Conosci te stesso
Quando qualcuno ci chiede “chi sei?”, solitamente rispondiamo fornendo una breve narrazione di noi, del tipo “sono una psicologa, sono una madre, sono figlia ecc.”. Possiamo accedere ai nostri primi ricordi o immaginarci nel futuro. Da più di 2000 anni riecheggia l’antico aforisma del tempio di Apollo a Delfi, “Conosci te stesso”, e nel corso dell’ultimo secolo, gli scienziati si sono uniti allo sforzo dell’umanità per comprendere i processi psicologici alla base del sé.
Che cosa è il sé?
Per la filosofia occidentale, il sé è ciò che accade quando “Io” riflette su “Me” (James, 1892); in altri termini, il sé racchiude sia l’Io, il conoscitore, che il Me, ovvero l’oggetto della nostra conoscenza. Somma degli attributi e delle caratteristiche mentali e fisiche di un individuo, la psicologia lo definisce come essenza dell’uomo, formata da corpo, identità (chi siamo a livello sociale, a quale gruppo apparteniamo), autostima, valori personali, atteggiamenti e intenzioni (APA, 2023).
In tale prospettiva, il sé assume le sembianze di un pilota, in grado di riconoscere in modo unitario e stabile la propria fisicità, i propri pensieri, comportamenti e stati d’animo.
Il centro del sé nel cervello
Le neuroscienze non hanno ancora individuato in modo univoco una parte del cervello deputata a processare le informazioni sul sé. Se alcuni studiosi ipotizzano un ruolo predominante dell’emisfero destro e delle regioni frontali (Feinberg & Keenan, 2005) e per altri il precuneo anteriore potrebbe essere il centro del sé corporeo (Lyu et al., 2023), un filone di ricerca, come evidenzia un editoriale di Nature Neuroscience, sostiene che diversi processi mentali sono mediati da diverse regioni del cervello, e non vi sono prove che supportino l’esistenza di un controllore centrale. Per Joseph Ledoux (2002), il sé è plasmato da fattori genetici (natura), psicologici e culturali (educazione) che influenzano il modo in cui si formano le sinapsi: il nostro sé, pertanto, sarebbe codificato all’interno di connessioni sinaptiche, in grado di mantenere il sé integrato nello spazio e nel tempo autobiografico.
La scienza, insomma, prospetta l’idea di un sé diffuso e l’unitarietà del sé a livello cerebrale appare un’illusione.
Da cosa dipende, allora, la nostra capacità di esprimere giudizi sul mondo, raccontare i nostri ricordi, identificarci con il nostro corpo, creare proiezioni su avvenimenti futuri e prendere decisioni? Come nasce quel senso di sé che ci accompagna da quando, al mattino, apriamo gli occhi, al momento in cui a sera li chiudiamo?
Il cervello: un “cattivo” interprete
Il cervello è un organo iperconnesso, in cui i due emisferi sono in costante comunicazione mediante una fascia di fibre chiamata corpo calloso. Nel tentativo di ridurre i sintomi dell’epilessia, Sperry e Gazzaniga (1962) avevano reciso tale connessione, lasciando nei loro pazienti due emisferi cerebrali distinti, incapaci di comunicare. Le osservazioni di questa popolazione clinica, nota come pazienti split-brain, forniscono alcuni indizi sulla nostra percezione di un sé unificato e di un “pilota” centralizzato.
I pazienti con split-brain, infatti, mostravano di eseguire correttamente le richieste motorie presentate all’emisfero destro, ma di fornire spiegazioni del tutto errate sul perché si eseguissero determinate azioni. Facciamo un esempio.
In un esperimento, Gazzaniga (1989) aveva mostrato la parola “sorriso” all’emisfero destro di un paziente (presentando la parola al corrispondente campo visivo sinistro) e la parola “faccia” all’emisfero sinistro (presentandola al campo visivo del lato opposto), chiedendo al paziente di disegnare ciò che aveva visto. Questi aveva disegnato con la mano destra una faccia sorridente. Quando Gazzaniga gli domandò perché avesse realizzato proprio quel viso sorridente, il paziente gli offrì una spiegazione plausibile, ma non congruente alla realtà dei fatti: gli rispose che alle persone non piacciono le facce tristi e, per questo, ne aveva realizzata una felice.
In altri termini, la decisione in merito a cosa disegnare, come muoversi e comportarsi “viene presa” indipendentemente dall’emisfero di sinistra e, una volta messa in pratica, l’emisfero sinistro interpreta e spiega questa decisione come fosse sua. Gazzaniga ha definito tale fenomeno “l’Interprete” (2012), alludendo al fatto che un emisfero cerebrale decide e l’altro interpreta e spiega la decisione presa.
Per il ricercatore, l’interprete dell’emisfero sinistro del cervello è quotidianamente utilizzato per cercare spiegazioni agli eventi, smistare le informazioni in arrivo e costruire narrazioni che aiutano a dare un senso al mondo, anche se tali narrazioni dovessero risultare del tutto erronee.
Cosa ci dicono la scienza e la filosofia orientale sul sé?
Siamo abituati a pensare all’essere umano come creatura razionale, in grado di assumere decisioni ponderate. Gli studi sullo split-brain, al contrario, ci mostrano quanto poco utilizziamo le nostre capacità razionali per fare scelte oculate, e quanto invece non facciamo che razionalizzare scelte già fatte (Johnson, 2020).
Sembra che il nostro sé si fondi su interpretazioni di cui le persone non sono del tutto consapevoli. In tale ottica, si intravede un’analogia tra le neuroscienze e il pensiero orientale buddista, che definisce il concetto di Anatta, ovvero di nessun sé. Per il buddismo, la credenza in un’essenza stabile del sé rappresenta una fonte di sofferenza: trascorriamo la vita alla ricerca di ciò che piacerà al nostro sé, forse a volte ottenendo ciò che perseguiamo, per poi essere di nuovo insoddisfatti. Il sé buddista esiste solo nel momento in cui viene pensato e non ha un’esistenza indipendente dal pensiero.
L’unitarietà e la stabilità del sé possono apparire concetti rassicuranti, ma cosa accade quando il sé suggerisce interpretazioni per noi dolorose o disturbanti? Attribuiamo pensieri intrusivi o disfunzionali al nostro sé, dimenticando che per le neuroscienze il sé è, per il momento, un’illusione.