Tutto chiede salvezza è il secondo romanzo di Daniele Mencarelli, uscito per Mondadori ormai circa un anno fa, nel febbraio 2020, candidato al LXXIV Premio Strega.
Da quando ha fatto la sua comparsa sugli scaffali delle librerie, il mio desiderio di leggerlo è sempre stato fortissimo, ma mi sono sempre trattenuta: sapevo, infatti, che si trattava di un libro doloroso, che le patologie mentali ne erano protagoniste, e che quelle pagine mi avrebbero inevitabilmente segnata. Ma era un libro che dovevo leggere, prima o poi, sapevo che non gli sarei sfuggita per sempre. E infatti, lui è tornato a cercarmi nei giorni passati, diventando l’eletto del mese in uno dei gruppi di lettura di cui faccio parte. Dire che mi è piaciuto sarebbe un eufemismo. È un libro che ho sentito dalla prima all’ultima pagina: queste parole ti entrano dentro, le senti fin nelle ossa e non puoi che partecipare del dolore di Daniele, un dolore che magari è anche di chi legge o di qualcuno che gli sta a fianco. Ecco, Tutto chiede salvezza è un’opera che aiuta ad affrontare il dolore, che lo mostra senza sconti fin nei suoi recessi più oscuri, ma che lo esorcizza con il suo dirlo ad alta voce, con il proclamare che l’unica cosa che è veramente da pazzi è pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.
Daniele ha vent’anni quando gli viene imposto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio), un ricovero coatto presso un reparto psichiatrico, a causa di una violenta esplosione di rabbia che ha causato parecchi danni. Una settimana da trascorrere in un luogo che è avvertito come una gabbia, dove gli uomini vivono come sull’orlo di un precipizio, tentando di non cadere inesorabilmente verso il baratro oscuro delle loro menti. A qualcuno quell’ultimo passo è già toccato in sorte, come ad Alessandro che, seduto sul letto davanti a Daniele, fissa il vuoto, preda di chissà quale fantasma che gli impedisce di muoversi e parlare. Anche Madonnina se l’è già preso l’abisso, al punto da fargli guadagnare questo soprannome perché è una delle poche parole che riesce a pronunciare, quasi una preghiera incessante che puntualmente cade nel vuoto. Chissà chi c’è dietro a quello sguardo tormentato, chissà dove è finito l’uomo che prima era Madonnina. Chi siamo, quando non siamo neanche più in grado di pronunciare o ricordare il nostro nome? Anche gli altri letti intorno a Daniele sono occupati: Mario, Gianluca, Giorgio, tre uomini che come lui hanno fatto a botte con la vita e sono rimasti schiacciati. Tutti preda di un tormento interiore che non lascia scampo e che ogni giorno scava più a fondo.
Ma all’interno dell’ospedale, le follie sono anche altre. Sono quelle dei medici che con superiorità rivolgono parole fredde e ostili a chi dovrebbero curare, sbadigliando mentre chi sta loro di fronte mette tutta la propria vita nelle loro mani; sono quelle degli infermieri che attaccano i pazienti per paura di essere attaccati, perché si sa, i matti sono pericolosi. Chi è ferito dalla vita tenta di scoprirvi un senso, cerca di trovare una ragione per restare e non lasciarsi trasportare dove il dolore non può più arrivare. Semplicemente, chiede salvezza. Ma il mondo pesa sulle spalle, lo sa bene Daniele che ha vent’anni ma, come dice lui, ha sofferto per mille. Niente aiuta questa ricerca di significato per una vita che scorre e poi finisce nel nulla: non l’indifferenza, non la cattiveria, né lo stigma che da sempre colpisce chi fa un po’ più fatica a stare al passo. Per questo il regalo più bello che ci fa Mencarelli con questo libro è mostrarci che il senso più forte di umanità sta tra quelle persone che si sentono fragili, quelle che il mondo emargina e disprezza. Che uscire da lì con una diagnosi e una prescrizione di paroxetina non rende meno degni di occupare un posto nel mondo. Alla fine del TSO Daniele lascia l’ospedale con l’amaro in bocca, e noi con lui. Il romanzo non svela nessun significato nascosto nella sofferenza umana, né l’esperienza di Daniele è particolarmente di buon auspicio per chi soffre di questi problemi. Ma una cosa emerge forte e chiara da queste pagine: la salvezza sta nell’umanità.
La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?
Mencarelli adesso ce l’ha detto, non lo dimentichiamo.