Introduzione
L’empatia è un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. Nelle relazioni interpersonali l’empatia è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e in generale al mondo dell’altro.
Empatia: definizione e significato
Il termine empatia deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni.
L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni e pensieri. È l’abilità di vedere il mondo come lo vedono gli altri, essere non giudicanti, comprendere i sentimenti altrui mantenendoli però distinti dai propri (Morelli e Poli, 2020).
Si tratta di un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. Nelle relazioni interpersonali l’empatia è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e in generale al mondo dell’altro. Grazie a essa si può non solo afferrare il senso di ciò che asserisce l’interlocutore, ma cogliere anche il significato più recondito psico-emotivo. Questo ci consente di espandere la valenza del messaggio, cogliendo elementi che spesso vanno al di là del contenuto semantico della frase, esplicitandone la metacomunicazione, cioè quella parte veramente significativa del messaggio, espressa dal linguaggio del corpo, che è possibile decodificare proprio grazie all’ascolto empatico.
Empatia: cenni storici
Il termine empatia era utilizzato nell’antica Grecia per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore – cantautore (aedo) al suo pubblico. Empatia significava sentirsi dentro l’altro, sperimentare il modo in cui l’altra persona vive un’esperienza.
Il concetto di empatia in filosofia è stato introdotto a fine Ottocento da Robert Vischer, studioso di arti figurative, nell’ambito della riflessione estetica, per definire la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura. Egli faceva uso del termine Einfühlung che, solo più tardi, è stato tradotto in inglese come empathy.
Agli inizi del Novecento, Lipps introduce la dimensione dell’empatia in psicologia, parlando di partecipazione profonda all’esperienza di un altro essere, introducendo così il tema dell’alterità, che verrà poi ripreso dalla scuola fenomenologica. Per Lipps l’osservazione dei movimenti altrui suscita in noi lo stesso stato d’animo che è alla base del movimento osservato, tuttavia questo stato non viene percepito come una propria esperienza, ma viene proiettato sull’altro e legato al suo movimento (non ci si perde nell’altro); si tratta di empatia come partecipazione o imitazione interiore.
Empatia e Neuroni Specchio
Il gruppo di Rizzolatti e Gallese ha poi formulato la teoria dei neuroni specchio, secondo cui l’empatia nasce da un processo di simulazione incarnata che precede l’elaborazione cognitiva.
A livello neurobiologico, la comprensione della mente e dei vissuti dell’altro è sostenuta da una particolare classe di neuroni, definiti neuroni specchio: partecipare come testimoni ad azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui attiva le stesse aree cerebrali di norma coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni e nella percezione delle stesse sensazioni ed emozioni.
Alla base dell’empatia ci sarebbe un processo di ‘simulazione incarnata’, vale a dire un meccanismo di natura essenzialmente motoria, molto antico dal punto di vista dell’evoluzione umana, caratterizzato da neuroni che agirebbero immediatamente prima di ogni elaborazione più propriamente cognitiva.
Ecco come lo descrive l’autore:
“Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e prelinguistico di simulazione motoria. […] Quando vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data emozione e questa percezione mi induce a comprendere il significato emotivo di quell’espressione, non conseguo questa comprensione necessariamente o esclusivamente grazie a un argomento per analogia. L’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. È per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire empatica” (Gallese, Migone e Eagle, 2006).
Empatia e Sviluppo: la teoria di Martin Hoffman
Il modello elaborato da Hoffman fornisce una descrizione dello sviluppo dell’empatia articolata e complessa. Hoffman, infatti, estende la definizione di empatia a una serie più ampia di reazioni affettive coerenti con il sentimento provato dall’altro e colloca le prime manifestazioni di empatia nei primissimi giorni di vita. Inoltre, non considera l’empatia come qualcosa di “unitario”, ma l’articola in diverse forme che, man mano che procede lo sviluppo, diventano più mature e sofisticate (Hoffman, 2008).
Hoffman propone un modello a tre componenti:
- affettiva
- cognitiva
- motivazionale.
Secondo Hoffman l’empatia si manifesta fin dai primi giorni di vita. Questa considerazione riflette la maggiore autonomia e rilevanza attribuita alla dimensione emotiva dell’empatia: nelle primissime manifestazioni empatiche, infatti, è la dimensione affettiva ad avere il ruolo di maggior rilevanza, mentre la dimensione cognitiva è pressoché assente.
Procedendo nello sviluppo, la componente cognitiva acquisirà un’importanza crescente e si compenetrerà sempre di più con quella affettiva, permettendo lo sviluppo di forme più evolute di empatia.
Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman interviene nell’esperienza empatica un terzo fattore: la componente motivazionale. L’esperienza di empatizzare con una persona che sta soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto comportamenti di aiuto. L’effetto motivante dipende dal fatto che condividere l’emozione dell’altro, soccorrendolo, fa provare a chi aiuta uno stato di benessere; viceversa, la scelta di non confortare l’altro porterebbe con sé un senso di colpa.
L’empatia, nella sua forma più matura, si caratterizza quindi come una risposta a un insieme di stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale, che trova, in buona parte delle persone, pieno compimento intorno ai 13 anni.
Empatia e mentalizzazione
Dell’empatia Choi-Kain e Gunderson (2008) riportano tre aspetti che accomunano le varie definizioni e concezioni:
- una reazione affettiva che comporta la condivisione di uno stato emotivo con l’altro;
- la capacità cognitiva di immaginare la prospettiva altrui;
- una capacità di mantenere in modo stabile una distinzione sé-altro.
L’empatia è stata oggetto di diverse modalità di studi, da quelli più neuroscientifici di neuroimmaging fino a misure self-report. Le sovrapposizioni e differenze col costrutto di mentalizzazione toccano diversi aspetti. In primo luogo entrambi implicano l’apprezzare gli stati mentali altrui, a cui però l’empatia aggiunge la condivisione e la preoccupazione. Inoltre, l’orientamento dell’empatia è rivolto più verso gli altri, nella mentalizzazione invece è equamente distribuito. Entrambe operano sia a livello implicito che esplicito, ma l’empatia viene considerata specie nella sua modalità più implicita. Infine, il contenuto dell’empatia, come per la mentalizzazione, comporta l’uso di abilità cognitive, ma è focalizzato soprattutto sugli affetti.
Empatia e intelligenza emotiva
L’intelligenza emotiva è “la capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni” (Salovey e Mayer, 1990); racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nella gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano. L’intelligenza emotiva viene definita come quell’abilità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri (Morgese, 2018).
L’autore che resta più influente in tema di intelligenza emotiva è Goleman che, alla base dell’intelligenza emotiva, individua due tipi di competenze, quella personale, ovvero come controlliamo noi stessi e quella sociale, ossia il modo in cui gestiamo le relazioni con l’Altro (Goleman, 1995). Quando non si sviluppa l’intelligenza emotiva si corre il rischio di diventare analfabeti emotivi (o analfabeti emozionali), ovvero si diventa incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni, e si ha difficoltà a riconoscere anche le emozioni altrui, il che rende incapaci di provare empatia e compassione. Alti livelli di intelligenza emotiva, invece, ci consentono di essere empatici verso gli altri, capirli e saperci mettere nei loro panni (Morgese, 2018).
Empatia e psicoterapia
Freud (1921) afferma che è solo per mezzo dell’empatia che noi possiamo conoscere l’esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra, ma non considera l’empatia come un metodo terapeutico, passaggio che farà Kohut molti anni dopo. Kohut, infatti, considera l’empatia non solo come uno strumento di conoscenza, ma anche come un importante strumento terapeutico: l’esposizione ripetuta a esperienze di comprensione empatica, da parte dell’analista, serve a riparare i “difetti del Sé” del paziente. In seguito, nel 1934 Mead, aggiunge al costrutto di empatia una componente cognitiva.
L’empatia oggi risulta essere centrale in psicoterapia; sul tema della relazione terapeutica, infatti, Aaron Beck fin dai suoi primi libri sottolineava che:
le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza.
Queste caratteristiche modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.
L’empatia intesa come capacità del terapeuta di entrare nel mondo del paziente, cercando di provare le medesime sensazioni e sentimenti provati dal paziente, e la condivisione di questa esperienza, aumenteranno nel paziente la percezione di essere capito e faciliteranno la nascita di una fiducia nel rapporto terapeutico.
Empatia e professioni sanitarie
Le professioni in ambito sanitario sono caratterizzate, più di altre, da un costante coinvolgimento interpersonale e da un contatto con la sofferenza umana. La partecipazione emotiva è inevitabile e, se essa può arrecare soddisfazione e senso di efficacia personale, è in alcuni casi fonte di forte stress e rischio di burnout (Morelli e Poli, 2020).
Un elemento chiave per la buona riuscita del trattamento del paziente è l’empatia manifestata dalla figura curante, che aumenta la compliance del paziente e la sua fiducia nella terapia, migliora la prognosi di malattia e la soddisfazione della persona in cura e riduce il numero di azioni legali nei confronti del medico (Decety, Smith, Norman & Halpern, 2014; Fulop, Devecsery, Hausz, Kovacs & Csabai, 2011).
L’evoluzione scientifica rischia però di portare verso una medicina sempre più distaccata dal paziente, col rischio di tornare ad un approccio medico centrato esclusivamente sulla malattia; è necessario invece recuperare una prospettiva più umanistica e individualizzata della malattia, ma soprattutto della persona portatrice di sofferenza, che abbia dunque come oggetto dell’attenzione la persona nella sua interezza (Giordano, 2021). L’essere ascoltato e il potersi esprimere con parole proprie e in termini di emozioni e sentimenti incrementa la soddisfazione del paziente rispetto alla visita medica, aumenta la percezione delle competenze del medico e favorisce la compliance terapeutica (Buckman, 1992). Dopo il momento dell’ascolto viene il momento delle parole, quelle che comunicano al paziente empatia e accettazione. Le parole a volte troppo dure, inumane e violente dei medici lacerano gli individui già afflitti dalla malattia, per cui è necessario scegliere parole che curano, appunto, e non feriscono, che consolano e accolgono anche quando non possono più offrire una soluzione alla malattia (Giordano, 2021).
Tuttavia l’empatia, pur essendo un punto di forza, può talvolta diventare rischiosa, specie in ambiente sanitario in cui si ha a che fare con le situazioni più emotivamente angoscianti: malattia, morte e sofferenza. La crisi sanitaria legata all’emergenza Covid-19 ha messo in luce proprio questo rischio. La rapidità di diffusione dell’epidemia, la scarsità di risorse e di luoghi di cura attrezzati, la gestione di turni stressanti, la carenza di personale ed il continuo confronto con situazioni di estrema sofferenza hanno aumentato in maniera esponenziale i rischi dello sviluppo di sindromi da burnout (Morelli e Poli, 2020).
L’approccio ideale per le figure sanitarie dovrebbe quindi essere quello di un’empatia clinica, che include la capacità di distinguere il sé dall’altro in maniera tale da non provare le sue stesse emozioni e sofferenze. Questo protegge a lungo termine da esaurimento e depersonalizzazione e aiuta a prevenire il burnout (Ekman & Halpern, 2015; Juszkiewicz & Debska, 2015).
Empatia e Psicopatologia
I disturbi di personalità del cluster B, caratterizzati da tratti di drammaticità e impulsività, comportano una alterazione delle relazioni interpersonali e una disregolazione emotiva, che può almeno in parte essere ricondotta ad un deficit a livello empatico. Nello specifico:
Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP)
Gli elementi distintivi del disturbo narcisistico di personalità riguardano fondamentalmente tre temi: idea grandiosa di sè, costante bisogno di ammirazione e mancanza di empatia.
Facendo riferimento a quest’ultima caratteristica, si può affermare che spesso i pazienti affetti da narcisismo non siano in grado di mettersi nei panni degli altri e di riconoscere che anche loro abbiano desideri, sentimenti e necessità. Da questo deriva la convinzione dei narcisisti che le proprie esigenze vengano prima di tutto e che il loro modo di vedere le cose sia l’unico universalmente giusto;
Disturbo Istrionico di Personalità (DIP)
La persona affetta da disturbo istrionico di personalità è caratterizzata da un’emotività eccessiva e da ricerca di attenzione. In particolare il paziente manifesta disagio nei contesti in cui non è al centro dell’attenzione, un comportamento seduttivo e/o provocante, emotività esageratamente inappropriata, instabile e superficiale, uso dell’aspetto fisico come mezzo per attirare l’attenzione su di sè, eloquio di tipo impressionistico, alta suggestionabilità, tendenza a considerare le relazioni più intime di quanto non siano realmente. Sicuramente uno degli aspetti su cui si sviluppa il trattamento di questi pazienti è quello di aumentare le abilità sociali, incluso il senso di empatia, evitando atteggiamenti troppo seducenti o provocanti.
Disturbo Borderline di Personalità (DBP)
Il disturbo borderline di personalità è una condizione caratterizzata da pattern a lungo termine di instabilità emotiva, interpersonale e comportamentale. Le serie difficoltà manifestate nelle relazioni interpersonali potrebbero essere dovute, almeno in parte, a difficoltà nella sfera empatica e dei processi della teoria della mente. Una nuova ricerca dell’Università della Georgia indica che questo potrebbe collegarsi ad una scarsa attività cerebrale in regioni importanti per l’empatia nei pazienti con tale disturbo.
Altri recenti studi (Guttman and Laporte, 2000; Lynch et al., 2006), invece, evidenziano che nel disturbo borderline vi sarebbe una risonanza esagerata e iperaffettiva con lo stato mentale dell’altro, determinata da una dissociazione tra le componenti affettive e cognitive dell’empatia.
Disturbo Antisociale di Personalità (DAP)
La persona affetta da disturbo antisociale di personalità è caratterizzata principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, che si manifestano in un soggetto maggiorenne, almeno dall’età di 15 anni. L’infanzia è di solito costellata da piccoli furti, menzogne e scontri; l’adolescenza da episodi di abuso di sostanze e, raggiunta l’età adulta, vi è manifesta incapacità ad assumersi responsabilità, conservare un’occupazione e mantenere una relazione affettiva in maniera stabile. Il modo di rapportarsi agli altri è drasticamente connotato dalla superficialità e dalla mancanza di rispetto per i sentimenti e le preoccupazioni di chi li circonda, in genere si possono definire poco empatici e poco sensibili ai sentimenti o ai diritti altrui.
Empatia: Conclusioni
Per concludere è evidente come l’empatia possa essere considerata non solo come una forma di conoscenza, ma anche come un processo cognitivo, un’abilità che può essere praticata, allenata, e in cui si può diventare esperti. Riuscire a decidere in maniera flessibile quando, come e quanto attivare il sentimento empatico, a seconda delle situazioni e della persona o del contesto sociale in cui interagiamo, ci renderebbe in grado di evitare di ricadere nei due estremi di assenza o eccesso di empatia, che può a sua volta provocare in chi la prova esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri.
- Giusti, E., e Azzi, L. (2013). Neuroscienze per la psicoterapia. La clinica dell’integrazione trasformativa (Vol. 23), Sovera Edizioni.
- Hoffman, M.L. (2008). Empatia e sviluppo morale. Il Mulino
- Gallese, V., Migone, P., e Eagle, M. N. (2006). La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività e alcune implicazioni per la psicoanalisi. Psicoterapia e scienze umane.
- Choi-Kain L. W. & Gunderson J. G.. (2008). Mentalization: Ontogeny, Assessment, and Application in the Treatment of Borderline Personality Disorder, American Journal of Psychiatry, 165, 1127–1135.