La malattia mentale raccontata in “Kripton”
Immaginatevi che non ci sono linee precise, che è tutto dritto. A un certo punto è come un terremoto. Stai beatamente a casa tua…ah, che bello, oggi finalmente sono tornato a casa. Ti sei seduto sul divano… C’è un terremoto. E la mente deve riorganizzarsi tutto da capo.
Com’è difficile il mondo…
Kripton, l’ultimo film-documentario di Francesco Munzi, prodotto da Cinemaundici e distribuito da ZaLab, è una di quelle chicche di cui non puoi fare a meno di parlare a tutti una volta uscito dal cinema.
Narra il tentativo di 6 giovani di dare un senso a questa vita, anche se questa vita, come canta Vasco, un senso non ce l’ha, nonostante, a causa, ma forse anche grazie al disturbo psichiatrico di cui soffrono. Sei giovani che hanno deciso di ricoverarsi e che vengono seguiti per 100 giorni all’interno di due comunità terapeutiche pubbliche della periferia romana.
La telecamera accompagna Marco Antonio, Benedetta, Georgiana, Dimitri, Emerson e Silvia durante colloqui, attività, confronti con la propria famiglia, ma è come se non ci fosse: i ragazzi si raccontano, al regista e agli operatori sanitari, con una sincerità disarmante, che mostra da vicino quella sofferenza psicologica che oggi è ancora un tabù: anoressia, personalità borderline, delirio…
Tutti cercano di adattarsi a vivere in un mondo di cui faticano a sentirsi parte, come se fossero alieni di un pianeta di una galassia lontana, come se provenissero da Kripton.
Come pensieri che rapidamente si affollano e si alternano nella mente, come manifestazioni dell’inconscio che per un attimo affiorano alla coscienza, immagini evocative in bianco e nero si frappongono alle scene girate all’interno della comunità: immagini di binari che scorrono a gran velocità, di ricordi e memorie d’infanzia, di bambini che giocano ignari del corso che prenderà la loro mente in futuro, ignari del terremoto che la sconquasserà.
E quando il disturbo mentale affiora, travolge non solo la vita di chi ne soffre, ma anche di chi sta attorno.
Come “Kripton” racconta la sofferenza di ragazzi e famiglie
Munzi infatti racconta la sofferenza, le paure, le angosce, i dubbi non soltanto dei giovani ricoverati, ma anche delle loro famiglie in difficoltà a gestire, comprendere, aiutare figli, fratelli, sorelle che hanno perso il contatto con la realtà, preoccupate per un futuro in salita, arrabbiate per una vita che non è andata come avrebbero voluto, che si interrogano senza avere risposta sulle cause che hanno portato i propri cari a sviluppare un disturbo psichiatrico: “Mi domando, ma è possibile che soltanto il contesto possa aver determinato questa condizione? Possa averlo portato addirittura così lontano?” si chiede il fratello di Marco Antonio.
Emblematiche sono le scene che riprendono gli incontri dei gruppi di sostegno alle famiglie o delle sedute dei genitori con i terapeuti, dove la rabbia e la preoccupazione investono lo spettatore con tutta la loro potenza proprio grazie alla grande abilità della cinepresa di essere presente, ma al contempo invisibile e mai voyeurista.
La sofferenza infatti viene raccontata con grande delicatezza, ma mai esibita, suscitando in chi osserva grande empatia e commozione.
Kripton è un documentario che regala anche speranza e restituisce fiducia in un sistema sanitario spesso criticato, che paga per gli scarsi fondi investiti nella sanità, ma che in questo caso ha saputo dare vita a progetti che funzionano, due comunità terapeutiche che ogni giorno aiutano chi deve fare i conti con la sofferenza mentale ad affrontare questo – come lo definisce Benedetta – “difficile mondo”, che per alcuni è ancora più difficile.