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Il disagio empatico: il vero motivo sottostante all’indifferenza di massa?

In che modo il disagio empatico influenza negativamente le persone e quali effetti positivi può portare l'esercizio della compassione?

Di Lucia Salatini

Pubblicato il 11 Apr. 2024

Che cos’è il disagio empatico?

Dinanzi alle recenti guerre, violenze e discriminazioni che caratterizzano il panorama mondiale, il sentimento comune è quello di provare indignazione, mortificazione, sofferenza ed impotenza verso così tata atrocità e disumanità. Molte persone, però, rimangono incredule nel notare fin troppa gente indifferente nei confronti di tanta violenza ed ingiustizia. Sorge quindi spontaneo chiedersi come sia possibile andare avanti e vivere la vita di tutti i giorni come se nulla fosse, ignorando completamente i fatti. Una possibile conclusione potrebbe essere quella che alle persone, semplicemente, non importi, ma è fondamentale tenere a mente che l’inazione non è sempre e solo causata dall’apatia, ma che spesso deriva dall’empatia, nello specifico, può essere il risultato del così detto disagio empatico: la sofferenza che si prova nei confronti delle altre persone in quanto ci si sente incapaci di offrire aiuto. Il disagio empatico potrebbe essere il motivo per cui molte persone evitano di affrontare, parlare o prestare attenzione alle tragedie altrui. Anche i gesti più piccoli, come donare in beneficenza o impegnarsi a divulgare e promuovere la sensibilizzazione sui social, sembrano futili e non sufficienti a colmare la voragine di sofferenza che ingloba i protagonisti di certe dinamiche drammatiche, portando spesso le persone a sviluppare un atteggiamento compensatorio: l’indifferenza (Grant, 2024).

I sintomi del disagio empatico furono originariamente riscontrati in contesti sanitari, in quanto sia infermieri che medici sembravano spesso e volentieri diventare insensibili al dolore dei pazienti. Questo fenomeno venne etichettato come “affaticamento da compassione” (compassion fatigue), descrivendolo come il costo dell’assistenza, in quanto la teoria sottostante riteneva che assistere a così tanta sofferenza costituisse a tutti gli effetti una forma di trauma indiretto, in grado di impoverire le persone fino a prosciugare del tutto le loro energie (Grant, 2024). 

Olga Klimecki e Tania Singe, due neuroscienziate, hanno scoperto mediante i loro studi che il termine “compassion fatigue” è improprio, in quanto non è di per sé la cura ad essere costosa e logorante, ma è la sensazione di sentirsi impotenti di alleviare il dolore altrui che prosciuga le persone (Klimecki & Singe, 2012). 

Che cosa si intende per compassione

La compassione permette alle persone di focalizzare la loro attenzione sulle emozioni di chi hanno davanti, riuscendo a distaccarsi dalle proprie e soffermarsi unicamente su quelle altrui (Grant, 2024). Nell’esperimento di Klimecki (Klimecki et al., 2014), un gruppo di partecipanti è stato prima addestrato alla risonanza empatica e successivamente alla compassione.

Durante l’addestramento all’empatia, quando le persone vedevano qualcuno soffrire, si evidenziava un aumento degli affetti negativi e delle attivazioni cerebrali nell’insula anteriore e nella corteccia cingolata anteriore, regioni del cervello associate all’empatia per il dolore. I partecipanti soffrivano per il dolore altrui e, incapaci di aiutare concretamente chi soffriva, cercavano di fuggire dal dolore ritirandosi. Mediante il training alla compassione, invece, si è insegnato ai partecipanti come fare per concentrarsi non sulla condivisione del dolore degli altri ma sul notare i loro sentimenti e offrire efficacemente conforto. Dalle scansioni del cervello si è notata l’accensione di una rete neurale diversa, associata all’affiliazione e alla connessione sociale. 

Mediante questa ricerca è possibile comprendere perché la compassione risulta essere molto più efficace e salutare verso se stessi e gli altri: trovandosi dinanzi a qualcuno che soffre, invece di sovraccaricare se stessi, finendo per ritirarsi e non essere d’aiuto, la compassione permette di trovare la giusta motivazione per dare effettivamente una mano al prossimo ed essere d’aiuto per alleviare il suo dolore (Grant, 2024).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Grant A. (2024). That numbness you’re feeling? There’s word for it. The New York Times
  • Klimecki, O., & Singer, T. (2012). Empathic distress fatigue rather than compassion fatigue? Integrating findings from empathy research in psychology and social neuroscience. Pathological altruism5, 368-383. 
  • Klimecki, O. M., Leiberg, S., Ricard, M., & Singer, T. (2014). Differential pattern of functional brain plasticity after compassion and empathy training. Social cognitive and affective neuroscience9(6), 873-879.
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