Non ci sono dubbi che “Tutto chiede salvezza” abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.
Attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza. Ecco la parola che cercavo, salvezza. Per i vivi e per i morti, salvezza (…) per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.
A questi versi di una poesia di Daniele Mencarelli è ispirato il titolo di un suo romanzo autobiografico, che ora è diventata una serie di grande richiamo su Netflix, “Tutto chiede salvezza”.
La vicenda è quella che il poeta e scrittore ha realmente vissuto quando aveva vent’anni e a seguito di un crollo psichico subì un TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, che ancora oggi rappresenta la soluzione di contenimento di un’emergenza psichiatrica caratterizzata da assente consapevolezza di disagio e pericolosità per sé e/o la società. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha realizzato una fiction che ha raggiunto, quasi inaspettatamente, un successo straordinario presso il grande pubblico. Gradimento altissimo per un argomento ostico e delicato, lodi della critica oltre che di una larga fascia di spettatori.
Cosa aggiunge una prospettiva in cui l’occhio che guarda riflessivo è un occhio clinico?
Non ci sono dubbi che la serie abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.
Inoltre la serie descrive bene la storia dei protagonisti, le vulnerabilità dei personaggi, l’esordio dei disturbi trattati, le debolezze del sistema familiare di riferimento, ma emerge anche come la serie sembra trascurare alcuni aspetti di sofferenza e di criticità del sistema psichiatrico attuale che spesso rinforzano dolore e confermano credenze di inaiutabilitá e fallimento.
Emergono bene i temi di condivisione, solidarietà, amicizia e amore che spesso si osservano nella realtà fra i pazienti che si autosostengono e decidono di essere alleati. Emerge passione e interesse attivo verso temi sociali e politici e la fiction assolve diversi obiettivi: raccontare, rappresentare e creare interesse rispetto ad un tema delicato –il disagio psichico– di norma distanziato o ignorato.
In generale, la rappresentazione fornita dalla fiction è potente, cattura l’attenzione e sensibilizza rispetto ai temi trattati. Nonostante l’amarezza delle storie narrate, si mostra gradevole, riesce a normalizzare e stimolare empatia verso situazioni esistenziali che ci lasciano indifferenti, che ignoriamo, o che evitiamo di conoscere e approfondire, talvolta per paura, per disgusto, o per non sperimentare tristezza, impotenza e sofferenza emotiva. Forse però, normalizzando troppo rischia di trascurare il vissuto traumatico che spesso si osserva nella pratica clinica, in associazione proprio al TSO, ancora oggi.
I fatti che hanno ispirato il libro di Mencarelli, e quindi la serie tv, sono accaduti infatti nel 1997, e l’aver trasferito lo scenario della storia negli anni ’20 del 2000 non deve far pensare che la situazione ora, in un ospedale psichiatrico in cui si “contiene temporaneamente” una situazione di grave disagio psicologico, sia un idillio rispetto a prima e rispetto alla difficile realtà dei reparti di psichiatria. La serie TV rischia di legittimare poco il vissuto di coloro che hanno avuto un’esperienza diretta o hanno osservato la realtà dolorosa del trattamento sanitario obbligatorio e della sua gestione che spesso in Italia si vive.
La rappresentazione fornita racconta –e non racconta– alcuni aspetti della realtà psichiatrica: atteggiamenti, comportamenti, vissuti emotivi che sono invece ben descritti nel libro e purtroppo oggi a volte ancora presenti e problematici.
Chiaramente la serie Tv avvicina il pubblico, lo porta a riflettere e conoscere questa realtà, a non dimenticare e vivere con meno stigma alcuni scenari.
Tuttavia, ci si chiede se questa rappresentazione (intrinsecamente alterata in quanto fiction) non si discosti troppo dalla sofferenza e dal reale caos di solito legati al TSO, e quanto il grado di partecipazione che sollecita nel pubblico sia plausibile rispetto al reale ambiente psichiatrico e al disagio amaro a cui spesso si assiste.
Obiettivo del regista: avvicinare con strategia? Eppure si rischia di mantenere una vicinanza apparente verso la sofferenza e la malattia mentale?
Il racconto televisivo fornito tratta infatti solo parzialmente il tema del TSO, ricostruendone solo in parte l’aspetto traumatico che molte volte si associa a questo tipo di esperienza e si addiziona al disagio che già si sta vivendo.
Si osservano solamente a sprazzi le criticità spesso presenti nel sistema di cura, la brevità programmatica del trattamento, l’inadeguatezza delle strutture: queste componenti presenti nel libro, e ad oggi ancora attuali, vengono poco rappresentate.
Forse questa serie offre l’opportunità di parlare di come sia fondamentale rivedere il TSO e il suo proseguire. L’inidoneità, l’insufficienza, la risposta spesso deludente dell’istituzione: elementi questi che fanno parte del nucleo della storia e della realtà, che negli episodi televisivi vengono poco approfonditi, ma che meriterebbero progresso e discussione.
Una chiave di lettura critica potrebbe richiedere dunque un riflessione circa la disorganizzazione della realtà psichiatrica e su come poter migliorare la gestione dei ricoveri e dei programmi di intervento, rispettando la dignità del malato senza pregiudizio, con la responsabilità di disegnare un piano di intervento che tenga conto del post TSO e di come le cure fornite segnano il vissuto e hanno il potere di promuovere il cambiamento o il trauma nel trauma.
L’insieme fornito dalla serie TV risulta troppo edulcorato allo sguardo di un clinico che, osservando, oltre ad apprezzare quanto sia ben curata la parte tecnica e come sia ben descritto il funzionamento del vissuto depressivo e dei profili psicopatologici proposti, si preoccupa che possa passare un messaggio sbagliato o per meglio dire omissivo, ovvero che tralascia aspetti di disagio e sofferenza emotiva che non sembrano avere il coraggio di essere abbastanza drammatici per essere credibili.
In buona sostanza, forse, la rappresentazione fornita, nonostante gli innumerevoli pregi e vantaggi circa la rappresentazione della malattia mentale, trascura il messaggio di denuncia rispetto al sistema di cure proposte da alcuni istituti di psichiatria e del TSO nello specifico, così come gestito nella realtà: ovvero, spesso, senza un programma di intervento adeguato che preveda fasi successive a quelle di emergenza e contenimento, fino alla riabilitazione e al reinserimento.
Lo spettatore si sente emotivamente vicino ai protagonisti, ma l’empatia che sente potrebbe essere parziale in quanto non contempla la dimensione soverchiante e spaventosa del trattamento sanitario obbligatorio e del post ricovero spesso più doloroso e abbandonico.
Il tema, per chi ha visto la serie, oggi è più vicino di ieri, ma il rischio è che la forte risonanza emotiva che la serie TV sollecita sia in qualche misura poco autentica, in quanto miope di talune attuali realtà.
“Tutto chiede salvezza”, in conclusione, accorcia le distanze tra chi è malato e chi del malato diffida, ma pratica –in quanto fiction, seppure in modo legittimo– quasi un diniego dei deficit e della sofferenza che si associano all’emergenza psichiatrica e alla malattia mentale.
TUTTO CHIEDE SALVEZZA – Guarda il trailer della serie Netflix: