso tabù: cosa succede quando tocca al bambino essere vittima di una grave malattia? Si snoda così la parte finale del libro, in cui vengono presentati diversi casi di supporto psicologico a bambini e a genitori, effettuati nei vari ospedali pediatrici.

Gli autori sembrano mettersi in gioco: attraverso tali casi, offrono parte della loro professionalità ed anche della loro sofferenza (perché, ahimè, nonostante il distacco, non siamo fatti di pietra!) per illustrare quanto sia importante intervenire non solo sul corpo del bambino ma anche sui suoi vissuti, sulle sue emozioni, sulle sue lecite domande. A questo proposito non nascondo quanto sia difficile rimanere impassibili dinnanzi ad alcune righe dei vari casi riportati, disagio tuttavia “accolto”, nel dispiegarsi del testo, dagli stessi autori, con un invito a dedicare più spazi di supervisione e discussione tra il personale curante (medici, infermieri e psicologi).

Nonostante la collana e il volume siano pensati per i genitori (con lutti da affrontare o non), consiglio la lettura del volume anche a psicologi e psicoterapeuti: l’esame puntiglioso dei vissuti interni legati a un lutto e i vari casi clinici presentati,  possono offrire uno spunto teorico ma soprattutto pratico, anche per i tanti che non seguono un orientamento psicoanalitico. 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Adamo, S.M.G.; Badoni, M.; Carlevaris, C.M.; De Falco, R.  e Pick, I. (2013) Affrontare il Lutto e la Malattia. In Quagliata, E., Cento e Un Bambino. Roma, Astrolabio- Ubaldini Editore.

 

 

Neuroscienze: scoperto un Circuito Cerebrale correlato all’Infertilità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’infertilità è un problema importante che affligge milioni di persone in tutto il mondo: considerando che i vari studi di popolazione danno un indice di fecondità (possibilità di concepire per ciclo) intorno al 25% in coppie giovani, i calcoli prevedono che nelle nuove coppie il 19% avrà problemi riproduttivi dopo 2 anni e che di queste il 4% sarà sterile e le altre coppie saranno subfeconde, cioè con un indice di fecondità 3 o 4 volte più basso della norma.

I ricercatori della New Zealand’s University of Otago hanno fatto una scoperta importante per la comprensione dei circuiti cerebrali fondamentali per la fertilità normale negli esseri umani e in altri mammiferi e per consentire la progettazione di nuove terapie per le coppie infertili e nuove forme di contraccezione.

Kisspeptin, una piccola proteina, e il suo recettore GPR54, era stato già identificato come cruciale per la fertilità negli esseri umani, ora, grazie agli studi del professor Herbison – direttore del University’s Centre for Neuroendocrinology, leader mondiale nello studio dei meccanismi cerebrali di controllo della fertilità – si scopre come questa molecola sia fondamentale anche perchè si verifichi l’ovulazione .

Herbison ha scoperto che le GnRH (gli ormoni di rilascio delle gonadotropine), prodotte dall’ipofisi, sono attivate dalla comunicazione tra i suoi recettori cellulari GPR54 e la proteina kisspeptin. In pratica quando la comunicazione fallisce non c’è ovulazione.

I ricercatori studiando i topi che non avevano recettori GPR54 nei neuroni GnRH, hanno scoperto che questi non avevano raggiunto la pubertà ed erano sterili. Hanno poi dimostrato che i topi infertili potevano tornare alla fertilità, inserendo il gene GPR54 in pochi neuroni GnRH .

Secondo Herbison, questi risultati rappresentano un passo in avanti sostanziale per consentire nuove cure per l’infertilità e lo sviluppo di nuovi contraccettivi.

La nostra nuova comprensione del meccanismo esatto attraverso il quale kisspeptin funge da controllore della riproduzione è un importante passo avanti che apre nuove strade per affrontare quello che è spesso un problema di salute straziante. Attraverso i dettagli di tale meccanismo ora abbiamo un interruttore chimico chiave grazie al quale i farmaci possono essere mirati“, spiega il professor Herbison .

Inoltre la proteina kisspeptin può rivelarsi utile nel trattamento di malattie come il cancro alla prostata che sono influenzate dai livelli degli ormoni sessuali steroidei nel sangue.

 

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GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – NEUROSCIENZE

L’INFERTILITA’ DI COPPIA IN UN’OTTICA COSTRUTTIVISTA – SITCC 2012

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il cervello maschile. Istruzioni per l’uso.

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO E’ DA CONSIDERARSI UN’OPERA DI IRONIA. LE FONTI CITATE SONO REALI, LE NOSTRE CONCLUSIONI UMORISTICHE.

 

Il cervello dei maschi. Istruzioni per l'uso . - Immagine: © Sangoiri - Fotolia.comC’è poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

La comunità scientifica è divisa. Da una parte i ricercatori che si ostinano ad indagare le differenze biologiche nei cervelli di uomini e donne a spiegazione della variabilità comportamentale, dall’altra i colleghi che accusano i primi di “neurosessismo”.

Tra loro, Raffaella Rumiati, docente di neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, denuncia poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

E’ opininone diffusa, per esempio, che le donne non siano biologicamente portate per le materie scientifiche ma la constatazione che in paesi più evoluti, in materia di uguaglianza sociale e parità di genere, i risultati scolastici delle ragazze in matematica siano equiparabili a quelli dei colleghi maschi, lascia credere che molte caratteristiche di genere ricondotte a variabili neurologiche dipendano invece da fattori culturali.

Sul versante opposto altre personalità del panorama scientifico nazionale come Antonio Federico, Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università di Siena, parlano invece di differenze genetiche, ormonali e strutturali nei due cervelli con importanti ricadute sulle funzioni cerebrali ed è proprio sulla base di tali riscontri che voglio dare al nostro pubblico femminile un po’ di suggerimenti per comprendere meglio il comportamento maschile ed agire di conseguenza.

1. Se proprio avete bisogno, chiedete!

Le capacità empatiche degli uomini sono notevolmenti inferiori alle nostre (e probabilmente anche a quelle del gatto), non date quindi per scontato che segni di evidente malessere inducano il vostro partner a chiedervi come state ne tantomeno se avete bisogno di qualcosa.

2. Siate chiare

Nell’interazione verbale, abituatevi ad un linguaggio semplice, concreto e in sintonia con l’espressione del vostro volto. Eventuali messaggi ambigui potrebbero mandare in tilt il vostro interlocutore. Il cervello dell’uomo tende ad elaborare la realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro, razionale, logico e rigidamente lineare.

3. Niente coccole 

Se siete distrutte da una giornata di lavoro e avete desiderio di baci e abbracci affidatevi al gatto di cui sopra o vi ritroverete a dovervi inventare un gran mal di testa per evitare una notte di fuoco. Nel vocabolario maschile il termine “coccole”, colpa del testosterone, è sinonimo di “preliminari”.

4. Niente chiacchere

Se avete voglia di parlare con qualcuno in questo caso nemmeno il gatto vi può essere d’aiuto. Interpellate un’amica. E’ risaputo che le capacità comunicative delle donne sono notevolmente superiori a quelle degli uomini. 

5. Una cosa alla volta

Non pretendete troppo dai vostri uomini. Mentre le donne sono abili nel compiere operazioni mentali in parallelo, gli uomini faticano a rispondere anche alla più banale delle domande se sono impegnati in qualsiasi attività che vada oltre il mantenimento dei propri parametri vitali.

6. Pretendete il minimo

L’evoluzione sembrerebbe aver plasmato il cervello maschile per essere portato verso la sistematicità. Ne deriva, per esempio, una maggior predisposizione ad interagire con gli apparecchi elettronici. Pretendete dunque che l’uomo di casa sia quantomeno in grado di sostituire una lampadina.

A chi mi accusa di neurosessismo voglio ricordare che per secoli si è pensato che quell’8% di cervello in meno ci rendesse meno intelligienti… potrebbe anche essere vero.

 

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GENDER STUDIES – NEUROSCIENZE – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

EDIT (del 4 ottobre 2013):

Ovviamente è un articolo ironico e ricco di pregiudizi riguardo le differenze tra uomini e donne e la rigidità a cui accenna Emanuele deriva proprio dall’intenzione di marcare ulteriormente tale diversità di genere. Del resto è ciò che facciamo spesso nella vita di tutti i giorni, soprattutto a giustificazione dell’incomprensione con il sesso opposto. In verità la ricerca negli ultimi anni dà un risalto sempre maggiore a variabili culturali e ambientali e questo dovrebbe aiutarci ad essere un po’ meno “neurosessisti”… salvo quando questo ci fa comodo, ovvio!

In risposta al commento di un lettore,
Ilaria Cosimetti.

Depressione e Psicoterapia: tutto fa brodo?

Depressione e psicoterapia . - Immagine:  © Brian Jackson - Fotolia.comLa depressione è un disturbo della salute mentale caratterizzato da: ricorrenti stati di tristezza e insoddisfazione, bassa autostima e diminuito interesse nelle attività quotidiane, anche piacevoli.

Secondo studi epidemiologici condotti nel mondo occidentale, una percentuale che va dall’8% al 12% della popolazione tende a sviluppare nel corso della vita un disturbo depressivo (Andrade & Caraveo, 2003), rappresentando così uno dei disturbi più frequentemente diagnosticati.

Oggi, gli approcci psicoterapeutici per la cura della depressione sono numerosi e variegati, e più volte la ricerca si è posta l’obiettivo di verificarne l’efficacia. Sebbene vi sia consenso sull’efficacia della psicoterapia per la depressione, resta aperto il dibattito su quale sia l’approccio preferibile.

I risultati di due meta-analisi hanno indicato una maggiore efficacia degli approcci cognitivo-comportamentali rispetto ad altri approcci non CBT (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998). In contrasto, uno studio comparativo tra CBT e terapia psicodinamica breve non ha rilevato differenze significative circa l’efficacia dei due interventi (Leichsenring, 2001).

In un recente studio pubblicato su PLOS Medicine (Barth, Munder, Gerger et al., 2013), gli Autori hanno svolto un’analisi comparata tra differenti trattamenti psicoterapeutici per la depressione (nei quali non era prevista alcuna terapia farmacologica), concludendo che ciascuno di essi darebbe un qualche beneficio e non sembrerebbe esservi un approccio terapeutico superiore agli altri.

La ricerca è stata condotta utilizzando una metodologia recentemente sviluppata, definita meta-analisi di rete (network meta-analysis), una tecnica che consente di confrontare differenti approcci terapeutici sia in confronto diretto, sia in confronto a un gruppo di controllo. Nelle meta-analisi di rete, le informazioni ricavate dagli studi che verificano un confronto diretto tra un trattamento A e un trattamento B, sono combinate a informazioni provenienti da un confronto indiretto di A e B derivato da altre ricerche, che paragonano ciascuno dei due trattamenti A e B con un terzo trattamento C (che potrebbe essere un altro trattamento psicoterapeutico o un gruppo di controllo). Questa metodologia è stata impiegata per verificare l’efficacia di interventi farmacologici per la depressione (Cipriani et al., 2009) e il disturbo maniacale (Cipriani et al., 2011), ma secondo gli autori non risultava ancora impiegata nella ricerca sulla psicoterapia.

I ricercatori hanno preso in esame 198 articoli pubblicati dal 1975 al 2012, che prendevano in esame dati ottenuti da oltre 15.000 pazienti che hanno intrapreso una tra sette tipologie di interventi psicoterapeutici*: psicoterapia interpersonale, attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, problem solving therapy, terapia psicodinamica, addestramento alle abilitá sociali e counselling di supporto. Ognuno di questi approcci è stato comparato con gli altri e con un gruppo di controllo (composto da pazienti in lista di attesa o che non seguivano nessun approccio strutturato).

I risultati indicano che tutti i sette approcci terapeutici sono efficaci nel ridurre i sintomi depressivi rispetto alle situazioni di controllo e non risultano differenze significative tra i differenti tipi di terapia. Tuttavia, prendendo in esame solo gli studi condotti su larghi campioni di pazienti (>50), i ricercatori hanno rilevato chiari benefici da parte degli approcci cognitivo-comportamentale, terapia interpersonale, problem-solving therapy, ma non da parte degli altri approcci. Il counselling di supporto e la terapia psicodinamica breve hanno mostrato di produrre benefici in studi condotti su campioni più ridotti (da 25 a 50 pazienti), ma non su gruppi di dimensione più elevata.

Inoltre, per quanto riguarda la presenza di documentazione, vi è un ampio divario tra gli approcci in analisi: il 70% della letteratura esaminata dagli autori riguarda la CBT, confermandosi come l’approccio con il maggiore supporto empirico.

Secondo gli Autori, questi risultati suggeriscono che ai pazienti depressi andrebbero illustrate differenti possibilità d’intervento terapeutico, per concordare l’approccio più idoneo alle loro caratteristiche.

In seguito ad una lettura più dettagliata dell’articolo di Barth e coll. (2013), possiamo davvero concludere che, qualunque sia l’approccio terapeutico scelto, ogni paziente ne trarrà beneficio, come riportato da Sciencedaily.com? Oppure, è possibile che i dati riflettano la presenza di una minore documentazione a supporto di certi approcci rispetto ad altri? Le misurazioni di outcome sono assolutamente comparabili per ciascun studio? Si potrebbero ipotizzare risultati differenti qualora questi approcci venissero testati simultaneamente all’interno di un trial clinico, rispetto ad una comparazione di risultati ottenuti in studi differenti, e in epoche storiche differenti?

Il dibattito è aperto.

 

*Note:

Terapia interpersonale: è una terapia breve e altamente strutturata, prevede l’utilizzo di un manuale; é focalizzata sulle problematiche interpersonali che possono indurre la depressione.

Attivazione comportamentale (Behavioral activation): ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza nel paziente che vi siano attività piacevoli in cui coinvolgersi, cerca inoltre di incrementare le interazioni positive tra il paziente e il suo ambiente di vita.

Terapia cognitivo-comportamentale: ha lo scopo di analizzare le credenze negative del paziente, valutare quanto queste influenzino il comportamento attuale e futuro, quindi intervenire su di esse mediante ristrutturazione cognitiva, mettendole in discussione.

Problem-solving therapy: ha l’obiettivo di definire i problemi del paziente, proporre differenti possibilità di soluzione e quindi selezionare, implementare e valutare la soluzione migliore.

Terapia psicodinamica: si concentra sui conflitti irrisolti del passato e sulle relazioni, per comprendere l’impatto che hanno sulla situazione di vita attuale del paziente.

Addestramento alle abilità sociali: ha l’obiettivo di insegnare abilità che possano aiutare il paziente a sviluppare e mantenere relazioni sane, basate su onestà e rispetto.

Counselling di supporto: è un approccio terapeutico di impostazione generalistica, che ha lo scopo di mettere il paziente nelle condizioni di poter parlare delle proprie esperienze ed emozioni, offrendo empatia ma senza suggerire soluzioni o insegnare nuove abilità.

 

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BIBLIOGRAFIA

Curare le fobie…mentre si dorme!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Fobie: manipolare la memoria emotiva durante il sonno è possibile. Lo hanno fatto, per la prima volta, i ricercatori del Northwestern University Feinberg School of Medicine.

La scoperta offre un modo per migliorare il classico trattamento delle fobie attraverso l’esposizione, con l’aggiunta di un componente notturna. La terapia di esposizione comporta una graduale esposizione all’oggetto o alla situazione temuta fino a che la paura scompare.

Studi precedenti hanno dimostrato che l’apprendimento spaziale e di una sequenza motoria può essere migliorato durante il sonno, ma mai in precedenza era stato possibile manipolare le emozioni.

Nella prima parte dell’esperimento i partecipanti venivano condizionati ad associare volti ed odori alla paura, tramite la somministrazione di lievi scosse.

Successivamente, mentre il soggetto dormiva – durante il sonno ad onde lente quando si pensa che avvenga il consolidamento della memoria – veniva esposto all’odore “temuto” ma senza che questo fosse nuovamente associato alla scossa elettrica e al volto.

Il fatto che l’odore venisse presentato durante il sonno ha attivato il ricordo di quello stesso odore più e più volte, innescando il processo di estinzione paura proprio come durante la terapia di esposizione.

Nell’ultima fase dell’esperimento i partecipanti, una volta svegli, sono stati esposti a entrambe le facce. Quando hanno visto il volto che era associato all’odore a cui erano stati esposti a durante il sonno, le reazioni di paura sono state inferiori rispetto a quando hanno visto l’altro volto.

La paura è stata misurata in due modi: attraverso piccole quantità di sudore nella pelle, simile a un test della macchina della verità, e attraverso neuroimaging con fMRI.

I risultati fMRI hanno mostrato cambiamenti nelle regioni associate con la memoria, come l’ippocampo, e cambiamenti nei modelli di attività cerebrale nelle regioni associate all’ emozione, come l’amigdala.

Questi cambiamenti del cervello riflettono una diminuzione della reattività che era specifica per l’immagine del viso associata all’odore presentato durante il sonno.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Scoperto l’interruttore dell’interesse per il cibo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Pubblicata su Science l’ultima scoperta relativa alla relazione con il cibo. I ricercatori del Nord Carolina hanno trovato nei topi un altro interruttore della fame.

La zona che hanno studiato è quella del letto della stria terminale (Bnst), i neuroni di questa zona si attivano quando mangiamo andando ad inibire l’ipotalamo che regola anche l’alimentazione.

Praticamente i ricercatori hanno visto che quando si attiva l’area Bnst nell’ipotalamo si verifica lo spegnimento di una particolare tipologia di neuroni (quelli glutammatergici) che induce i topi a mangiare  anche se sono già sazi. Se invece l’area di Bnst è spenta o disattivata i topi ignorano il cibo anche se affamati.

Questa ricerca potrebbe essere utile al fine di comprendere i disturbi alimentari e l’obesità da un punto di vista neurologico e trovare risposte e mirate a questo problema da una prospettiva più ampia.

«Lo studio sottolinea come l’obesità e gli altri disturbi alimentari abbiano una base neurologica», spiega il coordinatore dello studio Garret Stuber. «Grazie a nuovi studi – conclude – potremo scoprire come regolare l’attività delle cellule di una specifica regione del cervello così da mettere a punto nuove terapie».

 

 

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EABCT 2013 – Il trattamento del Rimuginio – Le nuove proposte

 

EABCT 2013 MARRAKESH

EABCT 2013 – Il trattamento del Rimuginio – Le nuove proposte

EABCT 2013

Nel rimuginio non elaboriamo emozionalmente le preoccupazioni, le minacce e i nostri fallimenti, ma ci crogioliamo entro essi sterilmente. A che pro? Per avere un sollievo. Processare emozionalmente, infatti, richiede un carico di attivazione attenzionale e/o emozionale che nel breve termine è faticoso, troppo intenso e doloroso.

Al 43esimo congresso annuale dell’EABCT, la European Association for Behavioural and Cognitive Therapies, a Marrakech dal 25 al 28 settembre 2013, scelgo di seguire le presentazioni dedicate al rimuginio (worry), ruminazione e pensiero negativo. Scelta inevitabilmente di parte: è una delle linee di ricerca dell’Istituto dove lavoro. In tal modo privilegio le ricerche di processo e non di contenuto, il “come penso” e non il “che cosa penso”, anzi il “come mi preoccupo” e non il “di cosa mi preoccupo”.

Non che le ricerche sui contenuti, le vecchie credenze (beliefs), siano sparite da questo congresso. Diffidiamo delle valutazioni definitive e troppo significative. Quelle frasi in cui si sostiene che il tale congresso ha segnato il definitivo successo (o l’improvvisa crisi) della terza ondata. Frasi che si sentono a ogni congresso. Non è possibile che ogni congresso sia una svolta storica.

Certo, penso anche -ripeto: è un’opinione mia- che le ricerche sulle credenze rischino di portare poco di nuovo. In quel campo l’ultima “scoperta” – chiamiamola così, un po’ pomposamente- è stata l’intolleranza dell’incertezza di Dugas e Freeston, e sono passati dieci anni e più. Possiamo dire di conoscere l’intero pacchetto delle credenze psicopatologiche. Ma non è tutto.

Sembra opinione generale che le credenze esplicite siano tendenzialmente dei processi secondari importanti per la cronicizzazione del disturbo. Importanti quindi, ma non più uniche e non più cause prime della sofferenza emotiva. 

Invece mi pare che nelle ricerche di processo ci siano ancora cose nuove da scoprire. Al centro di tutto c’è il paradosso del rimuginio e della ruminazione. Ne ha parlato venerdì 27 settembre Mark Freeston dell’Università di Newcastle (lo stesso Freeston del modello di Dugas e Freeston sull’intolleranza dell’incertezza che ho citato nel paragrafo precedente).

Cos’è il paradosso del rimuginio? In breve, rimuginando su ciò che ci preoccupa, evitiamo di pensarci. E come può accadere questo? Accade perché nel rimuginio –dice Freeston- non elaboriamo emozionalmente le preoccupazioni, le minacce e i nostri fallimenti, ma ci crogioliamo entro essi sterilmente. A che pro? Per avere un sollievo. Processare emozionalmente, infatti, richiede un carico di attivazione attenzionale (questo lo ha detto Pierre Philippot dell’Università di Lovanio, Belgio, giovedì 26 settembre) e/o emozionale (dice Freeston) che nel breve termine è faticoso, troppo intenso e doloroso.

Quindi immaginare (rispetto al rimuginare) implica uno svantaggio emozionale immediato e un’allocazione di risorse attenzionali inizialmente maggiore. Questo sforzo immediato alla lunga consente una piena risoluzione emotiva e anche pratica. O almeno una piena accettazione di ciò che è accaduto. Nel rimuginio invece si rimane in uno stato intermedio, non troppo doloroso ma mai davvero risolto. Un continuo preoccuparsi, che è preferito al vero pensare a soluzioni concrete. E perché? Per non affrontare lo sforzo attentivo necessario a innescare la processazione (e accettazione) emozionale.

Insomma, pensare a soluzioni concrete richiede l’attivazione non solo del rimuginio verbale, ma anche della preoccupazione immaginativa e visuale. Solo immaginando ciò che temiamo, possiamo venirne a patti; nominare verbalmente non basta. Operazione impegnativa ed emotivamente intensa che ad alcuni non garba, o pare troppo dolorosa. Meglio rimuginare sempre e in tal modo evitare il coinvolgimento attentivo ed emotivo. Ecco spiegato il paradosso del rimuginio: penso per non immaginare.

Questo è stato ribadito in varie altre presentazioni a cui ho assistito. Da Colette Hirsch del King’s College (Londra), da Maurice Topper di Amsterdam, da Maarten Eisma di Utrecht, da Ernst Koster di Ghent (Belgio), da Pierre Philippot di Lovanio (Belgio), da Nilly Mor di Gerusalemme e da Christine Kuehner di Heidelberg.

Un gruppo di giovani ricercatori che -mi pare- seguono l’ipotesi dell’evitamento cognitivo di Tom Borkovec, per il quale il rimuginio è un po’ un errore processuale (faccio l’errore di attivare il rimuginio verbale senza combinarlo con l’immaginazione visiva) e un po’ un evitamento cognitivo, quasi una difesa: attivo il rimuginio verbale per evitare di attivare la dolorosa immaginazione visiva.

Mentre ascoltavo tutte queste presentazioni mi chiedevo: e il modello di Wells? Perché nessuno lo cita? Ragioni solo politiche, dovute alle recenti scissioni, o anche ragioni scientifiche? Il modello di Wells è anch’esso un modello che pone al suo centro un processo di tipo rimuginativo e che considera le credenze come soprattutto delle valutazioni di secondo livello, delle metacognizioni, che cronicizzano il meccanismo. La causa è invece un processo attenzionale di focalizzazione sull’oggetto della preoccupazione. Sembrerebbe non dissimile dall’ipotesi di Borkovec, Freeston e dei loro giovani seguaci.

Tuttavia mi pare che la componente evitativa sia assente nel modello di Wells. Ho l’impressione – da confermare, anche perché non sempre questi autori e i loro seguaci gradiscono essere compressi in una formula, bisogno comprensibile ma a volte anguillesco – che in Wells il rimuginio è sempre un errore processuale di focalizzazione eccessiva sull’oggetto della preoccupazione, focalizzazione che poi si cronicizza in rimuginio a causa di credenze secondarie di incontrollabilità del pensiero (“non riesco a smettere”) e mai evitamento di qualcosa di più doloroso.

Tutto questo non è sterile teoria.

Se ha ragione Wells, il trattamento deve essere soprattutto un riaddestramento attenzionale a non rimuginare preceduto da un poco (non troppo) di lavoro cognitivo volto a verificare se davvero il rimuginio è incontrollabile.

Se ha ragione Borkovec, invece, vale la pena ragionare un po’ anche sul contenuto evitato e incoraggiare un po’ di contatto emotivo con questo contenuto (con questo tema, direbbe Sandra Sassaroli).

Che ne pensano di questo i borkovecchiani? L’ ho domandato sia a Freeston che a Colette Hirsch. Freeston mi ha risposto che effettivamente la teoria di Borkovec implica un intervento di processazione emozionale oltre che di riaddestramento attenzionale. Ma ritiene anche che questa processazione emozionale sia difficile e che coi pazienti occorre andarci cauti. Colette Hirsch non mi ha dato una risposta del tutto soddisfacente su questo (ho l’impressione che molti di questi giovani ricercatori abbiano ancora qualche difficoltà a elaborare le implicazioni cliniche dei loro lavori).

Mi ha dato soddisfazione invece Maarten Eisma di Utrecht, un giovane olandese che oltre a fare ricerca ha anche testa clinica. E mi ha detto che a Utrecht hanno provato a lavorare sia con il riaddestramento attenzionale che con quello che loro chiamano “confrontation”. Termine psicodinamico e kernberghiano (ma si trova anche nella REBT di Albert Ellis) e però compatibile con la teoria cognitiva, poiché significa non l’analisi dell’inconscio ma l’incoraggiamento a rianalizzare criticamente (e in maniera emotivamente intensa) i propri stati mentali più temuti. Eisma mi ha detto che la cosa funziona con alcuni pazienti ma non con altri. Occorre ancora capire come individuare questo sottogruppo che trarrebbe beneficio dall’intervento di confrontazione con il contenuto cognitivo evitato.

A questo congresso ho anche incontrato un seguace di Wells: Robin Bailey dell’Università di Manchester. Era a Marrakech con un poster. Lo coinvolgo nella discussione e lo invito al SIG (Special Interest Group) sul rimuginio, ruminazione e pensiero ripetitivo che ho organizzato insieme a Colette Hirsch venerdì 27 settembre alle ore 14.

Due parole su questi SIG: si tratta di qualcosa di diverso dalla solita trafila di presentazioni scientifiche seguite da discussioni rachitiche; al contrario sono finalmente degli spazi in cui è possibile discutere a lungo e confortevolmente. Il merito dell’idea di questi SIG va dato ad Antonio Pinto, membro italiano del board dell’EABCT.

Il SIG, a cui erano presenti tutti i ricercatori che ho citato (eccetto Freston; meglio così: solo giovani), ha reso possibile il confronto tra borkovecchiani (Hirsch, Topper, ecc.) e un wellsiano (Bailey). Il tutto è quindi risultato molto vivace (e divertente per me, che facevo da arbitro). Va detto che Bailey non era solo. A soccorrerlo è arrivato Mehmet Sungur di Istanbul, che ho scoperto essere anche lui un cultore del modello di Wells.

Bailey ha esposto e difeso il modello wellsiano. Quello che mi chiedevo durante il SIG era: cosa dice questo modello di fronte all’ipotesi dell’evitamento cognitivo? Mi pare che oscilli tra il rifiuto pragmatico e il rigetto teorico. Il rifiuto pragmatico consiste nell’accettare in via teorica l’esistenza dell’evitamento cognitivo, salvo poi ribadire che trattarlo in seduta è inutile, e anzi controproducente. In una seduta di terapia metacognitiva alla Wells, infatti, non si parla mai del contenuto del rimuginio, se non per ingaggiare il paziente, ovvero per socializzare. Questo perché ogni discorso sul contenuto è, nel modello wellssiano, inevitabilmente un nuovo rimuginio.

Ma non si tratta solo di pratica clinica. C’è in fondo anche un rifiuto teorico: il rimuginio è per Wells -mi pare- sempre e solo una sorta di errore di processo, una cosiddetta Cognitive Attentional Syndrome (CAS). Non credo ci sia spazio nel modello per l’evitamento cognitivo di temi troppo dolorosi. Al contrario si parla di fissazione patologica sull’oggetto della preoccupazione. Tutta l’argomentazione di Borkovec è quindi rigettata. E questo porta a una ancora più forte affermazione clinica che parlare del contenuto -e, a maggior ragione, di contenuti particolarmente dolorosi- è solo altro rimuginio, poiché ribadisce il CAS.

Bailey mi ha chiarito ulteriormente questi concetti la sera a cena, dicendomi che il trattamento dei pazienti gli conferma queste idee. Il riaddestramento cognitivo del CAS senza mai parlare dei contenuti è, a detta sua, estremamente efficace e inoltre semplice da eseguire a paragone del lavoro sul contenuto. Bailey è un terapeuta quarantenne con una larga esperienza.

Mi piacerebbe dire che su questo argomento ci si confronterà tra wellsiani e borkovecchiani (li chiamo così) negli anni futuri all’EABCT. Per varie e complesse ragioni, invece, questo forse non accadrà. L’evoluzione scientifica reale non è sempre così lineare come appare a posteriori. Come si sa, molti di questi teorici più o meno di terza ondata hanno costruito, in parte comprensibilmente, le loro società scientifiche con i loro congressi. Non è il caso di lamentarsene troppo. La scienza non è fatta di distaccate discussioni in cui si approda insieme alla verità, ma anche di scissioni e separazioni con risvolti personali.

Per concludere, nelle presentazioni a cui ho assistito ho visto minore attenzione per le risorse del paziente, a cosa altro fare della sua vita invece che pensare ai suoi rimuginii. Quello che Sandra Sassaroli chiamerebbe i suoi piani. Anche questo è connesso al rimuginio come piano, piano patologico di evitamento. Stranamente ne ha parlato Salkovskis nel suo seminario di mercoledì 25 settembre. Un po’ tutti si stanno rendendo conto di come il paziente vada accompagnato nel suo percorso dopo che sia uscito dal suo eterno rimuginare.

Ho dimenticato di chiedere a Robin Bailey cosa ne pensano a Manchester, nella tana wellsiana, di questo. Da un certo punto di vista posso immaginare che Wells lo considererebbe un altro rimuginio. Meglio chiedere a lui e non infilargli parole in bocca. Sarà per un’altra volta.

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ARTICOLI SUI CONGRESSI EABCT

 

Daniel Siegel – La neurobiologia interpersonale – Report dal Workshop

 

La neurobiologia interpersonale –

La psicoterapia funziona: perché?

 

Report del Workshop

 

Dr. Daniel SiegelPossiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema, se presente, ne risultano flessibilità e armonia; se assente, si manifestano caos e rigidità.

Almeno una volta nella vita, tutti ci siamo fatti questa domanda, sia come terapeuti che come pazienti; sicuramente questo workshop, nella sua semplice complessità, ha risposto a questa domanda. E molto di più.

Parola d’ordine Integrazione.

Daniel Siegel è “clinical professor” di Psichiatria presso la facoltà di Medicina della UCLA (University of California, Los Angeles), dove fa parte del Center for Culture, Brain, and Development ed è codirettore del Mindful Awareness Research Center; è inoltre direttore esecutivo del Mindsight Institute, ente di formazione che fornisce servizi di apprendimento online e lezioni svolte di persona, incentrati entrambi sui modi in cui è possibile accrescere la mindsight in individui, famiglie e comunità attraverso l’esame dei punti di contatto presenti nei rapporti interpersonali e dei processi biologici di base degli esseri umani.

I due giorni di workshop sono stati decisamenti intensi e ricchi, sia dal punto di vista dei contenuti che dal punto di vista umano ed interpersonale. Conoscere Siegel, una persona così disponibile al dialogo, aperta e attenta nelle relazioni, non è cosa di poco conto: la sua energia e il suo essere mindfull si sono respirati per due giorni, un vortice di parole, nozioni ed esercizi esperienziali.

La mattinata di venerdì si è aperta con questa domanda: “Come è possibile rendere e mantenere la nostra mente in salute?” E con questa cornice di fondo abbiamo iniziato a lavorare partendo dalle definizioni di mente, cervello, relazione ed integrazione.

Le relazioni sono il modo in cui energia e informazione vengono condivise, mentre ci connettiamo e comunichiamo l’un l’altro. Il cervello riguarda il meccanismo fisico attraverso cui energia e informazione fluiscono. La mente è il processo che regola il flusso di energia e informazione. Queste tre dimensioni formano il triangolo del benessere.

Possiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema, se presente, ne risultano flessibilità e armonia; se assente, si manifestano caos e rigidità.

Nel momento in cui si trasferisce questo modello alla mente umana, si riscontra che una mancanza di integrazione produce sintomi e sindromi che si potrebbero forse considerare disturbi mentali.

La neurobiologia interpersonale si avvale di un’ampia varietà di discipline scientifiche, contemplative e artistiche. Lo stato di salute viene determinato dal processo di integrazione mente, cervello e relazioni.

Da un punto di vista clinico diventa dunque interessante vedere la psico-patologia e svariati disturbi mentali come un deficit di integrazione: in questa cornice compito del terapeuta sarà, attraverso diversi strumenti, aumentare l’integrazione nel paziente, favorendo il cambiamento verso uno stato maggiore di benessere.

Tre esperienze umane favoriscono questo processo, promuovendo il benessere: attaccamento sicuro, meditazione mindfulness e psicoterapia efficace.

Avere un atteggiamento Mindful significa saper “guidare” consapevolmente la nostra attenzione; viene da sé che uno degli obiettivi della pratica è quello di aumentare il nostro grado di consapevolezza. Consapevolezza che ci permette di osservare il cambiamento, ma anche i nostri automatismi di pensiero, le nostre emozioni e il modo in cui la mente si ancora a questi oggetti di per sé intrinsecamente mutevoli.

Durante il workshop abbiamo fatto alcuni esercizi di mindfulness: un primo esercizio proposto è stato quello della respirazione consapevole, in cui in prima persona abbiamo potuto sperimentare che la mente per sua natura tende a sfuggire a ciò che sta avvenendo nel qui e ora e si ancora alle esperienze del passato o si proietta in desideri futuri. Spostare l’attenzione al respiro lasciando andare i pensieri significa prendere maggior consapevolezza di come la nostra mente funziona ed essere sempre di più nel momento presente.

Un’immagine molto bella che Siegel ha portato nella pratica è stata questa: “La mente è come l’oceano. E sul fondo dell’oceano, al di sotto della superficie, vi è calma e chiarezza. E non importa quali siano le condizioni della superficie, se sia piatta, mossa o tempestosa, perché sul fondo dell’oceano vi è tranquillità e serenità. Dal profondo dell’oceano puoi guardare verso la superficie e limitarti a notare l’attività che vi si trova, come nella mente; dal profondo della mente puoi guardare su, verso le onde, le onde cerebrali che si trovano sulla superficie della mente, dove esiste tutta l’attività della mente, pensieri, sentimenti, sensazioni e ricordi. Hai l’incredibile opportunità di limitarti a osservare queste attività che si svolgono sulla superficie della mente.”

Sempre in termini di consapevolezza e attenzione, in un esercizio interessante Siegel ci ha guidato nel portare l’attenzione prima verso il centro della stanza, poi verso il muro, poi di nuovo verso il centro della stanza e ancora verso il muro, portandola poi davanti a noi come se stessimo leggendo un libro. Infine ci ha guidato a portare l’attenzione dentro di noi, nel nostro centro, e a respirare consapevolmente, facendoci sperimentare in prima persona il “potere” che abbiamo nel guidare la nostra attenzione consapevole.

Esercizio e metafora che poi ci siamo portati dietro per l’intero workshop è stato quello della ruota della consapevolezza che riporto qui:

Puoi pensare alla struttura della mente come a qualcosa di simile a una ruota della consapevolezza, immaginando la ruota di una bicicletta dove vi è un cerchione più esterno e dei raggi che connettono il cerchione al mozzo interno. Nella ruota della consapevolezza della tua mente, qualsiasi cosa che possa entrare nella tua consapevolezza è uno degli infiniti punti del cerchione. Un settore del cerchione potrebbe includere i nostri cinquesensi del tatto, del gusto, dell’odorato, dell’ascolto e della vista, quei sensi che portano il mondo esterno nelle nostre menti. Un altro settore del cerchione della ruota è il senso del nostro corpo, il senso dei nostri arti, dei muscoli del nostro volto e il sentimento degli organi del nostro busto, dei nostri polmoni, del nostro cuore e dei nostri intestini. Tutto il corpo porta la sua saggezza nella mente e questo senso del corpo, il tuo sesto senso, aggiunge un’altra tessitura a quello di cui puoi diventare consapevole. Un altro insieme di punti del cerchione sono le cose che la mente crea in modo diretto, come i pensieri e i sentimenti, i ricordi e le percezioni, le speranze e i sogni, e anche questo segmento del cerchione della nostra mente è pienamente disponibile alla nostra consapevolezza, è quello che puoi chiamare il tuo settimo senso: la nostra capacità di vedere la mente, in noi stessi e nelle menti delle altre persone. Possiamo anche essere in grado di sentirci “sentiti” nel nostro ottavo senso, quando sentiamo che le nostre relazioni sintonizzate risuonano con gli altri e con noi stessi.

Possiamo scegliere se vogliamo prendere un segmento e mandare un raggio verso quel punto del cerchione. Possiamo scegliere se prestare attenzione alle sensazioni che proviamo nella pancia, e mandare lì un raggio. O possiamo scegliere di prestare attenzione a un ricordo, e mandare un raggio all’area del settimo senso per vedere quella parte della mente. E così, i raggi rappresentano la nostra capacità di focalizzarci su un punto del cerchione. E i raggi emanano dal profondo della mente, che è il mozzo della ruota della consapevolezza. E quando ci focalizziamo sul respiro, noi possiamo sviluppare la spaziosità del mozzo della mente. Quando il mozzo della mente si espande, possiamo sviluppare la capacità di essere recettivi a tutto ciò che sorge dal cerchione, di abbandonarci alla spaziosità, alla qualità luminosa del mozzo della ruota che può ricevere qualsiasi aspetto della nostra esperienza proprio come è. Senza idee preconcette e senza aggrapparci ai giudizi, questa consapevolezza mindful, quest’attenzione recettiva, ci porta in un luogo tranquillo dove possiamo essere consapevoli e conoscere tutti gli elementi della nostra esperienza.

Il centro delle nostre menti, come il fondo dell’oceano, è un luogo di tranquillità e ricerca, dove possiamo esplorare la natura della mente con equanimità, energia e concentrazione. Questo centro della mente è sempre a nostra disposizione, proprio ora. Ed è da questo centro che entriamo in uno stato compassionevole di connessione con noi stessi, e sentiamo compassione per le altre persone.

Focalizziamoci sul respiro ancora per qualche momento, insieme. Apriamo quel mozzo spazioso della mente alla bellezza e alla meraviglia di ciò che è.” (da: D.J. Siegel, “Mindfulness e Cervello” ed. R. Cortina)

La domanda cardine del secondo giorno di workshop è stata: “Quale parte svolgiamo da terapeuti?”. Una prima risposta potrebbe essere che secondo John Norcross la presenza, l’empatia, e la disponibilità a ricevere feedback del terapeuta costituiscono gli elementi cruciali dei risultati terapeutici  dati emersi da una meta-analisi di studi sulla psicoterapia.

Il compito di un terapeuta mindful è di  portare in terapia presenza, sintonizzazione, risonanza, fiducia, verità,

monitoraggio,trasformazione tranquillità.

Occorre, dunque, sfruttare il potere di consapevolezza e attenzione per catalizzare l’integrazione neuronale.

Ripensando ai nostri piani di intervento e trattamento alla luce della neuroplasticità cerebrale, assumono una nuova importanza carattersitiche di stile di vita quali: ore di sonno, alimentazione, esercizio aerobico, e inoltre assumono luce diversa le relazioni, l’apertura alle novità intesa come flessibilità, senso dell’umorismo e le abilità di mindfulness.

Studi su salute fisica, benessere emotivo, longevità, felicità e persino saggezza indicano che l’abilità degli individui di essere consapevoli del proprio mondo interiore – e sentirsi profondamente legati agli altri – sta al centro di resilienza e salute mentale.

In quest’ottica, le terapie efficaci sono quelle che stimolano attivazione e crescita neuronale verso uno stato maggiormente integrato.

Da una prospettiva neurobiologica interpersonale, abbiamo osservato come i clinici possano impiegare la relazione terapeutica per alimentare la crescita di nuovi processi integrativi nei loro pazienti. E abbiamo preso in esame i Nove domini di integrazione che Siegel illustra nel suo libro Terapeuta consapevole guida per il terapeuta al Mindsight e all’integrazione neurale (D.J.Siegel, ISC Editore, 2013)

  1. Integrazione della coscienza
  2. Integrazione bilaterale
  3. Integrazione verticale
  4. Integrazione della memoria
  5. Integrazione narrativa
  6. Integrazione di stato
  7. Integrazione interpersonale
  8. Integrazione temporale
  9. Integrazione traspirazionale

Il lavoro da svolgere in ciascun dominio richiede interventi terapeutici specifici. Esito ultimo dell’integrazione è far spostare gli individui lontano da stati di caos e rigidità presenti, ma dentro l’armonia e la calma del benessere.

Da lunedì faccio terapia ricordandomi di questa immagine molto bella che è emersa dal dialogo nel pomeriggio di sabato: “Quando siete in aereo e state per partire le hostess vi illustrano le procedure di sicurezza, nel caso di depressurizzazione vi invitano a mettere prima la vostra maschera d’ossigeno e poi eventualmente aiutare gli altri”, semplice ed efficace per noi terapeuti, ma per tutte le persone che hanno a che fare con le professioni di aiuto in cui spesso lo schema di autosacrificio è piuttosto attivato.

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BIBLIOGRAFIA:

Come svaniscono le vecchie memorie

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L'”estinzione della memoria” è un processo per cui le risposte condizionate, così come i ricordi più antichi, se non vengono rinforzati svaniscono con il tempo e vengono sostituiti da memorie di nuove esperienze.

In un recente studio il Massachusetts Institute of Technology ha scoperto che il gene Tet1 ha un ruolo fondamentale nel processo di estinzione della memoria; sembra infatti controllare un piccolo gruppo di altri geni necessari per l’estinzione memoria.

Migliorare l’attività di questo gene potrebbe aiutare le persone con disturbo da stress post-traumatico (PTSD), rendendo più facile sostituire i ricordi ansiogeni con associazioni più positive.

Il team di ricercatori ha studiato un gruppo di topi senza il gene Tet1. Tet1 e altre proteine Tet, molto numerose nel cervello, aiutano a regolare le modificazioni del DNA che determinano se un particolare gene sarà espresso o meno.

Con grande sorpresa dei ricercatori i topi senza Tet1 erano perfettamente in grado di formare ricordi e apprendere nuovi compiti. Tuttavia, quando i ricercatori hanno cominciato a studiare l’estinzione della memoria, sono emerse differenze significative .

Per misurare la capacità dei topi di estinguere i ricordi, i ricercatori li hanno condizionati a temere un particolare ambiente (una gabbia) dove ricevevano una leggera scossa. Dopo che la memoria è stata costituita, i ricercatori hanno messo i topi in una gabbia nella quale i topi non ricevevano la scossa. Dopo un po’ i topi con livelli normali di Tet1 hanno smesso di temere la gabbia, dimostrando che la nuova esperienza nell’ambiente “gabbia senza scossa” andava a sostituirsi alla memoria precedente di “gabbia con scossa”.

Ciò che succede durante l’estinzione di memoria non è la cancellazione della memoria originale bensì una competizione tra memorie vecchie e nuove: la vecchia traccia di memoria segnala ai topi che la gabbia è pericolosa, mentre la memoria nuova gli dice che la gabbia è un posto sicuro”, spiega Li – Huei Tsai, direttore del Picower Institute for Learning and Memorydel MIT.

Nei topi normali la nuova memoria ha la meglio su quella vecchia. I topi privi di Tet1, invece, restano timorosi, come se la vecchia traccia mnestica non potesse estinguersi neanche in presenza di esperienze nuove e diverse.

Tet1 esercita i suoi effetti sulla memoria alterando i livelli di metilazione del DNA, una modificazione che controlla l’accesso ai geni. Alti livelli di metilazione bloccano l’espressione genica, mentre i livelli più bassi ne consentono l’espressione.

Cosa avviene nei topi privi di Tet1? Durante la paura condizionata, la metilazione del gene Npas4 si riduce a circa il 20%, una quantità sufficientemente bassa per consentire l’espressione di Npas4 e la creazione di nuovi ricordi. I ricercatori sospettano che lo stimolo paura sia così forte da attivare altre proteine di demetilazione – forse TET2 o Tet3 – in grado di compensare la mancanza di Tet1 .

Durante la formazione della memoria di estinzione nell’ambiente sicuro, tuttavia, i topi non sperimentano un forte stimolo, per cui i livelli di metilazione restano elevati (circa il 40%) e Npas4 non si accende.

I risultati suggeriscono che un certo livello di metilazione è necessaria perchè l’espressione genica abbia luogo, e che il ruolo giocato da Tet1 è quello di mantenere bassa la metilazione, assicurando che i geni necessari per la formazione di memoria siano pronti ad accendersi quando è necessario.

I ricercatori sono ora alla ricerca di modi per aumentare artificialmente i livelli di Tet1 e studiare se tale incremento può migliorare l’estinzione della memoria.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

La formazione dei tutor a scuola – Come funziona la Peer Education

Patrizia Mattioli.

LEGGI PARTE PRIMA

La formazione dei tutor - Come funziona la peer education . - Immagine: © Alexander Raths - Fotolia.comVediamo ora alcuni aspetti pratici della Peer Education. La formazione dei futuri tutor viene portata avanti in una serie di incontri (in genere sei) abbastanza ravvicinati.

Il primo incontro è dedicato alla conoscenza reciproca i partecipanti: sono invitati a presentarsi agli altri, spiegare i motivi che li hanno portati a partecipare al progetto e quali aspettative ripongono in esso. Il conduttore è il primo che si presenta e che espone le proprie motivazioni e il proprio obiettivo. I ragazzi sono in genere spaventati dalla nuova situazione. Accedono al corso di formazione in piccoli gruppi provenienti dalla stessa classe. E’ il conduttore che decide i posti alternando i ragazzi delle diverse sezioni per evitare che si formino piccoli gruppi: è una piccola violenza che però facilità la formazione del gruppo. Le sedie sono disposte ovviamente a circolo, senza barriere, in modo da favorire la comunicazione frontale tra tutti i partecipanti, e l’idea che in questo gruppo lo scambio è alla pari, anche il conduttore si trova nella stessa posizione.

Lo sperimentare la condizione di costrizione nell’ esposizione emotivamente attivante, ma protetta dal trainer e condivisa dai compagni, rappresenta uno dei momenti formativi.

Nel gruppo di formazione che diventa significativo, esperire un certo grado di reciprocità emotiva diversa da quella sperimentata in altro gruppo di riferimento (per esempio nel gruppo-classe), crea un’attribuzione a sé di caratteristiche “altre”, sia da parte dell’individuo che da parte del gruppo, che articolano e sostengono il senso di sé che ne deriva e che può essere riportato all’interno di un altro gruppo (il gruppo-classe appunto) e innescare cambiamenti a cascata, favorendo forme di prevenzione del disagio.

Un altro momento formativo riguarda la costruzione del profilo dell’insegnante, da offrire ai primini. Con l’aiuto dei compagni, i tutor si sforzano di cogliere le caratteristiche degli insegnanti che ritengono più esigenti o difficili da accontentare, cercando di cogliere le loro specificità personali, al di là di se stessi e del rapporto che hanno con quell’insegnante.

In generale il trainer non si pone come colui che trasmette informazioni su ciò che è giusto o meno fare, ma come stimolatore delle potenzialità individuali e di gruppo.

La paura di esporsi, di sbagliare ed essere giudicato e/o emarginato, temi sempre molto presenti in adolescenza, può portare a mostrare poco le proprie specificità e seguire le iniziative e le idee di altri, e a non farsi carico della responsabilità di esprimere il proprio punto di vista, o al contrario ad esprimere punti di vista in oppositività al gruppo o interferire con le attività.

Si cerca di stimolare la presa di responsabilità da parte di ogni partecipante, di sottolineare l’importanza dei singoli apporti, di sostenere le singole iniziative, di promuovere le differenze individuali che sono considerate opportunità e risorse del gruppo piuttosto che limiti o minacce.

I futuri tutor assumono da subito un ruolo attivo e superata la fase di conoscenza reciproca vengono invitati a proporre autonomamente le attività cooperative. Gli vengono offerte alcune indicazioni ma soprattutto sono invitati a fare riferimento alle proprie risorse e alla precedente esperienza da primini. Vengono  divisi in piccoli gruppi che simulano il gruppo tutor che entra in classe e si confrontano sull’attività da proporre.

Questo è un altro momento formativo in cui emergono le difficoltà individuali ad esporsi (ogni proposta personale viene vissuta come inadatta), viene colta l’occasione per relativizzare possibili idee massimali e ribadire l’importanza della condivisione e del monitoraggio costante della relazione. Non ci sono infatti attività giuste o sbagliate, piuttosto attività che vanno calate nella realtà delle singole classi prime che sono tutte diverse.

Si focalizzano poi gli altri elementi del lavoro di peer educator: esporsi su tematiche delicate o imbarazzanti, confrontarsi con la curiosità e le preoccupazioni dei primini, sostenere e gestire l’eventuale indifferenza o boicotaggio, mantenere la gestione della situazione, prendersi il giusto carico di responsabilità.

La fine dei singoli incontri è dedicata alla sintesi e ridefinizione dei contenuti affrontati, così come la fine del corso.

Questo è per grandi linee un gruppo di formazione portato avanti secondo l’ottica post razionalista.

Quello che ne risulta è un gruppo abbastanza omogeneo, in grado di interagire, ma soprattutto di gestire i gruppi classe in maniera piuttosto autonoma, in grado di originare percorsi autonomi per la realizzazione dell’accoglienza.

I feedback, sia dai primini che dai tutor, sono positivi, e lo sono anche da parte degli insegnanti e del Dirigente Scolastico.

Questo ci sostiene nel proseguire in questa direzione.

 

LEGGI PARTE PRIMA

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APPRENDIMENTORAPPORTI INTERPERSONALIADOLESCENTI – PSICOLOGIA SOCIALE

I TEST MIGLIORANO L’APPRENDIMENTO PIU’ DELLO STUDIO

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 

Autocriticismo: da usare a piccole dosi!

 

Perché siamo eccessivamente autocritici?. -Immagine: © olly - Fotolia.com

Bisognerebbe considerare l’autocriticismo come una sostanza che va usata nelle dosi appropriate e sempre mescolata a una certa quantità di rassicurazione o sdrammatizzazione o compassione nei propri confronti. Altrimenti intossica, non viene smaltito dalla mente e la riempie di una nebbia tendenzialmente depressiva.

L’autocriticismo è un interessante processo mentale. Da un lato è considerato una dote propria dei saggi e degli umili, necessaria per non peccare di superbia o ingenuità e per migliorare sé stessi. Dall’altro molte ricerche hanno suggerito che un uso eccessivo può nuocere gravemente alla salute (Zuroff et al., 1999). Se dovessimo prestar orecchio a entrambi i moniti verrebbe da dire che nella vita o si migliora e si soffre o si sta fermi nella ‘beata ignoranza’.

La soluzione al dilemma sta forse nel considerare l’autocriticismo come una sostanza che va usata nelle dosi appropriate e sempre mescolata a una certa quantità di rassicurazione o sdrammatizzazione o compassione nei propri confronti. Altrimenti intossica, non viene smaltito dalla mente e la riempie di una nebbia tendenzialmente depressiva.

In anni recenti questo legame tra depressione e autocriticismo è stato posto sotto la lente degli ricercatori che hanno scoperto l’esistenza di alcune varianti di questo processo.

La versione più comune e diffusa è l’autocriticismo correttivo (non sono bravo, non combino nulla, ho fallito perché sono un incapace), sostenuto dall’idea, altrettanto malsana, che massacrarsi l’anima possa aiutare a raggiungere obiettivi più alti e a correggere il proprio comportamento. Nei fatti, ciò non aiuta a capire cosa si può fare di meglio ma amplifica la sensazione di inadeguatezza e incapacità.

C’è poi un secondo tipo di autocriticismo, ancor più deleterio: l’autopersecuzione. Si tratta di un vero e proprio attacco violento, simile alle sferzate verbali cariche di disprezzo che scagliamo quando siamo in preda all’ira (mi faccio schifo, sono un essere disgustoso, non merito ciò che ho). Lo scopo di questo attacco spietato è quello di punirsi, purificare qualcosa di profondamente ‘cattivo’ o ‘contaminato’ prendendo le distanze, disprezzandolo o distruggendolo fino a spingersi verso gesti autolesivi (Gilbert et al, 2004).

Infine esiste un’autocritica più timida ma non meno pericolosa. Questa variante prevede l’uso della critica come strategia per evitare di correre dei rischi, giustificando a priori la propria scelta evitante (tanto non sarò mai in grado di farlo, è oltre le mie capacità). In questa forma di autocritica l’individuo preferisce implicitamente l’autosvalutazione all’ansia che comporterebbe affrontare compiti nuovi e forse, potenzialmente, fallimentari con il risultati di restare bloccato e sentirsi costante insoddisfatto.

Insomma è noto che l’autocriticismo, se non mescolato a una forma di autosupporto, può alimentare e sostenere sintomi depressivi. Sappiamo anche che esistono diverse forme e funzioni dell’autocriticismo. Il prossimo passo della ricerca e della psicoterapia è comprendere in modo più raffinato quali sono i diversi impatti e quali specifiche strategie di intervento.

LEGGI:

DEPRESSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Gilbert et al. (2004).British Journal of Clinical Psychology, 43, 31-50.
  • Zuroff et al. (1999). British Journal of Clinical Psychology, 38, 231-250

EABCT 2013 – Paul Salkovskis, workshop sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo

EABCT 2013 MARRAKESH

Paul Salkovskis: workshop sul disturbo ossessivo compulsivo al congresso EABCT

EABCT 2013 Partecipare a un workshop di Paul Salkovskis sul trattamento dell’OCD qui a Marrakech, durante il congresso europeo della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), consente di capire meglio come avviene la terapia. E consente di farsi qualche domanda.

Per esempio, nel workshop emerge con chiarezza che l’intervento cognitivo tipico di Salkovskis è una lenta e accurata scoperta guidata del circolo vizioso dell’ossessivo, il quale è ossessivo perché guarda ai suoi pensieri  con già in mente la sua stessa responsabilità.

Questo lo sapevamo in astratto. E in concreto? In concreto Salkovskis fa una sorta di ABC (ma senza mai dire la parola “ABC” attenzione; in area Beck non si dice mai “ABC”) partendo da situazioni ossessive e poi, in maniera paziente (e ossessiva) disegnando molti schemi con il paziente su fogli e/o lavagne luminose, o utilizzando cartoncini e freccette (ci ha mostrato i video) e così lo induce lentamente (e un po’ anche per sfinimento) dapprima a volgere la sua attenzione dallo stimolo ossessivo di tipo contaminativo (“mi chiedo se i rubinetti siano puliti”) ai pensieri che sorreggono la valutazione di contaminazione (“potrebbero esserci germi e questi potrebbero uccidermi”), poi a spostarsi sulla compulsione (“devo pulire perfettamente”), poi a passare dalla compulsione al pensiero che la sorregge (“faccio questo per controllare/espiare/rimediare”) quindi dal pensiero che la sorregge alla valutazione di sé (“devo sempre controllare/espiare/rimediare perché sono responsabile”) e infine da questo pensiero auto-valutativo tornare alla situazione iniziale (“quindi appena vedo un rubinetto mi sento responsabile della sua pulizia”).

Sembra facile. In realtà il meccanismo va memorizzato in ogni sua parte e occorre addestrarsi a somministrarlo senza farsi distrarre dalle digressioni personali del paziente o di noi stessi. Capirlo leggendo un articolo o ascoltando una plenaria di un’ora è del tutto insufficiente.

Da questa insufficienza del capire sono nati sia il sempre maggiore irrigidimento addestrativo delle scuole di terza ondata, tutte molto focalizzate su corsi strutturati per livelli successivi a cui si accede preparando sedute registrate di cui si valuta l’aderenza al modello, sia il parallelo irrigidimento delle vecchie scuole di Ellis e Beck, anch’esse molto più severe di una volta e volte all’aderenza concreta, misurata su sedute registrate e non su lezioni teoriche frontali.

Mi chiedo: e la generazione di mezzo? I Salkovskis, i Fairburn, i Clark? Ho l’impressione che siano rimasti in una condizione intermedia. La loro natura di ricercatori universitari puri (a differenza di Beck, per non parlare di Ellis) rende loro difficile fondare delle scuole pratiche e addestrative secondo il modello di Ellis/Beck o, oggi, di Young o Wells.

L’Università, anche all’estero, rimane un centro di ricerca, non una scuola pratica e non sa e non può addestrare terapeuti. Non ci credete? Me lo conferma Maurice Topper, olandese. Mi ha detto oggi: dall’anno prossimo devo decidere se continuare a fare ricerca o diventare un vero terapeuta. Se faccio ricerca non posso, letteralmente, vedere pazienti. Voi in Italia come diamine fate? Mi chiede. Gli spiego che Studi Cognitivi non è un’università e mi sono beccato una lagna sul fatto che in Olanda le scuole di psicoterapia vere non  fanno ricerca, ecc. (gli studenti si lagnano sempre e sognano sempre paradisi all’estero, a quanto pare).

Ma torniamo a Salkovskis, Fairburn e Clark. I loro protocolli non sono diventati corsi addestrativi dettagliati alla Beck (o alla Young). La generazione di mezzo rischierà di rimanere schiacciata tra i grandi terapeuti del passato (Beck ed Ellis) e una nuova generazione che intende superare certi limiti scolastici della ricerca universitaria? Non per rinnegare la ricerca, ma per farne una più collegata a quello che davvero accade in seduta? Può darsi.

Intanto nel Workshop di Salkovskis c’erano varie cose non misurate nei suoi articoli. Non parlo solo dell’aderenza feroce e robotica (questa la ha misurata). Parlo anche del continuo pazientare, incoraggiare, motivare, stimolare. Qualcosa che va dalla “good practice” alla costruzione della relazione. Non è terapia? Può darsi. Intanto in un altro workshop mi dicono che Gilbert insiste su queste qualità del terapeuta cognitivo: attivo e paziente, tenace e incoraggiante, accogliente e motivante, in una parola: compassionevole. Qualità che per lui sarebbero il vero fattore terapeutico (ognuno si focalizza su un pezzo e dice che è l’unico che conta; vabbè).

Ma non c’è solo accoglienza. Alla domanda su cosa fare con il paziente ossessivo che capisce e non migliora, Salkovskis risponde: una forte analisi dei pro e dei contro dell’essere ossessivo e del non esserlo. Una feroce disanima dei danni economici, sociali e affettivi dell’essere ossessivo. Feroce sul serio. Un’aggressiva e vivida rappresentazione di quel che deve passare un figlio o un coniuge di un ossessivo, dei danni sul lavoro e degli amici persi per le proprie ossessioni. Fino a fare piangere il paziente. Per poi raccoglierlo, piangendo con lui (parole sue).

Ora, tutto questo è un’intervento di attivazione emozionale e di rottura/riaccoglimento interpersonale non da poco. Non è solo CBT. Che dice Salkovoskis di farci un po’ di ricerca sopra? Perché non basta lo schemino? Perché occorre, come dice lo stesso Salkovskis, andare “from head to heart”? Cos’è questa testa e questo cuore in termini scientifici? Delle due l’una. O si fa ricerca su tutto (e a maggior ragione su cose che si insegnano e si fanno in prima persona, e che quindi si pensa che partecipino all’efficacia dell’intervento). Oppure si costruisce un modello parzialmente vero, ma incompleto, e si sostiene che quel pezzo funziona, confermandolo con una ricerca inevitabilmente un po’ troppo confermativa.

Infine ci sarebbero altre considerazioni su come in Salkovskis il lavoro sul circolo vizioso prevalga sul lavoro alla Beck sulla distorsione della valutazione della realtà, e su come questa attenzione al circolo vizioso porti a un intervento neutro rispetto al contenuto dell’ossessione, e –infine- su come tutto questo vada in direzione di una terapia (e una teoria) del processo  e non del contenuto. Insomma dalle parti di Wells. Ma non del tutto. Salkovskis non ammetterà mai di essere un precursore di Wells, da lui cordialmente odiato. Anche l’aplomb inglese fallisce di fronte alla forza delle passioni. Questo mi dicono un paio di  millenni di saggezza mediterranea.

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DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO

ARTICOLI SUI CONGRESSI EABCT

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Le molte anime della Metacognizione: report dal Congresso Nazionale di Rimini

 

DETTAGLI EVENTO: Metacognizione e Intervento Clinico – Congresso Nazionale – Rimini 2013

Caselli - Congresso Nazionale Metacognizione Rimini 2013
Gabriele Caselli Ph.D al Congresso di Rimini 2013

Si é concluso da pochi giorni il primo congresso nazionale a Rimini su metacognizione e intervento clinico. Primo nel suo genere, ha soddisfatto un bisogno scientifico che negli ultimi anni é divenuto impellente: avere un punto di incontro e confronto tra tutte le anime della metacognizione. Innanzitutto quindi un plauso agli organizzatori: il Prof. Ezio Sanavio e il Prof Cesare Cornoldi per l’intuizione e il coraggio di aver creato una simile occasione.

Da qualche anno e da piú fronti, il concetto di metacognizione è stato eletto a nodo centrale della futura frontiera psicoterapeutica (Dobson, 2011), almeno di quella che si fonda sulla ricerca scientifica. Tuttavia, di quale metacognizione stiamo parlando? É apparso chiaro da subito che la risposta non è semplice nè scontata.

L’accordo sulla nomenclatura é lungi dall’essere raggiunto.. Da un lato abbiamo una definizione classica: metacognizione come insieme dei processi che regolano attivazione, monitoraggio e interruzione dei processi cognitivi come pensiero, memoria e attenzione (es: Wells & Matthews, 1994).

Dall’altro alcuni autori la considerano alla stregua di una capacitá di mentalizzazione (Dimaggio & Lysaker, 2011), intesa come l’abilitá di riconoscere i propri stati mentali, distinguerli, etichettarli in modo corretto, integrarli in una narrazione di sé, padroneggiarli.

Due visioni distinte

La prima sorge dalla definizione storica e classica. In terapia, lavorare a livello metacognitivo significa modificare regole e credenze che sostengono cattivi stili di pensiero. Gli obiettivi che derivano sono la riduzione di rimuginio,  monitoraggio degli stimoli negativi, evitamento ecc (Wells, 2011). Si tratta di prestare meno attenzione, dare meno importanza ai pensieri e agli stati interni negativi. Questo perché metterli in primo piano li rafforza, li ingigantisce, in qualche modo li fa crescere. Da questa prospettiva anche un’attività di mentalizzazione rischia di essere controproducente poichè tiene l’attenzione su aspetti negativi dell’esperienza.

VEDI: TERAPIA METACOGNITIVA (Wells)

La seconda direzione mette l’accento non tanto su un funzionamento distorto, ma su un funzionamento mancante. La psicopatologia è mantenuta dal malfunzionamento di talune capacità (come appunto quella di monitorare ed etichettare in modo corretto i propri stati interni) e la terapia si dirige conseguentemente verso il miglioramento di tale capacità.

VEDI: TERAPIA METACOGNITIVA-INTERPERSONALE (Di Maggio, Semerari)

Ed è cosí che lo stesso concetto guida a due direzioni terapeutiche pressoché opposte tra loro. Il dibattito acceso durante il congresso ha iniziato a chiarire questa differenza, a segnare linee di demarcazione ma anche di chiarimento. Ma siamo solo all’inizio, le prossime risposte saranno nelle mani della scienza. Soprattutto per quanto riguarda quale direzione conviene assumere con quale tipologia di disturbo psicologico.

La scienza ci è utile laddove gli esseri umani, per loro natura, possono tendere a essere troppo innamorati delle proprie idee.

LEGGI ANCHE: 

METACOGNIZIONE

TERAPIA METACOGNITIVA (Wells)

TERAPIA METACOGNITIVA-INTERPERSONALE (Di Maggio, Semerari)

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dimaggio, G., Lysaker, P.H. (2011). Metacognizione e Psicopatologia. Valutazione e Trattamento. Raffaello Cortina Editore
  • Dobson, K. (2011). The science of CBT: toward a Metacognitive Model of Change?. Behaviour Therapy, 44(2), 24-227
  • Wells A. (2011) Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. Ed. it. a cura di: Gabriele Melli. 2012 Eclipsi Editore
  • Wells A. Matthews G. (1994). Attention and Emotion: A Clinical Perspective. Psychology Press

Alterazioni della scrittura: indice precoce del morbo di Parkinson

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Attualmente lo strumento primario per diagnosticare la malattia di Parkinson è la capacità di osservazione del medico, che può rilevare i sintomi clinici solo quando la malattia è in una fase avanzata.

Non esistono oggi surrogati biologici ricavabili con metodi tradizionali ad esempio analisi del sangue e delle urine per evidenziare ai primi stadi le patologie neurodegenerative non legate a modificazioni genetiche conosciute.

Quindi la malattia viene identificata solamente quando si manifestano segni clinici che ne facciano sospettare la presenza. Attualmente lo strumento primario per diagnosticare la malattia di Parkinson è la capacità di osservazione del medico, che può rilevare i sintomi clinici solo quando la malattia è in una fase avanzata.

I ricercatori dell’Università di Haifa e Rambam Hospital, hanno proposto un nuovo metodo non invasivo di diagnosi di Parkinson nelle fasi precoci della malattia.

Nello studio, hanno partecipato circa 40 adulti con almeno 12 anni di scolarità, la metà sana e metà con diagnosi della malattia di Parkinson alle prime fasi.

I ricercatori hanno chiesto ai soggetti di scrivere il proprio nome e hanno dato loro anche degli indirizzi da copiare, due attività quotidiane che richiedono capacità cognitive. La scrittura è stata fatta su un pezzo di carta normale che è stato posto su una tavoletta elettronica ed è stata utilizzata una penna speciale con sensori che rilevavano la pressione operata sulla carta dal paziente.

Successivamente sono stati confrontati una serie di parametri: il tempo richiesto per la prova, la pressione esercitata sulla superficie mentre si scrive.

I risultati di questo studio hanno evidenziato differenze significative tra i pazienti e il gruppo sano, infatti i pazienti con malattia di Parkinson hanno scritto lettere più piccole ed hanno esercitato meno pressione sulla superficie di scrittura, inoltre hanno impiegato più tempo per completare l’operazione.

Secondo gli studiosi una differenza particolarmente evidente era il tempo in cui la penna rimaneva sospesa durante la scrittura di ogni parola e lettera, infatti mentre il paziente tiene la penna sospesa, la sua mente sta pianificando la sua prossima azione nel processo di scrittura quindi la necessità di più tempo rispecchia la ridotta capacità cognitiva del soggetto.

Questo cambiamento nella scrittura a mano, può essere un segnale precoce della malattia.

Gli studiosi propongono la convalida di questi risultati in uno studio più ampio, poiché l’uso di questo metodo permetterebbe una diagnosi preliminare della malattia in modo sicuro e non invasivo.

LEGGI:

MORBO DI PARKINSON 

CALO DEL TESTOSTERONE: PROVOCA SINTOMI DEL MORBO DI PARKINSON?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Disturbo Ossessivo-Compulsivo: sovrastima delle dimensioni

Disturbo Ossessivo Compulsivo: sovrastima delle dimensioni. - Immagine:© Felix Pergande - Fotolia.comPiù mi fa paura, più mi sembra grande: non solo “Sovrastima Del Pericolo” i soggetti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo sovrastimano anche le dimensioni

La sovrastima del pericolo, una distorsione cognitiva che si caratterizza per la tendenza a valutare in modo sproporzianto la pericolosità  dei rischi e dei pericoli ambientali, è una credenza chiave in tutti i disturbi d’ansia. La sovrastima della minaccia, così come la sottostima delle proprie capacità di fronteggiarlo riflettono l’attivazione dei cosiddetti “schemi di pericolo” (Beck, 1985), che mettono in moto i circoli viziosi dei diversi disturbi d’ansia.

Nel disturbo Ossessivo-Compulsivo costrutti come questo, accanto al concetto di intolleranza all’incertezza, perfezionismo e soprattutto senso di responsabilità esagerato (Salkoski….) hanno contribuito in modo consistente alla comprensione delle dinamiche patogenetiche del disturbo, nonchè, di conseguenza hanno arricchito le tecniche psicologiche e psicoterapeutiche di intervento.

Sebbene l’”overstimation of threat” non sia specifica di pazienti con sintomi ossessivi resta comunque un aspetto importante, un costrutto ampio composto da differenti parti.

Le sotto scale dell’ Obssessive Beliefs Questionnaire Long Form (Obsessive Compulsive Cognition Workin Group, 1997, 2003) declinano questo concetto in:

1. Sovrastima del pericolo “ mi capita spesso di pensare che il mondo a me non è sicuro”;

2. Percezione di una maggiore vulnerabilità personale “ è più probabile che cose negative accadano a me che agli altri”;

3. Sovrastima delle consegenze negative di un evento “nella mia vita mi sembra che i piccoli problemi si trasformino sempre in grandi problemi

I pazienti ansiosi, e tra loro anche i pazienti ossessivi operano numerose distorsioni che, come la teoria e la terapia cognitivo-comportamentale insegnano, conducono ad un errato modo di interepretare i dati della realtà in termini di pericolo e danno.

Fin qui nulla di nuovo.

Ma se queste distorsioni non fossero solo il frutto di una modalità di pensiero, se non fossero soltanto “cognitive”, ma fossero anche visive?

È questa la domanda che si sono fatti un gruppo di ricercatori in Germania (Moritz et all., 2011) che hanno condotto uno studio per indagare se i pazienti affetti da Disturbo Ossessivo-Compulsivo avessero la tendenza a sovrastimare le dimensioni di stimoli salienti per il loro disturbo.

Per prima cosa hanno chiesto a 65 partecipanti con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo e a 55 partecipanti del gruppo di controllo senza nessuna diagnosi, di valutare la rilevanza personale di ciascuna figura presentata. Le 40 immagini proposte erano suddivise in 4 categorie: immagini neutre (sedie, tavoli), immagini attivanti, ma non legate allo spettro ossessivo (animali feroci o pericolosi che spesso elicitano emozioni di paura) immagini legate al DOC di pulizia e controllo (come ad esempio la figura di una toilette sporca o di una casa che prende fuoco).

Successivamente sono state nuovamente presentate le miniature di tali immagini ed è stato chiesto ai soggetti di stimare la dimensione originale della foto precedentemente vista dell’oggetto stesso su una scala a 7 punti. L’ipotesi degli autori era che i pazienti con diagnosi di DOC sovrastimassero le dimensioni degli item connessi alla propria patologia. 

Dai risultati emerge la tendenza dei soggetti con disturbo ossessivo a stime non accurate, in particolare a sovrastimare le dimensioni di oggetti rispetto ai controlli che avevano la tendenza opposta.

I soggetti con Disturbo Ossessivo hanno evidenziato, specificatamente, la tendenza a sovrastimare gli stimoli personalmente rilevanti legati alla sintomatologia ossessiva e a sottostimare lievemente quelli neutrali. I soggetti del gruppo di controllo (non avendo per definizione item personalmente salienti) hanno comunque riportato un bias in senso opposto tendendo a sovrastimare gli oggetti giudicati positivamente e sottostimare quelli negativi.

È da tempo riconosciuto che la percezione della grandezza così come della distanza da un dato stimolo risentono della rilevanza personale che tale stimolo ha per il soggetto che la osserva (Balcetis & Dunnis, 2009) e sono stati condotti alcuni studi in questo senso soprattutto nel campo delle fobie specifiche (Clerkin, et all., 2009), ma questo è uno dei pochi studio che ha utilizzato un campione di soggetti con DOC ed il primo che ha utilizzato una procedura simile.

Resta tuttavia da indagare in esperimenti simili se il ruolo della memoria, così come dei processi ansiosi nella visione delle immagini attivanti, possa o meno aver giocato un ruolo nell’alterare la percezione delle dimensioni nei soggetti con diagnosi.

I risultati di questo studio potrebbero contribuire nel percorso psicologico a spiegare e rendere i pazienti maggiormente consapevoli, anche ad un livello metacognitivo, degli errori e dei bias a cui sono spesso soggetti in presenza di stimoli attivanti; a livello psicoeducazione dimostrare ai pazienti che pensieri e paure ossessive possono giocare scherzi non solo a livello di cognizione e memoria, ma anche di percezione può favorire una rivalutazione della pericolosità degli stimoli e contribuire alla messa in discussione di credenze distorte e spesso rigide.

LEGGI:

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO – BIAS COGNITIVI – ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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